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UilTrasporti: privatizzazione gruppo FSI, dove va la ferrovia? La relazione del segr. Nicola Settimo

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Relazione del Segretario Nazionale Mobilità Nicola SETTIMO

Prima di entrare nel merito del tema specifico di cui ci occupiamo oggi, relativo alla prospettata privatizzazione delle Ferrovie dello Sato Italiane, crediamo sia opportuno iniziare questa introduzione con una brevissima cronistoria del processo di privatizzazione nel nostro Paese.

Il processo di privatizzazione su larga scala delle imprese di proprietà pubblica, avviato in Italia nei primi anni Novanta, per la dimensione delle vendite fino al 2007 è stata, nel mondo, inferiore solo a quella del Giappone.

L’avvio delle privatizzazioni fu imposto dal grave deterioramento dei conti delle aziende a partecipazione statale, soprattutto l’IRI e l’EFIM, in una fase in cui anche i conti dello Stato erano in condizioni non più sostenibili, dopo oltre un decennio di elevati disavanzi che avevano fatto lievitare il debito pubblico oltre il 120% del PIL.

Le privatizzazioni furono accelerate dalla crisi di cambio del settembre 1992, che portò all’uscita della lira dallo SME e rese chiara la crisi di credibilità delle politiche finanziarie dell’Italia, e dall’esplodere degli scandali di tangentopoli, che portarono alla luce fenomeni estesi di dilapidazione di risorse pubbliche e di corruzione nelle aziende di proprietà dello Stato.

Gli obiettivi del programma di privatizzazione furono indicati dal governo di allora nel «Libro verde sulle partecipazioni dello Stato», presentato al parlamento nel novembre del 1992 in cui si ricercava: l’aumento dell’efficienza aziendale; la creazione di una decina di gruppi industriali capaci di competere in campo internazionale (politica industriale); lo sviluppo della proprietà azionaria diffusa, assicurando al contempo il controllo delle imprese privatizzate da parte di nuclei stabili di azionisti; la riduzione del debito pubblico.

Il processo trovò solide basi in una serie coordinata di interventi legislativi. Così, apposite leggi disposero la trasformazione in società per azioni delle banche (legge 218/90) e delle altre imprese pubbliche (legge 359/92); istituirono il Fondo per l’ammortamento del debito pubblico (legge 432/93), nel quale avrebbero dovuto obbligatoriamente confluire i proventi delle privatizzazioni, ad esclusione di ogni utilizzo per il ripiano dei disavanzi correnti; abolirono il ministero delle partecipazioni statali, trasferendo al tesoro la proprietà delle partecipazioni pubbliche;

identificarono nell’offerta pubblica di azioni la tecnica preferita di vendita e introdussero negli statuti delle società cedute la golden share e le liste di minoranza per la nomina degli amministratori (legge 474/94, estesa anche a società possedute da enti pubblici); istituirono autorità di regolazione per i mercati dei servizi di pubblica utilità ceduti a privati (legge 281/95 per l’energia e legge 249/97 per le comunicazioni), a cui , più recentemente, si è aggiunta l'autorità di regolazione dei trasporti (decreto legge 201/2011).

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2 Nel giugno 1993 fu costituito presso il Ministero del Tesoro (oggi dell’economia e delle finanze, o MEF) un Comitato per le privatizzazioni, il quale fu incaricato di fare proposte sui tempi delle operazioni, i metodi di collocamento e la scelta dei consulenti e dei sottoscrittori.

La cessione di società di servizio, invece, entrò nel vivo con la vendita di Aeroporti di Roma, Telecom Italia (di proprietà dell’IRI, il cui controllo fu ceduto al mercato nel 1997), tranches successive del capitale di ENI (a partire dal 1995), ENEL (dal 1999) e Autostrade (1999). Furono anche cedute le società industriali dell’IRI e le attività petrolchimiche dell’ENI; l’IRI fu posto in liquidazione nel giugno del 2000, dopo aver trasferito la proprietà dell’Alitalia e della RAI al Ministero del Tesoro.

Collocamenti significativi sul mercato furono effettuati anche da enti pubblici locali, perlopiù mantenendo il controllo e un grado elevato di interferenza delle amministrazioni pubbliche nelle gestioni.

La concorrenza sul mercato dei servizi è aumentata nella telefonia, molto meno negli altri comparti, a causa della lenta evoluzione del quadro regolamentare pro-concorrenziale.

I mercati dell’elettricità, del gas e dei trasporti ferroviari di lunga percorrenza sono ancora largamente organizzati su base nazionale. Quelli dei trasporti pubblici locali su base locale.

La resistenza ad ulteriori liberalizzazioni è stata aumentata dal desiderio del Tesoro e degli Enti locali di conservare profittevoli fonti di dividendi, in una fase di crescenti restrizioni nei bilanci pubblici.

Il Tesoro è rimasto come azionista di maggioranza relativa nell’ENI e nell’ENEL ed invece di incoraggiare l’abbassamento delle tariffe e gli investimenti in tecnologia, i suoi indirizzi hanno privilegiato il pagamento di elevati dividendi.

Nel caso delle autostrade e degli aeroporti, l’inadeguatezza del quadro regolamentare e la commistione di regimi pubblicistici e privatistici di gestione non hanno aiutato a stabilire un quadro trasparente di formazione dei prezzi, mentre sono mancati i meccanismi tesi a verificare gli impegni di investimento e la qualità dei servizi per conto degli utenti.

Con l’inizio degli anni 2000, il processo di privatizzazione ha subito un vistoso rallentamento:

dovuto alle peggiorate condizioni dei mercati di Borsa dopo la fine della bolla sui titoli informatici, ma anche alla volontà contraria alle privatizzazioni, guarda caso, dell’allora maggioranza di centrodestra, come costante di ogni sua legislatura.

L’unica vera cessione di aziende, infatti, ha riguardato l’Ente tabacchi, venduto nel 2003 all’inglese BAT.

Nuovi ingenti collocamenti di azioni dell’ENI e dell’ENEL e la liquidazione delle quote residue nel capitale di Telecom Italia hanno soddisfatto le esigenze di cassa del Tesoro, ma non hanno contribuito a migliorare la concorrenza né la qualità dei servizi per gli utenti.

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3 La Cassa depositi e prestiti è stata usata come strumento per operazioni tese a far cassa per il tesoro, mantenendo il controllo in mano pubblica e spostando debiti fuori del perimetro di consolidamento delle amministrazioni pubbliche.

Con il nuovo decennio è anche esploso il numero delle società a controllo regionale, provinciale e municipale per l’esercizio di attività di servizio e forniture agli enti controllanti, grazie anche a nuove norme, introdotte con la legge finanziaria del 2002, che hanno favorito l’aggiramento delle regole europee sull’assegnazione dei servizi in concessione e sulle forniture pubbliche.

Nel complesso, dunque, il programma di privatizzazione italiano degli anni Novanta può essere giudicato un successo solo dal punto di vista delle somme raccolte, che hanno fornito oltre 120 miliardi di euro di introiti, ovvero quasi l’11% del PIL medio del periodo di riferimento.

Di converso i risultati più importanti non sono stati colti, poiché l’impiego dell’enorme liquidità raccolta, di fatto, non ha modificato il quadro economico nazionale, mentre in generale ha confermato che spesso le privatizzazioni peggiorano le situazioni.

Se alla fine, nemmeno tutta quella massa enorme di denaro ha comportato vantaggi sostanziali di nessun genere, domandiamoci, anche, quanto avrebbe incassato fino ad oggi lo Stato se sommassimo tutti gli utili conseguiti dalle aziende privatizzate a cominciare da Autostrade S.p.A.

Dopo questo sommario ma obiettivo excursus, cerchiamo di completare il resoconto di tale operazione di portata storica in Italia.

Gli unici dati autorevoli ed attendibili di cui possiamo disporre in merito, che ci possono aiutare a dimostrare quanto siano servite queste ingenti somme al raggiungimento degli obiettivi prefissati soprattutto in direzione della crescita industriale, della competitività, dell'occupazione e del risanamento della finanza pubblica è una relazione della Corte dei Conti del febbraio 2010.

A tal riguardo mi pare veramente opportuno riportare l'esordio delle considerazioni conclusive di quella relazione in cui la Corte diceva testualmente: "Ad oltre vent'anni dal suo avvio, la grande stagione delle privatizzazioni, e non solo di quelle italiane, può dirsi sostanzialmente conclusa.

Certamente questo non significa che non vi siano più asset pubblici da valorizzare e dismettere, nè che singole dismissioni non vengano ancora programmate e realizzate, ma piuttosto che non si intravedono nel medio termine le condizioni che possano sostenere la ripresa di un processo di privatizzazioni su vasta scala. Al contrario, la volatilità dei mercati, la crisi strutturale del settore bancario e in particolare dell'investiment banking, la recessione che tarda ad essere superata e la sfiducia diffusa tra i consumatori e gli operatori hanno indotto i governi ad espandere la sfera dell'intervento pubblico nell'economia, con operazioni di ricapitalizzazione e salvataggio che per qualche tempo hanno fatto prefigurare la possibilità di un prepotente ritorno del capitalismo di Stato, anche in paesi di solida tradizione capitalistica.

La fluidità del momento in cui il referto viene chiuso non consente ovviamente una valutazione conclusiva degli effetti del primo grande ciclo di privatizzazioni appena concluso sul sistema economico italiano. I dati disponibili consentono tuttavia di fornire, insieme con gli aggiornamenti

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4 sui più recenti sviluppi, un quadro, fino a tutto il 2007, non solo delle dimensioni finanziarie delle operazioni, ma anche dell'evoluzione delle performance operative e finanziarie delle società privatizzate, delle tariffe dei servizi di interesse generale tipicamente erogate da utilities quotate, dei principali aggregati di finanza pubblica e dei principali indicatori del mercato finanziario.

D'altra parte, forse proprio lo stato attuale di permanente incertezza e di accresciuta avversione nei confronti dell'economia di mercato (di cui le privatizzazioni sono indubbiamente un pilastro) rende particolarmente utile tentare oggi un resoconto obiettivo e fortemente ancorato all'analisi dei risultati conseguiti con il processo di privatizzazioni in Italia, per poter eventualmente fare tesoro delle esperienze e delle lezioni che ne emergono quando si intendesse eventualmente avviare un nuovo rilevante programma di cessione di partecipazioni pubbliche".

Alle chiare indicazioni della Corte dei Conti noi ci aggiungiamo che le privatizzazioni hanno ridotto di circa il 10% il debito pubblico di allora (750 miliardi di Euro) ma è stato pressoché inutile visto che nello stesso periodo di riferimento è aumentato del 25% ed è continuato a crescere fino ad oggi, triplicandosi addirittura.

Sul versante industriale la chance della privatizzazione non è stata colta per riconvertire e modernizzare l'economia italiana, oggi come allora, legata a un'industria pesante e agli aiuti statali.

Peraltro la conclusione delle vicende di ex monopolisti pubblici privatizzati (Alitalia e Telecom su tutti) la dice lunga sul tentativo di creare colossi imprenditoriali.

I posti di lavoro persi nell'industria sono stati di circa un milione e, incalcolabile è stato il costo per i prepensionamenti perché chi si è preso "l'argenteria" non ha certo voluto la "zavorra" costituita dai lavoratori ritenuti costosi ed inefficienti.

Emblematico al riguardo è che la maggioranza dei 600 mila posti di lavoro creati dal 1992 ad oggi sono stati assorbiti nel comparto dei servizi, mentre la grande impresa ha visto ridurre i suoi organici.

Le privatizzazioni, dunque, non sono nemmeno servite a riscrivere i confini del nostro capitalismo ovvero a promuoverlo a livello competitivo internazionale. Spesso i monopoli pubblici (telefonia, trasporti, autostrade) sono stati semplicemente trasferiti dallo Stato a imprenditori poco avvezzi alle logiche di mercato.

In Generale, non vi è stato, nemmeno quel salto di qualità sperato nel capitalismo italiano quando le privatizzazioni venivano fatte persino a misura dei "capitani coraggiosi". Il coraggio, infatti, si è visto soprattutto nella vicenda della privatizzazione della Telecom quando, al primo muovere di foglia, i capitani sono scappati a gambe levate ma con le tasche piene, lasciando un' impresa, che quando era pubblica produceva continui e corposi utili di esercizio, in una condizione in cui il patrimonio è stato dilapidato e finendo per essere diventato un cattivo affare per lo Stato, un danno per l'economia italiana ed una perdita di opportunità di sviluppo.

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5 Aprendo una breve parentesi nel campo delle liberalizzazioni, che non bisogna confondere con le privatizzazioni, nel nostro Paese fino ad oggi vi è stato, un sostanziale fallimento, conseguenza anche del fatto che in alcuni casi si sono venduti agli stessi soggetti sia l'attività che eroga i servizi che l'infrastruttura di rete, e anche qui ricorre il caso SIP/TELECOM con i cavi di rame sul quale viaggia il segnale, Autostrade con il controllo delle strade e caselli. Il tutto in barba ai più sani propositi di liberalizzazione e di qualità del servizio.

E' anche per questo se soltanto il 45% della popolazione ha accesso alla banda larga, se l'adeguamento della rete autostradale è lento o se, nella medesima relazione del 2010 la Corte dei Conti ha certificato che paghiamo salate tariffe per energia, autostrade e banche.

Vorremmo ricordare che Il principio teorico delle liberalizzazioni è sano e positivo quando nella pratica, porta ad ottenere un valore concreto derivante dalla ricerca, quasi spasmodica, dell'equilibrio tra la tutela del servizio pubblico e i criteri di competitività tale da rendere questi servizi i più economici e soddisfacenti possibili.

Nei trasporti, sono mancati tutti gli obbiettivi.

Oltre ai casi già richiamati, possiamo, ad esempio, citare la liberalizzazione del cargo ferroviario che non ha portato nessun risultato di rilievo soprattutto dal punto di vista dell'aumento del volume di merci trasportate. Altro esempio negativo è stato l'esperimento, unico in Europa, della liberalizzazione sui binari dell'alta velocità con cui si è colto il solo aspetto positivo di stimolare Trenitalia alla competizione, dalla quale ne è uscita molto bene, ma che purtroppo, ha dimostrato tutte le criticità oggettive e soggettive del competitore, le cui conseguenze sono ricadute, anche e soprattutto, sui lavoratori.

Di mancate buone liberalizzazioni potremmo fare un lungo elenco, ma ci fermiamo a citarne una in particolare e delle più recenti, consumata sulle linee marittime e relativa alla vicenda di Tirrenia- Moby lines, conclusasi con il trasferimento da un monopolio pubblico ad uno privato.

In questo quadro, ritornando sul terreno delle privatizzazioni, non possiamo ascoltare ancora voci che ne chiedono di ulteriori, dopo tutte le esperienze negative soprattutto nei servizi pubblici.

Peraltro lo si sta facendo con il medesimo approccio del passato, cambiando solo i termini formali, poiché anche questa volta non vediamo, lo stesso, contenuti sostanziali credibili. Non si parla più di capitani coraggiosi del capitalismo nostrano, ma la novità starebbe nel voler creare campioni nazionali nel servizio di trasporto (Delrio20.08.2915).

Per chi ha poca memoria questa potrebbe sembrare una novità, ma, in realtà ci sembra di rivivere la stessa situazione descritta in apertura, ovvero di risentire gli stessi propositi governativi del 1992 di cui al su richiamato libro verde.

Nei fatti, oggi, ci viene presentato l'identico quadro: da una parte le difficoltà economico- finanziarie dello Stato e dall’altro lato la necessità di: aumentare l’efficienza delle aziende; creare

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6 una decina di gruppi industriali capaci di competere internazionalmente; sviluppare la proprietà azionaria.

Ma qualcuno vuol far finta di niente e riprodurre i cattivi esperimenti - soprattutto come fu per Telecom - anche con le Ferrovie dello Stato?

Se veramente si cerca di creare dei campioni nazionali dell’imprenditoria chi può dire che le Ferrovie dello Stato italiane non sono già abbondantemente sulla buona strada, e che a breve questa impresa possa essere appieno un campione nazionale, valorizzando i risultati economici e di bilancio conseguiti negli ultimi dieci anni e i programmi immaginati per il futuro?

Noi della Uiltrasporti stiamo cercando in tutti i modi di mandare messaggi che sinteticamente invitano a non sfasciare i meccanismi che tutto sommato funzionano.

Da molti mesi, infatti, abbiamo avviato un dibattito interno, attraverso cui abbiamo aperto il confronto con le nostre strutture regionali e territoriali, sull’obiettivo del Governo di privatizzare il Gruppo FSI, al fine di addivenire ad una posizione condivisa dall’intera Organizzazione necessaria per il confronto con gli organi di governo e Istituzioni.

Ebbene, la nostra posizione chiara è che non si debba procedere verso nessun tipo di privatizzazione di FSI, e spiegheremo ancora una volta le nostre ragioni che riteniamo coincidenti con gli esclusivi interessi a lungo termine del Paese.

Con la nostra iniziativa di oggi cominciamo ad allargare il confronto all’esterno dell’Organizzazione affinché si costruisca un fronte comune con tutti i soggetti che volessero unirsi a noi per raggiungere lo stesso obiettivo, anche in ragione del fatto che il Governo fino ad ora non ha inteso scambiare opinioni con le parti sociali interessate e, peggio ancora, sta dimostrando di non avere idee chiare giacché ci arrivano notizie, purtroppo indirette, che l’ipotesi lanciata inizialmente di mettere sul mercato il 40% dell’intero gruppo societario, comunque è cambiata più volte.

A febbraio scorso il MEF, in qualità di azionista unico del gruppo ferroviario, ha nominato i propri consulenti, finanziario e legale, rispettivamente: Bank of America Merrill Lynch e Cleary Gottieb Steen & Hamilton. A fine maggio sono state FSI a nominare McKinsy & Company come capofila in Ati con Ernst & Yong Financial Business Advisor S.p.A. e the Brattle Group Limited italian Branch propri consulenti industriali.

Evidentemente siamo in una fase ancora di piena confusione e sicuramente l’ultima ipotesi verrà fuori dopo che si esprimeranno gli advisors e, dunque, è possibile aspettarsi ulteriori cattive sorprese.

Noi siamo maggiormente allarmati dall’ultima dichiarazione del Ministro delle infrastrutture e trasporti del 20 agosto u.s. con cui indica che la privatizzazione va fatta pezzo per pezzo seguendo il modello di scorporo della rete come realizzato con Terna, aggiungendo che la rete è strategica agli interessi di lungo periodo del trasporto ferroviario per cui deve restare pubblica.

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7 Anche noi concordiamo che la rete ferroviaria non può che essere pubblica ma diciamo anche con estrema chiarezza che non condividiamo l’intera impostazione con cui si metterebbero sul mercato in maniera indipendente ogni asset aziendale andando verso la dissolvenza totale dell’attuale Holding ferroviaria.

Ribadiamo quindi che non siamo d’accordo con il processo di privatizzazione e, men che meno, con l’eventuale ritorno di un progetto teso a spacchettare il Gruppo FSI.

Il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane è una delle più grandi ed importanti imprese del Paese per numero di occupati (circa 70.000).

Il suo capitale, interamente pubblico, è di circa 39 miliardi di euro, comprensivo del valore della rete stimato in circa 35 miliardi di euro. Una cifra enorme giustificata dal fatto che la Holding possiede e iscrive a bilancio non solo i beni strumentali come i treni e altre proprietà valorizzabili, ma attraverso la sua controllata RFI anche l’intera rete infrastrutturale ferroviaria, vale a dire i binari, dovuto al fatto che storicamente gli investimenti sulla rete venivano finanziati con aumento di capitale.

Tale situazione, fa in modo che FSI attraverso RFI è a tutti gli effetti proprietaria dell’intera rete - per effetto della L. 17 maggio 1985 n.210 e della L.23 dicembre 1998 n 488 e che la stessa RFI, dal 2000, ha poi ricevuto in concessione dallo Stato per 60 anni.

Ferrovie dello Stato italiane ha subito un lungo e profondo cambiamento nei vari passaggi da Ente Autonomo dello Stato a S.p.A., soprattutto con la collaborazione delle sue risorse umane, che hanno contribuito massicciamente a far uscire quest’impresa dall’immagine gestionale della pubblica amministrazione, attraverso la graduale introduzione di processi produttivi dai connotati di una vera e propria conduzione privatistica. Un esempio per tutti lo dimostra il dato sintetico dell’attuale forza occupata di circa 70.000 addetti rispetto a quella massima raggiunta in passato di circa 220.000.

I gioielli di famiglia non si devono vendere anzi bisogna preservarli. Semmai bisogna investire su quegli asset aziendali che hanno tutte le potenzialità di diventare preziosi, ovvero punta di diamante dell’attuale Gruppo di FSI, rafforzandolo a tutto campo.

L’esempio più significativo può riguardare l’attuale divisione cargo di Trenitalia, se velocemente rilanciata in un mercato del trasporto merci e della logistica che ha fortemente bisogno di trasferire una grande quota di trasporto dalla gomma al ferro e che darebbe risultati straordinari sotto l’aspetto economico-finanziario, ambientale e degli altri costi esterni per lo Stato, nonché per l’occupazione.

E' evidente che non bisogna dedicarsi esclusivamente all'alta velocità o cullarsi delle buone performance ottenute.

Occorre invece portare a termine con puntualità tutto il piano industriale di FSI aggiornato, in particolare nelle parti che riguardano: la ripresa forte e veloce del settore cargo, il meritevole

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8 posizionamento nel mercato del trasporto regionale, il contestuale approvvigionamento di ulteriore materiale rotabile per i treni dei pendolari, del merci e della lunga percorrenza passeggeri.

Si dirà che è più facile a dirsi ma più difficile a compiersi soprattutto se, nella congiuntura economica in cui siamo, perlopiù bisogna autofinanziarsi.

Chiediamoci allora se non sia più utile e meno dannoso mantenere FSI in uno status completamente pubblico, perseguendo la strada dell'approvvigionamento finanziario attraverso l'emissione di bond, anziché pensare di distribuire dividendi ai privati investitori, dal momento che questa impresa pubblica può fare molta leva su una alta credibilità gestionale raggiunta e consolidata. (l'ultima semestrale di quest'anno chiude con un utile netto di circa 292 milioni con +2,5% rispetto al medesimo periodo 2014).

Dobbiamo sapere, però, che nei trasporti non basta solo la sana ed economica gestione aziendale, perché se questa non si combina con una programmazione istituzionale generale e locale che integra le varie modalità di trasporto nel modo più ottimale possibile e con un costante flusso di investimenti per infrastrutture e materiale rotabile, il cerchio non si chiude e gli sforzi singoli diventano improduttivi, sicché nel complesso si rischierebbe di pregiudicare ogni via al vero sviluppo del Paese.

Lo Stato, e le sue articolazioni territoriali devono essere, dunque, più presenti nei trasporti e nella logistica anziché defilarsi, sia se si tratta di garantire la continuità nei servizi universali - a cominciare dal prosieguo del contratto di servizio dei treni intercity - sia nell'adeguare l'offerta soprattutto nel trasporto pubblico locale per rispondere ad una potenziale maggiore domanda.

Se vogliamo raggiungere gli standard europei, non si può perdere più tempo nel preparare un nuovo piano generale dei trasporti e della logistica perché l'ultimo risale al 2001, e l'Italia ha necessità impellente di riprogrammarlo per allinearsi ai nuovi orizzonti del sistema intermodale ed interoperabile indicati dall'Unione Europea nei macro steps 2030/2050.

Per tutte queste ragioni noi sosteniamo che l'intero Gruppo di FSI deve rimanere pubblico ed unico, poiché, essenzialmente, pensiamo che solo una gestione oculata dell’insieme delle attività ferroviarie riesce a sviluppare sinergie, abbassamento dei costi ed infine a compensare perdite e profitti. Se tutto ciò funziona, come già ampiamente dimostrato in FSI perché da anni continua a registrare margini operativi importanti ed utili netti significativi, non vi è ragione di intraprendere strade avventurose.

Perché, allora, si vuole privatizzare anche se non ci troviamo difronte ad una gestione incapace, o a risultati del tutto negativi e quindi ad un’azienda decotta?

La risposta è una sola e risiede nella palese volontà del Governo di fare cassa, a prescindere da qualsiasi valutazione che consiglierebbe di non procedere per i danni che, una scelta del genere, può causare nel tempo sotto tanti aspetti, ma soprattutto al servizio sociale che svolge FSI.

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9 Le prove le ricaviamo dalle poche informazioni ricevute sul tema, esclusivamente dai responsabili aziendali delle Ferrovie che fino ad oggi ci hanno fatto registrare già tre cambiamenti: Il primo progetto di privatizzazione indicato era quello di mettere sul mercato finanziario una quota di circa il 40% dell’intero Gruppo aziendale di FSI; il secondo piano prevedeva invece la variante secondo cui l’acquisto del 40% del Gruppo completo dovesse avvenire, invece, al netto del valore della rete infrastrutturale la quale sarebbe passata alla proprietà demaniale dello Stato; l’ultima idea prospettataci è stata quella di creare una nuova Holding che ricevesse da RFI S.p.A. la proprietà della rete in modo che rimanesse comunque pubblica, e la contemporanea costituzione di una sub-Holding da privatizzare, proprietaria delle società operative (RFI – TRENITALIA – FS LOGISTICA ecc.).

A noi già pareva tutto questo un progetto non condivisibile, figuriamoci ora che si prefigurano scenari peggiori da parte del Governo, il quale riaffaccia l’ipotesi dello spacchettamento aziendale con lo scorporo di RFI dalla Holding e la conseguente privatizzazione del resto, asset per asset.

Noi non possiamo essere d’accordo, non già per ragioni ideologiche, ma perché facciamo una valutazione più complessiva che va oltre una mera operazione di cassa, peraltro limitata a circa 2/3 miliardi, se va bene, e che da sola basterebbe a domandarsi se vale la pena o meno di fare un salto nel buio.

La dimostrazione che la privatizzazione che si propone è pensata solo ai fini della liquidità finanziaria è data dal fatto che non è collegata ad un piano strategico del sistema dei trasporti generale e ferroviario in particolare che, ad esempio, ponga le condizioni affinché i treni riescano ad attrarre volumi maggiori di merci ora convogliati sul trasporto su gomma superando un dannoso antagonismo attraverso processi di sviluppo di collaborazione e complementarietà, con politiche di sostegno e di indirizzo, partendo dalla realizzazione delle necessarie infrastrutture in un ottica di sistema in cui aumentare la capacità della rete, le velocità commerciali e l’accessibilità territoriale soprattutto al SUD.

A tal riguardo ci risulta, perfino, che il Governo non ha ancora deciso come utilizzare tutti i 100 milioni stanziati con la legge di stabilità di quest’anno per incentivare il trasporto ferroviario delle merci nel Mezzogiorno, mettendo ulteriormente in difficoltà tanto FSI quanto tutti gli altri operatori ferroviari.

Al di fuori, dunque di qualsiasi ideologismo tra pubblico e privato riteniamo che sia persino avvilente che si intraprenda la scorciatoia della vendita di aziende virtuose che contribuiscono positivamente alla ripresa della nostra economia, piuttosto che concentrarsi su come realizzare veramente una politica dei trasporti efficace tanto per gli investimenti infrastrutturali quanto per la gestione efficiente dei servizi, facendo leva anche sui fondi strutturali europei e sul recupero di risorse economiche derivanti dal contrasto all’evasione fiscale, agli sprechi della pubblica amministrazione e alla lotta alla corruzione.

Noi a questa logica al contrario non aderiamo e reputiamo, dunque, la privatizzazione di FSI inutile e dannosa per il Paese.

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10 L’ingresso dei privati, e peggio ancora se fossero fondi speculativi, porterebbe come conseguenza naturale: L’aumento delle tariffe di viaggio, la spinta ad abbandonare i servizi a bassa domanda di trasporto universale e dei pendolari perché non profittevoli, continui tagli al costo del lavoro e preoccupanti passi indietro sulle condizioni generali di sicurezza di esercizio e di prevenzione della salute dei lavoratori, arretramento delle attuali relazioni sindacali improntate innanzitutto al riconoscimento dell’apporto altamente professionale e responsabile del capitale umano presente- ritenuto una risorsa preziosa e da valorizzare ulteriormente- tale che oggi viene incrementato con nuove assunzioni ma che domani, al contrario, potrà essere considerato ininfluente se non esuberante.

Invitiamo, pertanto, il Governo ed FSI ad abbandonare il loro disegno, il quale, nonostante la confusione a cui loro stessi lo sottopongono, viene comunque propagandato come una opportunità da coltivare.

Noi siamo convinti di mettere in campo tutte le azioni possibili per contrastare il ritorno dello strano assioma più volte messo in pratica in passato, che gli utili debbano essere assicurati ai privati e solo le attività oggettivamente in perdita, perché caratterizzate dalla forte vocazione sociale, se le deve assumere lo Stato.

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