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Academic year: 2021

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Il fuori della terapia

Aldo Carotenuto, Roma

Se qualcuno mi chiedesse quali problemi ho in questo momento per quanto riguarda la mia professione non esiterei a dire che mi è sempre meno chiaro il rapporto esistente fra il pesante lavoro psicologico effettuato da me e dal mio paziente e i risultati pratici di questo lavoro.

Per voler essere ancora più chiari mi chiedo che relazione esiste fra l'analisi psicologica e la guarigione. A questo punto solo se chi mi ha rivolto la domanda fosse un profano avrebbe il diritto di meravigliarsi della mia risposta, perché solo chi non fa il nostro mestiere ha il diritto di supporre che fra i due momenti corra un preciso rapporto di causa e di effetto. Ma vediamo di capire il problema. Da un punto di vista storico, l'esigenza di guarire da disturbi funzionali è vecchia quanto il mondo come vecchia quanto il mondo è l'esistenza di individui che si sentono capaci di provocare queste guarigioni. In genere si parla di « forze », di « fluidi » o anche di « intervento divino », che si servono di uomini eccezionali forniti di questi doni o anche capaci, attraverso lo studio di antichi misteri, di affinare tali requisiti, in possesso di qualsiasi uomo

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comune. Quando poi la medicina ha incominciato a occuparsi dei disturbifunzionali, ha cercato di escogitare una serie di metodologie che nella sua ottica avrebbero guarito qualsiasi malattia. Un caso celebre è quello dell'illustre neuropatologo tedesco W. Erb che con il suo trattato di elettroterapia pubblicato a Lipsia nel 1882 pretendeva di poter guarire con l'elettricità tutti i disturbi nervosi. Freud dovette amaramente sperimentare che si trattava di una pura fantasia (1); ma dobbiamo anche pensare che nel dare alle stampe un libro così compromettente Erb non fosse completamente uscito di senno e che in un modo o nell'altro le sue applicazioni elettriche, almeno nelle sue mani, avessero dato i risultati da lui descritti. II problema emerge proprio quando non si individua esattamente il fattore curativo specifico. Si potrebbe pensare che tale fattore esiste come concomitanza tra la fiducia che il terapeuta ha nella validità degli strumenti di cui dispone, e la fiducia, ancora più grande, del paziente sulla capacità del terapeuta. A differenza del fenomeno del placebo nel quale solo il paziente crede, nel nostro caso il fattore curativo è la risultante di due forze dello stesso segno, ossia l'instaurarsi fra paziente e analista di un'unica convinzione nella quale tutte e due credono realmente e profondamente. L'effetto placebo in analisi è dato proprio da una costruzione mentale comune fra paziente e analista. È difficile pensare che questa costruzione nasca soprattutto dal mondo concettuale del paziente, per quanto l'esperienza di Jung con Cross possa far pensare al con- trario (2), ma essa nasce soprattutto dall'esperienza dell'analista che ha in mente comunque un certo modello di normalità e guarigione per il suo paziente. Si sa, che tutti i divieti esistono perché c'è una forte tendenza a perseguire ciò che essi evitano, e così nel mondo dell'analisi le continue prescrizioni e raccomandazioni devono certo avere a che fare con qualcosa che sottilmente è presente nella condizione analitica. Mi spiego con un esempio, preso direttamente da Jung. Nel commento a //segreto del fiore d'oro, egli riporta una lettera di una sua antica paziente:

(1) S. Freud, « Autobiografia

», in Opere 1924-1929.

Torino, Boringhieri, 1977, p.

84.

(2) M. Green, The von Richthofen SIsters, New York, Basic Books, 1974, pp.

43, 46; E. Hurwitz, Otto Gross « Paradies » Sucher zwischen Freud und Jung, Zurich, Suhrkamp Verlag, 1979.

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(3) C.G. Jung, // segreto del fiore d'oro, Torino, Boringhieri, 1981, p. 56.

Dal male ho ricevuto molto bene. Il mantenere la calma, il non rimuovere il nulla, il rimanere vigile e insieme l'accettazione della realtà, — prendendo le cose come sono e non come avrei voluto che fossero — mi hanno portato a conoscenze singolari ma anche singolari energie, quali prima non avrei potuto immaginare. Ho sempre pensato che se si accettano le cose, esse in un modo o nell'altro ci sopraffanno; ora invece non è più così e solo accettandole, è possibile prendere posizione di fronte ad esse (3).

Questo brano di lettera mi sembra molto indicativo perché sarebbe difficile distinguere i pensieri della paziente e la concezione di Jung che noi conosciamo dai suoi scritti.

Essa ha imparato a ragionare con certe categorie e con una certa visione del mondo che è tipica di Jung. Ma si può fare un'ulteriore considerazione. Noi non siamo autorizzati a pensare che Jung abbia effettivamente espresso questi pensieri, o abbia indotto la sua paziente a leggere determinati scritti. Una spiegazione del genere sarebbe un po' troppo semplicistica. La verità è che nell'inter-pretazione e nella discussione dei materiali che emergono durante le sedute dell'analisi, la maniera con la quale vengono messi insieme non può non risentire dell'unico modo con il quale l'analista sa coordinare i fatti, vale a dire con la sua stessa visione della vita. A questo punto i casi sono due: o il paziente è capace di assorbire questa nuova modalità di vedere le cose, e allora acquisisce anche una certa chiave interpretativa della vita, la chiave che fino allora non aveva o che comunque funzionava male ricavandone un certo beneficio; oppure non riesce ad assimilare la modalità dell'analista e allora l'analisi non ha successo. Mi si potrebbe chiedere se io stesso abbia in mente un modello di mappa mentale che sia di per sé terapeutico. Mi sembra ovvio che non si possa pensare a qualcosa di assolutamente assurdo ma si debba ritenere che questa mappa mentale rappresenti qualcosa del tutto plausibile. Per fare un esempio si potrebbe pensare che una proposta inconscia di una visione del mondo che concepisca le emozioni e i sentimenti come ambivalenti, sia molto più terapeutica di una visione che veda

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le emozioni rigide ed unilaterali. Se poi mi sì chiedesse da dove derivano per l'analista queste proposte inconsce io ritengo che siano il risultato della sua metamorfosi, attraverso lunghi anni di esperienza di analisi e di terapia analitica. E per quanto riguarda i fattori terapeutici?

Giustamente si può anche affermare che forse esiste un livello oggettivo di conoscenze funzionali per la comprensione della psiche. Per esempio Jung dice: « Una forma molto moderna di psicologia tiene conto delle possibilità che nell'inconscio si svolgano determinati processi che, in virtù del loro simbolismo, compensano le deficienze e le confusioni dell'atteggiamento conscio.

Quando queste compensazioni sono rese consce per mezzo della tecnica analitica esse causano nell'atteg- giamento conscio un tale mutamento che abbiamo diritto di parlare di un nuovo livello di coscienza (...) il processo inconscio non raggiunge quasi mai la coscienza senza un aiuto tecnico » (4).

Questa frase di Jung potrebbe alludere appunto ad un esempio di una conoscenza obbiettiva della psiche che però secondo il mio parere, deve essere assolutamente coerente con una concezione soggettiva della vita che io, in quanto analista, ho sviluppato durante la mia esistenza.

Torniamo ancora a Jung. Durante la sua vita egli tentò di riassumere i risultati del suo lavoro con i suoi pazienti: « Anni fa compilai una statistica sui risultati dei casi da me trattati. Non ricordo esattamente le cifre ma facendo una stima prudente, posso affermare che un terzo dei casi effettivamente guarì, un terzo migliorò notevolmente e solo sul rimanente terzo non influì in modo essenziale. Ma sono proprio i casi non migliorati i più difficili da giudicare, per- ché di molte cose i pazienti non si rendono conto e non le capiscono se non dopo anni, e solo dopo possono risentirne l'effetto » (5).

Chiediamoci che cosa intenda Jung quando afferma che i casi più interessanti sono quelli« non migliorati » perché il tempo ha dimostrato che solo dopo diversi anni essi hanno ricavato dei benefici. Se in base alla mia esperienza cerco di capire che cosa

(4) C. G. Jung, « Commento psicologico al ' Bardo Thodol ' (II libro tibetano dei morti) « (1935/1953), in Psicologia e Religione, Opere voi. 11, Torino, Bo-ringhieri, 1979, pp.

503-504.

(5) C. G. Jung,Ricordi sogni riflessioni, Milano, II Saggiatore, 1975, p. 170.

(5)

(6) S. Freud, « Introduzione alla psicoanalisi », in Opere

1930-1938. Torino,

Boringhieri, 1979, p. 248-249.

(7) B.A. Parrei I, /fondamenti della psicoanalisi, Bari, Laterza, 1983, pp. 193-210.

(8) C. G. Jung, Ricordi sogni riflessioni, op. cit., p. 171.

possa essere effettivamente successo, io non posso che immaginare una specie di mappa mentale che sia stata svolta dinnanzi al paziente, una mappa capace di inglobare le varie circostanze del vivere, e che nel momento giusto essa abbia acquistato un significato.

Naturalmente Freud non sarebbe stato d'accordo con una simile spiegazione; infatti così si esprime, riferendosi espressamente a Jung: « Supponete, per esempio, che un analista tenga in poco conto l'influsso del passato del paziente e ricerchi le cause della sua nevrosi esclusivamente in motivi attuali e in ciò che costui si attende dal futuro. Egli trascurerà in tal caso anche l'analisi dell'infanzia, adotterà una tecnica completamente diversa e sarà costretto a compensare la mancanza di risultati che sarebbero derivati dall'analisi dell'infanzia, intensificando il proprio impulso didattico e indicando di- rettamente determinate mete da perseguire nella vita. A noi altri non resta da dire: questa sarà una scuola di saggezza ma non è più un'analisi » (6).

Quest'ultima frase è ormai entrata nel linguaggio stereotipato degli analisti, che di fronte a qualcosa di diverso da ciò che essi praticano non fanno che ripeterla, senza nemmeno più capirne il senso. In effetti, poiché si è constatato che i miglioramenti analitici, quando ci sono, si equivalgono (7), possiamo pensare all'unica cosa di buon senso che è lecito supporre. Mi spiego con un esempio:

se in questo momento sento un rumore di zoccoli nella strada, posso pensare a varie cose, anche ad una zebra, ma è molto probabile che sia un cavallo; nella terapia analitica c'è un fenomeno che Jung ha descritto con estrema chiarezza: « II rapporto consiste dopo tutto in un raffronto costante e in una mutua comprensione, nella contrapposizione dialettica di due realtà psichiche opposte. Se, per un qualsiasi motivo. queste reciproche impressioni non si urtano tra loro, il processo psicoterapeutico resta inefficace, e non produce alcun cambiamento. Se il medico e il paziente non diventano un problema l'uno per l'altro, non si trova alcuna soluzione » (8). Si noti che Jung accenna a due realtà psichiche opposte, e con que-

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sto dobbiamo intendere che l'incontro non avviene a livello di coscienza ma di inconscio.

È bene sottolineare questo aspetto; perché un modo di intendere l'analisi, che potrei definire ingenuo, e che Cremerius ha chiarito magistralmente in un suo recente articolo (9), mette l'accento sulle comunicazioni reali tra paziente e analista, non tenendo conto che queste non hanno gran peso rispetto a quelle che si trasmettono tra inconscio e inconscio. E con questo voglio dire che la famosa scuola di saggezza a cui ironicamente alludeva Freud riferendosi a Jung, è una mappa mentale che comunque viene alimentata anche dal più ortodosso degli analisti che si chiude nel più stretto riserbo. Farrell, secondo il mio punto di vista, ha descritto in modo molto accurato quello che effettivamente succede anche nelle situazioni più apparentemente corrette da un punto di vista analitico.

Commenta Farrell: «È plausibile che siano proprio queste due regole — di indeterminatezza e di non contraddizione

— a rendere tanto particolari gli incontri dell'analisi: queste due regole, accanto a quella fondamentale della libera associazione, contribuiscono insieme a creare una situazione di rapporto personale con proprie caratteristiche specifiche, che diventa ben presto incerta, ambigua per il paziente. Questo non sa che cosa sta succedendo, se sta facendo una cosa utile o no, cosa pensa di lui l'analista e se sta facendo progressi o no; questa situazione gli procura ansia; e comincia, allora, a cercare un modo di ridurre l'ansia e l'ambiguità prodotte dalla situazione, ma non trova nessun aiuto diretto e sviluppa quindi, un percepibile bisogno di guida » (10). Domandiamoci ora come viene soddisfatto questo bisogno di guida. Non si creda ingenuamente che il silenzio sia sufficiente ad evitare questo pericolo, perché, di fatto, la contrapposizione psichica di cui parlava Jung è per il più debole — cioè il paziente — un modo per assorbire lo stesso ideale di vita del proprio analista, un ideale che diventa la sua mappa mentale d'orientamento. Si capisce perché ogni analista ribadisce di continuo che il suo non è un inten

(9) J. Cremerius, « La regola dell'astinenza », in Psicoterapia e scienze umane, n. 3, 1985, pp. 3-36.

(10) B.A. Farrell, /fondamenti della psicoanalisi. op. cit., p.

111.

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(11) C.G. Jung,Ricordi sogni riflessioni, op. cit., p. 165.

(12) C.G. Jung, // problema dell'inconscio nella psicologia moderna, Torino, Einaudi, 1964, pp. 23-24.

to pedagogico o didattico o suggestivo, ma come si sa le intenzioni non sempre corrispondono alla realtà. Jung dice, ad esempio " Non cerco mai di con-vertire i miei pazienti a qualcosa e non esercito alcuna pressione » (11). Non si potrebbe pensare, invece, che quello che effettivamente è produttivo nell'analisi ha a che fare con gli insight che dovrebbero in teoria provocare delle vere e proprie trasformazioni, ma unicamente con una serie di proposte in-consce di vita, il cui martellamento continuo può alla fine condurre a dei risultati? Certo, a questo punto ci incontriamo in un'apparente contraddizione in quanto la mappa mentale a cui faccio riferimento ora sembra essere basata sulla visione della vita dell'analista e quindi cosciente, oppure sembra riferirsi alle proposte inconsce.

Soffermiamoci su di un'affermazione di Jung: « Infatti, comunque la si voglia rivoltare o girare, la relazione fra medico e paziente è una relazione personale entro la cor- nice impersonale del trattamento medico. Nessun artificio può evitare che il trattamento medico sia il prodotto di un reciproco influenzamento, al quale partecipa l'intera personalità sia del paziente sia del medico. Nel trattamento ha luogo l'incontro di due fatti irrazionali, cioè di due uomini che non sono grandezze delimitate e determinabili, ma portano con sé, accanto alla loro coscienza, forse determinata, una sfera di incosciente di indeterminata estensione » (12). Allora, secondo il mio punto di vista, si tratta di contraddizione apparente in quanto, come da Jung esplicitato e come l'esperienza clinica immancabilmente conferma, la mappa mentale che dall'analista si travasa nel paziente è il risultato combinato della dimensione conscia e inconscia anche se io preferisco dare alla dimensione inconscia un peso di gran lunga maggiore di quella conscia.

Si tenga presente comunque che la proposta è già nel modo con cui si interpretano gli elementi emersi durante l'analisi, e questo modo, anche se fa riferimento a dei modelli teorici, è pur sempre ancorato alla personalità dell'analista. Per essere più chiari, la scelta delle parole e il coordinamento del-

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le informazioni tradotte in linguaggio conscio da una matrice inconscia, è di per sé già un suggerimento e una « pressione » sulla vita del paziente. Ed è a questo punto che dobbiamo parlare dei « risultati pratici ».

Sono consapevole che ci troviamo di fronte ad una serie di difficoltà, perché in genere non c'è un accordo preciso su questi problemi. Io sono del parere che la vita di un uomo può essere paragonata ad un albero la cui chioma è proporzionata con le radici — anche se Jung preferisce portare un esempio diverso: « La vita mi ha fatto sempre pensare ad una pianta che vive nel suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma »{13); «In fondo le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni » (14).

Naturalmente la dimensione interiore, per definizione, sfugge a qual-siasi controllo, ed è bene che sia così. In fondo la vera libertà risiede soltanto nell'abisso della nostra anima, ma quando il discorso si sposta sulla effettiva validità di un processo terapeutico, invocare la profondità di un'esperienza smentita poi da un comportamento che non ha nulla a che fare con la dignità dell'uomo, mi sembra un po' troppo disinvolto. L'efficacia della terapia analitica può essere verifi-cata, a mio parere, non soltanto dalla comprensione di un verosimile quadro psicologico interiore, ma dall'effetto che questa conoscenza ha poi nella realtà della nostra vita quotidiana. Per quanto ovvia possa sembrare questa proposizione, di fatto essa non viene mai discussa tra gli analisti che considerano scontato il beneficio che si può trarre dalla terapia, ma viene sollevata da coloro che sentono il bisogno di controllare i risultati.

Ciò che avviene all'interno del setting analitico ha scarso significato nell'ottica di una verifica che osserva soltanto il comportamento, e del resto i pochi studi che cercano di controllare se effettivamente ci sono dei miglioramenti con la

(13) C.G. Jung, Ricordi sogni riflessioni, op. cit. p. 22.

(14)Ibidem, pp. 22-23.

(9)

(15) B.A. Farrell, /fondamenti della psicoanalisi. op. cit., pp.

193-210.

(16) E. Cobb, // genio del- l'infanzia, Milano, Emme Edizioni, 1982, p. 92.

terapia analitica non offrono alcuna risposta definitiva (15). Non resta quindi che proporre una propria spiegazione empirica, priva di convalide di altri osservatori ma basata su di un materiale che presenta una caratteristica particolare. All'interno di un'Associazione Analitica è possibile, proprio per la sua intrinseca organizzazione, avere unfollow up abbastanza lungo dei pazienti dei colleghi e dei propri che sono poi diventati allievi analisti. So bene che si tratta di generalizzare osservazioni che si riferiscono a un universo particolare e limitato, ma attualmente non vedo altro sistema per affrontare questo problema. Per quanto riguarda la mia esperienza personale posso dividere gli allievi da me avuti in cura e che poi sono entrati nell'Associazione per un training analitico in due categorie: quelli per i quali l'essere umano viene prima di qualsiasi altra cosa e come tale va rispettato, e quelli per i quali invece l'uomo conta meno delle loro ambizioni personali. Si potrebbe anche esprimere questo concetto così: alcuni cercano la verità e altri cercano l'affermazione personale. Vorrei chiarire che questa divisione non ha un significato moralistico, ma solo psicologico e, come è facilmente comprensibile, si rife- risce al critico problema del narcisismo con tutte le sue innumerevoli implicazioni. Nel primo gruppo il miglioramento è stato notevole, nel senso che il disagio e la sofferenza psicologica sono stati integrati in una prospettiva più vasta, per cui il blocco o la paralisi del proprio comportamento è di fatto scomparsa a favore di un recupero sorprendente di una propria attività creativa.

E del resto: « ... la salute di una persona dipende dalla sua creatività, perché nel rispondere agli stimoli e nell'adattarvisi, ciascun individuo cerca di raggiungere un fine che, in un certo senso, egli si è prescelto. È in effetti la stessa medicina a decretare che salute ed ' espressioni di creatività personale ' sono inestricabilmente intrecciate»

(16). Vorrei chiarire più a fondo questo problema.

Un'analisi ben riuscita, almeno nella mia esperienza, conduce al riconoscimento di una singolarità particolare e di una profonda individualità; non deve

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però sfuggirci il prezzo di questa conquista, che nella maggior parte dei casi conduce ad un'intensa solitudine. E a che cosa equivale la solitudine se non a un sentirsi collocati all'interno di se stessi come perduti, presi in trappola da qualcosa che sembra trascendere le nostre stesse forze? Ci si sente tagliati fuori, incapaci di una vera e propria comunicazione, per cui si può avere l'impressione di essere soli a navigare nell'universo. Io ritengo che il recupero della propria creatività coincida proprio con l'approfondimento della solitudine, che forse un tempo era stata negata come patologica e che adesso, dopo l'analisi, viene recuperata come un impulso sano della psiche umana. Solo in questa circostanza possiamo capire le parole di Rilke quando diceva che « così si mutano per colui che diviene solitario tutte le distanze, tutte le misure»

(17). Anche in questo caso è come se la dimensione narcisistica fosse stata elaborata sufficientemente in modo da dare spazio non soltanto alla propria esistenza e al proprio bisogno di affermazione ma anche e soprattutto alla presenza degli altri e al loro diritto di esprimersi con la loro dignità umana.

Per il secondo gruppo il discorso è piuttosto complesso perché il confine fra la correttezza dell'agire e la nevrosi diviene molto sottile. Sono consapevole che l'argomento richiederebbe una trattazione a parte ma è comunque necessario tracciare alcune linee per un successivo approfondimento. Mi soffermerò più a lungo su questo secondo gruppo perché, come giustamente si suoi dire, i casi cimici che non hanno avuto i risultati sperati insegnano molto di più di quelli che hanno avuto un esito positivo. Il problema parte naturalmente proprio dall'analista e dalla sua capacità di analizzare. Come ha recentemente sottolineato Janet Schumacher Finell(18) è molto importante che l'analisi personale dell'analista abbia con successo affrontato i temi narcisistici della personalità, come il senso del grandioso, le spinte aggressive e il desiderio del potere. Se questo è stato fatto in modo imperfetto, diventerà difficile affrontare il narcisismo dei propri allievi-pazienti. Si

(17) R. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Milano, Adelphi, 1980, p. 57.

(18) J. Schumacher Finell, « Narcissistic Problems in Analysts », in International Journal of Psycho-Analy-sis, voi. 66(4), 1985, pp. 433-445.

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tratta, come è facilmente intuibile, di una situazione molto delicata perché ogni sentimento ostile negato purtroppo sollecita i bisogni narcisistici dell'analista ma mette in condizioni pericolose il proprio paziente-analista perché questi scaricherà altrove la sua aggressività. In una Associazione Analitica questi bersagli, verso i quali indirizzare la propria aggressività non elaborata durante la propria analisi, sono poi gli altri analisti colleghi o anche nemici del proprio analista personale.

Debbo subito far notare che l'analista stesso diventa cieco di fronte a questa situazione perché quanto più l'allievo lo idealizza e disprezza gli altri colleghi ogni elaborazione diventa impossibile. In queste condizioni l'aggressività viene convogliata e dall'allievo e dall'analista verso gli altri analisti dell'Associazione. Una corretta conduzione dell'analisi prevederebbe che questi problemi venissero affrontati col mettere in evidenza la così detta « tensione narcisisti-ca » ma la complicità dell'analista con il suo allievo rende in pratica impossibile qualsiasi lavoro anali- tico. Ma su questo problema è necessaria una pre- cisazione che mi sembra veramente importante per comprendere che la dimensione del narcisismo, con un adeguato controllo, è indispensabile all'analista. A questo proposito così commenta Grunberger parlando di alcuni analisti che hanno fatto delle scoperte nel campo della psicoanalisi senza essere stati analizzati: « E pur tuttavia erano mal analizzati, quasi non analizzati o talvolta, come Groddeck... non analizzati del tutto. Ma essi hanno dimostrato, ciò nonostante, di essere dei veri analisti. In effetti ciò che fa un buon analista non è un fatto quantitativo. Quello che conta, soprattutto, non è il numero dei conflitti analizzati o il numero delle sedute, ma l'investi- mento narcisistico del lavoro analitico in quanto tale... » (19). In effetti, per quanta amara possa essere questa mia considerazione, ho ricavato l'impressione che l'intervento analitico non solo ha inciso scarsamente su tali situazioni psicologiche ma ha addirittura contribuito a creare delle vere e proprie corazze caratteriali. Ci sarebbe da chiedersi come mai

19 (19) B. Grunberger, // nar-

cisismo, Bari, Laterza, 1977, p. 181.

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sia stato possibile che alcuni allievi abbiano potuto superare tutta una serie di controlli selettivi, ma si può comprendere che il mio discorso non si riferisce ad eventi macroscopici ma a situazioni molto nascoste il cui rivelarsi richiede tempi e circostanze adatte. Ma tentiamo di capire come in questo secondo gruppo può essersi sviluppata una modalità di esistenza e professionale diversa da quelle che sembrano essere le legittime aspettative per un analista. Può contribuire a creare una corazza caratteriale il modo in cui l'allievo analista fa riferimento alla teoria psicoanalitica, con il relativo apparato di modelli e di regole, sia concettualmente che nella pratica analitica. Mi riferisco ad una modalità difensiva e autorassicurante che induce ad interpretare alla lettera l'insegnamento analitico e a utilizzare in maniera impersonale, più o meno rigida e acritica, i modelli di cui disponiamo. Si può semplificare il problema dicendo che ogni concezione analitica e la sua ipotetica applicazione, ipotetica perché non esistono nella psicoanalisi legami logici fra teoria e tecnica, è soltanto funzionale alla situazione, che va studiata caso per caso, in maniera quasi artigianale; ma questo, si comprende bene, può essere fonte di sgomento per un allievo alle prime armi.

Eppure fin dall'inizio è possibile capire il grado di ' ardimento ', la capacità di azzardare nell'ampia arena del campo analitico.

Il problema presenta molte più sfumature di quante ne appaiano a prima vista. Infatti non si tratta semplicemente di applicare in maniera grossolana la teoria appresa, — può capitare a tutti di essere grossolani — ne di un semplice problema di insicurezza. L'insicurezza è intrinseca al problema, perché possiamo considerarla una sua conseguenza. Cerchiamo di capire il perché. Ogni allievo impara, con il lavoro di analisi che svolge su stesso, ad essere critico e a sviluppare un atteggiamento di ricerca. Egli dovrebbe essere messo in grado di rendere storici, vali a dire legati al tempo in cui vengono formulati, non solo i modelli derivati dalla teoria psi- coanalitica fondata dai Padri, ma anche e soprattutto 20

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quelli derivati dalla propria esperienza analitica con vari analisti e ' maestri '. Ma questo lavoro di elaborazione implica qualcosa di molto più profondo della semplice volontà e capacità di opporsi alle teorie del maestro. Un atteggiamento ingenuo e puerile comporta un distaccarsi, un rifiutare e un disprezzare la teoria o il metodo dell'altro senza alcun atteggiamento critico, attivato magari da problemi di seduzione durante analisi successive. Un tale atteggiamento è del tuttodifensivo. Il problema più profon- do, anche se più doloroso, da affrontare riguarda invece la possibilità di affermare il proprio modo di essere reale e il poter formulare un pensiero autonomo. Ma purtroppo complicazioni e difficoltà emergono da quella che ho sempre definito « psicopatologia dell'analista ».

Riflettiamo su alcune considerazioni della Miller, una acuta e sensibile analista svizzera che riprende il tema dell'analista narcisista: « Capita spesso di sentir dire che gli psicoanalisti soffrono di un disturbo narcisistico e questa affermazione può basarsi non soltanto su dati osservati, ma può anche essere dedotta dal tipo di talento che si richiede ad un analista. La sua sensibilità, la sua capacità di empatia, di provare sentimenti estremamente differenziati e intensi; il suo esser provvisto di finissime antenne lo predistinano proprio a questo: a venir usato — e l'uso può degenerare in abuso — come figlio di coloro che soffrono di carenze narcisistiche (20).

Naturalmente la Miller ci offre una situazione ottimale per quanto riguarda l'analista, e ne sottolinea alcune doti, difficilmente acquisibili e probabilmente * innate ' in ogni analista. Miller ci parla di empatia, di antenne e sensibilità postulando l'esistenza di un destino infantile che ci ha proiettato nella professione. « Ritengo che proprio il nostro destino infantile, non meno delle nostre doti, ci metta in grado di esercitare questa professione... purché si sia riu- sciti in primo luogo a sopportare la consapevolezza che, per non perdere l'oggetto amato, siamo stati costretti a soddisfare i bisogni inconsci dei nostri genitori a spese della nostra autorealizzazione, in se-

21 (20) J. Schumacher Finell, op.

cit.

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condo luogo ci sia stata data la possibilità di vivere, nell'analisi, la ribellione e il dolore per la mancata disponibilità dei genitori ai nostri bisogni narcisistici primari... » (21).

Ma a questo punto ci imbattiamo in una grossa difficoltà, perché non è detto che un analista abbia del tutto sotto controllo la sua dimensione narcisistica, anzi si potrebbe dire che proprio quella del narcisi-smo è una delle patologie che accompagnano per tutta la vita coloro che esercitano la professione analitica, perché è insita in tale professione tutta una serie di rituali e circostanze che alimentano abbondantemente le aspettative narcisistiche dell'analista. Per Miller « i desideri narcisistici dell'analista

— il desiderio ad esempio di ottenere conferma, risonanza, comprensione e di essere preso sul serio — vengono soddisfatti dal paziente che porti materiale in accordo con il bagaglio di conoscenza dell'analista, in sintonia con le sue teorie e conseguente alle sue attese. L'analista esercita in tal modo lo stesso tipo di manipolazione inconscia a cui egli era esposto da bambino » (22).

La Miller discute le conseguenze e i rischi di questa manipolazione operata dall'analista nei confronti del paziente, perché proprio questi tipi di pazienti sono particolarmente recettivi nei confronti delle aspettative inconsce dell'analista, e sono pronti a rispon-dervi anche brillantemente, grazie al fatto che proprio questo hanno imparato da bambini: mettere la propria sensibilità, il proprio mondo affettivo al servizio dei bisogni narcisistici della madre. Inoltre questo tipo di paziente sarà anche particolarmente intelligente poiché « Al bambino oggetto d'investimento narcisistico è possibile sviluppare indisturbato le sue facoltà intellettuali, non però il suo mondo affettivo e di ciò la sua salute psichica risente profondamente. L'intelletto, rafforzando la difesa, assume una funzione protettiva di valore incalcolabile; ma dietro la difesa il disturbo narcisistico può farsi più profondo »(23).

Vediamo allora, alla luce di queste considerazioni, quali sono i problemi che ci apprestiamo a fronteg-

(21) A. Miller, //dramma del bambino dotato, Torino, Boringhieri, 1982, p. 36.

(22)Ibidem, pp. 36-37.

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giare. Un tipo di paziente del genere è anche lo stesso che a un certo punto della sua analisi, o anche dopo, può diventare allievo analista. I suoi problemi narcisistici sono il presupposto psicologico di questa scelta; ma è proprio a questo punto che sorgono diversi interrogativi che sembrano fatalmente portarci in un circolo vizioso. Se il paziente avesse risolto i suoi problemi narcisistici, avrebbe sentito la necessità di fare l'analista? Se, come è probabile, il paziente-allievo-analista non ha risolto i suoi problemi narcisistici, questo può voler dire che nel rap- porto d'analisi si è ricreata la situazione del rapporto con la madre, che non è stato possibile elaborare, o che è stata affrontata solo in misura limitata, lo credo che, se la situazione si riproduce, l'analista il più delle volte ci casca dentro in pieno, proprio grazie ai medesimi problemi, e il paziente diventa allievo analista. Anche se ciò non accade, grazie forse ad una maggiore consapevolezza dell'analista, l'investitura d'allievo può essere la soluzione terapeutica alle problematiche narcisistiche del paziente, che inconsciamente l'analista gli offre, avendola egli già sperimentata su se stesso come unica soluzione pos- sibile.

Se si guarda un'associazione analitica alla luce di questa problematica, nel cui intreccio sono coinvolti analisti didatti e allievi-analisti, non si può non sentire un certo imbarazzo. Il problema più serio da fronteggiare è che l'inconsapevolezza di questa problematica, favorita dall'adeguamento acritico al modello teorico di altri, può aggravare il processo di alienazione da se stessi.

Diventare analista e fare l'analista in questi termini può significare, per l'allievo, alimentare il falso Sé, con conseguenze molto gravi sia per se stesso sia per eventuali pazienti che presentino un analogo disturbo narcisistico. È probabile che, forte della sua posizione, egli faccia inconsapevolmente scontare al proprio paziente ciò che egli stesso ha patito, prima nell'infanzia, poi con il proprio analista, utilizzando l'altro per i propri in- consci scopi narcisistici. Insomma il paziente seguirà la stessa sorte del suo analista. Ma torniamo

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all'allievo-analista. Cosa accadrà ad un allievo come quello ipotizzato, di fronte alle richieste che prevengono dai didatti dell'Associazione? Egli si adeguerà perfettamente, almeno per qualche tempo, alle richieste che soddisfino i bisogni narcisistici dei suoi didatti. Dovrà essere una persona estremamente pronta, studiosa e intelligente. Le gratificazioni che riceverà per questo, aumenteranno l'alienazione del suo mondo affettivo e alimenteranno il falso Sé. Può darsi persino che questa sua capacità di adattamento ai bisogni narcisistici altrui Io renda particolarmente gradito ai colleghi più adulti, soprattutto se, sollecitato in maniera del tutto inconscia, durante l'analisi propedeutica e di controllo comincerà a ' chiacchierare ' delle sue precedenti analisi, dimostrando in questo modo infantile al suo analista didatta di es-sersi staccato dal primo o dai primi analisti.

Ancora più grave mi sembra il comportamento dell'allievo che per venire incontro al narcisismo del proprio analista didatta si sforza di dimostrare di lavorare bene secondo le linee che intuisce essere quelle apprezzate dal suo analista. L'allievo comincia a condividere le idee del didatta, sollevandolo dalla sua solitudine, e tramite l'ortodossia andrà incontro a tutti i bisogni consci e inconsci del proprio analista. Si deve inoltre considerare che il problema, essendo ora spostato dal campo analitico, in cui può essere sempre analizzato e affrontato, alla realtà dell'Associazione — nonostante le analisi didattiche e le supervisioni che svolgono un ruolo diverso da quello svolto dall'analisi personale — diventa particolarmente « intrattabile », tanto più che all'inizio della loro formazione agli allievi è fatto esplicito divieto di prendere in analisi dei pazienti.

Se anche ciò si verifica nella pratica, difficilmente gli allievi potranno discuterne apertamente con i didatti. II fatto che l'allievo incominci a lavorare solo dopo molto tempo dall'inizio della formazione (24) non fa che rafforzare l'idea che la pratica coincida con la teoria. Questa situazione ritarda il confronto con il proprio mondo affettivo, quello che poi è stato anche solo in parte escluso dall'analisi, e alimenta

24 (24)Ibidem, pp. 57-58.

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un'insicurezza e un senso di inadeguatezza che esplo- deranno con una certa drammaticità con l'inizio del lavoro vero e proprio con i pazienti. Infatti, se l'allievo analista ha conservato, come avrà sicuramente conservato, il suo malessere, questo sarà anche abbastanza forte da costringerlo a cercare una soluzione per proprio conto (come ha sempre fatto); e se la sua sensibilità lo aiuta, e se avrà la fortuna di ascoltare il più attentamente possibile i suoi pazienti, si renderà conto, nel tempo, che deve lasciare spazio alla realtà dell'altro e sacrificare la teoria. Egli si accorgerà che anche le interpretazioni che egli usa in sovrabbondanza per ottenere l'ammirazione e l'amore del paziente, se soddisfano i suoi bisogni narci- sistici, se lo rassicurano sulle sue capacità professionali, in certi casi non solo non servono ma addirittura paralizzano la libera espressione del paziente, ne bloccano la possibilità di essere se stesso, di comunicare apertamente la propria realtà affettiva. In-somma l'allievo analista riuscirà a formulare a se stesso la vera natura del suo problema, soltanto grazie all'inizio della sua vera analisi, che sarà quella con i suoi pazienti. Occorre però riconoscere e precisare che l'analisi con i pazienti non può essere sufficiente e non soltanto per i rischi impliciti in questo tipo di rapporto. Sono del parere che sia ne- cessario affrontare il problema all'interno della propria analisi, concedersi finalmente questo abbandono. In caso contrario nasce la possibilità di cominciare a invidiare i propri pazienti, per la possibilità che essi hanno di abbandonarsi. Occorre inoltre considerare che il lavoro analitico, per le difficoltà e le frustrazioni a cui di continuo espone l'analista, è di per sé una fonte di solitudine. Se questa solitudine si assomma a quella di cui già normalmente offre la persona con disturbi narcisistici, a causa del l'auto-estraneazione del proprio mondo emotivo, si può tentare di immaginare le conseguenze.

Mentre l'allievo analista si trova ancora molto lontano dalla soluzione dei suoi problemi potrà vivere tortissimi sensi di incapacità, di impoverimento del senso di vitalità e blocchi della propria creatività co-

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me altrettante conseguenze della rinuncia inconscia all'espressione di Sé e l'affermazione del falso Sé. Del resto bisogna considerare che se la situazione fosse questa, il problema sarebbe risolvibile giacché una situazione del genere non farebbe altro che attirare l'attenzione sul fatto che qualcosa non va. Può però verificarsi che anziché cadere in depressione l'allievo- analista risponda con sentimenti di grandiosità. La ^ soluzione » di fare l'analista potrebbe essere funzionale proprio a questo capovolgimento della situazione psicologica, individuando nella grandiosità una falsa soluzione alla depressione. E in effetti secondo la Miller: « L'altra faccia della depressione, all'interno del disturbo narcisistico, è la grandiosità » (25), e il terapeuta deve essere abbastanza abile nel rendere consapevole il suo paziente della sua stessa grandiosità per poter far fronte agli artigli della depressione. Ma il lavoro deve essere svolto in profondità e in maniera radicale perché, come sottolinea ancora la Miller « Solo la capacità di lutto, cioè la capacità di rinunciare all'illusione di aver avuto un'infanzia ' felice ' può restituire al depresso la sua vitalità e creatività e liberare il grandioso... dallo stress e dalla dipendenza della sua fatica di Sisifo » (26).

D'altra parte l'illusione dell'infanzia felice è dura a morire.

Essa può entrare con prepotenza nella situazione analitica e successivamente può essere spostata sulla stessa Associazione analitica. Ma poiché i sogni sono destinati a naufragare in quanto appartengono al regno degli Inferi e non a quello degli uomini, il futuro analista nell'Associazione non potrà vivere la sua infanzia felice e si sentirà ingannato. Ma noi sappiamo che non si tratta d'inganno. Cosa si può fare per rendere meno pericolosa una situazione che in apparenza sembra inevitabile? lo ritengo che durante il trattamento analitico degli allievi che hanno già fatto un'esperienza d'analisi personale sia di importanza capitale comprendere che si tratta di un percorso quasi obbligato differenziarsi dalle analisi personali e non tanto per cercare un'identità in contrapposizione ad un altro (il pri-

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(25) Ibidem, p. 78.

(26) Ibidem, p. 78.

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mo analista), quanto per capire in che cosa consiste la propria diversità. C'è un passo di Paul Valéry su cui vale la pena di riflettere: « Ho cercato di essere il più possibilmente diverso dagli altri — poiché gli altri sono un tipo di esseri che si suppongono conosciuti — ben determinati, dunque finiti, e che dunque non bisogna ripetere. Occorre distinguersene a tutti i costi per non sentire anche se stessi come un'inutile ripetizione, un sempliceUno di più, mediante la cui esistenza non viene aumentato niente altro che un numero » (27).

Questo passo permette di capire che cosa io intendo quando affermo che non bisogna lavorare analiticamente durante una seconda analisi per contrap-porsi, ma soltanto per ritrovarsi ancora più profondamente. Il risultato sarà, come al solito, una nuova perdita del padre, forse lavera perdita del padre. E del resto il lavoro dell'analista, e quindi del futuro analista, non si basa su continue perdite ed elaborazioni del lutto?

(27) P. Valéry, Quaderni I, Milano, Adelphi, p. 207, 1985.

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