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Per esempio, la logica deve chiarire perché (1) Socrate è mortale segue logicamente da (2) tutti gli uomini sono mortali e da (3) Socrate è un uomo

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Capitolo Quarto CENNI DI LOGICA

4.1. I linguaggi artificiali della logica

La logica studia fondamentalmente come distinguere tra argomentazioni valide (in cui la conclusione segue logicamente dalle premesse) e non valide. Per esempio, la logica deve chiarire perché (1) Socrate è mortale

segue logicamente da

(2) tutti gli uomini sono mortali e da

(3) Socrate è un uomo;

mentre non segue logicamente da (2) e da (4) qualche uomo è mortale.

Correlativamente, la logica cerca di individuare gli enunciati logicamente veri (tautologie), ossia gli enunciati veri indipendentemente da come vanno le cose nella realtà empirica. Per esempio, «se piove e fa freddo, allora piove» è vero indipendentemente da come vanno le cose nel mondo. Al contrario, la verità di

«Napoleone ha perso la battaglia di Waterloo» dipende da fatti contingenti.

Ovviamente, se un enunciato segue o non segue logicamente da altri enunciati, o se un enunciato è o non è una tautologia, dipende dal significato che attribuiamo agli enunciati in questione. Dal momento che il linguaggio naturale ammette espressioni ambigue, può accadere che, dati due enunciati ambigui A e B, vi siano interpretazioni secondo le quali A segue logicamente da B, ed altre secondo le quali A non segue logicamente da B. L'ambiguità di un enunciato in linguaggio naturale può essere sia di natura lessicale che strutturale.

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L'ambiguità lessicale nasce dal fatto che un enunciato contiene delle parole con piú di un significato. Per esempio, «tutte le squadre sono allineate» è ambiguo perché «squadra» può indicare sia uno strumento geometrico che una squadra in senso sportivo.

L'ambiguità strutturale nasce quando l'organizzazione sintattica dei costituenti di un enunciato si può interpretare in diversi modi. Si consideri, per esempio,

(5) piove oppure nevica e fa freddo.

Questo enunciato è strutturalmente ambiguo, perché si può vedere sia come una disgiunzione, in quanto risultato della concatenazione mediante «oppure» dei due enunciati «piove» e «nevica e fa freddo», oppure come congiunzione, in quanto risultato della concatenazione mediante «e» dei due enunciati «piove oppure nevica» e «fa freddo».

Intuitivamente, data la prima interpretazione, (5) potrebbe essere vero, anche se non fa freddo. Infatti, perché sia vera una disgiunzione di enunciati non è necessario che entrambi i disgiunti siano veri. Invece, data la seconda interpretazione, perché sia vero (5) è necessario che faccia freddo: devono essere veri entrambi i congiunti, affinché sia vera una congiunzione di enunciati.

È quindi importante per gli scopi della logica poter “tradurre” gli enunciati potenzialmente ambigui del linguaggio naturale in enunciati di un linguaggio non ambiguo, al fine di valutare la validità delle argomentazioni, senza il timore di essere tratti in inganno da eventuali ambiguità. Sono stati quindi definiti dei linguaggi “logici” artificiali, privi di ambiguità strutturale e lessicale, per studiare la validità delle argomentazioni in questo modo: in primo luogo, si disambiguano gli enunciati (di una data lingua naturale) che costituiscono l'argomentazione in esame, assegnando a ciascuno di essi una forma logica, ossia un enunciato di un appropriato linguaggio logico. In secondo luogo, si valuta se la forma logica assegnata alla conclusione segua logicamente dalle forme logiche assegnate alle premesse.

Vi sono moltissimi linguaggi artificiali di questo genere di cui i logici e i filosofi analitici attualmente si servono, e ciascuno di essi ha molte versioni, altrimenti detti “dialetti” o “idioletti”, nel senso che per uno stesso linguaggio vengono usate notazioni diverse in testi diversi per esprimere sostanzialmente la stessa cosa. Per esempio, in un testo troviamo la congiunzione espressa con «&» e in un altro con « »:

oppure in un testo viene espresso con «Rxyz» il fatto che x, y e z sono nella relazione R, mentre in un altro questo viene espresso con

«R(x,y,z)». Il principale tra questi linguaggi, che chiameremo «FOL»

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(dall'inglese «First Order Logic»), è il linguaggio della logica predicativa del prim'ordine. Si deve alla Begriffsschrift di Frege la creazione di questo linguaggio, anche se Frege lo presenta in un dialetto molto diverso da quelli attualmente usati (piú vicini a quello proposto da Giuseppe Peano). La teoria delle descrizioni di Russell in OD, che segna la sua netta presa di posizione contro la teoria di Meinong, è intimamente legata all'utilizzazione da parte del filosofo britannico di questo strumento. E d'altra parte, anche i neo- meinonghiani, da tipici filosofi analitici, presuppongono FOL o linguaggi logici in qualche modo derivati da FOL nelle loro proposte.

È quindi importante in questa sede una qualche familiarità con FOL.

Sarà inoltre utile toccare anche alcune questioni che ci portano verso linguaggi logici con maggiore potere espressivo di FOL.

4.2. Il linguaggio PL

FOL contiene al suo interno un nucleo piú semplice, il linguaggio della logica proposizionale (che chiameremo «PL» da «Propositional Logic»). Questo nucleo contiene dei simboli corrispondenti ai concetti di negazione (qui simbolizzata con «¬»), congiunzione (qui simbolizzata con «&»), disgiunzione inclusiva1 (qui simbolizzata con

«∨»), implicazione materiale (qui simbolizzata con «→») ed equivalenza materiale (qui simbolizzata con «↔»). Questi simboli corrispondono all'incirca alle espressioni italiane «non è vero che»,

«e», «o» (o anche «oppure»), «se ... allora», e «se e solo se», rispettivamente. Chiamiamo tali simboli logici (nonché i concetti da essi espressi e le corrispondenti parole italiane) connettivi. Inoltre, PL utilizza delle variabili enunciative «P », «Q », «R », ecc., che stanno per enunciati. Intuitivamente, con i connettivi possiamo dar luogo a enunciati piú complessi a partire da enunciati piú semplici. Per evitare ambiguità strutturali come quella presente in (5), sono utilizzate in PL (nel dialetto che qui assumiamo) le parentesi. Per esempio, se «P »,

«Q » ed «R » stanno per «piove, «nevica» e «fa freddo», rispettivamente, le due possibili interpretazioni di (5) sono, rispettivamente, cosí rappresentate:

(5a) P ∨ (Q & R );

1 La distinzione tra disgiunzione inclusiva ed esclusiva corrisponde a quella del latino tra vel e aut. Nel primo caso la disgiunzione è vera se e solo se almeno un disgiunto è vero, mentre nel secondo caso la disgiunzione è vera se e solo se uno solo dei disgiunti è vero.

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(5b) (P ∨ Q ) & R.

Per familiarizzarsi con il linguaggio della logica proposizionale, si considerino gli esempi (6) e (7) e le rispettive traduzioni (6a) e (7a), sotto, dove si assume che «P » sta per «Giovanni è italiano» e «Q » per

«Mario è svizzero».

(6) Se Giovanni non è italiano, allora Mario è svizzero;

(7) non è vero che sia Giovanni che Mario sono svizzeri.

(6a) ¬ P → Q;

(7a) ¬(P & Q).

4.3. Il linguaggio FOL

Per passare da PL a FOL, dobbiamo avere in primo luogo, invece di variabili enunciative, delle variabili predicative «F », «G », «H », ...,

«P », «Q » ed «R » ecc. che intuitivamente stanno per predicati (zero- adici, monadici, diadici, ecc.) e quindi per proposizioni, proprietà e relazioni. In secondo luogo, dobbiamo avere delle variabili individuali,

«x », «y », «z » ecc., che intuitivamente stanno per individui, ossia oggetti non predicabili. Infine, ci servono i quantificatori: quello universale (simbolizzato con «∀») e quello esistenziale (simbolizzato con «∃»). Questi concetti sono resi in italiano, all'incirca, da espressioni come «ogni» o «tutti» da un lato, e «qualche» o «alcuni»

dall'altro.

Per illustrare l'uso di questi simboli, si noti innanzitutto che FOL costruisce quelli che abbiamo chiamato schemi predicativi premettendo le variabili predicative alle variabili individuali. Inoltre, nell'idioletto che qui preferiremo (per la sua maggiore leggibilità), le variabili individuali vanno messe tra parentesi, divise da virgole. Per esempio, si assuma che alla variabile predicativa «F » sia assegnato il predicato «uomo» e a «G » «mortale». Allora, gli schemi predicativi «x è uomo» e «x è mortale» sono rappresentati rispettivamente come

«F (x)» e «G (x)» (dove «F » e «G » sono presenti in posizione predicativa e «x » in posizione di argomento). Analogamente, «x ama y » si può rappresentare come «R (x,y)» (dove «R » è presente in posizione predicativa e «x » e «y » in posizione di argomento).

Passiamo adesso a chiarire il significato dei quantificatori. In realtà, forse non esistono parole italiane che corrispondono

(5)

precisamente a questi simboli. È possibile però tradurre degli enunciati italiani in enunciati di FOL che contengono i quantificatori. Per esempio, assumendo che «F» sta per «rotondo», «∀xF(x)» si può rendere in italiano con «ogni oggetto è rotondo» oppure «tutti gli oggetti sono rotondi». D'altra parte, «∃xF(x)» si può rendere in italiano con «qualche oggetto è rotondo» oppure con «esiste almeno un oggetto che è rotondo». Quest'ultima traduzione di «∃xF(x)» è la piú accurata, se si assume l'interpretazione standard di FOL (che ingloba quindi l'attualismo e che, come vedremo, risale a Frege e fu fatta propria da Russell). Ma vedremo anche che sono possibili altre interpretazioni, in particolare un'interpretazione non attualista che viene accettata dai neo-meinonghiani.

Per il momento, è importante illustrare ancora meglio l'uso dei quantificatori in relazione ai cosiddetti sintagmi nominali, ossia espressioni quali «qualche uomo», «nessun tavolo», «ogni cavallo», ecc., ottenuti connettendo un determinatore (nella terminologia corrente) come «qualche», «nessuno», «ogni», ecc., con un predicato nominale. Fra i determinatori viene incluso anche l'articolo determinativo e quindi anche le descrizioni definite sono sintagmi nominali, ma per il momento le tralasciamo. Consideriamo ora questi classici esempi:

(8) ogni uomo è mortale;

(9) nessun uomo è mortale;

(10) qualche uomo è mortale;

(11) qualche uomo non è mortale.

Vediamo come vanno interpretati questi enunciati, basandoci su FOL.

Si assuma che alla variabile predicativa «F» sia assegnato il predicato

«uomo» e a «G» «mortale». Ecco allora le traduzioni in FOL di (8)- (11):

(8a) ∀x(F(x) → G(x));

(9a) ∀x(F(x) → ¬ G(x));

(10a) ∃x(F(x) & G(x));

(11a) ∃x(F(x) & ¬ G(x)).

Può tornare utile qualche volta evitare l'uso di variabili predicative a favore di una via di mezzo tra FOL e una lingua naturale come l'italiano. Seguendo questa strada, scriveremmo, invece di (8a)-(11a):

(8b) ∀x(x è un uomo → x è mortale);

(6)

(9b) ∀x(x è un uomo → ¬ x è mortale);

(10b) ∃x(x è un uomo & x è mortale);

(11b) ∃x(x è un uomo & ¬ x è mortale).

In sostanza, (8a)-(8b) dicono che per qualsiasi oggetto x è vero che se x è un uomo, allora x è anche mortale. Invece, (9a)-(9b) dicono che per qualsiasi oggetto x è vero che se x è un uomo, allora x non è mortale.

Per quanto riguarda (10a)-(10b), questi enunciati asseriscono che esiste almeno un oggetto x che è uomo ed è anche mortale. Infine, (11a)- (11b) asseriscono che esiste almeno un oggetto x che è uomo, senza essere mortale.

Secondo queste analisi, contrariamente al punto di vista della logica pre-fregeana, gli enunciati come (8)-(11) non hanno una forma soggetto-predicato tout court, analoga a quella che tradizionalmente si attribuisce a un'espressione come «Ciampi è mortale». Sono invece molto piú complesse. Per rendersi conto che postulare questa maggiore complessità ha validi motivi, si consideri questo classico esempio:

(12) ogni uomo ama una donna.

Questo enunciato è strutturalmente ambiguo. La prima interpretazione di (12) è vera in una situazione ideale in cui ciascun uomo è monogamicamente sposato ed ama la propria moglie. La seconda è vera nella situazione tutt'altro che ideale in cui una stessa donna, per esempio Sofia Loren, è amata da ciascun uomo. Se seguiamo la strategia di simbolizzazione proposta per (8)-(11), ci accorgiamo che in logica predicativa possiamo assegnare queste due forme logiche a (12):

(12a) ∀x(x è un uomo → ∃y(y è una donna & x ama y));

(12b) ∃y(y è una donna & ∀x(x è un uomo → x ama y)).

La forma logica (12a) si può rendere letteralmente in italiano cosí:

(12a') per qualunque individuo x, è vero quanto segue: esiste almeno un individuo y tale che y è una donna e x ama y.

La forma logica (12b) si può rendere letteralmente in italiano come segue:

(12b') esiste almeno una donna y tale che per qualunque individuo x è vero quanto segue: se x è un uomo allora x ama y.

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Ci tornerà utile chiarire la differenza tra variabili libere e vincolate. Lo farò a livello intuitivo con alcuni esempi. Si consideri (13) F(x) → G(x).

In (13) la variabile x non è correlata a nessun quantificatore. (13) dice semplicemente che se x è un F allora è anche un G e ovviamente questa asserzione non è né vera né falsa finché non viene specificato a chi o che cosa si riferisce «x». In un caso del genere si dice che «x» è una variabile libera. Al contrario, in (8a)-(11a) la «x» è correlata a un quantificatore e non dobbiamo quindi chiedere che venga specificato a quale individuo si riferisce. Essa va interpretata in relazione al quantificatore esistenziale o universale a seconda dei casi. Si dice quindi che è una variabile vincolata e che si trova nel raggio d'azione (o àmbito) del quantificatore in questione. Viene spesso chiamata enunciato aperto una formula logica che contiene variabili libere. In sostanza un enunciato aperto è quello che ho chiamato uno schema predicativo (con almeno un segnaposto).

È importante soffermarsi sul concetto espresso da termini quali

«universo di discorso» o «dominio dei quantificatori», spesso usati nei libri di logica. Se un linguaggio logico contiene delle variabili, bisogna specificare a quali oggetti si può far ricorso per assegnare dei valori a tali variabili. L'insieme di tali oggetti, una volta specificato, è appunto l'universo di discorso relativo al linguaggio in questione. Parlando metaforicamente, si dice spesso che le variabili “spaziano” su tale insieme. Inoltre, dal momento che le variabili possono anche essere vincolate dai quantificatori, questo insieme è anche detto dominio dei quantificatori. In pratica, quindi, assunto un dominio D, dire «∀xF(x)»

significa asserire che, quale che sia l'elemento di D che assegniamo come valore alla variabile «x», tale elemento ha la proprietà F.

Analogamente, dire «∃xF(x)» significa asserire che tra i membri di D assegnabili come valori a «x» ve ne è almeno uno con la proprietà F.

Per esempio, se D è l'insieme dei numeri, «∀xF(x)» asserisce che qualsiasi numero ha la proprietà F ed «∃xF(x)» che almeno un numero ha la proprietà F. Per default, assumiamo che l'universo di discorso è l'insieme di tutte le cose (trascurando qui problemi che riguardano i paradossi logici, ai quali accenneremo tra poco), e quindi per default

«∀xF(x)» significa che qualsiasi entità ha la proprietà F e «∃xF(x)» che esiste almeno un oggetto con la proprietà F.

Abbiamo descritto a grandi linee l'uso dei quantificatori e il modo in cui si correla all'uso nel linguaggio ordinario di «ogni» e «esiste

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almeno un ...» («qualche»). Ciò costituisce (all'incirca) quella che abbiamo chiamato «teoria della quantificazione di Frege», proposta da Frege nella Begriffsschrift.

4.4. Costanti individuali e predicative

Certe versioni di FOL annoverano, oltre alle variabili, costanti individuali e/o predicative oltre alle costanti logiche. Una costante individuale si può considerare come un nome proprio che (in linea con la teoria del riferimento diretto per i nomi propri) denota direttamente un certo oggetto senza la mediazione di alcuna proprietà. Per esempio nello studio dei fondamenti dell'aritmetica tipicamente si utilizza un linguaggio FOL che comprende una costante individuale «0» che si assume denoti direttamente il numero zero. Analogamente, si può ammettere che una costante predicativa denoti direttamente una PRP.

Per esempio, tipicamente si prende il simbolo «=» come costante predicativa denotante la relazione di identità (chiameremo di tipo FOL= un linguaggio di tipo FOL che utilizza cosí questo simbolo). Per un altro esempio tipico, in teoria degli insiemi si usano linguaggi di tipo FOL dove la costante predicativa « » esprime la relazione che sussiste tra un oggetto x e un insieme s quando x appartiene a s.

Seguendo l'esempio di Frege e Russell, è tipico della filosofia analitica presentare una certa teoria T, mostrando come, secondo la teoria in questione, certi enunciati del linguaggio naturale (particolarmente significativi dal punto di vista degli argomenti di cui tratta T ) debbano essere tradotti in un linguaggio logico L (definito piú o meno precisamente, a seconda dei casi)2

2 In questo saggio faccio uso di questa tecnica sia nel presentare teorie altrui, come quelle di Parsons e Castañeda, sia nel presentare il mio punto di vista nei capp.

13-15.

. Minimamente, ciò ha lo scopo da un lato di eliminare quando è necessario certe ambiguità presenti nel linguaggio naturale. Ma può anche avere lo scopo (come era nelle intenzioni di Frege e Russell) di fornire una rappresentazione piú perspicua delle proposizioni espresse mediante il linguaggio naturale dagli enunciati in questione. Questo linguaggio L tipicamente è di tipo FOL oppure è un arricchimento o sviluppo di un linguaggio di tipo FOL (che è quindi in qualche modo inglobato in L). Seguendo una convenzione iniziata da Montague (1973), nel far questo di solito si assume che il linguaggio L in questione contiene costanti predicative come «corre'», «cammina'», «rosso'», «alto'», ecc. e/o costanti individuali come «pietro'», «mario'», ecc. E si assume inoltre che tali

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costanti abbiano lo stesso significato delle corrispondenti espressioni del linguaggio naturale dalle quali sono ottenute aggiungendo l'apostrofo3

Per illustrare queste convenzioni, si noti che l'enunciato (8) si può rappresentare perspicuamente in FOL in questi modi:

. Io stesso seguirò tale convenzione in questo saggio, sia nel presentare gli approcci dei filosofi che prenderò in considerazione, sia nel presentare il mio punto di vista. Alternativamente, invece di usare l'apostrofo, metterò in maiuscolo l'espressione italiana, scrivendo per esempio «CANE» invece di «cane».

(8') ∀x(uomo'(x) → mortale'(x));

(8'') ∀x(UOMO(x) → MORTALE(x)).

Per un altro esempio, si consideri (14) Mario corre.

Un sostenitore della teoria del riferimento diretto dei nomi propri proporrebbe la seguente rappresentazione:

(14a) corre'(mario'),

secondo la quale «Mario» è trattato come una costante individuale. In contrapposizione, un sostenitore della teoria descrittivista non accetterebbe questa rappresentazione, se non come prima approssimazione. Infatti dal suo punto di vista «Mario» non va trattato come una costante individuale, ma come una descrizione definita (per esempio, secondo la teoria delle descrizioni di Russell, che vedremo tra poco, o comunque secondo una qualche teoria delle descrizioni).

È chiaro che queste rappresentazioni simboliche ci dicono poco o niente sui significati dei termini “apostrofati” o in maiuscolo come

«CORRE», «uomo'» o «mario'». Il termine «uomo'» di per sé non scioglie le ambiguità lessicali di «uomo» (essere umano o essere umano di sesso maschile?), né ci illumina sulla natura del concetto da esso espresso. Ma, per esempio, la traduzione (8c) intende dirci qualcosa sul significato di «ogni», non su quello di «uomo».

Analogamente, «paolo'» di per sé non ci dice se esso denoti l'ex 3 Questa convenzione si può arricchire assumendo che vi siano nel linguaggio logico costanti della forma «c'», «c''», «c'''» e cosí via in relazione ad un'espressione del linguaggio naturale che ha piú di un significato. Per semplificare le cose (nella misura in cui l'argomento trattato lo consente) si fa finta che le espressioni del linguaggio naturale che vengono cosí tradotte non siano ambigue. Nel seguito darò spesso per scontato questo stratagemma semplificatorio.

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calciatore Paolo Rossi o il regista Paolo Taviani (o chissà chi), però (14a) intende dirci qualcosa sulla natura dei nomi propri, cioè che hanno una funzione semantica diversa da quella dei predicati e in antitesi con quella loro ascritta dalla teoria descrittivista dei nomi propri. Ho già messo in luce che tutti i filosofi che prendiamo qui in considerazione dettagliatamente sottoscrivono una teoria descrittivista dei nomi propri e che anch'io la sottoscrivo (cfr. cap. 13, sotto).

Tuttavia, per comodità espositiva tratterò talora i nomi propri come costanti individuali («piero'», «mario'», ecc.) nel discutere esempi in cui la natura dei nomi propri non è in questione. Ciò permetterà di semplificare le cose limitando l'uso di dettagli formali. A questo scopo, utilizzerò nelle traduzioni formali anche predicati artificialmente primitivi come «BEVVE_LA_CICUTA» o «maestro_di_platone'».

Ovviamente, si potrebbe presentare al loro posto una piú complessa combinazione di vari predicati, ma ciò sarebbe un'inutile complicazione per i nostri scopi.

4.5. Sistemi di leggi logiche

FOL, come qualsiasi altro linguaggio artificiale di questo genere, non è che una struttura sintattica che aspetta di essere interpretata. Una prima interpretazione avviene quando associamo alcuni suoi simboli a espressioni del linguaggio naturale, nel modo in cui abbiamo fatto finora. Ma da un punto di vista logico-formale, l'interpretazione vera e propria avviene quando specifichiamo regole che permettono di stabilire quali enunciati del linguaggio in questione sono logicamente veri e quali sequenze di enunciati costituiscono argomentazioni valide.

Un sistema di logica è dato da un linguaggio artificiale (quale FOL=) e da un insieme di regole logiche di questo genere. Per esempio:

(DN) Doppia negazione. Da ¬¬A è legittimo inferire A.

(E&) Eliminazione della congiunzione. Da (A & B) è legittimo inferire A (come anche inferire B).

(MP) Modus ponens. Da A e A → B, è legittimo inferire B.

(E∀) Eliminazione del quantificatore universale. Da ∀xA è legittimo inferire A(x/a)4

4 La notazione A(a/b) è da intendersi in questo modo: se A è una formula ben formata di un certo linguaggio logico L (ossia, A è grammaticalmente corretta in base

.

(11)

(LI) Legge dell'identità. È sempre legittimo asserire x = x5. (LL) Legge di Leibniz. Da A e a = b, è legittimo inferire A(a/b).

Vi sono anche delle regole che permettono di «scaricare» delle premesse. Per esempio:

(I→) Introduzione del condizionale. Se dalla premessa A è stato inferito B, allora si può asserire A → B, indipendentemente dalla premessa A.

Regole di questo genere permettono di costruire, a partire da un insieme di enunciati che fanno da premesse, sequenze di enunciati in cui ciascun membro della sequenza segue da membri precedenti in ottemperanza con le regole in questione. L'ultimo membro della sequenza è una conclusione che segue logicamente dalle premesse.

Inoltre queste regole permettono anche di identificare delle leggi logiche (cfr. Lemmon 1965 e Kalish et al. 1980). A seconda di quali regole e/o leggi logiche si accettano, si distingue tra logica classica e logiche non classiche.

Un sistema di logica che cerca di catturare le argomentazioni valide e le leggi logiche che riguardano i connettivi proposizionali, e che quindi tipicamente si avvale di PL, è un sistema di logica proposizionale. Se invece si occupa anche dei quantificatori, utilizzando FOL (FOL=) è chiamato sistema di logica (predicativa) del prim'ordine (con identità). Possiamo ovviamente distinguere in entrambi i casi tra sistemi classici e non classici e questa distinzione vale ovviamente anche per sistemi di logica che vanno al di là dei connettivi proposizionali e dei quantificatori. Il sistema di logica classica per la logica predicativa del prim'ordine è stato proposto per la prima volta da Frege nella Begriffsschrift.

Tra le leggi della logica classica, forse le piú note e caratteristiche sono i princípi del terzo escluso e di non contraddizione.

alle regole di L), A(a/b) è la formula ben formata che risulta dalla sostituzione di a con b [dove a e b sono costanti individuali oppure variabili individuali che risultano libere sia in A che in A(a/b)]. Per esempio, se A è la formula «∀x(F(x) → G(y))», A(y/z) è

«∀x(F(x) → G(z)». In un linguaggio logico piú espressivo di FOL=, per esempio in un linguaggio del second'ordine (cfr. § 4.8, sotto), le variabili e costanti in questione possono anche essere predicative, ossia tali che, intuitivamente, esprimono PRP.

5 In linea con la tradizione il predicato di identità lo scriviamo in mezzo ai due argomenti. Scriviamo cioè «x = y» anche se a rigore dovremmo scrivere «=(x, y)»

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Tradizionalmente, queste leggi vengono espresse facendo ricorso alla nozione di verità:

(TE) Terzo escluso. Per qualsiasi proposizione P, o è vera P oppure la sua negazione.

(NC) Non contraddizione. Per qualsiasi proposizione P, non è vero che siano contemporaneamente vere P e la sua negazione.

Per negazione di una proposizione P, possiamo intendere la proposizione 'non è vero che P'. In FOL possiamo agevolmente rappresentare queste leggi, rispettivamente, cosí:

(TE') P ∨ ¬P;

(NC') ¬(P & ¬P).

Alcuni logici distinguono nettamente (TE) e (NC) da un lato e (TE') e (NC') dall'altro per il fatto che le prime, ma non le seconde, fanno esplicito ricorso al concetto di verità, ma per i nostri scopi questo punto non è molto importante.

Altrettanto caratterizzante per la logica classica è la regola, nota come «Ex falso quodlibet» (o anche «Ex contradictione quodlibet»), che permette di derivare qualsiasi enunciato da una contraddizione:

(EFQ) Ex falso quodlibet. Dati A e ¬A, è legittimo inferire B.

Questa regola cattura l'idea che una contraddizione segnala che qualcosa non va nelle premesse dalle quali è dedotta. In pratica dice qualcosa del genere: «se hai asserito premesse dalle quali hai dedotto sia (poniamo) che la terra è rotonda, sia che non lo è, allora tanto vale asserire quello che ti pare, per esempio, che Roma è la capitale della Francia». Questa regola appare certamente a prima vista controintuitiva, perché la conclusione B può non avere alcun nesso di rilevanza con le premesse A e ¬A (come mostra l'esempio appena visto). Ma, come ben spiegato in Lemmon 1965, la regola (EFQ) segue da altre regole della logica classica che appaiono tutte almeno a prima vista intuitivamente accettabili (cfr. Lemmon 1965, cap. 2, § 2).

Le logiche non classiche sono sistemi di logica che rifiutano (considerandole non sempre valide) alcune leggi della logica classica e di conseguenza rifiutano (non considerano logicamente veri) degli enunciati che la logica classica accetta (ritiene tali). Per esempio, la

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logica intuizionista, per motivi che riguardano i fondamenti della matematica, rifiuta (TE). Vi sono altre logiche non classiche che rifiutano (TE) in nome dell'idea che vi sono valori di verità diversi da vero e falso, per motivi che riguardano, per esempio, il ragionamento su dati incerti, la vaghezza di certi concetti o i paradossi logici. Vi sono logiche trivalenti (con tre valori di verità), tetravalenti (con quattro valori di verità) e addirittura con infiniti valori di verità (cfr.

Haack 1978).

Tra le logiche non classiche, particolarmente interessanti sono le logiche paraconsistenti (ne esistono molte varietà; cfr. Priest 2002).

Queste rifiutano (EFQ) soprattutto per due ordini di motivi. In primo luogo, per dar conto del fatto che in un dato momento ci si può trovare ad accettare una teoria incoerente, senza per questo accettare implicitamente qualsiasi proposizione come conseguenza logica di tale teoria. In secondo luogo, per cavalcare l'idea che i paradossi logici non siano delle contraddizioni soltanto apparenti, ma reali. Da questo punto di vista esistono delle contraddizioni vere (come in effetti, anche se in modo molto piú generale, sosteneva Hegel), ma ovviamente ciò non deve portarci ad asserire quello che ci pare in virtú di (EFQ) (cfr.

Priest 1987).

Se e in che modo bisogna scegliere tra i vari sistemi di logica è un problema centrale di filosofia della logica (cfr. Haack 1978, Quine 1970) che qui non possiamo affrontare. Sarà utile però assumere un criterio guida di tipo “pragmatico” che mi sembra accettabile per gli scopi di questo saggio. Seguendo questo criterio, si può sostenere che il maggior successo di cui ha goduto e continua a godere la logica classica suggerisce che questa rispecchia piú da vicino il modo in cui noi ragioniamo. Questo a sua volta suggerisce, assumendo il valore di sopravvivenza della nostra capacità di ragionare, che la logica classica sia in qualche modo quella “corretta”, ossia quella che rispecchia piú fedelmente delle leggi ontologiche generalissime e oggettivamente valide. Ne consegue che un sistema di logica classica sarebbe da preferire ad una logica non classica che si presenta come rivale, a meno che di fronte a qualche problema recalcitrante, non ci vediamo veramente costretti a preferire quest'ultima. Per esempio, di fronte ai paradossi logici, anziché ammettere una logica paraconsistente che ci porta a concludere che vi sono contraddizioni vere, è preferibile (a meno di costi teorici ancora piú gravi6

6 Questi costi esistono, secondo Priest 1987, ma non abbiamo qui la possibilità di esaminare le sue argomentazioni.

) un sistema di logica classica che presuppone una realtà assolutamente scevra da contraddizioni.

Possiamo cosí sintetizzare questo principio pragmatico:

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(PP_LC) Principio pragmatico per la logica classica. Di norma, è preferibile scegliere una teoria che considera corretta la logica classica ad una che invece considera corretta una logica non classica.

In base a questo principio, come vedremo, concentreremo le nostre attenzioni su sistemi neo-meinonghiani che accettano la logica classica, piuttosto che su altri che puntano su una logica non classica per affrontare i problemi logici che affliggono la Gegenstandstheorie. Si noti però che (PP_LC) non pregiudica l'utilizzazione di una logica non classica in un àmbito delimitato e in un modo che non impegna alla correttezza di quest'ultima in senso assoluto. Per esempio, suggerirò nel seguito che bisogna utilizzare una logica paraconsistente per stabilire che cosa racconta implicitamente un romanzo, a partire da quello che esplicitamente scrive l'autore. Questo non significa che la logica paraconsistente piuttosto che quella classica rispecchi meglio la realtà, ma semplicemente che (per motivi che vedremo meglio in seguito) la logica paraconsistente rispecchia meglio di quella classica i canoni da noi (implicitamente) usati nell'interpretazione dei testi.

4.6. Le logiche libere

La logica classica, nella sua versione standard, assume che tutti i suoi termini singolari siano denotanti. In particolare, assume quindi che le sue costanti individuali siano sempre dotate di un referente.

Allentando questa assunzione, si arriva alle cosiddette logiche libere (da impegni esistenziali), le quali ammettono termini singolari non denotanti; per esempio, costanti individuali non denotanti, intuitivamente corrispondenti a nomi quali «Pegaso» o «Polifemo»

(Bencivenga 1976). Questi sistemi, inter alia, sono nati da una certa insoddisfazione per la risposta russelliana al problema degli oggetti inesistenti, in un momento in cui i neo-meinonghiani non avevano ancora sviluppato i loro approcci. Differiscono comunque talmente poco dalla logica classica che si possono considerare varianti di essa piú che logiche non classiche.

Nelle logiche libere non vale la regola (E∀), vista sopra: non si può inferire P(a) dall'assunzione che ∀xP(x), a meno che non si assuma esplicitamente che «a» denoti un oggetto che si trova nel dominio dei quantificatori. Questa clausola viene tipicamente espressa cosí: ∃x(x = a). A questo modo di intendere i quantificatori (in base al

(15)

quale essi si possono chiamare privi di impegni esistenziali), si può aggiungere l'idea che i termini singolari non denotanti, ammessi dalle logiche libere, denotino oggetti inesistenti (cfr. Lambert 1983, cap. 5).

In questi sistemi però non appare possibile considerare tali supposti oggetti inesistenti se non come possibilia, in nome di una forma di possibilismo, piuttosto che di meinonghismo. Rispetto ai sistemi logici sviluppati dai neo-meinonghiani, per esempio da Parsons o Zalta, le logiche libere sono infatti molto piú rudimentali, ma si possono considerare un primo passo verso la creazione di sistemi logici neo- meinonghiani. Infatti, aprono la strada all'assunzione che i quantificatori spaziano su un dominio che comprende anche oggetti inesistenti. In questa interpretazione anti-attualista, è opportuno leggere «∃xF(x)» come «c'è almeno un oggetto x che ha la proprietà F», piuttosto che «esiste almeno un oggetto x che ha la proprietà F»

(assumendo quindi in chiave anti-attualista che «c'è» ha un significato piú ampio di «esiste»).

4.7. La logica del second'ordine e l'operatore lambda

FOL (come del resto FOL=) ha alcune importanti limitazioni espressive. In primo luogo, FOL non ammette questa possibilità:

(P1) i quantificatori possono vincolare variabili predicative.

Quindi, non è ammissibile dal punto di vista di FOL utilizzare espressioni come, per esempio, «∃F(F(x))» o «∀F(F(x))». Eppure, ci sono enunciati del linguaggio naturale che sembrano richiedere espressioni di questo tipo. Per esempio, «Mario ha almeno una proprietà» e «Mario ha tutte le proprietà» si potrebbero tradurre con

«∃F(F(mario'))» e «∀F(F(mario'))», rispettivamente. Per un esempio piú complicato si consideri:

(14) tutte le proprietà di Mario sono proprietà di Tommaso.

Nella logica predicativa del second'ordine si accetta l'opzione (P1).

Assumendo (P1), potremmo rappresentare questo enunciato in questo modo:

(14a) ∀F(F(mario') → F(tommaso')).

(16)

Intuitivamente, un enunciato italiano che contiene il nome proprio

«Mario» attribuisce una proprietà a Mario. Analogamente, un enunciato italiano che contiene i nomi propri «Mario» e «Tommaso»

asserisce che Mario e Tommaso stanno in una certa relazione. Se è cosí, lo stesso vale per la traduzione in un linguaggio logico degli enunciati italiani corrispondenti. Per esempio, si consideri «Mario è uno scrittore e Mario è italiano» (in FOL, «scrittore'(mario') &

italiano'(mario')»). Se questo è vero, Mario ha la proprietà di essere uno scrittore italiano. Analogamente, «scrittore'(tommaso') & italiano (tommaso')» attribuisce a Tommaso la proprietà di essere uno scrittore italiano. Ora, (14a) simbolizza (14), e (14) asserisce che tutte le proprietà di Mario sono proprietà di Tommaso, quindi anche la proprietà di essere scrittore italiano. Ma abbiamo visto che questa proprietà si può attribuire a Mario asserendo «scrittore'(mario') &

italiano'(mario')» e a Tommaso asserendo «scrittore'(tommaso') &

italiano'(tommaso')». Quindi, da (14a) dovremmo poter inferire

(15a) scrittore'(mario') & italiano'(mario') → scrittore'(tommaso') &

italiano'(tommaso'), ossia

(15) se Mario è scrittore e Mario è italiano, allora Tommaso è scrittore e Tommaso è italiano.

Se inferenze come queste non sono possibili, ammettere l'opzione (P1) è alquanto sterile. Per convalidare inferenze di questo tipo, possiamo, in primo luogo, arricchire FOL, oltre che con (P1), con la seguente possibilità (accettata nella logica predicativa del second'ordine):

(P2) per ogni enunciato aperto A, vi è un corrispondente predicato lambda, [λa1 ... an A], dove a1, ..., an sono variabili possibilmente occorrenti libere in A7

7 Si noti che tra le variabili in questione potrebbero anche esserci delle variabili predicative. Per esempio (presupponendo anche (P3), sotto, di cui parleremo tra poco), (P2) ci permette di formulare il predicato lambda «[λF F(mario') & piacevole'(F)]» che esprime la proprietà di essere una proprietà piacevole di Mario (Secondo Bealer 1982, è preferibile non utilizzare le variabili predicative in questo modo ed è meglio ricorrere ad un predicato, diciamo «p», che esprime la predicazione (si veda anche Orilia 1999). Con esso possiamo scrivere, per esempio, «[λx p(x, mario') & piacevole'(x)]» invece di «[λF F(mario') & piacevole'(F)]». Per i nostri scopi in questo saggio possiamo però sorvolare su questo problema). Si noti inoltre che le variabili in questione potrebbero anche non occorrere libere in A. Per esempio, (P2) permette di formulare il predicato lambda «[λx

.

(17)

Intuitivamente, il simbolo «λ» corrisponde all'espressione «tale che» ed è chiamato operatore lambda. Si considerino per esempio gli enunciati (16) Maria è (tale che è) alta e bionda;

(17) Maria e Roberta sono tali che tutti i ragazzi si innamorano di loro.

Il primo enunciato attribuisce a Maria la proprietà di essere sia alta che bionda. Il secondo asserisce che la relazione di esser tali che tutti i ragazzi si innamorano di loro sussiste tra Maria e Roberta. Sfruttando (P2) possiamo simbolizzare (17) e (18), rispettivamente, come segue:

(16a) [λx (alta'(x) & bionda'(x))](maria');

(17a) [λxy ∀z(ragazzo'(z) (si_innamora'(z,x) &

si_innamora'(z,y))](maria', roberta').

Ora, (16) è vero se e solo se Maria è alta e Maria è bionda.

Analogamente, (17) è vero se e solo se tutti i ragazzi si innamorano di Maria e tutti i ragazzi si innamorano di Roberta. In altri termini, dovremmo accettare le seguenti equivalenze:

(λ-conv/1) [λx (alta'(x) & bionda'(x))](maria') ↔ (alta'(maria') &

bionda'(maria'));

(λ-conv/2) [λxy ∀z(ragazzo'(z) (si_innamora'(z,x) &

si_innamora'(z,y))](maria', roberta') ↔ ∀z(ragazzo'(z) → (si_innamora'(z,maria') & si_innamora'(z,roberta')).

Questi esempi suggeriscono che l'opzione (P2) dovrebbe accompagnarsi all'accettazione del seguente principio:

(λ-conv) [λx1 ... xn A](a1, ..., an) ↔ A(x1/a1, ..., xn/an).

Questo principio, detto il principio della conversione lambda, non fa altro che generalizzare i due casi particolari (λ-conv/1) e (λ-conv/2).

capitale'(parigi')]», che esprime la proprietà di essere tale che Parigi è una capitale, ossia una proprietà posseduta da qualsiasi cosa, dal momento che è vero che Parigi è una capitale. Si può obbiettare che è sterile parlare di proprietà come queste, ma da un punto di vista puramente logico-formale si può nondimeno ammettere che esistano (ma si veda Dunn 1987). Da un punto di vista tecnico, si noti infine che l'operatore lambda vincola le variabili proprio come i quantificatori. Ossia, se la variabile x occorre libera nella formula A, essa è vincolata nel predicato [λx A].

(18)

Dati (P1), (P2) e (λ-conv), possiamo dedurre (15a) da (14a), come desiderato. Infatti, da (14a) possiamo inferire (per E∀):

(15b) [λx scrittore'(x) & italiano'(x)](mario') → [λx scrittore'(x) &

italiano'(x)](tommaso').

Infine per (λ-conv) da (15b) possiamo dedurre (15a).

È importante notare che l'operatore lambda ci permette chiaramente di distinguere tra il negare che qualcosa, z, abbia una certa proprietà P, e l'attribuzione a z della proprietà negativa non-P. Negare che z ha la proprietà P si può rappresentare come ¬P(z). Attribuire a z la proprietà negativa non-P si può rappresentare come [λx ¬ P(x)](z).

Assumendo il principio della conversione lambda, ¬P(z) e [λx

¬P(x)](z) sono però enunciati equivalenti.

Ritornando ai limiti di FOL, notiamo infine che questo linguaggio non ammette questa possibilità:

(P3) i predicati possono occorrere in un enunciato sia in posizione di predicato che di argomento (soggetto logico).

Intuitivamente, vorremmo questa possibilità. Per esempio, «Mario è buono» si dovrebbe simbolizzare in FOL con «buono'(mario')». Ma allora, intuitivamente, «Mario è buono e la bontà è desiderabile» si dovrebbe simbolizzare con «buono'(mario') & desiderabile'(buono')», dove «buono'» occorre sia come soggetto che come predicato. Ma, poiché l'opzione (P3) non è ammessa da FOL, «buono'(mario) &

desiderabile'(buono')» non è un'espressione ammissibile per FOL.

Per la verità, Frege concepí FOL come parte di un linguaggio piú complesso privo dei limiti espressivi che abbiamo appena illustrato.

Ma senza queste limitazioni bisogna fronteggiare i paradossi logici.

Illustriamo il problema con il piú noto tra questi, il paradosso di Russell. Si consideri il predicato [λF ¬F(F)], che intuitivamente esprime la proprietà di essere una proprietà non esemplificata da se stessa (abbrevieremo questo predicato con «R»). Che vi sia questo predicato è garantito da (P2), un'opzione che è stata motivata, come abbiamo visto, come parte di un insieme che comprende anche (P1) e (P3). Ora, dato (P3), possiamo prendere in considerazione l'enunciato (18) R(R).

(19)

Abbiamo visto però che accettare (P1)-(P3) ci induce ad accettare (λ- conv). Ma, in virtú di (λ-conv), (16) è equivalente al suo opposto, ossia

(19) ¬R(R).

In altri termini, siamo costretti ad accettare l'equivalenza R(R) ↔

¬R(R). Assumendo la logica classica, ciò implica la contraddizione R(R) & ¬R(R).

4.8. La teoria dei tipi

Per affrontare il problema dei paradossi logici senza abbandonare la logica classica, Russell propose la teoria dei tipi (POM, appendice B; 1973, cap. 10; Whitehead e Russell 1910). Semplificando al massimo, possiamo dire che, secondo questa teoria, la realtà è articolata in una scala gerarchica. Al gradino piú basso troviamo gli individui. Al secondo gradino troviamo le proprietà e le relazioni che riguardano gli individui, per esempio, essere un gatto, essere una sedia, star seduto, ecc. Al terzo gradino troviamo le proprietà e le relazioni degli elementi del secondo gradino, come la proprietà di essere esemplificata da qualche individuo (di cui gode per esempio la proprietà di essere una sedia) o come la proprietà di non essere esemplificata da alcun individuo (di cui gode, per esempio, la proprietà di essere sia quadrato che rotondo). Questa gerarchia va avanti all'infinito. I vari gradini sono i cosiddetti tipi logici o piú semplicemente tipi. Sulla base di questa gerarchia, la teoria dei tipi nega l'opzione (P3), asserendo che è insensato attribuire una proprietà di un certo tipo t a un ente che appartiene a un tipo di livello uguale o maggiore di t. Quindi, in particolare, è insensato predicare una proprietà di se stessa. Ne consegue che la teoria dei tipi bandisce come insensati gli enunciati (16) e (17). Addirittura, lo stesso predicato «[λF

¬F(F)]» è bandito come insensato perché contiene l'espressione

«F(F)». Ammettere questa espressione infatti già presuppone che una qualche entità F si possa predicare sensatamente di se stessa.

La teoria dei tipi quindi propone che nei linguaggi logici si distingua accuratamente il tipo logico delle espressioni predicative in corrispondenza della stratificazione in tipi logici della realtà. Ciò si può fare utilizzando degli indici numerici. Per esempio, si può assumere che un predicato monadico della forma F1 esprima una proprietà di individui; che un predicato monadico della forma F2

(20)

esprima una proprietà di proprietà di individui, e cosí via. Per espressioni che riguardano gli individui dovremmo quindi utilizzare l'indice «0». La teoria dei tipi prescrive quindi che enunciati della forma Fn(am) sono insensati, e quindi non ammessi dalla grammatica, se m ≥ n8

La teoria dei tipi di Russell è stata accolta con molto favore, o quanto meno è stata ed è tutt'ora ampiamente usata, come uno dei modi possibili di ovviare al problema dei paradossi. Tuttavia, vi sono degli aspetti altamente controintuitivi in questa teoria. Per esempio, da un lato la teoria dei tipi asserisce che tutte le proprietà sono di un certo tipo logico, ossia ∀F(PROPRIETÀ(F) → HA_UN_TIPO(F))

.

9, dall'altra ci dice che questa asserzione è insensata, in quanto al massimo possiamo asserire, per un certo tipo logico n, che

∀Fn(PROPRIETÀn+1(Fn) → HA_UN_TIPOn+1(Fn)) (per questo e/o altri problemi si vedano, per esempio, Fitch 1952, appendice C; Copi 1971, Chierchia e Turner 1988, Orilia 2000). Quindi, non è mai mancata la ricerca di strade alternative per la soluzione dei paradossi, il che ha portato, in particolare, a teorie delle proprietà non tipate. Due di queste verranno prese in considerazione nel cap. 13.

8 Per dettagli si veda Copi 1971. Per una recente e chiara analisi delle motivazioni filosofiche addotte da Russell a favore della teoria dei tipi si veda Jung 1999.

9 Più precisamente, se vediamo la teoria dei tipi come un sistema formale, questa asserzione viene fatta nella metateoria corrispondente, che è però inconciliabile con la teoria oggetto, perché quest'ultima non ammette variabili che spaziano in un colpo solo su tutte le proprietà.

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