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La metamorfosi della Presidenza della Repubblica

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752 Direttore responsabile: Antonio Zama

La metamorfosi della Presidenza della Repubblica

14 Dicembre 2021 Luana Leo

La pandemia da Covid-19 ha posto in luce l’importanza e incisività del Capo dello Stato in Italia, figura super partes, contraddistinta da una funzione di moderazione e di stimolo nei confronti degli altri poteri.

Dalla relazione preliminare del giurista Costantino Mortati alla seconda sottocommissione del 3 settembre 1946 emerge la volontà della Costituente di pervenire a una figura presidenziale “garante”, esterna all’attività politica affidata al raccordo maggioranza parlamentare-Governo, senza però escludere allo stesso Presidente un ruolo attivo e dinamico.

In particolare, i caratteri della figura presidenziale immaginata dai Costituenti sono riportati nella relazione dell’on. Ruini all’Assemblea sul progetto di Costituzione (6 febbraio 1947).

Al Presidente della Repubblica si riconosce il ruolo tipico dell’istituzione monarchica, quello di rappresentare l’unità e la continuità dello Stato; in qualità di organo monocratico, egli è chiamato ad esprimere la volontà unitaria dello Stato sia verso l’interno sia verso l’esterno, in chiave simbolica e giuridica.

A tale figura, altresì, sono accordati poteri imputabili al più generale fine della razionalizzazione del sistema, così da garantire l’equilibrio dei poteri e diretti a consentire alle maggioranze di governo l’attuazione dell’indirizzo politico, senza però sovrapporsi ad essa.

Tale prospettiva trova riscontro in una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 1/2013): il Presidente della Repubblica è un organo super partes, poiché inquadrato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato, e ovviamente, al di sopra di tutte le componenti politiche, le cui competenze non gli consentono di adottare decisioni in ordine a specifiche materie, ma di sollecitare gli ulteriori poteri costituzionali ad esercitare adeguatamente le proprie funzioni. In concreto, con tale sentenza, la Consulta rigetta la prospettiva di un Presidente “governante”.

Tuttavia, la sempre più crescente incidenza dello stesso sull’attività politica nazionale degli ultimi anni, in considerazione delle turbolenze politiche, ha accentuato un ruolo nettamente “governante”.

Come risaputo, con la Presidenza di Giorgio Napolitano, si è giunti ad una puntuale teoria del ruolo presidenziale: egli rileva in Italia “un clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune”, dal quale affiora chiaramente “un’ancora insufficiente maturazione nel nostro paese del modello di rapporti politici e istituzionali già consolidatosi nelle altre democrazie occidentali”.

In tale senso, il Presidente “più longevo” della Repubblica Italiana reputa necessario arrivare a quel “ reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli opposti schieramenti”, a quel “confrontarsi con dignità in Parlamento e nelle altre assemblee elettive”, a quella individuazione dei “temi di necessaria e possibile limpida convergenza nell’interesse generale” che garantirebbero “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza in Italia”.

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Oltre ad illustrare le tematiche sulle quali ritiene opportuno “sperimentare” il dialogo tra le parti politiche (es. i notevoli problemi rimasti “in sospeso” nell’amministrazione della giustizia, la revisione della legge elettorale), lo stesso invita a formulare elogi per i pochi segni riscontrabili nella cooperazione tra le due coalizioni (es. decisioni internazionali, l’approvazione con ampia maggioranza dei decreti legge). Tale compito così decisivo è esercitato come funzione di monito, di persuasione, di stimolo, mediante atti rivolti non solo ai poteri istituzionali ma anche ai poteri pubblici.

In realtà, la Presidenza di Giorgio Napolitano capitalizza i lasciti della storia precedente: sin dai tempi di Pertini, le dichiarazioni pubbliche, espressione del potere di esternazione, assumono rilievo in ragione di una classe politica volta a soddisfare esclusivamente propri interessi.

Di fronte a un Parlamento “cristallizzato” e rispetto a un Governo non sempre congiunto intorno al Presidente del Consiglio dei Ministri, si colloca un Presidente della Repubblica che interviene reclamando il rispetto della Costituzione e un rapporto solido con la comunità. Da qui sorgono talune perplessità in ordine alla deviazione dai compiti di garante.

Tuttavia, da un’accurata analisi delle Presidenze più attive (Pertini e Cossiga) affiora una alterazione e non uno stravolgimento del modello tradizionale del Presidente garante previsto dalla Costituzione del 1948.

Occorre considerare che una tale situazione implica un mutamento della forma di governo. In tale contesto, si collocano gli sporadici e vani tentativi di introdurre in Italia una forma di governo semipresidenziale di stampo francese. L’operato della Commissione bicamerale del 1997 si concentrò sulla soluzione semipresidenziale: tuttavia, quest’ultima assumeva le sembianze di una strategia politica; il semipresidenzialismo italiano, dunque, manteneva del modello francese solo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

In realtà, in tali circostanze non si rinviene – a giudizio di chi scrive – una fuoriuscita dai limiti costituzionali: gli interventi presidenziali sono compiuti in presenza di gravi crisi, tanto da identificare il Capo dello Stato come il “reggitore” del sistema delle crisi.

Il grado più elevato di attivismo presidenziale si manifesta nel momento in cui i fenomeni di crisi della rappresentanza politica e di deficit di governabilità “paralizzano” il funzionamento degli organi di indirizzo politico. Come noto, tra la prima e la seconda Repubblica (1992-1996), il Presidente Scalfaro attuò una funzione di supplenza temporanea di poteri altrui, in ragione dell’incerto operato del sistema dei partiti.

L’intervento del Quirinale contribuì ad accelerare il processo di mutamento del sistema politico verso l’approdo maggioritario ricorrendo a una serie di poteri disponibili, specialmente quelli di esternazione.

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La Presidenza Mattarella si contraddistingue per un equilibrio tra osservazione giuridica, politica e costituzionale. Dal raffronto tra i Governi Conte e Draghi affiora apertamente come nel primo egli assolva un ruolo “quasi” esterno; mentre, nel secondo questi intenda prevenire gli sbandamenti del sistema dei partiti. Quel “quasi” è imputabile al veto posto dal Capo dello Stato alla nomina del Prof. Paolo Savona come Ministro dell’economia.

Da sempre, sussiste un “filtro” del Presidente della Repubblica nella nomina dei ministri: in passato, i partiti politici si sono rassegnati a subire addirittura Presidenti del Consiglio non scelti dagli stessi, ma

“promossi” dal Capo dello Stato (es. il settennato di Pertini).

La vicenda sopramenzionata desta interesse per la decisione del Presidente di comunicare pubblicamente il suo “non gradimento”, dalla quale sono scaturite forti critiche.

Quel che appare grave – a parere di chi scrive – non è tanto accusare il Presidente di avere commesso un errore politico, quanto invece pensare di intraprendere la procedura per la sua messa in stato di accusa ex art. 90 Cost. per “alto tradimento”. Le perplessità palesate dal Presidente Mattarella risultano fondate: il candidato ministro aveva assunto una netta posizione “euroscettica”, manifestando la volontà di predisporre un piano “b” per l’uscita dall’euro.

La vicenda in esame merita riflessione per la seguente ragione: si assiste a una insidiosa politica eversiva, che mira irresponsabilmente a intaccare la figura istituzionale per “eccellenza”, l’unica ancora di salvezza in un Paese in balìa di impulsi irragionevoli.

Nella formazione del Governo Draghi, il Presidente riveste il ruolo di attore-protagonista: quello attualmente in carica si caratterizza, infatti, per essere un Governo dualista, ovvero incentrato sul binomio Presidente della Repubblica-Presidente del Consiglio dei Ministri.

È indiscutibile che il modello della governabilità tecnocratica, voluto fortemente dal Capo dello Stato al fine di evitare le elezioni anticipate e garantire al Paese un Esecutivo stabile, determini la perdita di coscienza democratica. È altrettanto incontestabile che l’intervento presidenziale prenda le mosse dall’incapacità delle parti politiche di tracciare un indirizzo politico puntuale e dall’incapacità dei governi precedentemente in carica di agire in modo coerente. Del resto, tra i poteri del Presidente della Repubblica vi è quello di “ripristinare” le funzionalità del sistema costituzionale in termini politico- costituzionali.

È evidente che, dal 1948 ad oggi, la maggior parte dei Presidenti

abbiano assolto il loro alto compito entro contesti competitivi

multipolari, alterando taluni periodi di stabilità delle coalizioni

di governo ad altri di spiccata instabilità, oltre che periodi di

maggiore o minore chiusura a formule alternative. I suddetti

elementi, insieme al grado di conflittualità interpartitica nei

momenti di disgiunzione delle maggioranze, hanno concesso ai

Capi di Stato diversi assist di intervento.

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Tornando al ruolo di peso assunto dal Presidente Mattarella nella drammatica esperienza dell’emergenza sanitaria da Covid-19, appare necessario riservare spazio a talune cruciali dichiarazioni rilasciate dallo stesso.

Il 27 marzo 2020, il Presidente auspica una risposta collaborativa dello Stato e del sistema delle autonomie alle delicate questioni poste dalla pandemia. Il richiamo presidenziale scaturisce certamente dai plurimi diverbi tra lo Stato e le autonomie territoriali (soprattutto le Regioni), nonché da un’incertezza di competenze sfociata in una produzione normativa disordinata.

In tale dichiarazione, l’aspetto in esame affiora nel punto in cui si sostiene che le rigide ma necessarie misure sono state adottate con “norme di legge”, ponendo così fine alla polemica sull’impiego eccessivo dei DPCM, atti volti ad emarginare il ruolo del Parlamento.

Una situazione ambigua alla quale si pone rimedio mediante il D.L. n. 19/2020, che introduce “ una più puntuale regolamentazione dell’iter procedimentale di adozione dei DPCM, prevedendo l’immediata trasmissione dei provvedimenti emanati ai Presidenti delle Camere”, nonché il vincolo, per lo stesso Presidente del Consiglio o per il Ministro da lui delegato, di riferire ogni quindici giorni alla Camere sulle misure adottate.

Al Presidente della Repubblica si riconosce il merito di avere assunto una posizione in tema di correttezza dei processi decisionali seguiti per contrastare l’emergenza sanitaria. Le dichiarazioni della figura in esame si sono rivelate determinanti anche in ragione dell’accento conferito al sentimento dell’unità nazionale.

In occasione della festa della Repubblica (2 giugno), il Presidente Mattarella ha fatto leva sulla “sostanziale unità morale” degli italiani concepita come “vero cemento che ha fatto nascere e tenuto insieme la Repubblica” e che tuttora consente ad essi di sentirsi “legati da un comune destino”.

Da sempre, il diritto costituzionale pone in risalto la vaghezza dei poteri formali del Capo dello Stato, specialmente se confrontati con quelli, forse meno complessi, ma certamente più cospicui delle sue istituzioni. Le diverse Presidenze della Repubblica succedutesi nel tempo hanno dimostrato grande versatilità e flessibilità. Lo stesso potrà dirsi tra qualche anno per la prossima Presidenza.

A prescindere dal soggetto che salirà al Quirinale, quella presidenziale rimane la figura istituzionale più delicata e di alto profilo sul profilo storico.

*La relazione richiama il Seminario di studio “Il Presidente della Repubblica” tenutosi il 29 novembre 2021, organizzato dalla Cattedra di Diritto pubblico generale (Università del Salento) - Conversazione del Giornalista Dott. Luciano Ghelfi, Quirinalista del TG2 Rai.

TAG: Presidente della Repubblica, Covid-19, Governo Draghi, Draghi

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