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Orario di lavoro tra normativa interna e normativa comunitaria

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Academic year: 2022

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Università degli studi di Roma

“ La Sapienza”

Facoltà di Giurisprudenza

Tesi di laurea in diritto del lavoro

Orario di lavoro tra normativa interna e normativa comunitaria

Relatore Laureando

Ch.mo Prof. G. Santoro Passarelli Leonardo Mainella

Matr. 07164700 Correlatore

Ch.mo Prof. E. Ghera.

Anno Accademico 1999-2000

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ORARIO DI LAVORO TRA NORMATIVA INTERNA E NORMATIVA COMUNITARIA

Cap. I La disciplina dell’orario di lavoro nel R.D.L. n.629 del 15-3- 1923

1- Limiti massimi dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale 2- L’ambito di applicazione

3- La nozione di lavoro effettivo

4- I lavoratori esclusi dai limiti di orario 5- La questione del personale direttivo

6- I prolungamenti dell’orario di lavoro: il lavoro straordinario

Cap. II La flessibilità dell’orario di lavoro 1- Lo straordinario dopo la legge n. 549 del 1995

2- Le linee generali in materia di orario di lavoro della Direttiva n. 104 del 1993

3- Orario di lavoro e concertazione: gli accordi trilaterali del 1993 e del 1996

4- La più recente normativa italiana sull’orario di lavoro ( Legge 196 del 1997 art. 13 )

5- L’avviso comune sull’orario di lavoro del 1997

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6- Il difficile coordinamento tra normativa comunitaria e la previsione costituzionale del limite legale massimo dell’orario di lavoro giornaliero

7- Flessibilità dell’orario di lavoro e prospettive de iure condendo di abbassamento dell’orario settimanale

8- La legge n. 409 del 1998 sul lavoro straordinario nel settore industriale

9- La flessibilità difensiva a tutela dell’occupazione: in particolare i contratti di solidarietà

Cap. III La disciplina dell’orario di lavoro nel lavoro pubblico 1- L’articolazione dell’orario di lavoro:

1.1 l’orario di servizio, l’orario di apertura al pubblico e articolazione dell’orario di lavoro

1.2 l’orario flessibile

1.3 l’orario di lavoro straordinario 2- Il rapporto di lavoro a tempo parziale

2.1 la disciplina del part-time tra fonti pubblicistiche e privatistiche 2.2 i problemi di applicazione della legge: lo svolgimento di altre attività e il regime delle incompatibilità per i pubblici dipendenti 2.3 Le modalità di costituzione del rapporto

2.4 La tutela previdenziale nel part-time Considerazioni conclusive

Note Bibliografiche

NOTA REDAZIONALE

Questa tesi si compone di 234 pagine

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Cap. I

La disciplina dell’orario di lavoro nel R.D.L. n. 629 del 15-3-1923

1Limiti massimi dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale. 2 L’ambito di applicazione. 3 La nozione di lavoro effettivo. 4 I lavoratori esclusi dai limiti di orario. 5 La questione del personale direttivo. 6 I prolungamenti dell’orario di lavoro: il lavoro straordinario.

1 I limiti massimi dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale

Nel nostro ordinamento la definizione dell’orario di lavoro era affidata al R.D.L. n. 629 del 1923, convertito in Legge n. 473 del 1925 ed integrato dai regolamenti d’attuazione (R.D. n. 1955/1923; R.D. n. 1956/1923; R.D. n.

1957/1923). Esso, infatti, nonostante la sua lontana origine, ha rappresentato per lungo tempo la principale fonte di disciplina della materia stabilendo imperativamente i limiti, giornaliero e settimanale, del lavoro normale e straordinario.

Il 1° comma dell’art. 1 del r.d.l. n. 692 del 1923 stabilisce pertanto che “la durata massima normale della giornata di lavoro degli operai e impiegati nelle

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aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di Istituti di insegnamento o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali, ovunque è prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le 8 ore al giorno o le 48 ore settimanali di lavoro effettivo”1. Ad una prima lettura di questa disposizione è possibile rilevare le sue imprecisioni causate dal fatto che in essa il legislatore non si è limitato a definire solamente la durata massima normale della giornata lavorativa, ma al contrario, usando una formula alquanto ambigua, ha determinato anche i limiti dell’orario settimanale2.

Dottrina e giurisprudenza, conseguentemente, si sono per lungo tempo interrogate sulla questione relativa all’interpretazione della disgiuntiva “o”

posta tra il limite giornaliero e quello settimanale, dalla risoluzione della quale dipende la definizione dell’orario “normale” legale quale soglia oltre la quale il lavoro deve essere inteso straordinario e, in quanto tale, da retribuire con le maggiorazioni relative. Parte della dottrina3, sostenendo una interpretazione

1 Secondo alcune letture il legislatore si è intenzionalmente discostato dal testo della Convenzione Internazionale di Washington del 1919, riferendosi invece alla disgiuntiva “o” dell’427 del trattato di Versailles, tramite una formulazione che autorizza la compensabilità di eventuali superamenti dell’orario giornaliero, contenuti nel limite massimo di 48 ore e operando all’insegna di una maggioreflessibilità. Vedi in proposito ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 280.

2 Cfr. ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 275.

3 A sostegno di tale tesi vedi D’EUFEMIA G., L’orario di lavoro e i riposi, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da BORSI U. e PERGOLESI F., vol. III, La disciplina organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p. 207;

DE LUCA TAMAJO R., Il tempo di lavoro (Il rapporto individuale di lavoro), in Il tempo di lavoro, Atti delle Giornate di studio dell’A.I.D.La.SS, (Genova 4-5 aprile 1986), Milano, 1987, p. 9 ss.; ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, 1985, p. 273; CESTER, Lavoro e tempo libero nell’esperienza giuridica, in QDLRI, n. 17, 1995, p. 9 ss.; SALIMBENI, Estensione e collocazione temporale

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letterale di questa disgiuntiva, ritiene che essa debba essere letta come un aut (oppure), non negando, conseguentemente, la possibilità di orari giornalieri superiori alle 8 ore, ma entro le 48 ore settimanali, senza considerare il lavoro aggiuntivo come lavoro straordinario e perciò senza maggiorazioni retributive.

Questa è la tesi dell’alternatività tra limite giornaliero e settimanale, ossia quella più flessibile, che potrebbe trovare una delle basi sulla constatazione che, se i due limiti dovessero essere intesi come concorrenti, essendo gia in vigore nel 1923 il principio del riposo settimanale4, quello delle 48 ore settimanali diverrebbe inutile, non essendo possibile superare le 48 ore a settimana lavorando solo 8 ore al giorno per 6 giorni5. Questo tipo di interpretazione, inoltre, può trovare la ragione della sua esistenza da un punto di vista storico, anche in base alla considerazione che in alcuni rapporti di lavoro di breve durata, come ad esempio nei lavori a “giornata” in agricoltura ancora molto diffusi nel 1923, non poteva essere applicato il limite di orario settimanale. Da tutto ciò deriva che l’unica maniera per dare senso a questa doppia previsione sia riferire l’osservanza del limite delle 8 ore al giorno o delle 48 ore settimanali a seconda che il rapporto abbia rispettivamente durata inferiore o maggiore ad una settimana. Ma tali argomentazioni non possono essere ritenute

del lavoro straordinario nell’ambito di una nuova concezione dell’orario di lavoro, in Dir. Lav., I, 1988, p.

495; SANDULLI P., Orario di lavoro.I) Rapporto di lavoro privato in Enc Giur. Treccani, vol. XXI, Roma, 1990, p. 6.

4 Legge n. 489 del 1907, art. 7.

5 Cfr. ICHINO P., Orario di lavoro, in Digesto Disc. Priv, Sez. Comm., Torino, 1994, p. 393; ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Giuffrè, Milano, 1985, p. 278; ICHINO P., L’orario di lavoro e riposi, artt 2107 e 2109, in Com. Cod. civ. diretto da P: Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 21.

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sufficienti. Si deve difatti considerare che se il legislatore avesse voluto stabilire la concorrenza tra i due limiti avrebbe usato la congiunzione “e”, come d’altra parte ha fatto nell’art. 5. L’uso della “o” non può quindi ritenersi una svista, poiché compare anche nel 1° co. dell’art. 4 nonché nelle norme regolamentari (R.D. 10 settembre 1923 n. 1955, art. 8; n. 1956, art. 5)6. Da quest’indirizzo deriva un concetto di giornata normale di lavoro “flessibile”, che impone il rispetto di una durata massima media nell’arco di una settimana.

Quest’interpretazione, inoltre, è anche confermata dalla contrattazione collettiva che, nel regolare la materia dell’orario di lavoro, si ispira alla tesi dell’alternatività dei limiti legali7.

Un’altra parte della dottrina8 ha sostenuto invece che la “o” deve essere letta come un vel ( e ) e che i due limiti dovrebbero essere considerati in modo congiunto, evidenziando inoltre la necessità di adeguare l’interpretazione dell’art. 1 al successivo dettato costituzionale (art. 36, co. 2). La riserva di legge in tema di fissazione della durata massima della giornata lavorativa, contenuta nella norma costituzionale, avrebbe, infatti, carattere assoluto e non

6 Cfr. DE LUCA TAMAJO R., Il tempo nel rapporto di lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1986, n. 31, p. 447;

nello stesso senso ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 279.

7 Cfr. MAGNANI M., Riduzione o flessibilizzazione dell’orario di lavoro, in Lav. Giur., 1997, p. 12; cfr.

pure ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 281.

8 Sono invece sostenitori della tesi della concorrenza PERA G., Diritto del lavoro, Padova, Cedam, 1996, pp. 460-461; CASSI V., La durata della prestazione di lavoro, vol. II, Milano, 1956, pp. 34-35; CORRADO R., Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, pp. 135-136; BALLESTRERO M.V., Orario di lavoro, in EncG. Dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, p. 623; CARABELLI U., LECCESE V., Orario di lavoro:

limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in QDLRI, 1995, n. 17, p. 35; SCARPONI S., Riduzione e gestione flessibile del tempo di lavoro, Milano, 1998, p. 95 ss.

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consentirebbe, quindi, la possibilità di adottare discipline di origine contrattuale che stabiliscano il superamento del limite legale delle 8 ore giornaliere o di quello globale di 10 ore al giorno, ossia di quello comprensivo del lavoro straordinario9. Questa tipo di lettura, secondo i suoi sostenitori, è confermata anche dal dettato dell’art. 5 dello stesso Decreto n. 692, che definendo lo straordinario come “l’aggiunta alla giornata normale di lavoro di cui all’art. 1”

di un determinato periodo di tempo, presuppone, di conseguenza, una durata fissa e non variabile della giornata lavorativa10. Integrando, quindi, il disposto dell’art. 1 con quello dell’art. 5, si giungerebbe ad escludere che la giornata lavorativa possa eccedere le 8 ore al giorno alle quali potrebbero essere aggiunte al massimo 2 ore di lavoro straordinario.

È da notare, inoltre, che anche sul fronte giurisprudenziale non si è riusciti a tracciare una via certa ed univoca infatti, sia la Suprema Corte che i giudici di merito11, per lungo tempo, hanno oscillato tra le due diverse sponde interpretative.

9 CARABELLI U., LECCESE V,, Orario di lavoro: limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in QDLRI, 1995, n.17, p. 35; SCARPONI S., Riduzione e gestione flessibile del tempo di lavoro, Milano, Giuffrè, 1998, p. 95; questa opinione non è invece condivisa da DE LUCA TAMAJO R., Il tempo nel rapporto di lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1986, n. 31, p. 447, ad avviso del quale “la genericità del dettato costituzionale non impone vincoli aprioristici e non preclude quindi al legislatore ordinario di operare all’insegna della flessibilità mediante la previsione di una durata massima media nell’ambito della settimana”.

10 ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 276- 277.

11 A sostegno della tesi della concorrenza si sono espressi: Trib. Firenze 24 giugno 1989, in Riv. It. Dir.

Lav., 1990, II, p. 168 con nota critica di TIRABOSCHI, Brevi riflessioni in tema di durata massima della giornata di lavoro; Pret. Roma 27 aprile 1993, in Giur. Lav. Lazio, 1994, p. 419 con nota critica di GALGANI

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All’inizio degli anni ’80, la Cassazione, infatti, sebbene avesse già appoggiato la tesi della concorrenza12, sosteneva ancora che la particella “o”, risultante dal disposto dell’art. 1 R.D.L. n. 692 del 23’, potesse assumere solo un significato disgiuntivo e che, pertanto, i limiti delle 8 ore giornaliere e delle 48 ore settimanali fossero tra loro alternativi13.

Tale panorama interpretativo è, però, mutato nel corso degli anni 90’. La Cassazione, infatti, riallacciandosi ad una isolata decisione del 1983, ha sostenuto la tesi della concorrenza, ritenendo che “ai fini del diritto alla corresponsione della maggiorazione retributiva per la prestazione di lavoro straordinario, la disposizione dell’art. 1 del r.d.l. n. 692 del ‘23, vada interpretata nel senso che il limite dell’orario giornaliero normale ivi indicato deve essere autonomamente considerato rispetto a quello settimanale, in considerazione della finalità della normativa e del carattere più usurante e in ogni caso comportante un maggiore costo personale del lavoro eccedente la prevista durata massima della giornata lavorativa14.

In conclusione, anche se ultimamente la Suprema Corte ha mutato orientamento, la tesi dell’alternatività sembra prevalere su quella contraria,

B. In senso contrario invece Pret. Catania 21 novembre 1985, in Dir. Prat. Lav., 1986, p. 1227; Trib. Cremona 28 aprile 1985, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, p. 860.

12 Cass. 20 aprile 1983, n. 2729, in Mass. di Giur. Lav., 1984, p. 35 con nota critica di MEUCCI, Sui limiti legislativi alla durata della prestazione di lavoro; Cass. civ. sez. lav. 29 gennaio 1985, n. 520, in Mass. di Giur.

Lav., 1985, p. 68; Cass. 15 novembre 1985, n. 5616, in Rep. Foro It., 1985, c. 1687, n. 1132; Cass. sez. civ. 2 agosto 1996, n. 6995, in Dir. Prat. Lav., 1997, p. 28.

13 Cass. 17 maggio 1958, n. 1632, in Riv. Giur. Lav., 1958, 379; Cass. 22 ottobre 1971, n. 2973, in Foro It., 1971, I, 1709; Cass. sez. pen. 2 giugno 1984, n. 5179, in Mass. di Giur. Lav., 1984, 520.

14 Cass. civ., sez. lav., 2 agosto 1996, n. 6995, in Dir. Prat. Lav., 1997, p. 28.

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proprio perché essa è funzionale per l’adozione di regimi di orario flessibili che, secondo recenti studi, avrebbero il merito di favorire l’occupazione. La flessibilità della durata normale giornaliera della prestazione, inoltre, non deve essere considerata come contraria agli interessi dei lavoratori, ma anzi può rispondere alle loro esigenze personali o familiari quando vengono contratte forme di organizzazione del lavoro che consentano di aumentare o diminuire la prestazione giornaliera, con variazioni compensative in altri giorni della settimana (es. flexi-time). La flessibilità però non può essere illimitata, devono infatti essere rispettati il principi costituzionali della limitazione della giornata lavorativa e quello della tutela della salute dell’individuo che sono la fonte del diritto ad un congruo riposo quotidiano, diritto che deve essere tassativamente garantito al lavoratore qualunque sia la distribuzione dell’orario di lavoro settimanale15.

In fine ritornando sul disposto dell’art. 1 del r.d.l. n. 692, possiamo notare come esso parli di “durata massima normale della giornata di lavoro”, dove l’uso dell’aggettivo massima lascia intuire come il legislatore avesse voluto stabilire un limite all’orario di lavoro giornaliero normalmente praticabile nelle aziende.

Il legislatore, avendo stabilito infatti che la durata massima della giornata di lavoro non potesse superare le 8 ore al giorno, da un lato presupponeva,

15 Si potrebbe in proposito sollevare una questione di illegittimità costituzionale circa la mancanza nella

legge di una limitazione all’elasticità della durata massima e della fissazione di intervallo minimo tra due prestazioni giornaliere, commisurato alla loro astensione.

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secondo una parte della dottrina, la coincidenza tra durata normale della giornata lavorativa e il limite giornaliero di 8 ore, dall’altro lato apriva invece la via ad una riduzione dell’orario giornaliero sul piano negoziale, eliminando al contrario il potere dell’autonomia delle parti di elevarlo oltre il limite massimo16. Dalle parti, perciò, poteva essere stabilita una durata normale della giornata lavorativa diversa e ridotta rispetto a quella massima legale di 8 ore.

Tale indirizzo è stato successivamente confermato anche dall’art. 2107 c.c. che, parlando dei limiti in modo generico senza alcun riferimento al limite massimo della durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro, doveva essere letto come volto a rendere possibile una fissazione dell’orario normale di lavoro anche da parte della contrattazione collettiva17.

16 Da ultimo, in tal senso CARABELLI U., LECCESE V., L’orario di lavoro: limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in QDLRI, 1995, n. 17, p. 33.

17 ICHINO P., L’orario di lavoro e riposi, in commento agli artt 2107 e 2109 del codice civile diretto da P:

Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 118.

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2 L’ambito di applicazione

Per quanto riguarda il campo di applicazione della disciplina limitativa dell’orario, si deve notare il fatto che il legislatore del ’23 abbia voluto disporre espressamente l’esclusione da tale normativa dei rapporti di lavoro non subordinato in agricoltura. Tale comportamento potrebbe farci pensare che l’ambito applicativo del decreto potesse essere esteso in settori diversi da quello agricolo, anche al di fuori dell’area del lavoro subordinato.

Interpretando infatti la disgiuntiva come una alternativa tra requisito della dipendenza e quello della soggezione al controllo, si potrebbe dedurre che intenzione del legislatore sia stata quella di estendere il campo di applicazione anche ai rapporti di lavoro autonomo, ma sotto il controllo diretto del committente18. Tuttavia tale interpretazione non può ritenersi corretta, poiché la volontà del legislatore di applicare la disciplina solo al lavoro subordinato discende in modo inequivocabile da diverse espressioni del testo legislativo.

Ciò è confermato dal fatto che nel 1° co. dell’art. 1 il termine “lavoro” è accompagnato dagli attributi salariato o stipendiato che certamente non sono riferibili al lavoro autonomo. Il requisito della dipendenza quindi non può considerarsi come alternativo rispetto a quello della soggezione al controllo, ma devono intendersi come coincidenti o concorrenti, interpretando la disgiuntiva

18 ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 302.

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“o” come una congiuntiva “e”19. Il r.d.l. del 1923 non può essere conseguentemente applicato al lavoro autonomo né direttamente né in modo analogico. Non c’è nessun dubbio al riguardo quando il lavoro autonomo trova le sue basi in un contratto d’opera in senso stretto, nel quale l’oggetto ha la veste di un opus indivisibile nel tempo, e nel quale perciò l’estensione temporale della prestazione non arriva ad assumere alcun rilievo. Delle perplessità invece potrebbero sorgere in merito a quei contratti d’opera nei quali la prestazione lavorativa ha un carattere continuativo, ma anche in questi casi, differentemente da quanto avviene nei rapporti di lavoro subordinato, si deve ritenere che non sia riscontrabile l’esigenza di protezione del lavoratore quale parte debole nei confronti del committente. Per tale motivo la dottrina20 ritiene che anche le norme costituzionali in materia di durata giornaliera, settimanale, annuale di lavoro, siano da riferirsi solo al lavoro subordinato21.

Quanto sopra esposto, però, non comporta necessariamente l’estensione della disciplina limitativa dell’orario di lavoro alla totalità dei lavoratori subordinati, disciplina che, difatti, non può essere attuata in quei rapporti di lavoro nei quali

19 ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 303;

D’EUFEMIA G. L’orario di lavoro e i riposi, in Trattato di diritto del lavoro, vol. III, La disciplina organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p. 211

20 Cfr. TREU T., Commento all’art. 36, in Comm. Cost., Tomo I, artt. 36-40 Bologna-Roma, 1979, p. 118 nel quale asserisce che dei diritti previsti dall’art.36 Cost. siano titolari i soli lavoratori subordinati.

21 A questo punto deve, però, essere precisato che spesso, soprattutto in quei rapporti che si situano in zone di confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ossia nei rapporti di collaborazione autonoma e continuativa (lavoro parasubordinato), il lavoratore è più debole rispetto al creditore.

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l’obbligazione sia caratterizzata dalla fungibilità tra estensione temporale e intensità della prestazione, con ampia discrezionalità del lavoratore.

L’applicazione del limite massimo dell’art. 1 della legge e dell’art. 5, per le maggiorazioni previste per le prestazioni eccedenti il limite massimo, è configurabile solo nel momento in cui esista un “vincolo d’orario”

all’estensione o alla collocazione della prestazione, ossia nel caso in cui l’estensione sia l’unico metro quantitativo della prestazione stessa. Tali argomentazioni inoltre devono poi essere ritenute valide anche per il rapporto che intercorre tra socio e cooperativa di lavoro, tra socio d’opera e società, e nell’impresa familiare.

Si può poi notare nel primo articolo del r.d.l. del 1923 che, anche se la limitazione della durata del lavoro sembri riferibile alla giornata complessiva del lavoratore, in realtà è da ritenere che l’estensione temporale abbia per oggetto la prestazione giornaliera e settimanale nell’ambito di ciascun rapporto di lavoro. Tutto ciò, può essere dedotto dalla disciplina del lavoro subordinato nell’art. 5 e dall’apparato sanzionatorio degli artt. 8 e 9 dello stesso decreto del 1923 che possono applicarsi solo al singolo rapporto, e dall’art. 2107 cc. che si riferisce alla singola prestazione lavorativa.

È quindi pacifica e non controversa l’applicabilità del limite massimo di orario solo al singolo rapporto di lavoro.

La circostanza che la durata massima della giornata e della settimana lavorativa sia riferita al singolo rapporto e non al singolo lavoratore, anche se è

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trascurabile quando la generalità dei lavoratori è impegnata in rapporti a tempo pieno e l'orario normale è di 48 ore settimanali, può comportare delle problematiche quando l’orario normale previsto dai contratti collettivi scenda sotto le 40 ore settimanali, o aumentino i rapporti a tempo parziale. In questi casi, infatti, si lascia largo spazio alle doppie attività. Il fenomeno del doppio lavoro difatti può vanificare totalmente la disciplina limitativa dell’orario senza violarla. Il contenimento del doppio lavoro, che il limite di durata massima non può assicurare direttamente, può però essere realizzato indirettamente cercando di eliminare la necessità del lavoratore di prolungare la giornata lavorativa oltre il limite normale, attraverso un’adeguata tutela del reddito.

3 La nozione di lavoro effettivo

La durata massima della giornata e della settimana lavorativa si computa, ai sensi dell’art. 1 del R.D.L. n. 692 del 1923, esclusivamente in base alle ore di

“lavoro effettivo”, ossia in base alla prestazione in senso stretto, che include i periodi di mera attesa in cui non è richiesta un’attività assorbente, ma comunque la sua costante disponibilità22.

Questo concetto viene specificato in modo più puntuale sia dall’art. 5 del r.d.

n. 1955 del 1923 (regolamento di attuazione del r.d.l. n. 692 del 1923), che dall’art. 3 r.d.l. n. 692 del ’23. L’espressione “lavoro effettivo” si trova,

22 ICHINO P., L’orario di lavoro e i riposi, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 26.

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pertanto, sia nell’art. 1 sia nell’art. 3 del r.d.l. n. 692 del 1923, circostanza che ha acceso un animoso dibattito relativo al significato da attribuire a questa locuzione nelle due diverse norme.

Alcuni hanno ritenuto che nell’art. 1 il lavoro effettivo sia l’attività effettivamente e concretamente prestata, mentre nell’art. 3 le stesse parole si riferirebbero a ogni lavoro che richiede un’applicazione assidua e continuativa23.

Altra parte della dottrina ritiene, invece, che l’espressione “lavoro effettivo”

assuma lo stesso significato in entrambi gli articoli e che la definizione di cui all’art. 3 serva solo a specificare meglio il significato dell’art. 124.

Tuttavia queste due contrapposte posizioni non sembrano così distanti dal momento che la locuzione può essere intesa nello stesso senso nei due articoli, sebbene assolva a funzioni diverse: mentre l’art. 1 individua il lavoro a cui si applica la disciplina limitativa dell’orario, all’art. 3 la nozione è usata in senso negativo, per definire il lavoro discontinuo e i lavori di attesa e custodia, non soggetti a limiti legali25.

23 Per quanto riguarda i sostenitori di questa tesi vedi CASSI V., La durata della prestazione di lavoro, vol.

I, Milano, 1959, pp. 44-45; CORRADO R., Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, p. 137.

24 Sono invece sostenitori di questa interpretazione BARASSI L., Il diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, pp. 377-378; RIVA SANSEVERINO L., Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, in Commentario del cod. civ. a cura di SCIALOJA A. e BRANCA G., V, Roma, Zanichelli, 1977, p. 407;

BALLESTRERO M.V., Orario di lavoro, in EncG. Dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 624-626; PERA G., “Diritto del lavoro”, Padova, 1988, pp. 608-609.

25 Cfr. MARTONE M., Sulla nozione di “lavoro effettivo”, in Arg. Dir. Lav., 1998, n. 2, p. 466.

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Ai sensi di queste norme devono essere esclusi da tale concetto i lavori discontinui di semplice attesa e custodia. In base a tali norme ne rimangano al di fuori anche i riposi intermedi fruiti dai lavoratori sia all’interno che all’esterno dell’azienda, a condizione che siano prestabiliti ad ore fisse e indicati nell’orario di lavoro26. Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione27 la quale ha ritenuto che i riposi intermedi vadano esclusi dalla nozione di lavoro effettivo, non solo se non vi è prestazione di attività ma anche quando essi comportino per il di pendente la facoltà di disporre a propria discrezione del tempo libero ancorché con l’obbligo di restare nell’ambito del posto di lavoro.

L’art. 5 del decreto 1955 del 23’ dispone che neanche il tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro28 rientri nel concetto di lavoro effettivo. In quest’ultimo caso, infatti, il tempo utilizzato per raggiungere il luogo di lavoro, anche se speso durante una trasferta ed indipendentemente dal tipo di trasporto utilizzato dal lavoratore, rimane estraneo all’attività lavorativa e pertanto non può essere computato nel normale orario di lavoro del quale potrebbe costituire un prolungamento. Tale spazio temporale, conseguentemente, non può essere

26 Su tale punto è intervenuto anche il legislatore comunitario che all’art. 3 della direttiva 104 del ’93 ha stabilito che il lavoratore, qualora l’orario giornaliero superi le 6 ore, ha diritto ad una pausa, le cui modalità, la cui durata e condizioni di concessione sono fissate da contratti collettivi o accordi tra le parti sociali, o, in loro assenza, dalla legislazione nazionale.

27 Cfr. Cass. 19 febbraio 1985, n. 1462, in Or. Giur. Lav., p. 819; Cass. 2 aprile 1986, n. 2268, in Rep. Foro.

it, 1986, c. 1172, n. 1132.

28 Lo stesso art. 5 del decreto n. 1955 del ’23 ha, peraltro, previsto che, nelle miniere e nelle cave, in ragione delle particolari difficoltà necessarie a raggiungere il posto di lavoro, la durata della prestazione venga computa all’entrata e all’uscita dal pozzo.

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né qualificato né retribuito come lavoro straordinario29. Questa regola però viene meno nel caso in cui il tempo del viaggio sia inscindibilmente connaturato alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e sia quindi imposto dal tipo di lavoro effettuato. A conferma di tale orientamento è infatti intervenuta recentemente anche la Suprema Corte30 che a sua volta, con una serie di sentenze, ha sostenuto che il tempo impiegato per raggiungere il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa resta estraneo all’attività lavorativa vera e propria e che quindi non si somma al normale orario di lavoro, ad eccezione però del caso in cui il tempo del viaggio risulti essere funzionale alla prestazione lavorativa, circostanza nella quale tale tempo non solo rientra a tutti gli effetti nell’attività lavorativa ma deve anche essere sommato al normale orario di lavoro come straordinario.

Sono altresì escluse dall’orario di lavoro effettivo le operazioni di marcatura del cartellino segnatempo31 nonché quelle necessarie per indossare o dismettere gli indumenti di lavoro. Quest’ultimo tema però, è risultato nel tempo assai

29 Cfr. Cass. 21 novembre 1985, n. 5745, in Mass. Giur. Lav., 1986, p. 61, secondo la quale va escluso che spetti, in tal caso, il compenso per lavoro straordinario trattandosi di un disagio extralavorativo risarcibile a diverso titolo; contra Pret. Milano 12 giugno 1992, in Dir. Prat. Lav., n. 35, 1992, 2409, secondo il quale lo spostamento da una località all’altra rappresenta una normale modalità di espletamento della prestazione lavorativa e ove prolunghi l’orario lavorativo ordinario, dà titolo al compenso per lavoro straordinario.

30 Cass. sez. lav. 9 dicembre 1999, n. 13804, in Rass. Giur. Civ. annotata, 2000, n. 4, p. 410 nella quale la Corte, stabilendo che il tempo del viaggio rientri nell’attività lavorativa solo nel caso nel quale esso sia funzionale rispetto alla prestazione, ha voluto precisare che tale carattere sussiste solo quando il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta inviato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa; nello stesso senso cfr. Cass.1° settembre 1997, n. 8275, in Not. Giur. Lav., 1997, 753; Cass. 7 giugno 1996, n. 5323, in Not. Giur Lav., 1996, 543; per quanto riguarda la giurisprudenza di merito v. Trib. Milano 8 settembre 1993, in Or. Giur. Lav., 1993, 697.

31 Cass., 25 maggio 1983, n. 3629, in MGL, 1984, 45, e GC, 1984, I, 1601.

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controverso, infatti, sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità hanno più volte cambiato orientamento. Recentemente il tribunale di Torino32, incentrando la sua attenzione sull’art. 2, punto 1 della direttiva 93/104, che definisce come orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, è giunto alla conclusione che il tempo impiegato dal dipendente per lo svolgimento di operazioni propedeutiche all’attività lavorativa non rientra nella nozione di orario di lavoro effettivo, qualora si tratti di fasi temporali gestite dal lavoratore e sottratte al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, il quale pertanto decorre dal momento in cui il lavoratore si trova sul proprio posto di lavoro e inizia l’attività richiestagli.

Sul versante della giurisprudenza di legittimità, ultimamente la Cassazione33, decidendo circa il ricorso di alcuni lavoratori che erano stati sanzionati per aver timbrato il cartellino prima di indossare il camice, ha affermato, contraddicendo un precedente orientamento, che “il lavoratore, entrando nello stabilimento, si sottopone già al potere direttivo dell’imprenditore” e che “avendone

32 Vedi Trib. Torino 14 luglio 1999, in Foro it. 1999, I, 3610; nello stesso senso si vedano anche Pret. Roma 25 gennaio 1985, in Or. Giur. Lav., 1986, 121; in tal senso contrario si veda Trib. Milano 10 giugno 1995, in Or. Giur. Lav., 1995, 370; Trib. Milano 9 febbraio 1996, ne il Lavoro nella giurisprudenza 1996, n. 6, 501;

Trib. Milano 4 giugno 1994, in Or. Giur. Lav., 1994, 351; Trib. Milano 7 aprile 1993, in Or. Giur. Lav., 1993, 857; Pret Milano 9 luglio 1993, in Riv. Crit. Dir. Lav., 1994, 15; Pret. Milano 4 marzo 1992, in Riv. Critica dir.

Lav., 1992, p. 637.

33 Cass. 14 aprile 1998, n. 3763, in Riv. Giur. Lav., 1999, 169; nel senso contrario si veda Cass. 22 aprile 1992, n. 4824, in Inf. Prev., 1992, 889, che ha considerato l’attività di vestizione e di svestizione come una semplice attività preparatoria o accessoria dell’obbligazione lavorativa in senso stretto; Cass. 25 maggio 1983, n. 3629, in Giust. Civ., 1984, I, p. 1601.

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l’imprenditore prescritto l’uso, il camice è strumento indispensabile per prestare il lavoro, per cui appare evidente che il tempo per indossarlo rientra a buon diritto nell’orario di lavoro essendo anche manifestazione di soggezione a quel potere. In ogni caso qualunque sia l’interpretazione che si voglia dare di questa sentenza della Cassazione risulta evidente che il discrimine tra lavoro effettivo ed attività preparatorie vada ricercato nella sottoposizione al potere direttivo dell’imprenditore, sottoposizione che per lo più inizia con l’attività lavorativa vera e propria34.

L’art. 5, al n. 3 stabilisce poi che siano da considerare non incluse nel concetto di lavoro effettivo le eventuali soste di lavoro, di durata non inferiori a 10 minuti e complessivamente non superiori a 2 ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione al lavoratore, con eccezione per le pause concesse nelle attività faticose allo scopo di ripristinare nel lavoratore le condizioni fisiche necessarie per riprendere il lavoro (art. 5 r.d. n. 1955/1923; tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore art. 2087 e art. 9 Stat. Lav.).

Per quanto riguarda le soste di durata brevissima inferiori a 10 minuti, saltuarie ed occasionali, che non consentono al lavoratore la piena disponibilità

34 FIGURATI S., Brevi osservazioni in tema di tempo di lavoro effettivo, in Mass. di Giur. Lav., n. 8-9 1999, p. 932; TRIFIDO S., FAVALLI G., ROTONDI F., Incidenza del c.d. “tempo tuta” sulla determinazione della retribuzione dovuta, in Dir. Prat. Lav., 1999, 43, 3073.

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di quel tempo libero, si deve ritenere che esse siano da considerarsi come pause interne alla prestazione35.

La differenza tra questo tipo di soste implicanti la semplice temporanea inattività (computabili ai fini della durata del lavoro) e i riposi intermedi (non computabili a tali fini), ravvisabili laddove sussista la facoltà del dipendente di disporre a sua discrezione del tempo libero, sebbene possa in ogni caso essere sottoposto all’obbligo di permanenza all’interno dell’azienda, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore: nel primo caso pur essendo inoperoso è obbligato a tenere disponibile la propria forza lavoro, nel secondo ha la piena disponibilità del tempo 36.

Non è, poi, compresa nella nozione di lavoro effettivo la c.d. “reperibilità fuori orario”, consistente nell’obbligo per il lavoratore di porsi in condizione di essere rintracciato, fuori orario di lavoro, per un’eventuale prestazione lavorativa richiesta dal datore di lavoro37. La reperibilità, a causa della sua natura di obbligo a carattere negativo, è sottratta all’applicazione della disciplina limitativa dell’orario di lavoro, e, pur consistendo sicuramente in una limitazione della libertà di disporre del proprio tempo a vantaggio del datore di

35 Per un caso di ampliamento convenzionale dell’estensione di una pausa interna rispetto al limite di cui al R.D. n.1955, v. Trib. Bolzano 21 febbraio 1983, in Or. Giur. Lav., 1984, p. 350.

36 MORMILE P., Il tempo della prestazione di lavoro, in Letture dei Diritto del Lavoro a cura di MAGRINI S. e PESSI R., Torino, Giappichelli, 1996, pp. 174-175.

37 Cass. 7 giugno 1995, n.6400, in Dir..Prat..Lav. 1996, 255.

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lavoro, non costituisce però prestazione lavorativa, visto che essa difetta delle caratteristiche dell’applicazione assidua e continuativa38.

Rientrano invece nel lavoro effettivo, ai fini dell’applicazione dei limiti in materia di orario, i “lavori preparatori e complementari” (come ad esempio manutenzione degli attrezzi e delle macchine, di collaudo straordinario, di preparazione delle materie per la lavorazione o di inventario (artt. 6, R.D.L. n.

692/1923 e 10, R.D. n. 1955/1923). È ammessa deroga all’applicazione della disciplina limitativa qualora tali lavori “debbano essere eseguiti al di fuori dell’orario normale delle aziende” (R.D.L. n. 629 del 1923, art. 6), ma solo in situazioni straordinarie e occasionali (r.d.l. n. 1955 del 1923, art. 10), perché altrimenti non sarebbe conciliabile con il principio della limitazione legale del 2° comma dell’art. 36 Cost.

38 FIGURATI S., Ancora in tema di tempo di lavoro effettivo: è retribuibile la mera disponibilità del dipendente? In Mass. Giur. Lav., Dicembre 1999, n. 12, p. 1338.

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4 I lavoratori esclusi dai limiti di orario

L’espressione “lavoro effettivo” contenuta nell’art. 3 del Regio decreto legge, secondo l’opinione di parte della dottrina39, assume un significato del tutto diverso rispetto a quello descritto e proprio dell’art. 1. Mentre infatti in quest’articolo essa si riferirebbe al periodo in cui si svolge effettivamente la prestazione lavorativa, ossia il lavoro in senso stretto, distinguendola dagli intervalli di sosta e riposo, che sono un vero e proprio tempo libero, e che interrompono la giornata lavorativa, il lavoro effettivo considerato nell’art. 3 indicherebbe invece “ogni lavoro che richieda un’applicazione assidua e continuativa”, distinguendolo da prestazioni che “richiedono per loro natura o per la particolarità della situazione, un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia”, e che come tali sono totalmente escluse dall’applicazione del limite massimo di orario40. A tal fine vengono considerati discontinui i lavori implicanti un’alternanza di periodi di attività e di sosta; di attesa quelli caratterizzati da prestazioni non intense e limitatamente usuranti anche se continuative; di custodia quelli con mansioni di vigilanza. Altra parte della

39 Cfr. sul punto CASSI V., La durata della prestazione di lavoro, vol. I, Milano, 1959, pp. 44-45;

CORRADO R., Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, p. 137.

40 ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, pp.287-290.

Il legislatore del 1923 con tale esclusione ha voluto attribuire un peso maggiore all’esigenza di tutela dei lavoratori, rispetto a quella di tutela del tempo libero, infatti ritenendo il lavoro dell’operaio più faticoso di quello del custode o dell’usciere, lo ha tutelato con una disciplina dell’orario più rigorosa.

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dottrina41, al contrario, discostandosi da tale interpretazione sostiene che l’espressione “lavoro effettivo” acquisterebbe lo stesso significato sia nell’art. 1 che nell’art. 3. Questa soluzione, che avrebbe come conseguenza l’assoggettamento delle attività “discontinue” al vincolo temporale, non è accettabile a causa del palese contrasto che si verificherebbe con il chiaro intendimento del legislatore, risultante dall’art. 3 del R.D. 6 dicembre 1923 n.

2657 emanato in sua attuazione, che evidenzia la “tabella indicante le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, alle quali non è applicabile la limitazione dell’orario sancita dall’art. 1 del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692”. Tale orientamento, accolto dalla dottrina prevalente42, è stato da sempre sostenuto anche dalla Cassazione43 la quale, in ragione del carattere pubblicistico degli interessi tutelati, ha considerato l’elenco delle attività risultanti dalla tabella tassativo44 e non suscettibile

41 BARASSI L., Il diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, pp. 377-378; RIVA SANSEVERINO L., Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, in Commentario del cod. civ. a cura di SCIALOJA A. e BRANCA G., V, Roma, Zanichelli, 1977, p. 407; BALLESTRERO M.V., Orario di lavoro, in EncG.

Dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 624-626; PERA G., Diritto del lavoro, Padova, 1988, pp. 608-609.

42 SELVAGGI C., Efficacia delle di lavoro discontinui, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1946, II, pp. 652-653;

BARASSI L., Il diritto del lavoro, vol. II, Milano, 1949, p. 379; CASSì V., La durata della prestazione di lavoro, vol. I, Milano, 1959, p. 48; RIVA SANSEVERINO L., Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, in Commentario del cod. civ. a cura di SCIALOJA A. e BRANCA G., V, Roma, Zanichelli, 1977, pp. 349-350; BALLESTRERO M. V, Orario di lavoro, in EncG. Dir., vol. XXX, 1980, Milano, Giuffrè, p. 626.

In senso contrario v. ROSINI E., Orario di lavoro e straordinario, in Riv. Giur. Lav., I, 1995, pp. 109-111;

ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 288-290.

43 Cass. 22 sett. 1979, n. 4908 in Giust. Civ., I, 1980, p. 403; Cass. 26 giugno 1980, n. 4026, in MGC, 1980;

Cass. 6 novembre 1982, n. 5823, in Giust. Civ., 1983, I, p. 1547; Cass. Pen. 6 luglio 1994, n. 7615, in Mass.

Giur. Lav., 1994, 692.

44 Contro tale orientamento si è schierato ICHINO, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol.

II, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 289-291, in cui ritiene che la tabella nella quale sono elencate le attività

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d’interpretazione analogica e pertanto vincolante per il giudice. In ogni caso deve ritenersi costituzionalmente regolare la sottrazione ai limiti massimi d’orario delle attività tabellate nel R.D. 2657/1923, a condizione però che le caratteristiche del rapporto non richiedano determinate garanzie.

L’art. 36, 2° co., Cost., difatti, anche se da un lato non obbliga il legislatore alla fissazione di un tetto della giornata lavorativa uniforme, per ogni tipo di lavoro o categoria, dall’altro, allo stesso tempo, gli impone, ove tale soglia manchi, di stabilire un limite temporale per la prestazione lavorativa deducendolo dall’ordinamento in applicazione del principio costituzionale di tutela dei lavoratori45.

Oggi però non si può più ammettere che la disciplina limitativa dell’orario sia giustificata ed estesa solo in quei settori dove l’eccessiva durata della prestazione possa pregiudicare la salute del lavoratore, senza considerare l’importanza della salvaguardia del tempo libero. Anche se la contrattazione collettiva46 ha di fatto provveduto ad assoggettare i lavoratori discontinui a

discontinue o di semplice attesa e custodia non può avere carattere tassativo, in quanto emanata in sede regolamentare, ossia non è la legge del 1923 ma il primo dei suoi regolamenti di attuazione (R.D. n. 1955, art.

6) ad attribuire al Governo il compito predisporre ed emanare la tabella. In caso contrario, ossia ritenendola tassativa, si violerebbe la riserva di legge dell’art. 36 Cost. in quanto si sarebbe trasferita la competenza della sede legislativa a quella regolamentare. Ritiene inoltre che il carattere effettivamente discontinuo della prestazione possa essere sottoposto a controllo giudiziale, ogni volta che il datore pretenda l’esenzione dal limite dell’orario; la mancata inclusione di un’attività nella tabella non può escludere che essa possa configurarsi come attività discontinua, o di semplice attesa e custodia, secondo la previsione dell’art. 3 della legge n. 692 del 1923.

45 Corte Cost. ord. 20-12-1979, n.155, Gcost. 1979, I, 1152.

46 Cfr. ad esempio il C.C.N.L. 1 settembre 1983 per le aziende metalmeccaniche private, parte op. art. 28; il C.C.N.L. 13 marzo 1983 per le aziende chimiche, parte op., art. 30.

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vincoli d’orario ragionevoli, in vista delle preminenti esigenze di integrità fisio- psichica, di vita di relazione, familiare o sociale del lavoratore, non può più considerarsi giustificata l’esclusione di tali lavoratori dall’applicazione del principio costituzionale della determinazione legislativa dell’orario massimo.

Dottrina47 e giurisprudenza48, poi, ritengono che, nel caso in cui tale limite non sia stato fissato nei contratti collettivi, spetti al giudice sia di determinarlo sia di controllarne la ragionevolezza, valutando le circostanze secondo equità49; ad ogni modo a tali lavoratori spettano le maggiorazioni retributive per le ore eccedenti il limite massimo, fissato dal contratto collettivo o dal giudice50.

È necessario però notare come si crei una sostanziale ambiguità della fattispecie, qualora vengano assommati compiti di carattere continuativo a mansioni discontinue, tale da rendere a questo punto ipotizzabile il rientro nell’area dei limiti massimi d’orario di questa fattispecie. La sottrazione del rapporto a quest’ultima zona, però, richiede che le mansioni intermittenti svolte

47 D’EUFEMIA G. “L’orario di lavoro e i riposi”, in trattato di diritto del lavoro, vol. III, La disciplina organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p. 223; BALLESTRERO M.V., “Orario di lavoro”, Enc. Dir., vol.

XXX, Milano, Giuffrè, 1980, p. 626; TREU T., Commento all’art. 36, in Com. Cost., Tomo I, artt. 36-40, Bologna-Roma, 1979, p. 136.

48 Corte Cost. 22 dicembre 1976, n. 255, in Not. Giur. Lav., 1977, p. 52; Cass. 10 giugno 1982, n. 3493, in Rep. Foro it., 1982, c. 1615, n. 299; Pret. Torino 20 marzo 1985, in Riv. It. Dir. Lav., 1986, II, p. 531.

49 Per ICHINO P. L’orario di lavoro e i riposi, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 32 l’intervento del giudice in caso di lacune legislative e in mancanza di contratti collettivi contrasta con la riserva di legge dell’art.36 Cost. 2° co., e con l’art. 2107 c.c. Unica soluzione sarebbe quella di considerare abrogata dall’art. 2107 la derogaprevista dal decreto legge n. 692 per i lavori discontinui, e quindi assoggettarli al limite delle 48 ore settimanali. In tal senso si è espresso anche TREU T, Commento all’art. 36, in Com. Cost., Tomo I, artt. 36-40, Bologna-Roma, 1979, p. 133.

50 Cass. 11 febbraio 1980, n. 987, in Not. Giur. Lav., 1980, p. 601; Cass. 11 marzo 1983, n. 1847, in Rep.

Foro. It., 1983, c. 1820, n. 1345; Cass. 28 aprile 1983, n. 2934, in Rep. Foro. It., 1983, c. 1819, n. 1345; Cass.

25 ottobre 1983 n. 6290, in Rep. Foro It., 1983, cc. 1819-1820, nn. 1343-1344.

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dal lavoratore rientrino con certezza nelle attività tassativamente tabellate nel R.D. 2657/1923.

Ad ogni modo i casi di esclusione dalla disciplina limitativa dell’orario non sono limitati solamente ai lavori discontinui o di semplice attesa o custodia. Il secondo e il terzo comma dell’art. 1 del decreto legge del 1923, infatti, individuano i settori e le categorie professionali che rimangono escluse dalla disciplina legislativa generale dell’orario, distinguendo quelle che sono regolate da una disciplina legislativa speciale, da quelle per le quali invece manca assolutamente una disciplina dell’orario.

Ai sensi del 2° co. dell’art. 1 R.D.L. n. 692 del ‘23, pertanto, la disciplina limitativa dell’orario non viene applicata al lavoro domestico che, a differenza delle altre categorie menzionate da questo articolo, ha trovato successivamente la sua regolamentazione nella legge 2 aprile 1958 n. 33951, che ha previsto per esso dei vincoli d’orario.

L’art. 8 della legge del 1958 impone difatti al datore di concedere al collaboratore domestico 8 ore consecutive di riposo notturno da aggiungere ad

“un conveniente riposo durante il giorno”, prevedendo anche la possibilità di richiedergli prestazioni notturne, a cui però deve corrispondere un riposo compensativo diurno. Ne consegue una durata della giornata lavorativa molto incerta e irragionevolmente superiore a quella vigente per altri lavoratori. La

51 Secondo la legge n. 339 del 1958 “si intendono per addetti ai servizi personali domestici i lavoratori di ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare, sia che si tratti di personale con qualifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche”.

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norma, in riferimento agli artt. 3, 32, 36 della Cost52, non sembra quindi sfuggire alla censura di incostituzionalità.

Nell’art. 1 del decreto sono poi menzionate le categorie per le quali, oltre ad essere escluse dalla disciplina generale, manca anche una qualsiasi disciplina in materia di orario. Esse sono quelle dei commessi viaggiatori e del personale direttivo.

I motivi ispiratori di queste deroghe sono rintracciabili nella sostanziale incompatibilità dei limiti massimi di orario con queste mansioni caratterizzate da una rilevante fungibilità tra durata ed intensità. In tale ottica, infatti, compete solamente al lavoratore di organizzarsi adeguatamente, venendo negata invece al datore ogni possibilità di controllo o di ingerenza sulle modalità temporali della prestazione.

I commessi viaggiatori o rappresentanti di commercio, che godono pertanto di ampia discrezionalità nella determinazione dei tempi della propria attività, rimanendo esenti dai controlli del datore, ad eccezione dell’eventualità in cui l’estensione temporale sia determinata contrattualmente, sono esclusi dall’ambito del decreto e da ogni limitazione d’orario massimo. Stante il carattere straordinario della disciplina, ad avviso della Suprema Corte intervenuta recentemente in materia53, essa si applica solo ai lavoratori le cui attività, strumentali ed accessorie al commercio dell’azienda committente,

52 ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 295;

questa opinione è condivisa anche da TREU T., Commento all’art. 36, 1979, p. 136.

53 Cass. civ. sez. lav., 9 novembre 1998, n. 11216, in Rep. Foro It., 1998, c. 1336, n. 1061.

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siano coordinate alla realizzazione del commercio stesso, rimanendone conseguentemente esclusi quelli che, oltre a tali incarichi, sommino anche mansioni ulteriori e diverse. In ogni caso anche la prestazione di questa categoria di lavoratori può essere assoggettata, in assenza di tetti massimi d’orario, ad un controllo di ragionevolezza sotto l’aspetto della sua possibile eccessiva gravosità o idoneità usurante. Qualora l’accertamento abbia esito positivo anche per tali lavoratori sorge il diritto alla maggiorazione per lavoro straordinario54.

L’art. 2 del R.D.L. 692 del 1923 nel 1° co. esclude un’altra categoria dall’applicazione della disciplina generale, quella dei lavoratori agricoli non avventizi, per la quale rinvia alle disposizioni emanate dal ministro del lavoro di concerto con quello dell’agricoltura “in sede di regolamento”. La disciplina regolamentare risultante dal R.D. 10 settembre 1923 n. 1956 però, mentre da un lato estende a tutti i salariati agricoli il campo di applicazione della legge, dall’altro invece non fissa la disciplina da applicare al personale impiegatizio il cui orario di lavoro rimane così non soggetto ad un limite massimo, disattendendo di conseguenza la norma in applicazione della quale è stato emanato. In ogni caso, in mancanza di una disciplina legislativa, è stato

54 Cass.18 gennaio 1983, n. 456, in Rep. Foro It., 1983, c. 1819, n. 1336.

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stabilito, ad opera della contrattazione collettiva, un limite di 40 ore settimanali sia per gli operai che per gli impiegati delle aziende agricole55.

Il 2° co. dell’art. 2 esclude dalla disciplina, in riferimento al solo settore agricolo, i contratti a compartecipazione e i contratti di mezzadria e colonia parziaria.

Nel 3° co. sono esclusi “i lavori eseguiti a bordo delle navi” e “gli uffici ed i servizi pubblici, anche se gestiti da assuntori privati”, che sono regolati da

“separate disposizioni” a carattere speciale.

Per i lavoratori marittimi, intendendosi per tali i soli lavoratori che fanno parte dell’equipaggio, fatta eccezione per gli addetti alla navigazione interna, l’orario, è regolato dalla Convenzione O.I.L. n. 109 del 14 maggio 1958, per effetto della relativa legge di ratifica 10 aprile 1981, n. 157 che differenzia i limiti d’orario in rapporto al tipo di servizio, ai periodi di navigazione ed a quelli di sosta nei porti.

Nel settore del pubblico impiego, il D.lgs. n. 29 del 1993 demanda la determinazione dell’orario di lavoro alla contrattazione collettiva, che doveva in ogni caso tener conto dell’orario di servizio stabilito da questo decreto legislativo56.

55 Questo limite, è stato istituito per la prima volta a livello nazionale per gli operai delle aziende agricole e flarovivaiste dall’art. 11 del CCNL. 20 gennaio 1977, e per gli impiegati delle stesse aziende dall’art. 8 del CCNL. 4 febbraio 1976.

56 Per il personale non dirigente del comparto Ministeri, Enti pubblici non economici, Aziende dell’amministrazione statale, Ricerca, Università vige l’art. 25 del CCNL del 16 febbraio 1999, per cui l’orario di lavoro è di 36 ore settimanali; per il personale non dirigente del comparto Regioni ed Autonomie locali vige l’art. 22 del CCNL del 1 aprile del 1999, per cui l’orario di lavoro settimanale è di 35 ore settimanali; per il

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Per quanto riguarda i servizi pubblici, anche se gestiti da assuntori privati, vale la disciplina speciale emanata per i servizi di trasporto57.

Per gli altri servizi pubblici non esiste alcuna disciplina in materia di orario, perciò deve ritenersi applicabile il r.d.l. n. 692 del 1923, interpretando il 3°

comma dell’art. 1 in armonia con l’art. 2107 c.c. e con l’art. 36 Cost., nel senso di escludere dalla disciplina generale solo quei servizi pubblici per i quali esistano separate disposizioni.

Per alcune categorie di lavoratori, quali gli apprendisti, i minori, e gli studenti lavoratori, è previsto un regime differenziato della durata giornaliera e settimanale della prestazione58. La legge 17 ottobre 1967 n. 977 (art. 18) stabilisce per i fanciulli (fino a 15 anni) un limite orario di 7 ore giornaliere e 35 ore settimanali e per gli adolescenti (tra i 15 e i 18 anni) di 8 ore giornaliere e 40 ore settimanali. Le eccezioni ai limiti d’orario stabilite da questa legge hanno sicuramente carattere tassativo. Pertanto al di fuori di questi casi,

personale non dirigente del comparto Istituzioni ed Enti di ricerca vige l’art. 5 del CCNL del 7 ottobre 1996 per cui l’orario di lavoro settimanale è di 36 ore; relativamente all’orario di lavoro dei dirigenti essi nell’ambito dell’assetto organizzativo dell’amministrazione organizzano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro corredandoli in modo flessibile alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all’espletamento dell’incarico affidato alla loro responsabilità, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare.

57 Per gli addetti ai servizi di trasporto in concessione la durata media normale della giornata non deve eccedere le 8 ore di lavoro effettivo (R.D.L. 19 ottobre 1923 n. 2328). Per il personale degli automezzi pubblici di linea extraurbani per il trasporto di viaggiatori si fa una distinzione tra personale non viaggiante, soggetto al R.D.L. n. 692 del 1923, e personale viaggiante soggetto ai limiti delle 8 ore giornaliere o 48 ore settimanali di lavoro effettivo.

58 ICHINO P., L’orario di lavoro e riposi, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 41-43.

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l’adolescente non può essere impiegato, anche in lavori discontinui oltre le ore stabilite dalla predetta legge speciale59.

La legge 19 gennaio 1955 n. 25, invece, (art. 10) regola la durata di lavoro degli apprendisti fissandola in 8 ore giornaliere e 44 settimanali (che comprendono anche le ore destinate all’insegnamento complementare).

Orientamenti contrastanti sono riscontrabili sia in dottrina che in giurisprudenza con riguardo alla posizione degli apprendisti infradiciottenni (fanciulli o adolescenti). La legge 977 del 1967 dispone in maniera protettiva e quindi sembra preferibile adottare la soluzione restrittiva applicando i limiti previsti da questa medesima.

I lavoratori studenti invece sono tutelati dall’art. 10 dello Statuto dei lavoratori, che assicura il diritto a turni di lavoro agevolati che consentano la frequenza dei corsi e la preparazione degli esami, stabilendo anche che costoro non possano essere vincolati all’effettuazione dello straordinario.

59 Cass. pen. sez. III 15 maggio 1985, in rep. Foro It., 1986, c. 1768, n. 1099.

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5 La questione del personale direttivo

Diverso è il caso del personale direttivo60. Una prestazione di natura direttiva (sia questa del dirigente o dell’impiegato con funzioni direttive) difficilmente può essere concepita senza l’inserimento del dirigente nella organizzazione produttiva. Questa necessità implica di conseguenza la possibilità pratica di controllo da parte del datore dell’orario di lavoro del dirigente da parte del datore, pur godendo quest’ultimo di una notevole discrezionalità nella gestione del proprio orario. Questa capacità d’iniziativa ed autorganizzazione del dirigente, se da una parte non si concilia con il vincolo d’orario in termini di predeterminazione della collocazione temporale della prestazione (ossia la rigida fissazione dell’orario di inizio e di termine del lavoro), dall’altra non contrasta neanche con la predeterminazione della sua estensione massima.

60 La norma regolamentare dell’art. 3, n. 2, R.D. 10 settembre 1923 n. 1955, definisce il personale direttivo come quello preposto alla direzione tecnica e amministrativa dell’azienda o do un reparto di essa, con la diretta responsabilità nell’andamento dei servizi ossia gli institori, i gerenti, i direttori tecnici o amministrativi i capi ufficio e i capi reparto che svolgono soltanto eccezionalmente lavoro manuale, esclusi i commessi di negozio o gli altri impiegati di grado comune di cui al n. 3 dell’art. 3 d.l. 9-2-1919 n. 112 e coloro che, pur essendo adibiti alla direzione tecnica di una lavorazione concorrono, con prestazione d’opera manuale, alla esecuzione di essa.

Si tratta quindi di un gruppo ben più ampio rispetto a quello dei dirigenti, coincidendo a grandi linee con l’area definita dalla legge. 13 maggio 1985, n. 190, che riconosce la categoria dei quadri. In giurisprudenza sul punto si veda Cass. sez. civ. 10 febbraio 2000, n. 1491, in Rass. Giur. Civ., n. 9, 2000, 1024 ; Cass. 14 gennaio 1984, n. 323, in Arch. Civ., 1984, 758; Cass. 27 luglio 1982, n. 3971, in Not. Giur. Lav., 1982, 420.

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Parte della dottrina61 ravvisa la ratio dell’esclusione nel carattere discontinuo e meno usurante di questo tipo di attività, anche se questo non può essere facilmente condiviso, non potendosi ritenere essa meno assidua, continuativa e stressante di quella di qualsiasi impiegato di concetto. È probabilmente più condivisibile la tesi che giustifica l’esclusione a causa della maggiore capacità del dirigente di difendere la propria salute o la propria esigenza di vita, di fronte alle pretese del datore inerenti la durata della prestazione62. Deve essere però sottolineato che tale potere non è proprio di tutto il personale direttivo, ma solo dei dirigenti veri e propri. Spesso, infatti, il personale direttivo intermedio, quali capi ufficio e capi reparto, è in una posizione di particolare soggezione nei confronti dell’imprenditore. Questa circostanza potrebbe quindi legittimare l’assoggettamento di tali categorie di lavoratori al regime generale, stante l’eccessiva ampiezza della definizione regolamentare rispetto a quella desumibile dalla normativa. In ogni caso la maggior forza contrattuale dei dirigenti non può essere considerata da sola ragione sufficiente per l’esclusione di tale categoria da qualsiasi limite di orario. Non è comunque consigliabile, per evidenti ragioni di opportunità, un intervento legislativo speciale in materia, perché potrebbe causare innumerevoli contenziosi giudiziari riguardanti il

61 Così CORRADO R. Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, p. 134; CASSì V., Personale direttivo e limitazione dell’orario di lavoro, Torino, 1969 p. 97; D’EUFEMIA G., L’orario di lavoro e i riposi, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da BORSI U. e PERGOLESI F., vol. III, La disciplina organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p.214.

62 ICHINO P., L’orario di lavoro e i riposi,, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 34; ROMAGNOLI U., “La prestazione di lavoro nel contratto di Società”, Milano, 1967, pp. 205-206.

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passato, divenendo invece auspicabile un intervento della contrattazione collettiva che sia mirato all’istituzione di una disciplina speciale dei limiti di orario per il personale direttivo63.

La Corte Costituzionale64 ha quindi dichiarato che un limite di orario legale non sussiste per questo tipo di lavoratori che, in ragione del carattere fiduciario delle funzioni inerenti alla categoria, connotate da poteri di autonoma iniziativa, comportanti frequenti interruzioni e discontinuità di applicazione lavorativa, usufruiscono “di una retribuzione commisurata non tanto alla quantità del lavoro prestato, bensì alla qualità di tale lavoro che non sembra suscettibile di stima e di remunerazione commisurata ad ore”.

La Corte ha però affermato che anche per il personale direttivo esiste un limite quantitativo globale, ancorché non stabilito dalla legge o da un contratto collettivo, rinvenibile negli artt. 32 e 36 Cost., in relazione alla necessaria tutela della salute e dell’integrità psicofisica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori. La fissazione di un tetto è pertanto ammessa sia da parte negoziale sia da parte del giudice cui compete il controllo sulla ragionevolezza della durata delle prestazioni pretese dall’imprenditore. Successivamente la Cassazione, sulla base di questi principi, da un lato ha ritenuto ammissibile la determinazione di una durata massima normale dell’orario di lavoro al fine di

63 ICHINO P., L’orario di lavoro e i riposi, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 36.

64 Corte Cost., 7 maggio 1975, n. 101, in RGL, 1975, II, 335; Id. (ord.), 20 dicembre 1979, n. 155, in Gcost, 1979, I, 1152.

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