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I pesticidi fanno bene alle api

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Academic year: 2022

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Da alcuni anni gli scienziati ci avvertono allarmati del declino delle popolazioni di insetti. Lavori svolti nel nord Europa stimano che negli ultimi trent’anni si sia perso il 60-70 per cento della biomassa degli insetti. Che il numero di insetti sia sensibilmente diminuito è un’osservazione che possiamo fare tutti noi sul parabrezza dell’auto. Chi ha una certa età credo ricordi bene come si dovesse pulire spesso il parabrezza dagli insetti spiaccicati, oggi è raro trovarne qualcuno, anche percorrendo strade di campagna. Una revisione della letteratura a livello globale ha stimato che la biomassa degli insetti terrestri stia diminuendo a un ritmo di circa l’un per cento all’anno, con i picchi più alti per l’Europa (e nell’area mediterranea) e gli Stati Uniti, e che si sia già perso un 25 percento della biomassa globale degli insetti. Un altro lavoro stima che il 40 per cento delle specie di insetti siano a rischio estinzione. Un trend, la scomparsa della fauna, che tocca tutti i gruppi faunistici, in molti casi in maniera drammatica, tanto che un lavoro pubblicato nel 2014 su Science titolava “Defaunation in the Anthropocene” (Defaunizzazione nell’antropocene).

Perdita di biodiversità entomologica negli ultimi cinquanta anni (fonte Dirzo et al.)

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I ricercatori imputano questo declino alla perdita e/o degradazione degli habitat (perdita di biodiversità vegetale) a causa della monocoltura estensiva; dell’urbanizzazione e del degrado e semplificazione del paesaggio; all’effetto dei pesticidi (è sempre più chiaro come alcune classi di pesticidi, per esempio i neonicotinoidi, abbiano effetti deleteri per la salute delle api e

dell’entomofauna); l’impatto delle specie invasive (per esempio il caso della Varroa per le api domestiche); e il possibile impatto del cambiamento climatico.

Nel suo rapporto sullo stato degli impollinatori, la Piattaforma Intergovernativa di Scienza-Politica sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (IPBES – è un corpo intergovernativo indipendente, istituito dagli stati membri delle Nazioni Unite nel 2012), scrive che è stato provato che i pesticidi, in particolare gli insetticidi, hanno un ampio spettro di effetti letali e sub-letali sugli impollinatori.

La presenza di queste sostanze è oramai ubiquitaria, residui di pesticidi sono stati trovati perfino nei laghi alpini d’alta quota e nell’acqua proveniente dallo sciogliemmo dei ghiacciai.

Data l’importanza della questione, mi ha notevolmente incuriosito l’articolo di Donatello Sandroni

“Le api, Einstein e i falsi miti”, apparso su La Provincia, quotidiano di Piacenza, lo scorso 27 settembre. L’articolo è disponibile sul blog dell’autore e sul sito di Slowfood Lombardia, con relativo comunicato stampa di Slowfood. Le tesi che Sandroni ci propone nel suo articolo sono assai interessanti: i pesticidi sono in realtà degli amici delle api, e anche se fosse vero che i

pesticidi danneggiano gli impollinatori poco male, in realtà, ci dimostra Sandroni, gli impollinatori non servono a molto, possiamo fare benissimo senza. Sandroni ci svela quindi che i veri nemici dell’agricoltura sostenibile sono gli ambientalisti, noti creduloni di bufale, che si ostinano a credere alla bufala secondo cui i pesticidi sono un problema per le api e l’entomofauna in genere, e peggio ancora per la salute umana. Secondo Sandroni, gli ambientalisti sarebbero i veri nemici degli agricoltori, degli eco-fanatici che poco si curano del duro lavoro degli agricoltori e dei loro problemi.

Perché occuparsi di quanto scrive Donatello Sandroni? Perché Sandroni è un noto giornalista scientifico che scrive di agricoltura, tossicologia, ambiente e sostenibilità per importanti siti di divulgazione scientifica (per esempio Scienza in Rete), riviste di agricoltura (Agronotizie) e riviste scientifiche italiane. Le Scienze, la più importante rivista di divulgazione scientifica italiana, ha invitato proprio Sandroni a rassicurare i suoi lettori sull’innocuità del glifosato e a smentire le supposte bufale che sostengono il contrario, cioè tutta la letteratura scientifica, indipendente dai

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finanziamenti della Monsanto, che ha evidenziato problemi dovuti a questo prodotto. Non è lo scopo di questo intervento trattare la questione glifosato, ma per gli interessati segnalo una recente pubblicazione sulla rivista scientifica Chemosphere in cui si attestano le caratteristiche di distruttore endocrino del glifosato e l’uscita, per il prossimo marzo, del libro della giornalista investigativa Carey Gillam The Monsanto Papers sui misfatti e segreti dalla Monsanto.

In quest’articolo ripropongo, con minimi aggiustamenti e l’inserimento di qualche figura, il testo che ho inviato al quotidiano La Provincia, nel quale evidenziavo una serie di inesattezze nei dati ed errori nei ragionamenti presenti nell’articolo di Sandroni. Il numero di parole è lo stesso del pezzo pubblicato da Sandroni. Speravo che il quotidiano accettasse una replica supportata da dati

ufficiali e documentazione scientifica, ma purtroppo non ho avuto cenno di riposta. Di seguito dunque la mia analisi delle tesi di Sandroni.

Concordo su alcune precisazioni fatte da Sandroni. Oltre che sulla famosa citazione falsamente attribuita ad Einstein (che comunque non era un entomologo), anche sul fatto che le principali colture, per la fecondazione, non dipendono direttamente dalle api, o in generale dagli

impollinatori, che il problema Varroa (un acaro parassita che attacca le colonie di api domestiche) è spesso un dramma per gli apicoltori, e che la presenza di un’alta densità di api domestiche può ridurre la possibilità di foraggiamento per le altre specie di insetti impollinatori.

Tuttavia l’articolo semplifica un po’ troppo, e gli indicatori proposti non possono provare che i pesticidi non sono un problema per gli impollinatori, come intende dimostrare invece Sandroni.

Per riprendere Einstein, il famoso fisico soleva dire “tutto dovrebbe essere semplice, ma non troppo”. Cercare di semplificare è certamente utile alla comunicazione scientifica, ma semplificare troppo significa comunicare male, e quindi portare a conclusioni fuorvianti.

Con questo intervento desidero apportare alcuni dati e informazioni nella speranza di aiutare il lettore a comprendere meglio le importanti questioni sollevate da Sandroni. Mi sembra inoltre che l’impostazione dell’articolo tenda a porre in contrapposizione ambientalismo e agricoltori,

imputando agli ambientalisti la criminalizzazione degli agricoltori. Questa narrativa è fuorviante.

Chi lavora nel settore, e credo anche il mondo ambientalista, sa bene che gli agricoltori sono i primi a essere toccati dai problemi della chimica, e che sono spesso parte di una filiera che scarica su di loro costi e rischi, con istituzioni che latitano nel supportare i lavoratori di questo importante settore produttivo (importante per l’economia, per la sicurezza alimentare, per l’ambiente e per la salute pubblica).

Come molte altre persone sensibili alla questione, anch’io credo che gli agricoltori siano piuttosto vittime di un sistema economico che deve essere ripensato e reso più socialmente e

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ambientalmente sostenibile (si veda, per esempio, la recente inchiesta di Report sui rapporti tra grande distribuzione e produttori). Questo attraverso un maggior supporto delle istituzioni, sia dal punto di vista socioeconomico e normativo (per esempio lottando contro la concorrenza sleale e mirando a una più equa ridistribuzione dei profitti nella filiera produttiva), sia dal punto di vista scientifico e tecnico (per esempio sostenendo la ricerca per aiutare gli agricoltori a ridurre l’uso della chimica, e quindi anche i costi di produzione, sostenendo la tracciabilità della filiera).

In merito a quest’ultimo aspetto, alcune ricerche pubblicate negli scorsi anni, su campioni di agricoltori francesi e australiani, hanno evidenziato che l’uso dei pesticidi potrebbe essere ridotto del 40-50 per cento se solo gli agricoltori avessero una maggior conoscenza dell’ecologia dei parassiti. Da quanto emerge, infatti, gli agricoltori tendono ad applicare i pesticidi anche quando la presenza di parassiti non ha alcun impatto sulle produzioni, con il solo risultato di sprecare tempo e denaro in trattamenti inutili. Altri lavori svolti sia in Italia che a livello internazionale hanno evidenziato che alcuni trattamenti, come la concia delle sementi, sono inutili e non hanno alcuna efficacia in termini di aumento della produttività, risultando solo un costo aggiuntivo per gli agricoltori, e un danno per l’ambiente e la biodiversità.

Sandroni sostiene che i dati Fao sull’aumento del numero di colonie di ape domestica a livello globale, e della produzione mondiale di miele, siano indicatori che provano che la qualità

dell’ambiente sia andata migliorando. In merito alle informazioni fornite dall’articolo, dal database Fao vediamo che i dati confermano quanto asserito da Sandroni. A livello mondiale dal 1961 al 2018 il numero di colonie (arnie) è cresciuto da 50 a circa 95 milioni (con una flessione di un cinque milioni di colonie tra gli anni 1990 e 2000. Va precisato che la Fao non informa sullo stato di salute delle colonie. Il numero assoluto di arnie è un indicatore diverso dal loro tasso di

rimpiazzo annuale dovuto a morie, al fallimento della regina (indicatori molto più rilevanti dello stato di salute delle api), o ancora dal numero di api per colonia (altro indicatore importante). Un apicolture potrebbe riportare sempre lo stesso numero di arnie, ma doverle sostituire più di

frequente a causa del fallimento delle colonie, o avere un minor numero di api per colonia. La Fao, nella sua relazione su biodiversità, alimentazione e agricoltura scrive che nonostante l’aumento globale del numero di colonie in Europa e negli Stati Uniti si registra un importante declino del loro numero, e che per molte regioni mancano i dati.

Stando a Sandroni l’aumento del numero di colonie a livello globale sarebbe da imputare all’aumento del benessere delle api, e quindi a un ambiente più sano (nonostante l’uso dei pesticidi, questa è la tesi che Sandroni intende dimostrare). Una relazione che tuttavia non è dimostrabile, e che comunque, come media a scala globale, poco ci potrebbe dire sulla possibile

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variabilità a livello regionale. Vediamo la questione più in dettaglio.

Dal 1961 al 2018 la popolazione umana è passata da 3,1 a 7,5 miliardi di persone. A questo aumento demografico ha corrisposto una progressiva colonizzazione delle terre del pianeta; dal 1990 a oggi quasi 200 milioni di ettari di foreste native sono state convertite in colture, e il 60 per cento delle foreste rimanenti sono state più o meno utilizzate e degradate. Nello stesso periodo la crescita economica globale (e in particolare di grandi nazioni come la Cina) ha facilitato gli investimenti in nuove attività, tra le quali l’apicoltura. La crescita del numero di colonie può essere quindi più ragionevolmente attribuita alla conversione di foreste e boschi in aree agricole, prati e pascoli, e allo sviluppo dell’apicoltura come trend nello sviluppo economico generale in regioni dove prima questa attività non era presente, o era comunque poco sviluppata. Notiamo che al raddoppio della popolazione umana abbiamo avuto anche quasi un raddoppio delle colonie di api domestiche.

In ogni caso, dall’aumento del numero di colonie a livello globale non si può inferire che questo incremento sia legato a un miglioramento della qualità dell’ambiente, e che quindi i pesticidi non siano un problema. I dati a livello globale non tengono conto delle notevoli differenze che possono sussistere tra regioni diverse, in termini di condizioni ecologiche e di pressione antropica. Per esempio, potremmo avere un grande incremento del numero di colonie di api in regioni del globo dove non si usano pesticidi, e avere invece un decremento in quelle dove si usano. L’arguto poeta romano Trilussa, nel suo poemetto sulla statistica, notava che

da li conti che se fanno, secondo le statistiche d’adesso, risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra nelle spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perch’è c’è un antro che ne magna due.

Gli Stati Uniti, negli anni Sessanta avevano circa 5,5 milioni di colonie (poche per la grande

superficie del paese, che, senza l’Alaska, ha un superficie di otto milioni di chilometri quadrati, per comparazione il continente europeo ha un superficie di dieci milioni). Negli ultimi dieci anni il numero di colonie è diminuito a 2,6-2,8 milioni (intorno alla metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta vi furono due tracolli per via di parassiti importati dall’Europa, come scrive anche Sandroni).

Per l’Europa, il numero di colonie dal 1960 al 1980 si aggirava sui 21-22 milioni. Verso la fine degli anni Novanta si raggiunsero i 23 milioni, per poi crollare a 15 negli anni 2000. Dal 2010 è iniziata una costante risalita per arrivare ai 19 milioni di colonie attuali. Ma anche così abbiamo dati aggregati che magari ci nascondono situazioni diverse. Dando un’occhiata al database Fao, si nota che in alcuni paesi europei, come Spagna e Romania, dal 1990 il numero di colonie è in costante crescita (in Spagna dal 1990 a oggi le colonie sono raddoppiate), mentre in altri si è

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assistito a un declino più o meno marcato. In Italia si è passati da un milione di colonie nel 1990 alle attuali 380.000, in Germania da 1,6 milioni alle attuali 680.000. I trend possono dipendere dai tipi di agroecosistemi presenti nei diversi paesi. Per esempio, in Spagna e Romania sono presenti grandi estensioni di aree agricole a bassa pressione antropica, mentre in altri paesi abbiamo aree più antropizzate e una agricoltura più intensiva. Quindi possono sussistere differenze ecologiche, climatiche, con differenti problematiche di parassiti, o di tipo socio-economico (per esempio incentivi, mercato, tradizioni locali). L’andamento globale del numero di colonie di ape domestica non è l’approccio più adeguato ad analizzare il problema dell’impatto dell’agricoltura sugli insetti.

Andamento del numero di alveari dal 1960-2019 per alcuni paesi europei (elaborazione dell’autore dai dati Faostat)

Sandroni cita la produzione mondiale di miele come altro indicatore dello stato di salute delle api domestiche e degli impollinatori in generale, e ci informa che la sola Cina produce il 55 per cento della miele mondiale. Tuttavia ci sono serie ragioni per dubitare che l’uso di questo indicatore sia ragionevole in termini ecologici. In primo luogo, perché questo non ci dice nulla sullo stato delle specie in generale; a livello globale, il numero di specie impollinatrici si aggira sulle centinaia di migliaia (la sola superfamiglia degli Apoidei conta circa 30.000 specie), e sono migliaia in Europa.

In secondo luogo, perché è risaputo che il miele cinese non è precisamente tutto frutto del duro lavoro di bottinamento delle api…

Un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Food Science nel 2012 da J. More, J. Spink,

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e M. Lipp, indicava il miele come il terzo prodotto più contraffatto al mondo (dopo l’olio di oliva e il latte). Il giornalista statunitense Larry Olmsted, che ha condotto delle inchieste sulla

contraffazione dei prodotti alimentari, nel 2016 ha scritto sul magazine statunitense Forbes un articolo dedicato alla contraffazione del miele. Il giornalista spiega che in Cina il miele viene spesso tagliato con sciroppo di mais o fruttosio per aumentare la produzione. Questi zuccheri possono venire somministrati direttamente anche alle api, perché producano miele “naturale”

(porre dei contenitori di acqua e zucchero di fronte alle arnie è uno dei metodi più usati dai produttori poco onesti per far aumentare la produttività delle api). L’adulterazione del miele cinese è così diffusa che gli Stati Uniti ne hanno bandito l’importazione. Queste pratiche

potrebbero anche tradursi in dichiarazione falsate circa il numero di colonie dei produttori cinesi, come anche di altri paesi, per giustificare la grande quantità di “miele” prodotto.

Sandroni accenna alla selezione di api sempre più produttive che avrebbe innescato un

progressivo indebolimento genetico degli insetti. Vero che ci sono stati dei processi di selezione, però miranti a sviluppare degli ecotipi, cioè delle popolazioni di api più adatte alle specifiche condizioni di una regione, per esempio alla siccità, alla tolleranza ai parassiti (tra i quali la

Varroa), che quindi possono magari risultare anche più produttive (la produttività è più legata alle condizioni ambientali in cui sussistono le colonie che a specifici “geni per la produttività”). Questo tipo di selezione mira a creare popolazioni più resistenti agli stress, per cui popolazioni più forti e non più deboli. La moria delle api è quindi da considerare un segnale ancora più importante di qualcosa che non va nell’ambiente.

Abbiamo visto che Sandroni cita le statistiche Fao, sull’aumento del numero di colonie, come prova che tutto sta andando per il meglio. Tuttavia, nei documenti della Fao che ho avuto modo di leggere, la Fao parla di un drammatico declino degli impollinatori. Una pagina web della Fao dedicata agli impollinatori (FAO’s Global Action on Pollination Services for Sustainable Agriculture) riporta che vi sono prove sempre più forti che indicano come le popolazioni di impollinatori stiano diminuendo, e a un tasso da 100 a 1.000 volte più alto del normale. La Fao concorda sul fatto che i pesticidi siano una delle cause più importanti di questo declino (un altro fattore molto importante è la diminuzione della biodiversità vegetale). Già una decina di anni fa, pubblicazioni della Fao allertavano che i pesticidi potevano danneggiare gli impollinatori. Nella relazione della Fao Aspects Determining the Risk of Pesticides to Wild Bees (“Aspetti che determinano i rischi dei pesticidi nelle api selvatiche”) del 2013, si scrive che le popolazioni di impollinatori mostrano un chiaro declino, e che i pesticidi hanno un provato impatto negativo sugli impollinatori.

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Per il caso degli Stati Uniti, il Centro di ricerca sugli impollinatori (Center for Pollinator Research) della Penn State University ha stimato che negli ultimi trent’anni la popolazione di impollinatori ha sofferto una drammatica diminuzione. In riferimento all’ape domestica, si sono registrare perdite anche del 30-40 per cento di colonie per anno, rispetto al limite del 15 per cento

considerato accettabile dagli apicoltori (il 15 per cento come perdita accettabile è riportata anche da Sandroni). Per l’ape domestica queste perdite sono state imputate ai parassiti (la Varroa in primis), al fallimento della regina, e ai pesticidi.

Per gli impollinatori, come per l’entomofauna in generale, la perdita degli habitat è un altro fattore importante che impatta sulle dinamiche di popolazione. Questo sia direttamente, per esempio privando gli insetti delle aree di foraggiamento, che indirettamente, per esempio

privandoli di aree di rifugio o svernamento (anche quando le fioriture siano presenti, potrebbero mancare altri tipi di ambienti necessari per la loro riproduzione e sopravvivenza). Per il caso dell’ape domestica, il Centro di ricerca riporta che i prodotti per la lotta ai parassiti

sfortunatamente sono tossici anche per le stesse api (come riporta anche Sandroni).

Sandroni scrive che non esiste un problema di declino dell’entomofauna. Un’affermazione che contrasta con i dati forniti da parecchi lavori scientifici. Un importante studio svolto in Germania, pubblicato sulla rivista PLoS ONE, nel 2017, coordinato da C.A. Hallmann, ha stimato che negli ultimi ventisette anni l’entomofauna è diminuita del 75 percento in termini di biomassa. Un lavoro di Hallmann e colleghi, svolto in Olanda, pubblicato lo scorso anno (nella rivista Insects

Conservation and Biodiversity), stima che in questo paese, sempre negli ultimi ventisette anni, l’entomofauna è diminuita del 60 per cento in termini di biomassa. Un lavoro pubblicato lo scorso aprile nella prestigiosa rivista Science, guidato da Roel van Klink, ha stimato che, a livello globale, la biomassa degli insetti terrestri stia diminuendo ad un ritmo del 9 per cento per decade (lo 0,92 per cento all’anno), con i picchi più alti per l’Europa (e nell’area mediterranea) e gli Stati Uniti (mentre gli insetti acquatici starebbero invece aumentando). Contrariamente alle rassicurazioni di Sandroni, gli autori dei citati lavori si dicono molto preoccupati dalla situazione.

Un altro importante lavoro pubblicato lo scorso anno da F. Sánchez-Bayo e A.G. Wyckhuys sulla rivista Biological Conservation, ha stimato che il 40 per cento delle specie di insetti sono a rischio estinzione a causa della perdita di habitat (per esempio la conversione delle foreste, la

monocoltura estensiva), l’effetto dei pesticidi, l’impatto delle specie invasive e il possibile impatto del cambiamento climatico. Sulla questione pesticidi, gli studiosi della Penn State scrivono che questi prodotti sono altamente tossici per le api e per gli impollinatori in generale, con effetti deleteri anche a dosi sub-letali, cioè quantità che non sono in grado di uccidere l’insetto

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direttamente, ma che tuttavia ne compromettono la sopravvivenza nel lungo periodo, per esempio danneggiando gli organi di senso, il cervello, il sistema immunitario, o alterandone la riproduzione e il corretto sviluppo delle larve.

Sandroni conclude riflettendo sul fatto che sono poche le specie di importanza alimentare che hanno bisogno degli impollinatori, perché per la maggior parte queste specie sono

autoimpollinanti (per esempio tutti i cereali), e che per le altre gli impollinatori si possono

facilmente reperire sul mercato, dato che ci sono fabbriche di insetti utili che producono. Per cui nulla di preoccupante anche se gli impollinatori venissero a mancare. Certamente molte colture importanti, come i cereali, sono caratterizzate per essere autoimpollinanti (le colture di riso, frumento e mais, da sole, forniscono un 40 per cento delle calorie consumate dall’umanità).

Tuttavia ritenere che questo fatto basti a rassicurarci, e a minimizzare l’importanza degli impollinatori, significa avere le idee piuttosto confuse su questioni come la qualità della nutrizione, la sicurezza alimentare, l’economia agricola, l’ecologia e l’agroecologia.

Un’adeguata alimentazione necessita di tanti tipi di elementi nutrizionali. I carboidrati forniscono la maggior parte dell’energia di cui abbiamo bisogno, tuttavia non abbiamo bisogno solo di

carboidrati, o di proteine. Abbiamo anche bisogno di tanti altri elementi nutrizionali che, anche se presenti nel nostro corpo in quantità minime, sono tuttavia essenziali perché i nostri processi fisiologici possano funzionare. Molte di queste molecole funzionano da catalizzatori, un po’ come la candela dell’auto. Sarebbe un po’ come sostenere che visto che in un’auto la massa delle candele è insignificante rispetto alla massa del mezzo, allora possiamo fare a meno delle candele.

La maggior parte delle piante da frutto e gli ortaggi necessitano di impollinatori. Una dieta ricca di frutta e verdura è fondamentale per una corretta nutrizione, perché frutta e verdura forniscono elementi nutrizionali essenziali per la nostra salute, come alcune vitamine che non sono presenti nei cereali o nella carne, e antiossidanti (flavonoidi, antociani etc.). Le popolazioni che si nutrono di cereali e, per varie ragioni, mancano di un adeguato apporto di frutta e verdura, sviluppano gravi problemi di salute come l’indebolimento del sistema immunitario, problemi di sviluppo del feto e della crescita dei bambini, cecità (la carenza di carotenoidi causa gravi problemi alla vista, e una serie di altre gravi patologie, che colpiscono decine di milioni di persone nelle regioni dove il riso è la principale, quando non l’unica, fonte di cibo). Carenze nutrizionali che protratte nel tempo possono portare anche alla morte. I paesi industrializzati, nonostante l’abbondanza di alimenti, non sono immuni da questo tipo di carenze nutrizionali. Lo scarso consumo di frutta e verdura limita l’apporto di micronutrienti essenziali, generando quella che viene definita la “fame nascosta” (hidden hunger in inglese), un problema che si stima colpisca due miliardi di persone.

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Immagino che il dott. Sandroni ci potrebbe suggerire l’acquisto dei supplementi vitaminici e quant’altro ci fornisca l’industria farmaceutica.

Altre specie possono sia essere fecondate dagli impollinatori sia autoimpollinarsi. Tuttavia sarebbe un errore pensare che, dato che queste specie possono anche autoimpollinarsi, allora il ruolo degli impollinatori sia irrilevante o di minor importanza. Parecchi lavori hanno dimostrato che, anche quando può avvenire l’autoimpollinazione, le piante impollinate dagli impollinatori producono frutti di migliore qualità, sotto tutti gli aspetti (anche la Fao fa presente questo aspetto). Per esempio, il cotone è una specie capace di autoimpollinazione, tuttavia una ricerca svolta in Burkina Faso, un paese africano il cui cotone è noto per la sua alta qualità, ha scoperto che quando le piante sono impollinate dalle api, la produttività aumenta di circa il 30 per cento rispetto alle piante autoimpollinate. Non solo, i ricercatori hanno anche scoperto che questo cotone è nettamente di miglior qualità (anche in questo caso di circa un 30 per cento), e quindi garantisce agli agricoltori un maggior prezzo di mercato (il lavoro, capitanato da Katharina Stein, è stato pubblicato nel 2017 nella rivista Scientific Reports). Sul cotone del Burkina Faso, nel 2016 ha fatto notizia il fallimento del cotone transgenico della Monsanto, che con la sua scarsa qualità e bassa produttività rischiò di mandare l’economia del paese, fortemente dipendente dalla

produzione di cotone, in bancarotta.

Un lavoro pubblicato lo scorso luglio nella rivista Proceedings of the Royal Society B, capitanato da J. W. Campbell, della Rutgers University (USA), ha trovato che, negli Stati Uniti, sulle sette specie di frutta studiate, l’impollinazione è svolta per una metà dalle api domestiche un’altra metà dagli impollinatori selvatici, ma che per alcune di queste specie sussiste una limitazione

dell’impollinazione dovuta a scarsità di impollinatori. Tale limitazione porta a una perdita economica di 1,5 miliardi di dollari all’anno (il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense stima che, negli USA, la funzione degli impollinatori abbia un valore economico di 15 miliardi di dollari, circa 13 miliardi di euro). Ovviamente, in mancanza di impollinatori in natura possiamo sempre comprali, come suggerisce il dott. Sandroni, nessun problema quindi. Tranne il trascurabile dettaglio che questi ultimi li dobbiamo pagare, mentre i pronubi in natura ci farebbero il lavoro gratis (oltre che a contribuire, sempre gratis, ad altri importanti servizi ecosistemici).

Gli impollinatori influenzano le colture anche in maniera indiretta, e più complessa. Gli

impollinatori sono fondamentali per tante specie vegetali selvatiche, la cui presenza è altrettanto fondamentale per molte specie di insetti che difendono le colture dai parassiti. Le famose

coccinelle sono delle predatrici in tutti gli stadi della loro vita, ma altre specie, come icneumonidi, braconidi e sirfidi, nelle forme adulte si nutrono di nettare e polline. La perdita degli impollinatori,

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riduce la presenza di flora spontanea e quindi anche le popolazioni di questi insetti amici, che lavorano per noi, anch’essi gratis.

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A destra un icneumonide (genere Lissonota), il lungo aculeo è un ovopositore col quale la femmina inietta le uova nelle larve di altri insetti. Le uova di schiudono all’interno dell’ospite e si nutrono di questo fino alla maturità. A sinistra un sirfide (Milesia semiluctifera), un gruppo di mosche che ha una colorazione che

somiglia ad api e vespe come strategia mimetica. Le larve dei sirfidi sono delle voraci predatrici di afidi (Fonte Wikipedia).

Che i pesticidi siano un problema per gli impollinatori è oramai provato da un gran numero di lavori scientifici pubblicati nelle maggiori riviste scientifiche internazionali (alcuni dei quali citati precedentemente). E la questione è trattata anche nelle relazioni delle istituzioni internazionali quali la Fao. I pesticidi, oltre all’effetto tossico immediato sugli insetti bersaglio, possono indurre effetti dannosi in tutti gli insetti: compromettere il funzionamento del sistema nervoso, ridurre la durata della vita degli individui, alterare i processi riproduttivi e di sviluppo.

Negli ultimi anni, una classe di pesticidi in particolare ha attirato l’attenzione degli entomologi, si tratta dei neonicotinoidi. I neonicotinoidi sono dei pesticidi chimicamente simili alla nicotina, sono sistemici, cioè si diffondono nei tessuti delle piante, nettare e polline inclusi. I neonicotinoidi furono commercializzati agli inizi degli anni Novanta, e sono usati anche per la concia delle

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sementi. Queste sostanze attaccano il sistema nervoso degli insetti, e possono comprometterne il delicato funzionamento anche a dosi minime. Un lavoro pubblicato nel 2015 su Nature, capitanato da Maj Rundlöf, riporta che comuni prodotti per la concia delle sementi hanno un importante impatto sulla salute delle api selvatiche e dei bombi. Gli autori concludono che l’uso di questo tipo di prodotti pone un grande rischio per salute delle popolazioni di apoidei. Gli autori, inoltre, sottolineano che le differenze tra le popolazioni di impollinatori servatici e le api domestiche non permettono di estrapolare da test sulle api domestiche indicazioni sull’impatto di questi prodotti sulle popolazioni selvatiche.

Una ricerca francese ha scoperto che api esposte a neonicotinoidi avevano difficoltà a costruire l’alveare. Un lavoro anglo-tedesco ha scoperto che bombi esposti ai neonicotinoidi erano affetti da

“iperattività”, volavano a grande velocità all’inizio dei loro foraggiamenti, per poi collassare, riducendo di un terzo la loro attività di foraggiamento giornaliero. Un lavoro uscito proprio in questi giorni nella importante rivista statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences, e capitanato dal ricercatore australiano Felipe Martelli, ha scoperto che un

neonicotinoide di largo uso, l’imidacloprid, è in grado di alterare la visione negli insetti, fino a provocare la cecità, anche a dosi minime.

Queste molecole sono idrosolubili, quindi facilmente disperse nell’ambiente. La presenza di neonicotinoidi è stata rinvenuta in campioni di miele provenienti da tutto il mondo. L’uso dell’imidacloprid è bandito in Europa da un paio di anni, proprio perché danneggia gli

impollinatori, ma resta ancora il pesticida più venduto a livello mondiale (tuttavia, cercando in internet, si trovano aziende italiane che vendono prodotti a base di imidacloprid, e pare sia lo stesso in Europa).

Concludendo, abbiamo visto come un approfondimento delle informazioni ci racconti storie più complesse, e decisamente altre storie, rispetto alla semplicistica analisi che ci propone Sandroni.

Concordo col dott. Sandroni quando dice che “per le api il nemico numero uno non è l’agricoltura”. Anzi… l’agricoltura ne è stata una grande amica! Nel corso del tempo, la conversione delle foreste in campi, prati e pascoli ha sicuramente avvantaggiato gli apoidei, aprendo loro nuovi e ampi spazi di foraggiamento.

Tuttavia, la progressiva urbanizzazione del territorio (la popolazione italiana è passata dalle 30 milioni di persone del 1900 alle attuali 60 milioni), e l’agricoltura moderna hanno via via

modificando il paesaggio agrario tradizionale. Da variegato e complesso, il paesaggio è stato progressivamente desertificato in termini di strutture ecologiche (sono scomparsi i boschetti, le siepi e le larghe fasce inerbite che un tempo cingevano i campi, gli alberi che si integravano ai

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vigneti, gli acquitrini, la vegetazione ripariale, i suoli sono andati degradando e perdendo la loro biodiversità), le colture si sono fatte sempre più monotone ed estensive, riducendosi spesso alla rotazione di due-tre specie, le lavorazioni sono andate intensificandosi, e dagli anni Sessanta- Settanta la chimica di sintesi è entrata in modo massiccio nei campi con un ulteriore, e innegabile, impatto sulla biodiversità.

No, il problema non è l’agricoltura, ma come si fa l’agricoltura. Così come per la nostra salute il problema non è il mangiare, ma cosa e come si mangia. Credo nessuno desideri il ritorno a un passato bucolico, a volte forse un po’ troppo idealizzato dall’urbe, che significava tanta fatica, fame e povertà. “Est modus in rebus”, c’è una misura nelle cose, ci ricorda il poeta romano Orazio.

Le critiche che si muovono all’agricoltura intensiva non intendono colpevolizzare gli agricoltori, ma far presente la necessità di una transizione verso una agricoltura che integri gli aspetti produttivi a quelli agroecologici. Questo richiede un ripensamento finanche del sistema agroalimentare, con una maggior consapevolezza da parte dei consumatori e una maggior

conoscenza da parte degli agricoltori. Ovviamente, le istituzioni giocano un ruolo chiave in questo processo. Vi è necessariamente bisogno che le istituzioni si adoperino in modo attivo per fornire gli strumenti conoscitivi, tecnici ed economici, perché tale transizione possa aver luogo, facendo in modo che il ruolo fondamentale dell’agricoltura sia pienamente riconosciuto e condiviso dalla società.

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