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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI MILANO BICOCCA Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze dell Educazione

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI MILANO BICOCCA Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione

FLESSIBILITÀ E PRECARIETÀ: STORIE DI LAVORO ATIPICO

Relatore: dott. Sergio Tramma Correlatore: dott. Dante Bellamio

Tesi di Laurea di:

Sara Bedon

Matricola.025525

Anno Accademico 2003-2004

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Introduzione

CAPITOLO 1 La società moderna e postmoderna

1.1 Le caratteristiche della società moderna 1.1.1 La discontinuità

1.1.2 Le dimensioni istituzionali 1.1.3 Il dinamismo

1.1.4 La dicotomia fiducia e rischio 1.2 La postmodernità

1.2.1 Critiche e proposte

1.2.2 Un modello di sistema postmoderno 1.2.3 Il disagio umano nella postmodernità

CAPITOLO 2 La globalizzazione

2.1 Modernità e globalizzazione

2.2 Le dimensioni della globalizzazione

2.3 Tradizione, famiglia e democrazia nell’era globale

2.4 Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone

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CAPITOLO 3 La società flessibile

3.1 L’accumulazione flessibile a partire dal lavoro flessibile precario 3.2 Aspetti della flessibilità

3.3 Indicatori di flessibilità

3.4 Il telelavoro come paradigma della flessibilità 3.5 L’identità sociale del lavoratore

3.6 Modernità solida e liquida

CAPITOLO 4 Il lavoro precario

4.1 La nuova frontiera: il lavoro precario a vita 4.2 Il lavoro “tipicamente” atipico

4.3 Lavori atipici secondo le nuove normative 4.4 Commenti sulla legge 30

CAPITOLO 5 Flessibilità e precarietà in Italia

5.1 Un’indagine Eurispes 5.2 Primi bilanci sulla Legge 30

5.3 Una ricerca di Nidil e Università Statale Milano Bicocca

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CAPITOLO 6 Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro

Considerazioni conclusive

Ringraziamenti

Bibliografia

NOTA REDAZIONALE

La presente tesi si compone di 143 pagine

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Introduzione

L’idea di questo scritto è nata dall’osservazione dei cambiamenti, sia giuridici sia sociali, che stanno interessando il mondo del lavoro.

Il contesto entro il quale tali cambiamenti sono avvenuti è quello postmoderno:

un contesto in cui si profilano profonde trasformazioni della condizione occupazionale standard, cioè di quel sistema che prevedeva la centralità del lavoro salariato dipendente a tempo pieno e indeterminato.

Le trasformazioni che hanno seguito il declino del fordismo, hanno prodotto un nuovo modello di produzione ed una nuova gestione del lavoro. Il sistema produttivo si fa meno rigido e richiede maggiore flessibilità e capacità di adattamento alle fluttuazioni della domanda e alle richieste dei consumatori. I contenuti mutano insieme alla nuova organizzazione produttiva e alle forme occupazionali.

Il concetto di “flessibilità” sembra non avere in sé un significato definito e univoco: è il simbolo e metafora delle attuali trasformazioni nel mondo del lavoro. Se per alcuni è sinonimo d’autonomia, adattabilità e mobilità, per altri è una condizione generatrice d’incertezza e precarietà.

Dagli anni novanta ad oggi gli studiosi e i sociologi che si occupano del mondo del lavoro e dell’occupazione, hanno iniziato a studiare il nuovo concetto di flessibilità e di precarietà.

La flessibilità non è da considerare solo come il continuo pellegrinaggio da un lavoro all'altro, ma anche come un mutamento significativo della percezione di sé, visto che uomini e donne sperimentano quotidianamente la difficoltà, se non l'impossibilità di trasformare le "proprie esperienze in narrazioni continuate1".

1 R.Sennett, “L’uomo flessibile”, Feltrinelli, Milano 1999

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Nel capitalismo flessibile la grande impresa fordista ha lasciato il posto a modelli produttivi reticolari, perché sono processi lavorativi disponibili a reinvenzioni radicali rispetto a gerarchie piramidali come quelle che dominavano l'era fordista.

Inoltre, l'impresa a rete è un "sistema frammentato", che consente di eliminare una parte del sistema senza distruggerne altre alla presenza di un mutamento repentino del mercato o di avverse condizioni sociali del luogo di produzione, come ad esempio l'elevato costo del lavoro.

La flessibilità non è un’opportunità, ma un rischio, una minaccia, una perdita di diritti e un salto nel buio.

Il capitalismo flessibile è segnato quindi da disorientamento, ansia e angoscia.

Crescono forme di lavoro atipico, in risposta alla crescente richiesta di flessibilità da parte delle imprese, che operano in un contesto produttivo ed economico profondamente diverso rispetto a quello dell’inizio del secolo.

Purtroppo oggi la flessibilità sembra essere l’imperativo economico di tutte le attività sociali, e al quale tutte le società devono saper rispondere. Sembra diventata la panacea contro tutti i mali che affliggono sia il mondo del lavoro sia l’occupazione e l’antidoto principale contro la disoccupazione e le forme di lavoro irregolare.

Nel primo e nel secondo capitolo si descriverà la globalizzazione e la postmodernità contesti in cui la flessibilità opera.

Il terzo e il quarto capitolo tratteranno di tutti gli aspetti della società flessibile e del il lavoro atipico, quali sono le forme principali, le più importanti posizioni in merito.

Nel quinto capitolo si presenterà il fenomeno attraverso i dati quantitativi relativi a quella che è la reale diffusione del fenomeno dal punto di vista della domanda e dell’offerta: i lavoratori e le imprese in Italia. I dati ci serviranno per capire dove

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si concentra maggiormente il lavoro atipico, quali sono i segmenti della popolazione e delle imprese maggiormente interessati.

Il capitolo conclusivo sarà indirizzato ad una componente specifica del mondo del lavoro, i giovani diplomati. Nel corso del capitolo si cercherà, tramite una ricerca qualitativa analizzando venti interviste sull’argomento, di capire qual è la portata del fenomeno all’interno del nostro paese, quanto le nuove forme contrattuali rappresentino una chance o una trappola di ingresso nel mondo del lavoro. Le interviste serviranno per riportare esperienze reali su quelle che sono le vite e i percorsi lavorativi di chi sceglie o subisce l’atipico.

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CAPITOLO PRIMO

La società moderna e postmoderna

Il termine “moderno” compare nel basso latino alla fine del V secolo, per caratterizzare il mondo cristiano rispetto al greco – romano: “modernus” è un aggettivo che deriva dall’avverbio “modo”, che significa “appena, recentemente, adesso”. Il suo senso è quindi essenzialmente cronologico, non esente però da una connotazione di valore.

Nel medioevo tale connotazione aveva un senso svalutativo: “modernus” era ciò che è recente in quanto decadente, comportava cioè la consapevolezza di una senescenza. La distinzione tra “antiqui e moderni” stava a significare infatti una superiorità degli antichi sui moderni, superiorità ideale, poiché l’antichità non acquisiva il suo valore dal mero fatto della distanza temporale, ma era soprattutto il luogo stesso dei veri valori, dei valori eterni.

Verso la fine del XII secolo comincia però ad introdursi in tale distinzione l’idea di un’accumulazione storica che diventerà senso del progresso facendo spostare l’ago della bilancia a favore dei moderni.

Con l’Illuminismo, questi tratti progressivi si coniugano con l’idea di un’emancipazione che si attua grazie all’azione critica e illuminatrice della ragione.

Nell’Ottocento la radicalizzazione del tempo fondata sulla percezione del

“novum” accentua il momento della rottura e della discontinuità: il “novum”

diventa un valore da perseguire di per sé, e anzi da anticipare, al di là di ogni possibile accumulazione, tradizione e continuità storica2.

2 G.Chiurazzi, “Il postmoderno”, Paravia, Milano 1999

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Staccandosi dal passato, la novità condanna così ciò che la precede all’obsolescenza, imponendosi di per sé come un progresso.

Da questo spirito innovatore, nel Novecento, il distacco tra antichi e moderni si comprime sempre di più nello spazio di una generazione o di pochi anni,e l’inseguimento del nuovo diventa anticipazione.

La modernità, secondo Anthony Giddens3,si potrebbe identificare con un

“bisonte della strada” (juggernaut), un “mostro” di enorme potenza che collettivamente, come esseri umani, riusciamo in qualche modo a governare ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo e andarsi a schiantare. Il “mostro” schiaccia coloro che gli resistono e se a volte sembra seguire un percorso regolare, in altre occasioni sterza bruscamente e sbanda in direzioni che non possiamo prevedere” 4.

La corsa non è certo priva di piaceri e compensi ma fintanto che perdurano le istituzioni della modernità non saremo mai in grado di controllare la rotta del viaggio. Non saremo mai nelle condizioni di sentirci del tutto al sicuro, perché le strade sono piene di rischi ad alto tasso di conseguenze.

È facile comprendere come una crisi del moderno si sia delineata proprio a partire da esperienze che hanno messo in discussione l’idea di progresso. Alcuni segni di questa crisi sono conseguenza di una radicalizzazione distorcente di caratteristiche proprie del moderno; altri invece stanno ad indicare una vera e propria inversione di tendenza: in primo luogo le due guerre mondiali, che hanno svelato il potenziale distruttivo di una guerra condotta con criteri di pianificazione a livello industriale, il crescente disagio dell’uomo in una società “razionalizzata”, in cui si affermano processi produttivi alienanti, le conseguenze distruttive, per lungo tempo sottovalutate, di uno sfruttamento indiscriminato della natura; l’emergere

3 A. Giddens, “Le conseguenze della modernità”, Il Mulino , Bologna 1994

4 ibidem cit. pag.138

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sulla scena mondiale di nuovi soggetti politici portatori di istanze di rivendicazione che mal si conciliano con l’universalismo dell’età moderna5.

Dal XX secolo molti studiosi sostengono che sta per dischiudersi una nuova era:

la postmodernità.

5 G.Chiurazzi, “Il postmoderno”, Paravia, Milano 1999

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1.1 Le caratteristiche della società moderna

1.1.1 La discontinuità

Lo sviluppo sociale moderno è discontinuo rispetto al passato; infatti, i modi di vita introdotti dalla modernità ci hanno allontanato, in maniera nuova, da tutti i tipi tradizionali di ordinamento sociale. Tanto per estensione che per intensità, le trasformazioni legate alla modernità appaiono più profonde della maggior parte dei mutamenti avvenuti nelle epoche precedenti.

Diversi sono gli aspetti della discontinuità che entrano in gioco nell’epoca moderna. Uno è il ritmo del cambiamento in cui la rapidità con la quale si succedono i cambiamenti nelle condizioni della modernità è estrema, basti pensare alla tecnologia.

Una seconda discontinuità è la portata del cambiamento: via via che diverse aree del pianeta stringono tra di loro legami reciproci, l’intera superficie della terra è virtualmente attraversata da ondate di trasformazione sociale.

Un terzo aspetto riguarda la natura delle istituzioni moderne. Alcune forme sociali moderne non trovano riscontro nella precedenti epoche storiche, sono quindi delle novità, mentre altre forme presentano una continuità con i preesistenti ordinamenti sociali. Ad esempio gli insediamenti urbani inglobano spesso nuclei di città tradizionali ma in realtà l’urbanistica moderna segue principi del tutto diversi.

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1.1.2 Le dimensioni istituzionali

Le dimensioni istituzionali della modernità, strettamente legati fra loro, sono il capitalismo, la sorveglianza, il potere militare, l’industrialismo.

Il capitalismo (accumulazione del capitale nel contesto di mercati competitivi del lavoro e merci) implica l’isolamento della sfera economica da quella politica nel quadro di mercati di lavoro e delle merci che operano in concorrenza.

Le società capitaliste sono una particolare sottospecie delle società moderne.

L’impresa capitalistica ha un ruolo di primo piano nell’affrancamento della vita sociale moderna nelle istituzioni nel mondo tradizionale. Il capitalismo è di per sé molto dinamico e instabile sia all’interno sia verso l’esterno degli stati. Ogni riproduzione economica è una riproduzione allargata perché l’ordinamento economico non può restare in uno stato statico di equilibrio. L’avvento del capitalismo ha preceduto lo sviluppo dell’industrialismo: la produzione industriale e il costante rivoluzionamento tecnologico rendono molto più efficienti ed economici e processi produttivi.

Il contratto di lavoro capitalistico non si fonda più sul possesso diretto di mezzi di violenza (come accadeva in precedenza) ma è libero. I rapporti di classe s’inseriscono direttamente nella struttura di produzione. La violenza è così

“esclusa” dal contratto di lavoro e concentrata nelle mani delle autorità statali.

La sorveglianza (controllo dell’informazione e supervisione sociale) è a sua volta fondamentale per tutti i tipi di organizzazione associati all’avvento della modernità che storicamente hanno intrecciato il loro sviluppo con quello del capitalismo. Ha avuto spesso a che fare con lo sviluppo dell’industrialismo consolidando il potere amministrativo nelle fabbriche. Analogamente vi sono stretti rapporti tra le attività di sorveglianza e la nuova natura del potere militare (controllo dei mezzi della violenza).

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L’apparato militare diventa un supporto secondario dell’egemonia interna delle autorità civili, mentre le forze armate sono in gran parte rivolte contro gli altri stati.

Sono presenti rapporti diretti tra il potere militare e l’industrialismo, la cui principale espressione è l’industrializzazione della guerra. L’industrialismo (trasformazione della natura) diventa l’asse portante dell’interazione degli esseri umani con la natura.

1.1.3 Il dinamismo

Dietro alle dimensioni istituzionali della modernità si celano le tre fonti del dinamismo: l’appropriazione riflessiva del sapere, la separazione del tempo e dello spazio e lo sviluppo di meccanismi di disaggregazione.

La riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali sono costantemente esaminate e riformate alla luce dei nuovi dati acquisiti, alterandone così il carattere in maniera sostanziale.

L’appropriazione del sapere non avviene in maniera omogenea: spesso coloro che si trovano in posizione di potere e che sono in grado di metterlo al servizio di interessi settoriali possono accedervi in maniera differenziale.

Si sta configurando, a differenza delle società premoderne, uno svuotamento del tempo e del luogo nel quale i rapporti fra le persone sono “assenti” perché dislocate lontano da un’interazione faccia a faccia. Il luogo diventa sempre più fantasmagorico. La separazione dello spazio e del tempo non va visto come uno sviluppo unilaterale e privo di rovesciamenti ma come condizione primaria di alcuni processi di disaggregazione.

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Nel processo di disaggregazione i rapporti sociali sono nella società moderna tirati fuori da contesti locali di interazione e ristrutturati su archi di spazio-tempo indefiniti.

Questo avviene con riferimento a due meccanismi fondamentali: la creazione di emblemi simbolici (la moneta) e di sistemi esperti cioè sistemi di competenza professionale o tecnica che organizzano ampie aree negli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo oggi. In questo modo la società è stirata nello spazio- tempo e si pone il problema delicato della fiducia.

1.1.4 La dicotomia fiducia e rischio

La fiducia è il confidare nell’affidabilità di una persona o di un sistema in relazione a una determinata serie di risultati o di eventi. La natura delle istituzioni moderne è profondamente legata ai meccanismi della fiducia nei sistemi astratti.

La fiducia opera in ambienti di rischio ed è collegata all’assenza nel tempo e nello spazio. In condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina. Il rischio è la fiducia si compenetrano: la fiducia serve normalmente a ridurre o minimizzare i pericoli ai quali determinati tipi di attività sono esposti.

Il concetto di rischio6 è strettamente connesso con le idee di probabilità e di incertezza: non si può dire di correre un rischio dove il risultato è certo al cento per cento. Cominciò ad essere largamente usato solo in una società orientata verso il futuro e attivamente impegnata a rompere con il passato.

6 A. Giddens, “ Il mondo che cambia”, il Mulino , Bologna 2000

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I due aspetti del rischio - i suoi lati positivi e negativi - sono evidenti fin dagli inizi della società industriale moderna. Il rischio è il dinamismo che muove una società legata allo scambio, che intende determinare il proprio futuro anziché lasciarlo alla religione a alla tradizione.

Un esempio è il capitalismo moderno che si innesta nel futuro calcolando i profitti e le perdite come un processo continuo ed è normale desiderare di ridurre il più possibile molti rischi. Questo spiega perché l’idea di rischio si accompagna a quella di assicurazione. Non solo quelle private o commerciali ma lo stesso welfare state è essenzialmente un sistema di gestione del rischio.

Se, infatti, il rischio è sempre stato pensato come un modo di affrontare il futuro, di gestirlo e di condurlo sotto il nostro dominio nella società post moderna, i nostri tentativi di controllare il futuro tendono a ritorcersi contro di noi, costringendoci a considerare modi diversi di rapportarci con l’incertezza.

Ci sono due tipi di rischio: il primo è il rischio esterno cioè proveniente dagli elementi fissi della natura e della tradizione; il secondo è il rischio costruito, cioè riconducibile all’impatto della nostra conoscenza manipolatoria sul mondo. In tutte le culture tradizionali e anche nella società industriale fino alla soglia dell’epoca attuale, gli esseri umani si sono preoccupati dei rischi derivanti dalla natura esterna: cattivi raccolti, inondazioni e pestilenza.

A un certo punto, tuttavia (molto recentemente in termini storici) abbiamo cominciato a preoccuparci meno di quello che la natura può farci, e più di quello che noi stiamo facendo alla natura; ciò segna la transizione dal predominio del rischio esterno a quello del rischio costruito.

Siamo tutti coinvolti nella gestione del rischio. Con l’estendersi del rischio gli stati devono collaborare fra loro, poiché sono ben pochi i rischi di nuovo genere che riguardano singole nazioni.

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Vivere in un’era globale significa venire a patti con tutta una tipologia di nuove situazioni di rischio come per esempio la crescita del potere totalitario, i conflitti nucleari, il disastro ecologico e il collasso dei meccanismi di crescita economica.

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1.2 La postmodernità

La nostra contemporaneità può essere identificata anche con il nome di postmoderno che matura entro il movimento degli anni Sessanta e sviluppata successivamente negli anni Ottanta7.

Il termine postmoderno, letteralmente, non riguarda una determinazione temporale ma è evocativo ed indeterminato. Il postmoderno è comunque legato all’esperienza di una rottura o di una crisi. Il progetto postmoderno è rimasto incompiuto, abbandonato, dimenticato a causa del capitalismo nel quale il dominio del soggetto sugli oggetti non si accompagna né ad una maggiore libertà né ad un miglioramento dell’educazione. Il successo è l’unico criterio di giudizio che crea delegittimazione, non universalità. È la fine delle grandi narrazioni:

cristianità, progresso, finalità della storia. In breve, il postmoderno è caratterizzato dal declino del mito dell’uno.

Il disfacimento dell’intero lascia spazio alla pluralità, al frammento, alla contaminazione e alla deriva.8

D’altra parte “post” indica semplicemente un dopo. Il dopo in quanto tale non denota alcunché9: è il bastone da ciechi degli intellettuali.

“Si tratta di una mezza diagnosi, che si limita a stabilire che non possiamo più servirci del vecchio apparato concettuale. In ciò si nasconde la pigrizia intellettuale perché il compito dell’intellettuale è quello di sviluppare concetti con l’aiuto dei quali la società e la politica possono riorganizzarsi e ridefinirsi” 10.

7 S.Natoli, “Progresso e catastrofe”, Marinotti , Roma 1999

8 J.F Lyotard, “Il postmoderno spiegato ai bambini”, Feltrinelli , Milano 1989

9 U.Beck ,“Libertà o capitalismo”, Carocci, Roma 2001

10 ibidem cit.pag.19

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1.2.1 Critiche e proposte

Secondo Fredric Jameson11 è del tutto errato intendere il postmoderno come uno degli stili del mondo contemporaneo, ma si deve intenderlo come la dominante interculturale, l’ideologia ( nel senso marxiano) del tardo capitalismo. Il postmoderno è la cultura del capitalismo multinazionale che tende, come ogni ideologia, alla giustificazione di questo ordine economico. Questo tardo capitalismo, che non è un’epoca postindustriale, bensì la forma più pura di capitalismo che si sia finora affermata, costituisce una radicalizzazione delle caratteristiche della società capitalista borghese emersa a partire dalla rivoluzione industriale: in primo luogo la riduzione di qualsiasi prodotto a merce, la generalizzazione del valore di scambio fino alla scomparsa della memoria di qualsiasi valore d’uso, e il conseguente valore d’uso, e l’affermarsi di una società con uno stile di vita consumistico che domina gusto e moda.

Di questa estrema pervasività del mercato e delle forme economico-culturali del capitalismo sono oggi portatori, proprio i mass-media. La superficialità e la frivolezza della società dello spettacolo e della cultura dell’immagine comporta un privilegio delle coordinazioni spaziali rispetto a quelle temporali: nel mondo postmoderno tutto è sincronico. Il mezzo televisivo, il computer e l’immagine, oggetti dell’esaltazione estetizzante del postmoderno, sono i simboli di una cultura che ha abolito la profondità (spaziale e temporale), riducendosi ad un vissuto superficiale e puntuale, in cui tutto viene immediatamente trasformato in immagine.

Si attua così il passaggio dal soggetto alienato del mondo moderno al soggetto frammentato del postmoderno: un soggetto con un vissuto spezzettato che però vive in questa condizione in maniera quasi euforica, sovraeccitata. Questa

11 F.Jameson, “ Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo”, Garzanti, Milano 1989

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difficoltà del soggetto post moderno di ricostruire in termini coerenti il proprio vissuto è del resto una conseguenza della stessa complessità della società postmoderna, che ne rende difficile la rappresentazione, condizione essenziale per definire sia individualmente sia socialmente, la propria collocazione nel mondo.

Per Jurgen Habermas12 il postmoderno non è il risultato di una degenerazione, di un fallimento o ancor meno della presa di coscienza dei limiti del moderno, ma piuttosto il tentativo di sbarazzarsi del progetto di emancipazione proprio della modernità. Questo ritorno al premoderno, cioè ad una condizione paradossale, tende non a far proseguire il moderno, correggendone le distorsioni, ma quasi a saltarlo.

Secondo Jean Francois Lyotard13, a differenza di Habermas, il postmoderno non si pone affatto come antitetico al moderno. Il postmoderno è frammentazione del modo di vedere e sentire; è un processo di delegittimazione delle istanze universalistiche del moderno (che sono i metaracconti), i germi di tale delegittimazione si annidano nella dialettica stessa della modernità.

Il postmoderno quindi non è da collocare semplicemente dopo il moderno, né contro di esso, ma è piuttosto da intendere come un movimento celato entro la stessa modernità.

La modernità entra in crisi perché confutata dalla storia ma anche per le trasformazioni interne alla società postindustriale che comportano una retroattiva trasformazione del “sapere”. Il sapere è costretto a cambiare il proprio statuto per via delle condizioni stesse della sua trasmissibilità, che sono ormai quelle della informatizzazione, per cui tutto ciò che non soddisfa queste condizioni è destinato ad essere abbandonato.

Per Ulrich Beck14 la modernità viene fatta seguire da una “seconda modernità”.

12 J.Habermas, “Moderno, postmoderno e neoconservatorismo”, Alfabeta n 22, 1981 pp. 15-17

13 J.F Lyotard, “ La condizione post moderna, Feltrinelli, Milano 1979

14 U.Beck, “Libertà o capitalismo”, Carocci, Roma 2001

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La seconda modernità non deve essere intesa come una nuova periodizzazione ma riguardo a certi aspetti viene implicata una continuità, altri aspetti mutano in maniera radicale. Il passaggio dalla prima alla seconda modernità non avviene in forma esplosiva come una rivoluzione ma sotto gli occhi del parlamento, del governo e dell’opinione pubblica, che solo a poco a poco diventa visibile in tutta la sua profondità e ampiezza.

Il tratto caratteristico della seconda modernità è una sorta di individualismo istituzionale nel quale le istituzioni, base centrale della società, hanno come loro destinatario l’individuo e non la società in generale. La maggior parte degli sviluppi sono conseguenze degli effetti collaterali di una prima modernità radicalizzata e danno luogo a situazioni a cui non siamo affatto preparati.

Anthony Giddens15 afferma, invece, che viviamo in un periodo di modernità estrema e l’unico modo per “cavalcare il mostro” è delineare un modello condizionante, nel quale le anticipazioni del futuro possono entrare a far parte del presente e influire quindi sul modo in cui il futuro effettivamente si sviluppa.

Giddens propone il superamento della post modernità grazie alla “modernità radicale”.

I concetti fondamentali della postmodernità sono:

- legge le transizioni attuali in termini epistemologici o come un’epistemologia che si dissolve nel complesso;

- si concentra sulle tendenze centrifughe delle trasformazioni sociali in atto e sul loro carattere dislocante;

- ritiene che l’IO sia dissolto o smembrato dalla frammentazione dell’esperienza;

- sostiene la con testualità delle rivendicazioni di verità o le considera “storiche”;

- teorizza l’impotenza che gli individui avvertono a fronte delle tendenze globalizzanti;

- vede nello “svuotamento” del quotidiano il risultato dell’intrusione dei sistemi astratti;

15 A. Giddens, “Le conseguenze della modernità”, il Mulino , Bologna 1994

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- ritiene che l’impegno politico coordinato sia precluso dal predominio della con testualità e della dispersione;

- definisce la postmodernità come la fine dell’epistemologia dell’individuo e dell’etica.

Le caratteristiche della modernità radicale sono le seguenti:

- identifica gli sviluppi istituzionali che creano un senso di frammentazione e smarrimento;

- vede nell’alta modernità una serie di circostanze in cui lo smarrimento è in rapporto dialettico con tendenze profonde di integrazione globale;

- vede nell’IO qualcosa di più di un punto di intersezione delle forze. La modernità rende possibili processi attivi di identità;

- sostiene che le caratteristiche universali di rivendicazioni di verità ci si riversano addosso in modo irresistibile dato il predominio di problematiche di natura globale;

- il sapere sistematico intorno a questi sviluppi non è precluso dalla riflessività della modernità;

- analizza la dialettica impotenza \ potere in termini di esperienza e azione;

- legge la vita quotidiana come un complesso attivo di reazioni ai sistemi astratti che implicano appropriazione e perdita;

- considera l’impegno politico coordinato possibile e necessario, sia a livello globale sia locale;

- definisce la postmodernità come possibili trasformazioni nel senso di un

“superamento” delle istituzioni della modernità. 16

16 ibidem cit . pag. 147

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1.2.2 Un modello di sistema postmoderno

Giddens17, indica come modello di sistema postmoderno da perseguire il realismo utopico nel quale i movimenti sociali (pacifisti, ecologisti per la libertà di parola e sindacali) hanno un’importanza fondamentale.

Questo sistema sarà istituzionalmente complesso; possiamo caratterizzarlo come un movimento che “trascende” la modernità seguendo ciascuna delle quattro dimensioni: partecipazione democratica pluralista, demilitarizzazione, sistema di post-scarsità e umanizzazione della tecnologia .

I sistemi altamente complessi, come gli ordinamenti economici moderni, non si possono efficacemente subordinare al controllo cibernetico. La costante dettagliata segnalazione che questi sistemi presuppongono va eseguita “sul terreno” da unità a basso livello di input piuttosto che essere guidata dall’alto. Il superamento del capitalismo, considerato solo alla luce della politica dell’emancipazione, comporterebbe il superamento delle divisioni di classe prodotte dai mercati capitalistici. La politica della vita punta più in là, oltre le circostanze in cui i criteri economici definiscono le condizioni di vita degli essere umani. Si apre, quindi, uno spazio potenziale per un sistema di post-scarsità coordinato a livello globale.

Nei sistemi di post-scarsità i beni primari non scarseggeranno più, i criteri di mercato potrebbero funzionare solo da dispositivi di segnalazione piuttosto che essere anche i mezzi che permettono un diffuso impoverimento. Non essendo autosufficiente in termini di risorse, l’accumulazione capitalista non può protrarsi all’infinito: alcune risorse scarseggiano per natura, molte altre abbondano. Ciò significa che, tranne che per i requisiti basilari della sussistenza, la scarsità è relativa ai bisogni socialmente definiti e alle esigenze di specifici stili di vita. Un

17 ibidem

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ordinamento di post-scarsità implicherebbe significative modificazioni delle forme di vita sociali e delle aspettative di continua crescita economica. Esso richiederebbe una ridistribuzione globale della ricchezza.

Per quanto riguarda i rapporti tra gli Stati sembra scontato che debba emergere un ordinamento politico mondiale più coordinato. Piuttosto che la creazione di un superstato, un governo mondiale potrebbe implicare la definizione cooperativa di politiche globali da parte degli Stati e di strategie cooperative nella risoluzione dei conflitti.

1.2.3 Il disagio umano nella postmodernità

Zygmunt Bauman18 sostiene che gli uomini postmoderni hanno perso una dose della loro sicurezza in cambio di un aumento della probabilità o della speranza di felicità. Se il disagio della modernità stava nel dover pagare la sicurezza restringendo la sfera della libertà personale, il disagio della postmodernità deriva invece da una ricerca del piacere talmente disinibita che è impossibile da conciliare con quel minimo di sicurezza che l’individuo libero tenderebbe a richiedere.

L’estrema libertà crea quelle incertezze che Bauman chiama le paure postmoderne: dalla paura dell’immigrato a quella dell’inadeguatezza, cioè la paura di non poter mostrare sempre la forma migliore e più alla moda in un mondo continuamente cangiante. Queste paure sono il risultato dell’incertezza, ma vengono anche continuamente alimentate. Infatti i poveri, i devianti e gli emarginati, sono il risultato di una società sempre più divisa fra ricchi e poveri con sempre meno protezioni sociali, e incutono timore.

18 Z. Bauman, “ Il disagio della postmodernità”, Mondadori , Milano 2002

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La libertà individuale estrema e il principio di piacere dominante inducono gli uomini postmoderni a cercare sensazioni sempre diverse e sempre nuove esperienze. Questa ricerca spasmodica abbatte ogni tipo di regolazione sociale, compresa quella che nella modernità, tramite il welfare, aveva garantito la protezione sociale, ed un minimo di dignità anche per le classi subalterne.

Bauman dice che tagliare le forme di protezione sociale e smantellare il welfare state non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero:

"La restrizione di libertà degli esclusi non aumenta la libertà dei rimanenti, mentre toglie loro gran parte della sensazione di sentirsi liberi e della capacità di godere della libertà. L’eliminazione dello stato assistenziale apre molte strade, ma non è affatto detto che qualcuna di esse conduca a una società di individui liberi. Dal punto di vista dei bisogni umani, appaiono tutte dei vicoli ciechi. Viene infatti turbato l’equilibrio tra i due versanti della libertà: giunti circa a metà di ognuna di queste strade, il piacere della libera scelta diminuisce, mentre aumentano la paura e l’angoscia. Evidentemente la libertà di chi è libero, per poter venire realmente goduta, deve essere una libertà universale” 19.

Per Bauman la libertà deve essere sempre una relazione sociale, infatti il potere paralizzante esercitato dagli altri non è tanto una funzione delle loro caratteristiche particolari quanto l’effetto o la proiezione della debolezza di coloro che, per mancanza di mezzi, cadono vittime dell’emarginazione. Così, un progetto politico postmoderno, dovrà ispirarsi al triplice principio di Libertà, Differenza, e Solidarietà, nel quale la solidarietà rappresenta l’indispensabile completamento, nonché la condizione necessaria della libertà e della differenza.

19 ibidem cit. pag. 263

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CAPITOLO SECONDO

La globalizzazione

Le diverse società succedutesi nel tempo sono state caratterizzate da una crescente differenziazione; si pensi ai passaggi da società di cacciatori e raccoglitori a società di coltivatori e pastori, per poi giungere alle società di agricoltori e a quelle feudali. L’idea di progresso, inteso come movimento generale e simultaneo verso il “meglio” sulla base della fiducia nella scienza e nella tecnica, ha accompagnato anche il passaggio da “tradizione” a “modernità”.

Oggi, questa idea, risulta essere in crisi: progredire non vuol dire migliorare. Per la prima volta nella storia umana la società si trova a disporre del potere di distruggersi, si trova ad essere totalmente dipendente dalla propria azione e dalla propria capacità di prodursi, fino al limite dell’autodistruzione possibile20. Il concetto che più di tutti, già da un po’ di anni, sembra animare il dibattito nelle scienze sociali e non, è sicuramente quello di “globalizzazione”. La globalizzazione è l’estensione a livello planetario di un modello unico di economia, di un modello unico di cultura, di un modello unico di pensiero.

Rappresenta la situazione in cui merci, capitali, tecnologie, informazioni e persone circolano senza più limiti di frontiera21. Sembra di assistere, così, alla nascita di un mondo “unico”, che appare sempre più piccolo, in cui spazio e tempo coincidono, in cui sembrano scomparire i confini nazionali, in cui gli uomini sembrano meno diversi. In realtà, quello che stiamo vivendo, è un

20 A. Melucci, “Diventare persone. Nuove frontiere per l’identità e la cittadinanza in una società planetaria”, riportato in: C. Leccardi (a cura di), “I limiti della modernità”, Carocci, Roma 1999

21A. Touraine, “Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?”, il Saggiatore, Milano 1998

.

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processo di dissociazione del mondo tecnico-economico e del mondo culturale e, in tal senso, la globalizzazione è solo una costruzione ideologica che sembra unificare fenomeni molto importanti, ma che sono indipendenti tra loro. Quando si parla di globalizzazione, si parla di società dell’informazione, di aumento del commercio internazionale e delle imprese transnazionali, dello sviluppo delle reti finanziarie, dei nuovi paesi industrializzati, e dell’egemonia militare e culturale statunitense; insomma, ci si riferisce ad una moltitudine di trasformazioni.

Chiaramente, si possono trovare delle correlazioni tra questi fenomeni (è il caso - ad esempio - dello sviluppo delle nuove tecniche informatiche che consentono di trasmettere in tempo reale informazioni finanziarie). Non poche, difatti, sono le contraddizioni che accompagnano queste trasformazioni. Se da un lato la globalizzazione tocca tutti, dall’altro non tutti sono coinvolti allo stesso modo:

alla logica dell’inclusione, si accompagna quella dell’esclusione, della povertà crescente, della solitudine.

Purtroppo, nessuno può “ scegliere la società nella quale nascere - per cui, ci piaccia o no, viaggiamo tutti -. Nessuno, comunque, ci ha mai chiesto cosa ne pensassimo.

Gettati in un vasto mare aperto, senza carte di navigazione e con tutte le boe di segnalazione affondate e a malapena visibili, ci restano solo due scelte: possiamo rallegrarci per le visioni mozzafiato delle nuove scoperte, o tremare per la paura di affogare. Una opzione davvero non realistica è cercare asilo in un porto sicuro(…)”22 .

Se questo è lo scenario che si presenta, un po’ di conforto lo si può trovare nelle parole di Habermas, che definisce la globalizzazione come “un processo, non uno stato finale” 23 .

22 Z. Bauman, “Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone”, Laterza, Roma-Bari 1999, cit.

pag. 95.

23 J. Habermas, “La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia”, Feltrinelli, Milano 1999, cit pag. 38.

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2.1 Modernità e globalizzazione

La modernità è di per sé globalizzante24. Nell’epoca moderna il livello di distanziazione spazio - temporale è molto più elevato che in qualsiasi periodo precedente e le relazioni tra forme ed eventi sociali locali e distanti subiscono di conseguenza uno “stiramento”. La globalizzazione si riferisce a questo processo di stiramento, nella misura in cui i vari rapporti che legano tra loro diversi contesti sociali o regioni diventano una rete che avvolge l’intero pianeta. La globalizzazione si definisce come l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa. La trasformazione locale è una componente della globalizzazione perché rappresenta l’estensione laterale delle connessioni sociali nel tempo e nello spazio. In circostanze di crescente globalizzazione, lo stato nazione è diventato troppo piccolo per i grandi problemi della vita e troppo grande per i piccoli problemi della vita25. La globalizzazione altro non è che un profondo processo di dissociazione del mondo tecnico-economico e del mondo politico- culturale. È l’estensione a livello planetario di un modello unico di economia, di un modello unico di cultura, di un modello unico di pensiero. L’insicurezza, la paura, l’angoscia, la solitudine, viene messa in evidenza nell’attitudine del soggetto globale a divenire sempre più “oggetto” e si osserva come a questa attitudine corrisponda una crescente eterodirezione dei soggetti (che si traduce in subordinazione di tutti alla élite che governa il mondo) ed una sorta di individualizzazione della società, il che è più che un paradosso in quello che con troppa sollecitudine si definisce “villaggio globale”. Si può affermare

“l’indispensabilità del soggetto” come figura che deve rappresentare la negazione

24A Giddens, “Le conseguenze della modernità”, il Mulino,Bologna 1994

25 A. Giddens, “ Il mondo che cambia”, il Mulino,Bologna 2000

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di ogni logica impersonale, per incarnare il desiderio dell’individuo di essere protagonista della sua storia, di essere attore. Proprio a partire da questa affermazione di libertà si può cominciare a pensare ad un autentico orientamento verso l’altro, quasi a delineare una possibile via di ricomposizione mediante il recupero di quella relazione vista come essenza della società. La capacità di mettere in discussione una forma di dominio sociale, va a definire l’utilità e l’essenza dei movimenti sociali. Non si trascurano, tuttavia, i rischi che si nascondono dietro la non-accettazione del suddetto dominio e si definisce l’autenticità di un movimento sociale, non solo nella sua capacità di trasformare la protesta in proposta e progetto, ma anche in funzione della capacità di coniugare, secondo l’idea di democrazia, la tutela delle libertà personali con la partecipazione alle decisioni collettive. Alla luce di queste constatazioni ci si interroga sull’efficacia dei nuovi movimenti globali, sulle loro mobilitazioni, sul loro rapporto con la politica, sulla loro eterogeneità. Questi movimenti contestano il modello dominante, che è quello del neoliberismo, avanzano richieste di democrazia internazionale e di giustizia economica e sociale.

A. Appadurai26 spiega l'insufficienza teorica e metodologica della nozione di modernità a partire dalla rilevanza che negli ultimi anni hanno assunto i fenomeni della comunicazione di massa e delle massicce e irregolari migrazioni.

Gli effetti combinati di questi due fenomeni sono indagati in relazione ai mutamenti che si producono, attraverso la pratica culturale quotidiana, sull'opera dell'immaginazione, “tratto costitutivo della soggettività moderna” che provvede a determinare piani di vita individuali e forme di aggregazione collettive. La

"deterritorializzazione", l'irregolare e diffusa disarticolazione di persone, informazioni, tecnologie, capitali e ideologie creano un sistema di disgiunzioni e di differenze che impediscono di considerare delle unità culturali come

26 A. Appadurai. “Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione”, Meltemi, Roma 2001

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omogenee e soprattutto definite da confini delimitati spazialmente come quelli dello stato nazionale. Il concetto di "luogo", in quanto prodotto materiale di dinamiche culturali, è costretto a ridefinirsi proprio a causa di questi "flussi culturali globali" eterogenei e incontrollabili.

Sono proprio questi flussi globali in cui la sempre crescente “disgiuntura” di questi flussi viene esaminata tenendo conto della tensione tra omogeneizzazione ed eterogeneizzazione culturale. Da un lato, infatti, le comunità più piccole corrono spesso il rischio di essere assorbite da entità più grandi, tanto che “la comunità immaginata dell'uno diventa la prigione politica dell'altro”, dall'altro lato, invece, è il movimento di gruppi di persone che riescono comunque a restare in contatto, grazie a collegamenti mediatici sempre più istantanei e ramificati, a costituire quelle “sfere pubbliche diasporiche” che hanno la possibilità - anche in virtù della loro de-localizzazione - di mobilitare le rispettive differenze culturali a vantaggio di un'identità di gruppo costruita così da e nel, processo storico e non da caratteristiche primordiali. Tali sfere pubbliche contribuiscono in modo notevole al fenomeno del “rimpatrio della differenza”, sotto forma di beni, segni, slogan, stili di vita, immagini e ideologie. Questi flussi, provenienti da varie parti del mondo e da persone o gruppi con differenti esperienze, creano dal nulla o rafforzano delle microidentità antagoniste che si oppongono ai regimi - statali e non - di normalizzazione.

La categoria di immaginazione assume per Appadurai una rilevanza teorica e metodologica notevole. Sebbene il suo statuto teorico risulti dalla poco chiara sovrapposizione di “immagine riprodotta meccanicamente” di “comunità immaginata” il valore metodologico di questa categoria permette di individuare

“un campo organizzato di pratiche sociali e una forma di negoziazione tra siti d'azioni (individui) e campi globalmente definiti di possibilità” 27.

27 ibidem cit pag. 50

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La deterritorializzazione ha un impatto socialmente e politicamente decisivo sull'immaginazione; essa infatti mette a disposizione un repertorio più vasto di vite possibili che non in passato e contribuisce non solo a rielaborazioni più critiche della tradizione ma anche alla produzione di un'identità di gruppo sempre più translocale, che apre delle fratture profonde nella vecchia forma dello stato- nazione; la produzione della località diviene così sempre più deterritorializzata e legata a fattori culturali influenzati notevolmente dall'intreccio fra vite reali e vite immaginate. Tale intreccio favorisce lo sviluppo di nuove forme di politica e di espressione collettiva che tuttavia, a loro volta, porteranno delle modificazioni alle modalità di disciplina e controllo da parte delle vecchie forme tradizionali di organizzazione sociale. La località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato diventa così l'obiettivo delle pratiche di rappresentazione etnografiche che devono cercare di far luce “sul potere che le vite potenziali immaginate su larga scala esercitano su specifici percorsi di vita» e sulla produzione culturale della località” 28.

28 ibidem cit pag. 80

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2.2 Le dimensioni della globalizzazione

Il tratto essenziale della globalizzazione consiste principalmente nel fatto che essa influenzi così gli avvenimenti su scala mondiale come la vita quotidiana; si tratta di un ordine che cresce con modalità anarchiche e accidentali che si è diffuso soprattutto attraverso lo sviluppo della comunicazione elettronica, la cui esistenza “non è solo un modo per trasmettere più velocemente notizie o informazioni [… ma] altera la struttura stessa delle nostre vite, ricchi e poveri insieme” 29 .

Le quattro dimensioni della globalizzazione sono: l’economia capitalistica, il sistema degli stati nazione, l’ordinamento militare mondiale e la divisione internazionale del lavoro. I centri principali di potere dell’economia mondiale sono gli stati capitalistici. I sistemi di politica economica interni e internazionali di questi stati prevedono varie forme di regolamentazione dell’attività economica ma la loro organizzazione istituzionale determina un “isolamento” della sfera economica da quella politica. Questo favorisce le attività globali delle grandi aziende che hanno la casa madre in uno stato e interessi in molti altri stati. Le aziende e in primo luogo le grandi multinazionali, gestiscono un enorme potere economico e sono in grado di influenzare la linea politica del paese in cui hanno sede e non solo questo. Indipendentemente dall’entità del potere economico che detengono, le grandi imprese non sono organizzazioni militari e non possono imporsi come entità politico – legali per governare un determinato territorio. Se nell’ordinamento politico mondiale gli stati nazione sono gli attori protagonisti, le grandi imprese sono gli agenti dominanti dell’economia mondiale. Nei rapporti commerciali tra di loro, oltre che con gli stati e i consumatori, le grandi società dipendono dalla produzione di profitto. Per questo la loro crescente influenza

29 A.Giddens, “Il mondo che cambia”, il Mulino,Bologna 2000, cit. pag. 24

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porta con sé un’estensione globale dei mercati delle merci e di quelli monetari.

La terza dimensione della globalizzazione è l’ordinamento militare mondiale. La tendenza alla globalizzazione del potere militare non è ovviamente confinata agli armamenti e alle alleanze tra le forze armate di diversi paesi, ma riguarda la guerra stessa. Due conflitti mondiali hanno dimostrato come i conflitti locali siano degenerati in un coinvolgimento globale. La quarta dimensione della globalizzazione riguarda lo sviluppo industriale. L’aspetto più evidente è l’espansione della divisione mondiale del lavoro che comprende le differenziazioni tra aree più o meno industrializzate nel mondo. Una delle caratteristiche delle implicazioni globalizzanti dell’industrialismo è la diffusione mondiale delle tecnologie meccaniche. L’impatto dell’industrialismo non resta chiaramente circoscritto alla sfera della produzione ma interessa molti aspetti della vita quotidiana e inoltre influenza il carattere delle interazioni umane con l’ambiente materiale. Uno dei più importanti effetti dell’industrialismo è stata la trasformazione delle tecnologie della comunicazione. Le moderne tecniche di comunicazione hanno inciso profondamente su tutti gli aspetti della globalizzazione. Esse costituiscono un elemento essenziale della riflessività della modernità e della discontinuità che hanno determinato la cesura tra mondo della tradizione e quello della modernità30.

30 A. Giddens, “Le conseguenze della modernità”, il Mulino,Bologna 1994

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2.3 Tradizione, famiglia, democrazia nell’era globale

Nella società cosmopolita globale sta emergendo che le istituzioni pubbliche e la vita quotidiana si stanno in pari modo liberando dalla tradizione. Se in passato ci fu una simbiosi tra modernità e tradizione (laddove famiglia, sessualità e divisioni fra i sessi rimasero pesantemente sotto il controllo della tradizione e del costume), per effetto della globalizzazione e della diffusione della modernizzazione la tradizione si mescola con la scienza in maniera interessante e strana.

Il dibattito sulla famiglia potrebbe sembrare distante dalla questione della globalizzazione, eppure i rapporti familiari stanno cambiando dappertutto, e ovunque troviamo tendenze parallele. Perciò, afferma Giddens, quella che riguarda le relazioni è una rivoluzione globale. Gli elementi di fondo della vita sessuale in Occidente sono cambiati in maniera essenziale: la sessualità, non più associata alla riproduzione, è diventata qualcosa da scoprire e modulare, e la coppia ha assunto importanza centrale. Matrimonio e famiglia sono diventate

“istituzioni-guscio”. Il matrimonio, uno stato naturale che stava a significare l'assunzione di un impegno, oggi non è più l'elemento caratterizzante della coppia, che invece è unita da un legame di intimità alla base del quale è necessaria “un processo di fiducia attiva che induce un soggetto ad aprirsi all'altro”31. Questo nuovo tipo di relazione è implicitamente democratica: essa infatti è un rapporto fra uguali basato sulla comunicazione, sulla discussione e sul dialogo e non sul potere arbitrario, la coercizione o la violenza. Se dunque la parità e l'istruzione delle donne sono le più importanti forze che promuovono la democrazia e lo sviluppo economico nel terzo mondo, il persistere della famiglia

31 A.Giddens “ Il mondo che cambia”, il Mulino,Bologna 2000, cit. pag. 78

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tradizionale o di certi suoi aspetti in molte parti del pianeta è più preoccupante del suo declino.

Infine Giddens concentra la sua attenzione sulla democrazia “forse l'idea più potente e stimolante del Novecento”32, un sistema che implica la libera competizione fra partiti politici per le posizioni di potere profondamente influenzato, in epoca recente, dall'avanzata della comunicazione globale. La democrazia, in quest'epoca del mondo che cambia, subisce un destino paradossale: se da una parte infatti essa si estende in tutto il mondo, dall'altra emerge proprio al suo interno una delusione crescente nei confronti dei sistemi democratici. La rivoluzione nelle comunicazioni ha prodotto una cittadinanza più attiva e più riflessiva di quella di un tempo che rende, lo abbiamo visto, le istituzioni tradizionali incapaci di rispecchiare la realtà e rispondere alla complessità delle relazioni. Nei paesi democratici dunque, sostiene Giddens, c'è bisogno di una democrazia democratizzante, di un approfondimento della democrazia.

La “democratizzazione della democrazia” assumerà forme diverse nei vari paesi a seconda delle loro caratteristiche, in modo particolare il decentramento del potere, l'adozione di misure anti-corruzione e il rafforzamento della cultura civica:

“non dobbiamo pensare che esistano soltanto due settori della società, lo stato e il mercato, cioè il pubblico e il privato: in mezzo sta la società civile, con la famiglia e altre istituzioni. […] La società civile è l'arena dove gli atteggiamenti democratici, come la tolleranza, devono essere sviluppati” 33.

32 ibidem cit. pag. 86

33 ibidem cit. pag. 94 - 95

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Il nostro mondo mutevole non necessita di meno governo ma di più governo, e questo può essere garantito solo dalle istituzioni democratiche. Secondo Ulrich Beck34 la globalizzazione è :

"simile al tentativo di inchiodare un budino alla parete. È evidente una perdita di confini dell'agire quotidiano nelle diverse dimensioni dell'economia, dell'informazione, dell'ecologia, della tecnica, dei conflitti transculturali e della società civile: è qualcosa di familiare e nello stesso tempo inconcepibile, difficile da afferrare, ma che trasforma radicalmente la vita quotidiana, con una forza ben percepibile, costringendo tutti ad adeguarsi, a trovare risposte” 35.

Un fenomeno, dunque, che coinvolge la vita umana (ma non solo) nel suo complesso, per la cui comprensione non è sufficiente un'analisi di tipo solo economicistico. La globalizzazione è anzitutto un fenomeno culturale. Il che non implica necessariamente una omologazione, una "macdonaldizzazione"36 del mondo. Si tratta di un processo molto più complesso, contraddittorio, sfumato.

Beck considera la globalizzazione come un fenomeno intrinsecamente conflittuale. La chiave per comprenderlo consiste, dunque, nel pensare dialetticamente le contraddizioni, che sono ad esso implicite, senza ridurle ad un tutto omogeneo e monolitico. Così la globalizzazione comporta una ri- localizzazione, la quale non si configura come un semplice ritorno alle tradizioni, ma come una sintesi efficace tra globale e locale.Si tratta insomma di una

"glocalizzazione", de-localizzione e ri-localizzazione, insieme. La risposta che la politica può dare al mondo globale (o meglio "glocale"), è una stato "trans- nazionale".

34 U.Beck, “Che cos’è la globalizzazione?”, Carocci,Roma 1999

35 ibidem cit. pag. 39

36 I.Ramonet,R.Chao, “Piccolo dizionario critico della globalizzazione”, Sperling & Kupfer, Milano 2004, cit pag. 270

(36)

Organismo androgino, dotato di una "sovranità inclusiva", che rappresenterebbe l'incarnazione del motto "pensare globale, agire locale". In tal senso, lo stato trans-nazionale si configurerebbe come un superamento radicale della nazione, pur non comportandone l'eliminazione. Facendo leva sullo stato trans-nazionale (concepito come uno stato commerciale globale), la politica deve essere con ciò in grado di organizzarsi a più livelli, tramite una rete di azioni che possa imbrigliare tanto il particolare, quanto il generale. Una prospettiva, questa, che esclude radicalmente la formazione di uno stato mondiale, così come di un governo mondiale unitario: la politica mondiale deve essere pensata come policentrica, come la coordinazione di una pluralità di stati trans-nazionali.

"Globalizzazione significa anche: non-Stato mondiale. Meglio: società mondiale senza Stato mondiale e senza governo mondiale. Si espande un capitalismo globale dis- organizzato, perché non ci sono una potenza egemone e un regime internazionale, né economico né politico”37.

Un ruolo cruciale in questa direzione è quindi attribuito alla società civile, non fosse altro per il fatto che, molto più avanzata delle istituzioni politiche, essa già è proiettata verso una dimensione mondiale, travalicando i confini delle nazioni, ponendo fine alla concezione dello "stato come container della società".

Come lo stato transnazionale, anche la società mondiale:

"non è una megasocietà nazionale, che contiene e annulla in sé tutte le società nazionali, ma un orizzonte mondiale, caratterizzato dalla molteplicità e dalla non- integrazione, che si manifesta solo quando viene prodotto e conservato nella comunicazione enell'agire”38.

37U.Beck, “ Che cos’è la globalizzazione?” Carocci, Roma 1999, cit. pag. 26

38 ibidem cit pag. 25

(37)

Si tratta di una diversa concezione della società civile, a cui necessariamente fa riscontro una diversa concezione della democrazia. La riorganizzazione del mondo in senso globale inevitabilmente conferisce infatti un duro colpo alla democrazia rappresentativa, come è stata consegnata alla tradizione politica europea dall'Illuminismo settecentesco. La riappropriazione da parte della politica di sfere lasciate de-regolamentate in mano all'economia non è indolore, richiede un adattamento, che tuttavia non può non essere affrontato. La democrazia deve essere rifondata, per tenere a bada l'economia di mercato.

Secondo Habermas39 la globalizzazione è “un processo, non uno stadio finale”.

Sulla base di questo assunto si può comprendere la sua visione dinamica del processo democratico, fondata sulla capacità della società di modificare politicamente se stessa a partire dalla volontà e dalla coscienza dei cittadini democraticamente riuniti. L’accento posto sulle dinamiche culturali, più ancora che sociali, del processo di globalizzazione mette in evidenza le forti tensioni che all’interno della costellazione postnazionale suscita l’incontro tra mondi di vita diversi. È partendo dall’inclusione dell’altro che può vedere la luce una società con aspirazioni globali, un inclusione che non avvenga con l’adeguamento passivo ad un’ideologia dominante, ma attraverso un dialogo democratico che assuma a sé un uso pubblico della ragione e che dia una dimensione più ampia alla realizzazione della volontà e della libertà politica. Habermas propugna una politica interna mondiale che egli non riferisce ad un governo mondiale, ma immagina come una serie di interazioni e di interferenze tra diversi piani di riconoscimento politico: nazionale, internazionale e globale. Per Habermas è chiaro che la creazione di una global governance non potrà mai rimpiazzare le procedure convenzionali della decisione e della rappresentanza politica, infatti egli non si sente di far corrispondere alla semplice esistenza di una comunità

39 J.Habermas, “ La costellazione postnazionale”, Feltrinelli, Milano 1999

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cosmopolitica di cittadini del mondo la base di legittimazione necessaria ad una politica interna mondiale.

Habermas individua almeno tre sfere nelle quali è possibile cogliere l’esautoramento dello stato-nazione:la perdita delle capacità statali di controllo, il deficit di legittimazione del processo decisionale, la crescente incapacità di fornire prestazioni di guida e di organizzazione che siano efficaci sul piano della legittimità.

(39)

2.4 Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone

La globalizzazione, per Zygmunt Bauman40, è parola che più che chiarire, confonde e annulla le distinzioni.

A voler scovare il suo significato più profondo, l’idea di globalizzazione rimanda al carattere indeterminato, ingovernabile e autopropulsivo degli affari mondiali, ancora, fa pensare all’assenza di un centro, di una sala comando, di un consiglio di amministrazione, di un ufficio di direzione.” 41

Bauman cerca di spiegare come il fenomeno “globalizzazione” si presenti negli aspetti più diversi e all’apparenza inconciliabili. Se, nell’accezione più in voga, globalizzazione e localizzazione sembrano fenomeni opposti, l’analisi del sociologo polacco mostra come in realtà siano due facce della stessa medaglia; la globalizzazione, nei suoi aspetti finanziari ed economici, che sono i suoi aspetti principali, si nutre della localizzazione e della debolezza degli stati nazionali.

Il mondo si divide, quindi, in globali e locali, in un’élite che vive svincolata dai vincoli spaziali e una maggioranza di persone che ha perso gli spazi caratteristici della formazione della pubblica opinione, e questa distinzione sembra essere molto proficua ai fini della corretta comprensione del mondo contemporaneo.

La prima traccia di questo binomio può essere colta nella “mobilità”, divenuta fattore di prestigio che, al tempo stesso, unifica e divide, creando due classi sociali ben separate, da un lato le élites di potenti e dall’altro la grande massa dei

“locali” che non solo incide sempre meno sulla vita e sulla società, ma che ne ha perso – secondo Bauman dai primi anni ottanta – anche il diritto.

40 Z. Bauman, “Dentro la globalizzazione”, Laterza, Roma-Bari 2001

41 ibidem cit. pag. 67

(40)

“L’economia, il capitale, cioè il denaro e le altre risorse necessarie a fare delle cose, e ancor più denaro e più cose, si muovono rapidamente; tanto da tenersi sempre un passo avanti rispetto a qualsiasi entità politica (come sempre, territoriale) che voglia contenerne il moto e farne mutare direzione. […] Qualsiasi cosa che si muova a una velocità vicina a quella dei segnali elettronici è praticamente libera da vincoli connessi al territorio all’interno del quale ha avuto origine, verso il quale si dirige, attraverso il quale passa” 42.

Così, in quella che Bauman chiama “la nuova espropriazione” si manifesta la trasformazione delle prerogative classiche dello stato nazione:

“ il ruolo dello stato è divenuto solo quello dell’esecutore di forze che non è in grado di controllare; la nascita di nuove entità territoriali, sempre più deboli, va a favore delle nuove forze economiche; la redistribuzione del potere è già avvenuta, dagli stati nazione alla finanza globalizzata. Integrazione e parcellizzazione, globalizzazione e territorializzazione sono processi complementari, anzi, sono due facce dello stesso processo, che sta ridistribuendo su scala mondiale sovranità, potere e libertà d’azione”43.

Bauman individua in questo contesto due tipologie di persone: “Turisti e vagabondi”. Partendo dalla considerazione della nostra importanza come consumatori piuttosto che come produttori, Bauman coglie un elemento particolare: la necessaria transitorietà anche dei consumi, e dei desideri.

Lo scopo del gioco del consumo, non è tanto la voglia di acquisire e di possedere, né di accumulare ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazione per sensazioni nuove, mai sperimentate prima. Questi nuovi consumatori sono i turisti, per i quali muoversi nello spazio non pone più vincoli e resta solo la dimensione temporale, che ha assunto la forma dell’eterno

42ibidem cit. pag. 63

43 ibidem cit pag. 78

(41)

presente; i vagabondi, al contrario, vivono nello spazio, uno spazio dal quale sono scacciati, uno spazio che ha confini invisibili ed invalicabili.

Per le merci e le élites – finanziarie, accademiche, manageriali – non esistono vincoli di territorio, per i “vagabondi” il mondo è a vivibilità limitata, limitati dai quartieri delle metropoli a controllo elettronico, dalle frontiere, dalle leggi sull’immigrazione, dalla “tolleranza zero”. L’esplicitazione delle conseguenze della globalizzazione sulle persone consiste quindi nella divisione tra turisti e vagabondi, con i vagabondi che hanno, come unico sogno, quello di essere turisti, di entrare a far parte dell’élite del consumo immediato e dell’extraterritorialità.

Turista e vagabondo sono uno l’alter ego dell’altro; turista e vagabondo sono entrambi consumatori, con la differenza che il vagabondo è un consumatore pieno di difetti, non essendo di grado di sostenere il ritmo di consumi al quale aspira. Se il vagabondo invidia la vita del turista e vi aspira, a sua volta il turista, nella sua fascia media, ha il terrore che il suo status, del tutto precario, possa cambiare all’improvviso. Il vagabondo è l’incubo del turista:

“mentre pretende che il vagabondo sia nascosto sotto il tappeto, fa bandire il mendicante e il barbone dalla strada, confinandolo in lontani ghetti dove «non si va», chiedendone l’esilio o l’incarcerazione, il turista cerca disperatamente, ma tutto sommato invano, di cancellare le sue proprie paure” 44 .

Bauman mostra come lo stato-nazione abbia, quasi come unica prerogativa, quella di mantenere l’ordine, garantendo ad alcuni un’esistenza ordinata e sicura e utilizzando a questo scopo, sugli altri la forza della legge.

Lo stesso concetto di “flessibilità” del lavoro, in apparenza “neutro”,

“economico”, nasconde la redistribuzione del potere: flessibilità vuol dire offrire

44 ibidem cit. pag. 108

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al capitale la possibilità di muoversi, escludendo i locali dalla stessa possibilità.

Mobilità e assenza di mobilità sono i due lati della questione, e lo stato ha il compito determinato dalla globalizzazione, di “gestire il locale”.

La conseguenza più grave della globalizzazione e dell'avvento dell'economia post-fordista è secondo Bauman45 la scomparsa dello spazio pubblico.

Insicurezza esistenziale, incertezza circa il proprio destino, sensazione che la propria persona si trovi costantemente in pericolo costituiscono la cornice nella quale gli individui trascorrono le loro vite, incapaci di organizzarle e di costruirsi un'identità.

L'epoca delle repubbliche - nazioni si è definitivamente conclusa, ma non per questo si deve rinunciare alla dimensione repubblicana: è necessario ricostruire l'agorà, dare alle istituzioni una dimensione extraterritoriale, che le renda di nuovo in grado di funzionare.

Bauman non pensa però alla semplice trasposizione a livello globale delle istituzioni democratiche e repubblicane, ma alla costruzione di qualcosa di nuovo.

Egli non dà alcuna descrizione della nuova repubblica, indica però alcune direzioni da seguire: combattere le disuguaglianze fra settori sempre più ricchi e settori sempre più poveri della popolazione mondiale, svincolare il reddito dal lavoro per liberare gli individui dall'incertezza, richiamare dall'esilio l'universalismo e recuperare la funzione di traduzione che è la precondizione di ogni comunicazione, per imparare a vivere insieme nel mondo delle differenze, senza costruire ghetti.

Più che di un nuovo paradigma teorico abbiamo bisogno di nuovi strumenti di azione che ci liberino dall’economia politica dell'incertezza, perché possiamo tornare a sederci nell'agorà.

45 Z. Bauman, “La solitudine del cittadino globale”, Feltrinelli,Milano 2000

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