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Miltefosine-allopurinolo

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Academic year: 2021

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Nel nostro studio, all’inizio del trattamento, i cani affetti da leishmaniosi, avevano alterazioni dei parametri di laboratorio paragonabili ai risultati ottenuti da altri autori (Strauss-Ayali and Baneth 2000; Koutinas et al., 2000, Bianciardi 2004).

I risultati delle tre terapie dimostrano un significativo miglioramento clinico con un continuo e importante miglioramento della sintomatologia in tutti e 4 i gruppi valutati, in accordo con molti trial clinici basati su diversi principi attivi contro L.

infantum (Valladeres et al. 2001; Pasa et al., 2005; Oliva et al., 2006 Ikeda-Garcia et al., 2007).

Anche il numero di globuli rossi e l’ematocrito è migliorato nella totalità dei soggetti.

I soggetti restano comunque parassitologicamente positivi anche dopo un miglioramento clinico, d’accordo con altri autori (Solano-Gallego 2001, Saridomichelakis et al. 2005; Moreira et al., 2007).

Non avendo però effettuato la xenodiagnosi è stato difficile valutare l’effettiva efficacia del trattamento, visto che lo scopo della terapia è anche quello di rendere il cane meno infettante per il vettore.

Anche la valutazione in vitro sarebbe stata di notevole importanza per valutare il

“killing” dei macrofagi e quindi un possibile “shift” Th2-Th1, indice di guarigione dalla malattia.

Sarebbe stato quindi opportuno effettuare almeno lo skin test (test di Montenegro) al fine di valutare un incremento della risposta Th1 (Stefani, 2005).

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IFAT

I cani di ogni gruppo hanno presentato una significativa riduzione del titolo anticorpale.

La diminuzione del titolo IFAT è stata spesso correlata al miglioramento clinico specialmente a lungo termine a differenza di altri autori (Mateo et al., 2009).

Nonostante questo l’andamento il titolo ha avuto delle variazioni individuali dovute a delle caratteristiche intrinseche nei test sierologici. Difatti alcuni soggetti possono non siero convertire ad esempio a causa di una innata resistenza (Dye et al., 1993) oppure la sieroconversione può non essere permanente dovuta ad esempio da un

“shift” da una risposta immunitaria umorale a una cellulo-mediata (Quinnel et al., 2001). Anche un soggetto immunodepresso può non produrre anticorpi in numero sufficiente (Slappendel and Ferrer, 1998). Infine alcuni soggetti rimangono positivi anche quando migliorano clinicamente (Solano-Gallego et a.,2001; Saridomichelakis et al.,2005; Moreira et al., 2007).

Per tutti questi motivi l’IFAT non può essere un test rappresentativo per l’evoluzione dei soggetti trattati, in accordo con altri autori (Solano Gallego et al., 2001, Pennisi et al., 2005).

qPCR

Come molecola target è stato scelta il DNA del kinetoplasto. Molti autori hanno evidenziato come il metodo di amplificazione basato su questo target sia il più sensibile in quanto sono presenti circa 104 copie per cellula (Lambson et al., 2000;

Nicolas et al., 2002; Noyes et al., 1998). Lachaud et al., hanno comparato sei diversi metododiche di PCR per la diagnosi di leishmaniosi canina e hanno trovato una sensibilità di circa 10-3 parassiti per microtubo usando il DNA del kinetoplasto (kDNA) come target (Lachaud et al., 2002).

La standardizzazione di una real time PCR (qPCR) con l’utilizzo di Syber Green ha già dato risultati positivi mettendo in evidenza un’alta sensibilità (Quaresma et al, 2009), favorita anche dall’alto numero di copie per parassita (Nicolas et al., 2002) del kDNA del minicircolo.

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Ferrer (2002) ha dimostrato che in condizioni naturali, la puntura di flebotomi infetti trasmette un basso numero di promastigoti (100-1000 parassiti) ma questi sono sufficienti ha dare inizio alla malattia. Detto questo comunque le immuno- competenze dell’ospite e altri fattori intrinsechi influenzano il livello dell’infezione parassitaria più della carico di parassiti portati dal vettore (Travi et al., 2001).

La quantificazione negli animali esaminati comparata tra sangue e linfonodo presenta un numero di parassiti notevolmente maggiore in quest ultimo, suggerendo una possibile correlazione tra carica parassitaria e aumento della sensibilità di altri test diagnostici convenzionali. Questo potrebbe riflettere il fatto che nel linfonodo il parassita ha un tempo di stazionamento maggiore, sufficiente a stimolare il sistema immunitario. Nel sangue questa correlazione non è stata osservata, questo farebbe pensare quindi che il sangue serva più da trasporto per il parassita che non come

“tessuto serbatoio”. Manna et al (2006) riportano che la quantificazione del parassita nel sangue, specialmente nei soggetti asintomatici, non è significativa nel determinare il corso dell’infezione e che la presenza del parassita nel sangue è irregolare e quindi questo risulta essere un substrato non ottimale per il Dna di Leishmania.

Questa tecnica ha reso possibile una quantificazione oggettiva della carica parassitaria che è diminuita drasticamente nel corso del follow up anche se ha dimostrato che i soggetti restano positivi parassitologicamente come osservato da altri autori (Manna et al., 2008, Mirò et al., 2008).

Nei confronti della PCR convenzionale, la qPCR ha una sensibilità maggiore in quanto rileva anche porzioni di un parassita, mentre la sensibilità della PCR standard è di circa 10 parassiti per microlitro. Soggetti con una PCR negativa mostrano ancora quindi segni del parassita con la qPCR.

Quando la carica parassitaria è alta al momento della diagnosi invece la qPCR non offre un marcato vantaggio nei confronti della tecnica convenzionale come valutato anche da altri autori (Mary et al, 2004).

Per un monitoraggio terapeutico è invece di fondamentale importanza avvalersi di una quantificazione della carica parassitaria già dal giorno 0. Questo infatti permetterà di valutare in modo oggettivo la risposta alla terapia in atto.

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Questa tecnica quindi dovrebbe essere usata nel monitoraggio della risposta al trattamento, in particolare nei campioni dove ho un basso numero di parassiti.

Sembra infatti, da uno studio effettuato, soggetti con un basso numero di parassiti a giorno 0 (60-80 copie/mL) rivalutati dopo 6 mesi senza effettuare alcun trattamento, hanno evidenziato un calo della carica a meno di un parassita/mL di campione (midollo). In questo caso si potrebbe parlare più di infezione che non di malattia e quindi valutare se sia idoneo effettuare un trattamento oppure monitorare il soggetto e valutare la cinetica del parassita (Francino et al., 2006).

I risultati della qPCR, nel nostro studio, confermano che tutte e tre le terapie valutate con questa tecnica portano ad un riduzione significativa della carica parassitaria dopo un mese di terapia, validando così la durata dei trattamenti in 4 settimane.

E’ stata anche osservata una correlazione tra stadio clinico e carica parassitaria come dichiarato da altri autori (Mary et al., 2004), in quanto nei soggetti che migliorano da un punto di vista sintomatologico si nota una netta diminuzione della carica, mentre dal momento in cui i sintomi iniziano a rimanifestarsi la carica tende nuovamente ad aumentare, dando così un’ idea sulla “cinetica” della carica parassitaria.

Inoltre i risultati ottenuti permettono di affermare che il linfonodo risulta più sensibile per il monitoraggio nei confronti del sangue. Bisogna però sottolineare che spesso il prelievo di questo campione in soggetti post trattati risulta difficoltoso in quanto il linfonodo risulta difficile da reperire o comunque di ridotte dimensioni e quindi con difficoltà nell’effettuare l’aspirato. L’utilizzo di un tampone congiuntivale, più facile e meno invasivo, potrebbe essere preso in considerazione in studi successivi.

La misurazione della carica parassitaria di Leishmania infantum tramite PCR real- time può quindi costituire un valido metodo per il monitoraggio della terapia nei cani leishmaniotici, così come per la previsione delle recidive, associate ai parassiti che restano vitali dopo il trattamento (Mortarino et al., 2004). Infatti, nella patologia umana con coinfezione Leishmania-HIV, è stato dimostrato che i livelli di DNA del parassita sono in correlazione con il decorso della patologia e che il monitoraggio dei livelli dell’acido nucleico nel sangue periferico, prima e durante la terapia, è utile nella gestione clinica dei pazienti (Bossolasco et al., 2003).

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Miltefosine-allopurinolo

L’efficacia di questa molecola è stata documentata nell’uomo e nei roditori (Kuhlencord et al., 1992; Le Fichoux et al., 1998 Sundar et al., 2000; Bhattacharya et al., 2007).

La miltefosina ha un meccanismo d’azione basato su una azione diretta sul parassita e quindi non dipendente dal sistema immunitario. Fino ad oggi sono pochi gli studi fatti sul cane (Mirò et al., 2005; Manna et al., 2008) con risultati preliminari.

Questo studio documenta l’applicazione di questo farmaco nel trattamento della leishmaniosi canina comparato in gruppi omogenei con una terapia a base di fluorochinoloni-metronidazolo e soprattutto con la terapia di riferimento (AnM- allopurinolo).

La miltefosina è stata associata, come richiesto dalla casa farmaceutica stessa, all’allopurinolo, un farmaco che viene metabolizzato da leishmania per produrre un analogo inattivo dell’inosina, che viene incluso dentro l’RNA del parassita causandone l’interruzione della sintesi proteica. Questo farmaco viene spesso utilizzato in corso di leishmaniosi canina in monoterapia o in associazione con l’antimoniali, dove il sinergismo dei due farmaci permette una remissione clinica nella totalità dei casi (Martinez et al., 1988, Denerolle & Bourdoiseau, 1999;

Vercammen et al., 2002; Esfandiapour et al., 2007; Manna et al., 2008) e in quanto pressocchè privo di effetti collaterali e facilmente somministrabile per via orale.

Spesso viene somministrato anche per lunghi periodi come terapia di mantenimento.

Dai risultati ottenuti in bibliografia umana, la miltefosina, oltre ad essere una cura molto costosa e potenzialmente teratogena, ha dato anche effetti collaterali gastroenterici importanti (Sundar et al., 2002; Sundar & Rai, 2005).

Troya et al (2008) hanno provato il suo utilizzo in monoterapia in soggetti con HIV 1 recidivi a leishmania, senza ottenere buoni risultati. Manna et al. (2008), hanno testato la miltefosine in monoterapia anche nei cani, osservando un alto tasso di recidive.

In questo studio è stata valutata l’efficacia della miltefosina in associazione con allopurinolo.

Come osservato da altri autori (Manna et al., 2009) a dispetto di un significativo miglioramento clinico e ad una riduzione della carica parassitaria iniziale, dopo 6

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mesi dall’inizio della terapia si è osservato un peggioramento della sintomatologia accompagnato da un aumento della carica parassitaria e in alcuni soggetti anche ad una siero-conversione.

Una marcata riduzione nella carica parassitaria è stata osservata anche nel linfonodo dopo un mese di trattamento, senza però arrivare mai ad una eradicazione completa del parassita neanche dopo il secondo ciclo di terapia. L’elettroforesi delle siero proteine inoltre non ha confermato, come negli altri gruppi di studio, il miglioramento del soggetto, anzi in alcuni soggetti si è riscontrato un lieve peggioramento delle frazioni elettroforetiche.

L’uso delle miltefosine quindi deve essere considerato con attenzione: oltre agli effetti collaterali evidenziati sia a livello gastroenterico, segnalati anche in medicina umana, si è osservato a differenza di altri autori (Mirò et al., 2009) anche un peggioramento nella escrezione della creatinina, possibilmente dovuto al fatto che il farmaco non riesce a ridurre la formazione di immunocomplessi e quindi anche la loro deposizione a livello dei glomeruli renali.

In più come dimostrato sia nell’uomo che nel cane nei confronti degli antimoniali, potrebbero presentarsi possibili casi di farmaco resistenza anche con l’utilizzo della miltefosina (Croft et al., 2006); infatti farmaci come quest’ultimo presentaano un tempo di emivita lungo (6,3 giorni) e una propensione alla selezione di forme resistenti (Bryceson, 2001).

Difloxacina-metronidazolo

Dai dati ottenuti possiamo affermare che la difloxacina in associazione al metronidazolo migliora clinicamente l’animale affetto da leishmaniosi. In particolare, si sono riscontrati buoni risultati nei problemi cutanei e del tratto urinario, dovuti spesso ad infezioni batteriche secondarie alla leishmaniosi.

Anche la diminuzione del volume dei linfonodi è stata rilevata nella totalità dei cani in esame; questo fa avvalorare un effetto leishmanicida dell’ associazione utilizzata.

Gli esami di laboratorio sono migliorati nella totalità dei casi clinici, questo a conferma di un miglioramento sintomatologico del paziente.

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Per quanto riguarda l’attività leishmanicida, i risultati sono soddisfacenti.

Sette casi su 13 infatti sono risultati negativi alla PCR convenzionale sul sangue inoltre il titolo IFAT è diminuito in tutti i soggetti rispetto al giorno 0, fino ad arrivare ad una negativizzazione in 2 cani anche se questi due soggetti avevano un titolo medio basso prima di iniziare la terapia (1/80 e 1/160).

Il follow up è stato lungo e il fatto di non presentare recidive fino al giorno 720 è un dato da prendere in considerazione.

Di notevole importanza è stato il fatto di non riscontrare nessun tipo di effetto collaterale nei soggetti trattati, come neppure segni di sofferenza epatica o renale nel metabolizzare i farmaci utilizzati.

L’uso di questi due farmaci può essere quindi indicato in soggetti con gravi problemi di funzionalità epatica e renale, che non riuscirebbero quindi a sostenere una terapia con antimoniali. In questo modo infatti si ottiene un miglioramento del quadro sintomatologico del cane senza gravare sulla funzionalità d’organo.

Da non trascurare il fatto che molti soggetti stanno diventando resistenti alla terapia con antimoniali. Infatti, anche nei casi in cui la terapia tradizionale risulta ancora efficace, negli ultimi anni, è stato possibile notare un incremento del tempo di remissione da 30-40 giorni nel 1999 a 45-60 giorni nel 2003.

L’utilizzo quindi di una terapia alternativa è fondamentale per non cadere in una vera e propria resistenza farmacologia del parassita dovuta ad un uso improprio degli antimoniali.

Da sfruttare inoltre l’effetto modulatore del metronidazolo che può favorire un miglioramento della risposta immunitaria del soggetto trattato.

L’utilizzo di un fluorochinolone, come la difloxacina, può aumentare quindi l’effetto terapeutico di un trattamento specifico ad azione diretta contro Leishmania infantum, specialmente in soggetti con infezioni batteriche secondarie.

Attualmente non esistono studi atti a valutare l’interazione tra antimoniali e chinoloni in medicina veterinaria. Sembra possibile un effetto cardio-tossico da parte degli antimoniali che potrebbe essere accentuato dall’utilizzo di chinoloni.

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Pidotimod

La cura della leishmaniosi sembra essere dipendente dall’attività macrofagica nel produrre sostanze tossiche contro gli amastigoti intracellulari (Murray et al.,1989;

Alvar et al., 1997; Berhe et al.; 1999).

Diversi studi riportano l’utilizzo di composti immunomodulatori sia nell’ animale che nell’uomo. Gli immunomodulatori più frequentemente utilizzati sono il BCG (Bacillo Calmette-Guèrin), MDP (muramyl dipeptide) e la proteina A che presentano un effetto diretto sui macrofagi (Sundar et al., 2007). Studi precedenti riportano che immunomodulatori biologici come l’INFγ (Murray et al., 1988) e l’exapeptide (un analogo del frammento di beta-caseina umano) hanno intensificato l’attività degli antimoniali nel trattamento della leishmaniosi viscerale (Gupta et al., 2004).

Diversi successi sono riportati sulla combinazione di chemioterapie con immunoterapie per il trattamento della leishmaniosi (Solgi et al., 2006; El On et al., 2007; Gupta et al., 2005).

Solgi et al.(2006) hanno osservato un ottima associazione della talidomide con il Glucantime® in topi con leishmaniosi viscerale. Un altro immuomodulaore, l’imoquimod, in associazione con la paromicina ha dimostrato essere molto efficace contro la leishmaniosi cutanea da L. major (El-On et al., 2007).

I risultati ottenuti con l’ausilio del pimotimod come immunostimolante nella terapia della leishmaniosi canina hanno appurato un ottima efficacia sia dal punto di vista clinico che parassitologico. Infatti oltre alla riduzione del punteggio clinico dei soggetti si è assistito ad un miglioramento dei parametri parassitologici.

L’immunofluorescenza si è negativizzata nel 93,3% dei cani e anche la PCR ha dato ottimi risultati arrivando fino ad una negativizzazione sul sangue su tutti i pazienti valutati.

Purtroppo però non è stato possibile effettuare una qPCR o una xenodiagnosi che avrebbero permesso di confermare una avvenuta guarigione parassitologica oltre che clinica. Inoltre spesso per mancata collaborazione del proprietario e/o per la distanza dei soggetti rispetto alla sede di laboratorio dove venivano effettuate le analisi dello studio (si ricorda che questi soggetti infatti si trovano tutti all’Isola d’Elba, difficilmente raggiungibile, soprattutto nei periodi invernali, da Pisa), alcuni

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campioni non sono stati effettuati, come il puntato linfonodale, tessuto molto più sensibile al sangue come substrato per la PCR.

Un altro dato interessante è stata l’assenza di effetti collaterali anche dopo un trattamenti a lungo termine di 3 mesi consecutivi di AnM e allopurinolo e un anno di pimotimod.

L’ ottima efficacia nelle recidive, valutata in questo studio è stata confermata anche in Medicina Umana (Caramia et al., 1997).

Studi su un numero maggiore di soggetti e con l’aiuto di tecniche molecolari quali la qPCR, potrebbero avvalorare l’ipotesi di un possibile utilizzo di questa associazione nei soggetti recidivi a leishmania. La valutazione dovrebbe in più essere comparata con un gruppo omogeneo trattato con la sola terapia d’elezione, in modo da rendere lo studio significativo in termini efficacia della terapia.

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