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Il processo per la dichiarazione di fallimento a seguito della riforma degli anni 2006-2007

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Il processo per la dichiarazione di

fallimento a seguito della riforma degli anni

2006-2007

Premessa.

Il presente lavoro è dedicato allo studio e all’analisi di uno degli episodi processuali più noti ed emblematici del diritto concorsuale, ovvero il processo per la dichiarazione di fallimento (Art.15 L.F.). Si tratta di un profilo, quello

processuale, sul quale la recente riforma delle procedure concorsuali degli anni 2006-2007 ha notevolmente inciso, introducendo non solo rilevantissime novità ma anche aspetti talvolta dubbi, poco chiari e dei quali, talvolta, l’interprete fatica a comprenderne la ratio . 1

La legge fallimentare del 1942 aveva adottato, quale paradigma processuale applicabile al rito che porta

all’accertamento della qualità di imprenditore commerciale insolvente, il modello c.d. bifasico ossia un procedimento caratterizzato da una prima fase a cognizione sommaria (necessaria) e da una seconda, eventuale, a cognizione piena. Dunque un sistema mutuato dal procedimento

monitorio (Artt. 633 e ss C.p.c.) o per decreto ingiuntivo: la fase sommaria si concludeva con un provvedimento che, se non opposto, acquistava l’efficacia del giudicato; se opposto

Si pensi, ad esempio, alla ben poco comprensibile diversità, nonostante la comune appartenenza 1

all’ambito concorsuale, tra il procedimento per la dichiarazione di fallimento e il procedimento per l’accertamento del passivo; e come questi, a loro volta, siano diversi dai giudizi di reclamo e di omologa del concordato preventivo. Dunque la riforma ha sì introdotto un modello processuale formalmente camerale ma sostanzialmente a cognizione piena, tuttavia ne ha incomprensibilmente diversificato le regole da caso a caso. Addirittura tra primo e secondo grado dello stesso rito.

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(nei termini) originava, al contrario, un processo a cognizione piena.

Il modello bifasico ora richiamato informava non solo il rito per la dichiarazione di fallimento, ma anche, ad esempio, il procedimento per l’accertamento dei crediti e dei diritti reali, nonché l’accertamento dell’Insolvenza nella liquidazione coatta amministrativa. Solo nel caso del concordato preventivo il dualismo cognizione sommaria- cognizione piena non era eventuale bensì necessario: alla fase di ammissione (sommaria) seguiva, di necessità, la fase di omologa (a cognizione piena). Per tutti gli altri episodi

processuali, invece, la Legge del 1942 imponeva il modello camerale “puro” (Artt.737 e ss C.p.c.), come, ad esempio, nell’ambito dei reclami avverso i provvedimenti del giudice delegato e del curatore (Artt. 26 e 36 L.F.). 2

La riforma degli anni 2006-2007 è intervenuta in modo incisivo su questo assetto investendo ancora di più sul

modello camerale e imponendolo, anche in molte fattispecie endoprocessuali, quale standard generalizzato. Come noto, si tratta di un tipo di processo nato per gestire la c.d.

giurisdizione volontaria, ossia un’attività che, sebbene veda l’intervento giurisdizionale, non è funzionale alla risoluzione nel merito di controversie su diritti, bensì all’ amministrazione di interessi . Un sistema caratterizzato da una disciplina, Artt. 3 737 e ss C.p.c., assai scarsa e dove è assolutamente

dominante il ruolo del giudice nella conduzione del procedimento. Detto ciò, nonostante il legislatore della riforma abbia esteso e generalizzato questo paradigma in ambito concorsuale, ci si accorge che, in realtà e

relativamente ad alcuni episodi, non siamo di fronte ad un

Al contrario, i decreti del Tribunale Fallimentare, secondo il vecchio Art. 23 comma 3 L.F., non erano 2

suscettibili di ulteriori impugnative, neppure in forme camerali. Quanto ai procedimenti camerali puri nel sistema previgente si veda C. Cecchella, Il Diritto Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24Ore, 2007, Pagg.133 e ss.

Tra le ipotesi tipiche rientranti nell’ambito della volontaria giurisdizione ricordiamo, tra le altre: 3

l’autorizzazione del giudice tutelare all’alienazione di beni appartenenti al minore (Art. 320 comma 3 C.c), l’adozione di soggetti maggiorenni (Art. 291 C.c), l’omologazione della separazione consensuale tra i coniugi (Art. 711 C.p.c.). A differenza di quanto accade nella c.d. giurisdizione contenziosa, ove si discute su diritti, qui l’intervento del giudice ha natura “amministrativa” e si pone come necessario ai fini del perfezionamento dell’atto o del negozio.

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vero e proprio procedimento camerale, bensì ad un

procedimento per così dire ibrido. In altri termini, quanto al rito per la dichiarazione di fallimento (come pure per il procedimento di accertamento dei crediti e dei diritti reali), nonostante la riforma lo inquadri come camerale, questo integra, per le sue nuove caratteristiche, un vero e proprio processo a cognizione piena, seppur di rito speciale . 4 Dunque saranno oggetto di accurata analisi, nei seguenti capitoli, la struttura, le problematiche e le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali che ruotano attorno ai profili di maggior rilievo di questo “Rito Camerale Ibrido”5per la dichiarazione di fallimento, ex Art.15 L.F.

Tuttavia è necessaria una preventiva, seppur sintetica e non esauriente, panoramica introduttiva sul diritto fallimentare, sui suoi istituti principali e sulla fattispecie che origina il

concorso.

Dunque l’ordinamento, in controtendenza alla necessità di semplificazione e di unificazione dei riti, 4

di cui il D.Lgs n.150/2011 è emblematica espressione, ha introdotto un ulteriore processo a cognizione piena di rito speciale.

Il termine “ibrido”, per indicare un rito solo formalmente camerale ma sostanzialmente a cognizione 5

piena, è stato utilizzato dal Prof. Claudio Cecchella. Al riguardo si veda Il Processo per La

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Introduzione.

1.1. La necessità di un regime speciale e derogatorio.

Il diritto fallimentare costituisce quello specifico settore dell’ordinamento giuridico, crocevia tra diritto sostanziale e processuale, tra diritto pubblico e privato , avente per oggetto 6 la disciplina applicabile all’imprenditore commerciale in crisi o insolvente (Artt. 1, 5, 160 comma 2 L.F.).

La scienza economica ha infatti evidenziato come la crisi dell’impresa, alla stregua di un virus, tenda ad espandersi e a contagiare prima altri imprenditori (si tratterà di coloro che hanno rapporti economici, giuridici e produttivi in corso con l’impresa malata) poi l’intero mercato. Nello specifico è stato osservato come, in caso di crisi, la continuazione dell’impresa (il riferimento è a quella di piccole e medie dimensioni)

ovvero, al contrario, la sua immediata soppressione (ci si riferisce a quella bancaria, assicurativa e di grandi

dimensioni) possano produrre un gravissimo danno alle relazioni economiche costituenti il mercato nella sua interezza.

Dunque, per i motivi appena accennati, all’imprenditore

commerciale, individuale o sociale, in crisi o insolvente non è applicabile il diritto comune (sostanziale e processuale), bensì egli è destinatario di un regime giuridico speciale e derogatorio, di cui il Diritto Fallimentare è espressione. In altri termini la materia in esame (con le soluzioni giuridiche da essa proposte) rappresenta quella medicina necessaria per bloccare il virus della crisi- insolvenza e dunque, in

Ciò spiega il forte interesse verso la materia sia da parte dei sostanzialisti che dei processualisti. 6

Quanto all’appartenenza al diritto privato o a quello pubblico, si nota come le esigenze sottostanti il diritto fallimentare (pubblicistico-economiche di protezione del mercato, ma anche privatistiche, relativamente ai diritti dei creditori e alla grande rilevanza data dalla riforma alle procedure ex

contractu) comportino che questo faccia parte dell’uno e dell’altro settore dell’Ordinamento. In merito

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prospettiva, salvaguardare il sistema economico nella sua globalità.

Il diritto fallimentare (o, per meglio dire, concorsuale) integra così uno speciale regime giuridico, sostanziale e di rito, derogatorio del diritto comune, applicabile alla fattispecie dell’imprenditore commerciale, individuale o sociale, in crisi o insolvente.

2.1. Le fonti del diritto fallimentare.

Seppur breve, è necessario un riferimento alle fonti del diritto fallimentare. A livello nazionale abbiamo il R.D. 16 Marzo 1942 n.16 (per il fallimento, i concordati e la liquidazione coatta amministrativa), ovvero la legge fallimentare. Poi il D.L.gs 8 Luglio 1999 n.270 sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, seguito dall’intervento

riformatore dovuto al D.L. 23 Dicembre 2003 n.319, convertito poi nella L. 18 Febbraio 2004 n.39.

Su tale base normativa è intervenuta in modo assai incisivo la riforma degli anni 2006-2007, dovuta al D.Lgs n.5 del 2006 (in vigore dal 16 Luglio 2006) e al successivo D.Lgs n.169 del 2007, mediante il quale il governo è tornato su alcune

soluzioni proposte con la prima stesura della riforma

superando lacune e difetti tecnici, ma pure modificando in modo netto profili e aspetti già rivisitati nel 2006.

Ricordiamo anche la L. 14 Maggio 2005 n.80 la quale, oltre a delegare l’esecutivo sulla riforma generale, ha modificato il regime dell’azione revocatoria fallimentare e del concordato preventivo.

Vi sono poi stati alcuni, recentissimi, interventi legislativi che hanno interessato, tra le altre cose, l’istituto del concordato. Le due fonti di riferimento sono il c.d. Decreto Sviluppo (D.L. 83/2012, convertito con L. 134/2012) e il c.d. Decreto del

Fare (D.L. 69/2013, convertito con L. 98/2013). Attraverso tali

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L.F. e introdotto ex novo l’Art.186-bis. Tra i risultati più

significativi di tali interventi menzioniamo il nuovo istituto del

pre-concordato (detto anche concordato in bianco) e la figura

del concordato con continuità aziendale.

Infine è da menzionare la L. 27 Gennaio 2012 n.3, modificata dall’Art 18 del D.L. n.179/2012 (convertito in L. 221/2012), la quale ha introdotto nel nostro ordinamento i procedimenti per

la composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio, nuovi istituti, alternativi

all’esecuzione individuale, di cui possono beneficiare i soggetti non fallibili ex Art.1 comma 2 L.F., concedenti il beneficio dell’esdebitazione e che si collocano a fianco delle ordinarie procedure concorsuali . 7

Quanto alle fonti sovranazionali il principale riferimento è al Regolamento 29 Maggio 2000 n.1346, relativo al

coordinamento tra le varie procedure concorsuali aperte in più stati comunitari, quando l’impresa abbia carattere

multinazionale.

3.1. Procedure necessarie e volontarie; differenze ed elementi comuni. Cenni.

Finora si è utilizzato, nel denominare la materia,

l’espressione diritto fallimentare. In realtà la definizione più corretta e precisa è diritto concorsuale o, in alternativa, diritto

delle procedure concorsuali. Ciò in quanto è vero che il

fallimento costituisce la procedura liquidatoria dell’impresa

In merito si veda L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli 2015, Pagg. 401 e ss. 7

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più nota ed emblematica (si pensi, ad esempio, anche all’uso extragiuridico del termine) ma non è la sola. L’ordinamento conosce infatti ulteriori procedure, divergenti quanto a

presupposti e finalità , le quali sono di norma suddivise in due 8 categorie: le procedure necessarie (o ex lege) e quelle

volontarie (o ex contractu).

Tra le prime abbiamo il fallimento, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Tra le seconde il concordato preventivo (e le sue varie tipologie), gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani di risanamento certificati . La sostanziale differenza 9 risiede nel fatto che mentre le procedure ex lege sono interamente regolate dalla legge, quelle ex contractu si fondano sull’autonomia privata, ovvero sull’accordo tra debitore e creditori. Non solo. Mentre una situazione di generica crisi non comporta di necessità l’intervento del regime concorsuale (questo, in tale ipotesi, può infatti essere avviato tramite una scelta volontaria del debitore che si

indirizzi verso una soluzione concordata), la sussistenza di una vera e propria insolvenza porta ex lege all’applicazione del diritto fallimentare (Artt.5 e160 L.F.). Dunque, da un lato amministrazione e liquidazione secondo processi voluti dalla legge; dall’altro amministrazione (non sempre seguita da liquidazione) secondo processi concordati, le cui regole si fondano su base contrattuale.

Vi sono tuttavia due elementi che accomunano le categorie di procedure ora menzionate: la processualità e il concorso.

Ad esempio la liquidazione coatta amministrativa, in alternativa allo stato di insolvenza, può essere 8

originata dal diverso presupposto rappresentato dalle gravi irregolarità di gestione.

La riforma degli anni 2006-2007 ha accentuato molto il rilievo delle procedure volontarie quali 9

strumenti di risoluzione della crisi dell’impresa. In merito si ricordi, ad esempio, l’esclusione dalla revocatoria fallimentare dei piani di risanamento di cui all’ Art. 67 comma 3 Lett. d) L.F. e la disciplina di un concordato preventivo (Art.160 L.F.) privo di limiti di contenuto e con possibilità di una

diversificazione della proposta in relazione alle diverse classi in cui il ceto creditorio può suddividersi. Per un esame dettagliato delle varie procedure concorsuali si rimanda a L. Guglielmucci, Diritto

Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2015 ma anche E. Frascaroli Santi, Il Diritto Fallimentare e delle Procedure Concorsuali, Padova, Cedam, 2012.

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Quanto alla processualità è sufficiente ricordare come il legislatore abbia utilizzato il paradigma del processo10 per

informare tutte le attività concorsuali, anche quando ha introdotto norme sostanziali. In altri termini il diritto

fallimentare si caratterizza per il suo integrale svolgimento processuale. Basti pensare alle regole che presiedono la scelta del curatore in merito al suo subentro nei rapporti contrattuali ineseguiti, a quelle disciplinanti l’affitto

dell’azienda e il suo provvisorio esercizio, alle norme sulla liquidazione e sul riparto, a quelle che regolano lo stesso procedimento che porta ad accertare la fattispecie....

Quanto all’elemento del concorso la peculiarità sta nel fatto che questo, a differenza di ciò che accade in altri settori e istituti del diritto , coinvolge sia il lato del passivo (come 11 concorso di tutti i creditori in modo paritetico, ex Art. 2741 C.c., alla liquidazione del patrimonio del debitore) ma anche quello dell’attivo. Il riferimento è ovviamente a tutti quei rapporti e diritti che fanno capo all’imprenditore insolvente, ovvero l’impresa intesa dal punto di vista oggettivo (quale insieme di beni destinati dall’imprenditore all’esercizio della stessa, Art. 2555 C.c.). Dunque il diritto fallimentare è

concorsuale in quanto coinvolgente l’universitas di creditori ma anche l’universitas di beni e diritti costituenti l’impresa. Processualità e concorso caratterizzano dunque tutti gli istituti concorsuali.

Dunque un modello caratterizzato da un atto finale, produttivo di effetti, preceduto da altri atti ad 10

esso propedeutici, al cui compimento partecipano, in condizioni di parità e contraddittorio, tutte le parti del conflitto (Art. 111 comma 2 Cost.). Quanto all’aspetto della processualizzazione del Diritto

Concorsuale si veda, tra gli altri, G. Mura, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento, Roma, DIKE Giuridica Editrice, 2013, Pag.11, ove si parla del Fallimento in termini di “divenire processuale”.

Si pensi alla liquidazione concorsuale dell’eredità giacente o beneficiata (Art. 531 C.c e 498 e ss 11

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4.1. Il fallimento come procedura ex lege. La fattispecie e i suoi elementi. Cenni.

Come visto nel precedente paragrafo il fallimento fa parte, assieme alla liquidazione coatta e all’amministrazione straordinaria, delle procedure necessarie. Si tratta di un istituto concorsuale liquidatorio sul quale la riforma degli anni 2006-2007 ha profondamente inciso mutandone diversi

aspetti tra cui (il più rilevante ai nostri fini) quello processuale. Come vedremo la riforma abbandona, in relazione al

fallimento, il modello bifasico vigente sotto la legge del 1942 introducendo un rito “ibrido”, che solo formalmente viene classificato come camerale ma che, nella sostanza, integra un vero e proprio processo a cognizione piena. La recente riforma infatti, quanto ai profili di rito della materia

concorsuale, ha introdotto una generalizzazione del modello camerale, ossia del paradigma processuale utilizzato

nell’ambito della volontaria giurisdizione (Artt. 737 e ss C.p.c.). Tuttavia il richiamo al modello camerale è solo formale limitandosi, per così dire, ad una mera etichetta: al suo interno è celato infatti un vero e proprio processo a cognizione piena (seppur di rito speciale).

Prima di concludere queste brevi, ma necessarie, note

introduttive è doveroso spendere due parole sulla fattispecie che origina l’applicazione del regime concorsuale e sui suoi effetti.

Si è detto che il diritto fallimentare integra un regime giuridico speciale di cui è destinatario l’imprenditore commerciale, individuale o sociale, in crisi o insolvente. Dunque gli elementi costitutivi della fattispecie concorsuale sono due: soggettivo (qualità di imprenditore commerciale) e oggettivo (crisi o insolvenza).

La nozione di imprenditore commerciale si ricava dal

combinato disposto degli Artt. 2082 C.c e 2195 commi 1 e 2 C.c. Ne deriva un soggetto che svolge, mediante

un’organizzazione e professionalmente, un’attività economica diretta alla produzione di beni o servizi (industria), allo

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scambio degli stessi (commercio), ovvero altre attività di servizio (come quella di trasporto, bancaria, assicurativa) o, ancora, attività ulteriori ausiliare delle prime.

Risultano esclusi, in tal modo, dall’applicazione dello speciale regime, sia l’imprenditore agricolo (Art. 2135 C.c.) che il

professionista intellettuale (Art. 2238 C.c.) . 12

Tuttavia l’ordinamento concorsuale non sottopone alla sua disciplina l’imprenditore commerciale tout court. La legge fallimentare infatti (Art.1 comma 2) individua alcuni parametri quantitativi (attivo patrimoniale, ricavi lordi, passività) relativi all’impresa, in relazione ai quali l’imprenditore che ne dimostri il possesso congiunto, pur avendo la qualifica soggettiva della commercialità, si vede escluso dalle norme sul fallimento e sul concordato preventivo . 13

Quanto all’elemento oggettivo della fattispecie, il riferimento è alla crisi e all’insolvenza. Si tratta di due concetti non

sovrapponibili in quanto l’insolvenza costituisce solo una possibile manifestazione della crisi dell’impresa. In altri termini tra le due nozioni sussiste una relazione di genus a

species e ciò è ricavabile facilmente dalla lettura combinata

degli Artt. 5 e 160 comma 2 L.F. La prima disposizione richiamata dispone che “Lo stato di insolvenza si manifesta

con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente

A seguito della L. 27 Gennaio 2012 n. 3, così come modificata dall’Art.18 del D.L. 179/2012 12

(convertito in L. 221/2012), l’imprenditore agricolo è ora soggetto alle procedure di composizione della crisi per sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio (Art. 7 comma 2-bis). Può comunque far riscorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti e alla transazione fiscale (Artt. 182-bis e ter L.F.). Quanto al professionista intellettuale, la sua esclusione dalle procedure concorsuali deriva dal fatto che, sebbene questi possa utilizzare anche un’ingente organizzazione ai fini dello svolgimento della propria attività, il suo apporto personale è sempre qualitativamente prevalente e predominante. Inoltre, l’esclusione dalla applicazione della disciplina dell’impresa deriva pure dalla constatazione del minor “allarme sociale” che l’insolvenza del professionista (peraltro assai rara) desta rispetto a quella di un imprenditore. In merito L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2015, Pag. 20.

Si tratta di indici di quantitativi (Attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore a Euro 13

300.000; Ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a Euro 200.000; Debiti, anche non scaduti, per un ammontare non superiore a Euro 500.000) di esenzione dalle norme concorsuali, il cui onere probatorio ricade sul debitore.

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le proprie obbligazioni ” . La seconda (relativa ai presupposti 14 di accesso al concordato preventivo) afferma che “Ai fini del

comma 1 (ossia per l’ammissione al concordato) per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Dunque

l’insolvenza rappresenta una species del più ampio genus crisi. La distinzione è estremamente rilevante in quanto una situazione di generica crisi non comporta necessariamente (ex lege) l’applicazione del regime concorsuale; questa

deriva solo dalla volontà dell’imprenditore il quale, anche per limitare le proprie responsabilità (se del caso pure penali), può chiedere di essere ammesso ad una procedura

concordataria di risoluzione. Al contrario una situazione di vera e propria insolvenza comporta di necessità l’intervento del regime concorsuale. Questa soluzione prenderà così la via del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa (si tratta infatti di procedure necessarie), potendo consentire, ma come ipotesi solo alternativa e non esclusiva, un concordato tra creditori e debitore. Del resto lo stesso Art. 5 Comma1 L.F. dispone che “L’imprenditore che si trova in stato

d’insolvenza è dichiarato fallito”.

5.1. Gli effetti del concorso come risultato di un accertamento costitutivo. Cenni.

Già è stato chiarito come il diritto fallimentare-concorsuale integri a tutti gli effetti uno speciale regime giuridico,

sostanziale e processuale, derogatorio del diritto comune; speciale statuto di cui è destinatario, per esigenze

Per un approfondimento sugli elementi costitutivi dell’insolvenza si veda C. Cecchella, Il Diritto 14

Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24 Ore, 2007, Pagg. 40-44, e L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2015 Pagg. 30-38. Ma anche E. Frascaroli Santi, Il Diritto Fallimentare e delle Procedure Concorsuali, Padova, Cedam, 2012, Pagg. 29 e ss.

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pubblicistico-economiche, l’imprenditore commerciale in crisi per insolvenza.

Quanto alle norme speciali di natura sostanziale il riferimento normativo è al capo III sezioni I-II-III-IV della legge

fallimentare, ove sono delineati, rispettivamente, gli effetti del concorso sul fallito, sui creditori, sugli atti compiuti in loro pregiudizio e sui rapporti giuridici preesistenti. Dunque si tratta di un regime che altera la normale libertà contrattuale dell’imprenditore, la sua capacità e legittimazione

processuale, le sue responsabilità (anche penali), i suoi diritti e obblighi nonché (ma oggi in misura assai minore rispetto al passato) le sue libertà . 15

Quanto invece alle norme di natura processuale il riferimento è a tutti quei procedimenti che l’ordinamento concorsuale prevede al suo interno e che sono funzionali alle esigenze nascenti dal concorso: il rito per la dichiarazione di fallimento, l’accertamento dell’insolvenza nella liquidazione coatta

amministrativa, il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del Fallimento, l’opposizione all’accertamento dello stato d’insolvenza, l’impugnazione del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, il reclamo avverso i provvedimenti del

giudice delegato e del curatore, il giudizio di ammissione e di omologa del concordato preventivo....

Ciò che è fondamentale ricordare è che questo speciale statuto giuridico, sostanziale e di rito, non trova applicazione

ope legis, ossia per il solo fatto del manifestarsi

concretamente, nella realtà economica, della fattispecie. A tal fine è infatti necessario un accertamento giurisdizionale che si concluda con un provvedimento avente carattere

Il sistema vigente sotto la legge del 1942 concepiva il fallimento come procedura non solo 15

liquidatoria ma anche sanzionatoria e afflittiva. Il fallito si trovava così destinatario di uno status personale paragonabile ad una sorta di arresto domiciliare sui generis: limitazione dei diritti elettorali, impossibilità di spostarsi liberamente sul territorio, incapacità relative ad una lunga serie di professioni e incarichi, iscrizione nel Pubblico Registro dei Falliti come marchio d’infamia, necessità di sottoporsi ad un ulteriore procedimento di riabilitazione civile una volta chiuso il fallimento. La riforma degli anni 2006-2007 rivoluziona questa impostazione: la crisi dell’impresa non viene più concepita come colpa dell’imprenditore e questi viene sanzionato solo in certe ipotesi, integranti fattispecie penali (Titolo VI, Capo I, Artt. 216 e ss L.F. “Reati commessi dal fallito”).

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costitutivo (una sentenza) che si ponga come presupposto giuridico per la successiva applicazione delle regole del concorso. Un procedimento nel cui ambito venga dunque accertata giudizialmente la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie: la qualità di imprenditore commerciale e l’insolvenza.

Il rito per la dichiarazione di fallimento (Art.15 L.F.), oggetto specifico del presente lavoro, rappresenta forse il più

emblematico episodio processuale in tal senso.

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Capitolo 1

Il sistema processuale previgente, gli orientamenti della giurisprudenza e le scelte della riforma.

1.1. La legge fallimentare del 1942. Il fallimento come sanzione afflittiva.

Come accennato in sede introduttiva il fallimento, sotto la vigenza della legge del 1942 (R.D. 16 Marzo 1942 n.267), veniva concepito quale procedura concorsuale al contempo liquidatoria e sanzionatorio-afflittiva. L’imprenditore che si fosse trovato in una situazione di crisi e che dunque non fosse più in grado di adempiere in modo regolare alle proprie obbligazioni costituiva, agli occhi del Regime, un insidioso pericolo da cui doversi liberare nel modo più celere ed efficace possibile. Il sistema economico fascista del resto, imperniato sull’autarchia, sulla protezione estrema e sullo sviluppo a tutti i costi della produzione interna, non poteva che inquadrare l’insolvenza di un’impresa come un attacco assai deleterio all’intero complesso produttivo e lavorativo nazionale.

La difficoltà economica in cui l’impresa commerciale poteva imbattersi veniva così concepita come una colpa dello stesso imprenditore; una situazione in grado di produrre

conseguenze negative su tutto il sistema delle relazioni costituenti il mercato, in quanto l’insolvenza, alla stregua di un virus, era (ed è) idonea a contagiare tutti coloro che prima o dopo vengono in contatto col malato.

Le conseguenze di questo tipo di impostazione (che è più ideologica che giuridica) si scorgono in modo emblematico considerando gli effetti personali sul fallito che la sentenza dichiarativa del Fallimento produceva (il riferimento è al capo III, sezione I, Artt. 42 e ss L.F. nel testo ante-riforma, nonchè ad alcune leggi speciali poi abrogate). Solo indicativamente

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possiamo ricordare, tra questi, la perdita della capacità

elettorale per un periodo pari a cinque anni, il negato accesso agli albi di svariate professioni, l’impossibilità di muoversi liberamente sul territorio senza l’autorizzazione del giudice delegato, l’obbligo di consegna al curatore di tutta la

corrispondenza, la necessità, una volta chiuso il fallimento, di sottoporsi ad un ulteriore procedimento di riabilitazione civile per poter cancellare il proprio nome dall’ “infamante” Pubblico Registro dei Falliti . D’altronde l’ordinamento italiano 16

dell’epoca non poteva ancora contare su di una Costituzione rigida e garantista che si facesse protettrice dei diritti

fondamentali e delle libertà degli individui.

Dunque la crisi dell’impresa era vissuta, al tempo, come un vero e proprio attacco al sistema economico nazionale e al suo equilibrio. L’impresa malata doveva essere cancellata dal mercato (con una attenzione quasi nulla verso un suo

possibile salvataggio) , il fallito-colpevole sottoposto ad un 17 regime di arresto domiciliare sui generis (senza dimenticare le fattispecie penali a cui poteva andare incontro, Artt. 216 e ss L.F.) e i presupposti di accesso ad una soluzione

concordata della crisi, così come i possibili contenuti dell’accordo, erano di difficile attuazione e limitati . 18 A coronamento di ciò, e coerentemente con tale rigida

impostazione, la struttura dell’organizzazione fallimentare si caratterizzava per il ruolo alquanto pregnante del giudice delegato e del Tribunale Fallimentare a scapito non tanto del

Per una più completa disamina degli effetti prodotti dalla sentenza di fallimento sul debitore sotto la 16

legge del 1942 si veda C. Cecchella, Il Diritto Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24Ore, 2007, Pagg. 207 e ss. e L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2015, Pag. 110.

Solo quando l’imprenditore poteva considerarsi “onesto ma sfortunato” e in grado di soddisfare in 17

modo apprezzabile i creditori (ovvero pagamento integrale di quelli muniti di prelazione e di almeno il 40% di ciò che doveva ai chirografari), questi aveva la possibilità di aggirare il fallimento-sanzione e di

beneficiare del concordato preventivo.

Il concordato preventivo ad esempio, nella legge del ‘42, era concepito quale beneficio per 18

l’imprenditore in crisi che fosse meritevole; dunque un’alternativa al fallimento che, come visto, aveva natura sanzionatoria oltre che liquidatoria. Per un’analisi più dettagliata dei contenuti del concordato nel sistema previgente si rinvia alla lettura dell’Art.160 L.F. nella sua stesura originaria nonchè a L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare, Torino, Giappichelli, 2015, Pagg. 315 e ss.

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curatore quanto, soprattutto, del comitato dei creditori . Non 19 solo; il sistema concorsuale contemplava pure l’iniziativa d’ufficio ai fini della dichiarazione di fallimento (indizio ulteriore del profondo interesse pubblicistico sottostante la fattispecie).20

La riforma delle procedure concorsuali degli anni 2006-2007, come noto, ha profondamente inciso su molti di questi

aspetti, rivoluzionando i profili più rilevanti della materia. Il fallimento non viene più concepito quale colpa

dell’imprenditore (questi, se del caso, andrà incontro a

responsabilità di natura penale), gli effetti personali derivanti dalla sentenza dichiarativa si limitano solo a imporre

prescrizioni funzionali ad un miglior svolgimento della procedura e vengono assai rivalutati i mezzi di risoluzione della crisi basati sull’autonomia privata (le c.d. procedure volontarie o ex contractu) . Non solo. Si è poi avuta 21 l’estensione all’ambito fallimentare dell’istituto

dell’esdebitazione (prima limitato alle sole procedure volontarie) nonchè l’introduzione di soluzioni tendenti e funzionali ad una logica recuperatoria anzichè

esclusivamente liquidatoria del patrimonio imprenditoriale, quali l’esercizio provvisorio e l’affitto d’azienda o di suoi rami (Artt.104 e 104-bis L.F.) . 22

Il giudice delegato (come pure il Tribunale Fallimentare) era titolare, nel regime previgente, di 19

rilevanti funzioni di gestione e di amministrazione del patrimonio (oltre a quelle giurisdizionali) mentre il ceto creditorio si vedeva relegato ad un ruolo tendenzialmente secondario nello svolgimento della procedura, con funzioni meramente consultive (obbligatorie nei casi previsti dalla legge, discrezionali negli altri). In merito ancora C. Cecchella, Il Diritto Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24 Ore, 2007, Pagg. 157 e ss.

Quanto all’’iniziativa d’ufficio, eliminata dalla recente riforma degli anni 2006-2007, si rimanda al 20

capitolo successivo del presente testo.

Si ricordi, in tale direzione, i piani di risanamento certificati e la loro esclusione dal regime della 21

revocatoria fallimentare ex Art. 67 comma 3, Lett. d), gli accordi di ristrutturazione dei debiti

(Art.182-bis L.F.) e la nuova disciplina del concordato preventivo (Art.160 e ss L.F.). Inoltre sono da

menzionare, sempre nella prospettiva di una maggiore salvaguardia del bene-impresa, le figure, di recente introduzione (L.134/2012), del concordato in bianco e del concordato con continuità aziendale.

In merito si veda anche G. Mura, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento, Roma, DIKE 22

(17)

Detto ciò è tempo di concentrare l’attenzione sul profilo che maggiormente ci interessa e che ci riguarda più da vicino: quello processuale.

2.1. Il sistema processuale previgente. Il modello bifasico simil-monitorio.

L’ ordinamento fallimentare del 1942 si imperniava, quanto ai profili di rito, su di una generalizzata adozione delle forme camerali-sommarie, ossia del paradigma processuale utilizzato per gestire la c.d. volontaria giurisdizione. Come noto, si tratta di un tipo di procedimento (Artt.737 e ss C.p.c) fortemente deformalizzato, privo di regole, veloce e dove il giudice ha un ruolo assolutamente determinante, se non proprio discrezionale, nella conduzione del processo (dunque una realtà in antitesi al disposto di cui all’Art.111 comma 1 Cost., in virtù del quale “La giurisdizione si attua mediante il

giusto processo regolato dalla legge”). Si tratta poi di un

procedimento del tutto autosufficiente, nel senso che, viste le sue caratteristiche e finalità, non tollera l’ingerenza o la

compresenza nè del mezzo di tutela ordinario nè di quello cautelare . 23

Ricordiamo brevemente altre peculiarità dei procedimenti in camera di consiglio. La forma dell’atto finale, salvo che la legge disponga altrimenti, è quella del decreto motivato, dunque un provvedimento inidoneo al giudicato e perciò modificabile o revocabile in ogni momento dal giudice che lo ha emesso (Art. 741 comma 1 C.p.c). Avverso i decreti

pronunciati dal giudice tutelare può proporsi reclamo,

mediante ricorso, al Tribunale; avverso quelli pronunciati dal Tribunale può proporsi reclamo alla Corte d’Appello. Entrambi gli organi, nel decidere il reclamo, pronunciano, di nuovo, in camera di consiglio (Art. 739 C.p.c). Tale mezzo

d’impugnazione va proposto nel termine perentorio di dieci

In tal senso C. Cecchella, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento. Un Rito Camerale Ibrido, 23

(18)

giorni dalla comunicazione del decreto o dalla sua

notificazione se lo stesso è stato emesso nei confronti di più parti (Art. 739 comma 2 C.p.c).

I procedimenti camerali si connotano poi per la presenza di una cognizione sommaria (in contrapposizione a quella piena ed esauriente tipica della giurisdizione c.d. contenziosa, ove si discute su diritti soggettivi). Ciò si traduce nel fatto che l’istruttoria, quando necessaria, si caratterizza per gli ampi poteri di iniziativa d’ufficio e per il suo svolgersi attraverso la tecnica delle sommarie informazioni, di cui l’Art.669-sexies comma 1 C.p.c fornisce un’eloquente descrizione : “Il giudice,

sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili ” .24

Tali peculiarità processuali, informanti i procedimenti camerali e che danno luogo ad un rito svelto e deformalizzato, sono state così concepite proprio per la gestione degli affari di giurisdizione volontaria ossia, come già ricordato in sede introduttiva, di quelle fattispecie ove il giudice non è chiamato a risolvere nel merito controversie su diritti, bensì ad

amministrare interessi (per lo più patrimoniali) e dove il suo intervento si rende necessario ai fini del perfezionamento dell’atto o del negozio.25

Terminata questa breve ma necessaria parentesi sulla struttura dei procedimenti camerali e tornando alla legge fallimentare del 1942, questa, come accennato, aveva

adottato il modello camerale-sommario ora descritto a quasi tutti gli episodi processuali che si originavano dall’apertura del concorso. Le uniche eccezioni erano rappresentate dal procedimento per l’accertamento del passivo e dal

procedimento per la dichiarazione di fallimento, i quali si fondavano su di un rito bifasico, simil-monitorio, potremmo dire.

Oltre al procedimento cautelare di cui al citato Art. 669-sexies, la tecnica delle sommarie 24

informazioni è richiamata pure dall’Art. 38 comma 4 C.p.c relativo alle questioni di competenza. Per un esame dettagliato dell’argomento “volontaria giurisdizione” si rimanda a F.P. Luiso, Diritto 25

(19)

In altri termini, l’ordinamento concorsuale previgente aveva adottato il sistema camerale “puro” (Artt. 737 e ss. C.p.c) per tutte le fattispecie processuali originate dal concorso (e in specie, visti i problemi di compatibilità Costituzionale che poi hanno suscitato, in relazione alle contestazioni di cui agli Artt. 26 e 36 L.F.) mentre per le due ipotesi prima indicate era stata scelta una soluzione processuale in parte diversa, modellata sul paradigma del procedimento monitorio o per decreto ingiuntivo (Artt. 633 e ss C.p.c).

La generalizzazione del modello camerale-sommario in ambito concorsuale era funzionale a tutta una serie di esigenze. Anzitutto c’era il motivo, più volte ricordato, economico-pubblicistico, rappresentato dalla necessità di eliminare il prima possibile l’impresa malata dal circuito produttivo per evitare che l’insolvenza potesse contagiare altri imprenditori. A ciò va aggiunta, come cornice storico-ideologica, l’impostazione afflittivo-sanzionatoria che

caratterizzava il fallimento durante il ventennio: la crisi come colpa dell’imprenditore e la scarsissima attenzione verso soluzioni recuperatorie del complesso aziendale (già si è ricordato come il concordato preventivo fosse concepito quale beneficio, alternativo al fallimento, concesso

all’imprenditore sfortunato ma onesto e meritevole). Infine, a chiusura del sistema, influente era l’assenza di una

Costituzione come fonte normativa sovraordinata che

dettasse, tra gli altri, principi fondamentali in tema di garanzie processuali . 26

Si capisce come un procedimento caratterizzato da pochissime regole, nel quale il giudice è “sovrano” della relativa conduzione, dotato di ampi poteri d’iniziativa, veloce e con un’istruttoria basata sulla tecnica delle sommarie informazioni fosse del tutto congeniale con lo spirito del

tempo e con la concezione fascista del diritto concorsuale. La previsione del vecchio Art.15 L.F., relativa all’audizione solo eventuale dell’imprenditore nel procedimento in camera di

Il riferimento è, ad esempio, al diritto di agire e di resistere in giudizio (Art 24 Cost.), il diritto ad un 26

processo regolato dalla legge e svolto di fronte ad un giudice terzo e imparziale, in condizioni di pieno contraddittorio e di parità di armi (Art.111 Cost.).

(20)

consiglio, durante la prima fase sommaria, per la

dichiarazione di fallimento, è in tal senso quanto meno emblematica.

Se la legislazione concorsuale previgente aveva adottato il modello camerale-sommario (Artt. 737 e ss C.p.c) in

relazione ai reclami (Artt. 26 e 36 L.F.) e a molti altri episodi processuali originati dalla liquidazione fallimentare, allo stesso tempo, come detto, aveva previsto soluzioni in parte diverse per l’accertamento del passivo e per la dichiarazione di fallimento.

Queste due fattispecie infatti erano strutturate su di un 27 modello sommario-monitorio: una prima fase sommaria (necessaria) che si concludeva con un provvedimento che, se non opposto nei termini, acquistava l’autorità e gli effetti propri della cosa giudicata. Qualora, al contrario, il

soccombente nella fase sommaria avesse proposto

opposizione nei termini ciò dava origine ad una seconda fase (dunque eventuale) a cognizione piena ed esauriente,

sovrapponibile dal punto di vista sistematico, in tutto e per tutto, ad un giudizio di merito in primo grado . Dunque uno 28 schema processuale mutuato dal procedimento per

ingiunzione (Artt. 633 e ss C.p.c) . Tra l’altro, quanto al rito 29 per la dichiarazione di fallimento, le analogie col

procedimento monitorio erano, almeno in un caso, davvero evidenti: come noto il decreto ingiuntivo viene emesso dal giudice senza previa instaurazione del contraddittorio

(inaudita altera parte) e il vecchio Art. 15 L.F., dal canto suo, prevedeva proprio l’audizione solo eventuale del fallendo Ricordiamo che il sistema simil-monitorio caratterizzava pure la procedura del concordato 27

preventivo. Unica differenza era che in tal caso, diversamente da quanto previsto nell’accertamento del passivo e nella dichiarazione di fallimento, il dualismo cognizione sommaria-cognizione piena non era eventuale, bensì necessario: alla fase sommara di accertamento dei presupposti di accesso alla procedura seguiva, di necessità (e non eventualmente), la fase a cognizione piena di omologa dell’accordo. In merito si veda C. Cecchella, Il Diritto Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24Ore, 2007, Pagg.63-64.

Il riferimento è in tal caso all’Art. 645 C.p.c. relativo all’opposizione al decreto ingiuntivo, 28

nell’ambito della quale si ha un’inversione, anche se solo formale, dell’iniziativa processuale.

Per un esame dettagliato del procedimento per ingiunzione si veda F.P. Luiso, Diritto Processuale 29

Civile, Volume IV, Milano, Giuffrè, 2013. Ma anche G. Tesoriere, Diritto Processuale del Lavoro,

(21)

nella camera di consiglio della fase sommaria. Dunque, qualora l’imprenditore, per ipotesi, non fosse stato messo in condizioni di partecipare alla fase sommaria-necessaria relativa al proprio fallimento ma nonostante questo avesse poi ugualmente proposto opposizione veniva delineandosi uno schema del tutto analogo a ciò che accadeva (e accade) nella dinamica del processo speciale disciplinato dal IV libro del C.p.c.

L’unica peculiarità che caratterizzava il rito per la

dichiarazione di fallimento era la forma del provvedimento conclusivo della fase sommaria: in caso di accoglimento veniva infatti pronunciata una sentenza. Dunque un rito camerale a cognizione sommaria, con contraddittorio

eventuale (nei confronti del debitore), che poteva terminare, in caso di esito positivo, con un atto avente la stessa natura ed effetti dei tipici provvedimenti conclusivi dei procedimenti contenziosi a cognizione piena. Al contrario, in caso di rigetto, la forma era quella del decreto (allineandosi così in toto, in questa seconda ipotesi, allo schema tipico del rito camerale).

3.1. Profili di incostituzionalità del sistema

processuale. La tutela giurisdizionale dei diritti attraverso una cognizione potenzialmente piena.

Si è detto nel precedente paragrafo che la normativa

concorsuale vigente sotto la legge del 1942 era imperniata su di una tendenziale generalizzazione del modello camerale-sommario, il quale informava quasi tutti gli episodi

processuali (comprese molte fattispecie endoprocessuali) della liquidazione fallimentare. Si specifica quasi tutti in quanto, come visto, facevano eccezione il procedimento per l’accertamento del passivo e quello per la dichiarazione di fallimento, i quali si strutturavano su di un rito bifasico

(22)

chiaramente ispirato al procedimento per ingiunzione disciplinato dal capo IV del codice di rito.

Questa impostazione processuale, uscita dalla penna del legislatore fascista del 1942, non ha incontrato ostacoli giuridico-sistematici e interpretativi rilevanti nei primi anni di vigenza; poi però, una volta entrata in vigore la Costituzione Repubblicana e le sue innovative garanzie (processuali ma non solo) il sistema ha iniziato a vedere qualche crepa e a scorgere qualche ombra di incostituzionalità . 30

Il fulcro della questione è relativamente lineare. Se il rito per la dichiarazione di fallimento (così come quello per

l’accertamento del passivo) alla luce delle nuove norme di rango costituzionale, nel suo complesso, era in grado di “resistere all’impatto” (anche se erano comunque necessarie delle correzioni, prima tra tutte la sostituzione della

eventualità del contraddittorio nei confronti del fallendo con

una sua obbligatorietà, durante la prima fase sommaria), le restanti ipotesi processuali lo erano molto meno.

Cerchiamo di chiarire ed approfondire questa rilevantissima tematica.

Ormai da qualche decennio (dunque da ben prima delle recenti riforme) dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il processo che porta alla dichiarazione di

fallimento, pur se caratterizzato da specialità derivanti dal suo oggetto e dalle sue funzioni, debba comunque a pieno titolo rientrare nell’alveo del sistema della tutela giurisdizionale dei diritti. Ciò in quanto il suo atto terminale è idoneo, trattandosi di sentenza, ad incidere con l’autorità del giudicato (Art. 2909 C.c.), sullo status e sui diritti del fallito nonchè di tutti quei soggetti che con quest’ultimo abbiano avuto rapporti giuridico-economici . 31

Almeno dal 1955 in poi, anno di istituzione della Corte Costituzionale quale Giudice delle Leggi 30

(Art.134 Cost.), tramite Legge.Cost. n. 1/1953 e Legge n. 87/1953. La sua prima udienza fu tenuta l’anno successivo, nel 1956.

In tal senso, tra gli altri, F.De Santis, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento, Padova, 31

Cedam, 2012, Pag.142. Quanto alla giurisprudenza si veda, in merito, Cass., sez. un., 7 Febbraio 1985 n. 924, in Giur. it., 1985, I, Pag. 905, ma pure Cass. 21 Gennaio 2008 n. 1214, in Foro it., 2008, I, Pag. 67.

(23)

Chiarito questo, è ormai pacifico che la tutela giurisdizionale dei diritti, come più volte ribadito da innumerevoli autori, per poter essere pienamente compatibile con il sistema delle garanzie costituzionali (Artt. 24 e 111 Cost.) non richiede

necessariamente che in prima istanza vi sia la cognizione

piena. Richiede solo che quest’ultima possa sempre, e in ogni caso, essere invocata dalla parte soccombente in prima fase. In altri termini, una controversia avente ad oggetto diritti soggettivi non per forza deve prendere, come iniziale ed esclusiva, la via di un procedimento a cognizione piena necessaria. Ciò che rileva è che colui che ha perso possa, mediante un’opposizione esercitata nei termini, originare un processo a cognizione piena ed esauriente. Questo significa che la prima “fase” processuale può svolgersi pure attraverso forme sommarie, in quanto i principi costituzionali in tema di tutela dei diritti richiedono non l’immediata necessità bensì la possibilità, la facoltà (o comunque in ogni caso l’eventualità) della cognizione piena . Questo è ciò che succede nel 32 procedimento monitorio (Artt. 633 e ss C.p.c) e ciò che accadeva, sotto il regime previgente, nel rito per la dichiarazione di fallimento . Un paradigma, quello della 33

cognizione sommaria necessaria- cognizione piena

eventuale, che aveva tra l’altro dato buoni risultati (dal punto

di vista dell’efficienza processuale) in ambito concorsuale e che il legislatore avrebbe benissimo potuto esportare ed applicare al processo civile comune.

Si potrebbe dire, ai limiti dell’ossimoro, una “facoltà obbligatoria”. 32

Il tema in questione, ossia la piena compatibilità costituzionale di un sistema di tutela 33

giurisdizionale dei diritti che vede la cognizione piena ed esauriente come sempre possibile ma facoltativa ed eventuale (cioè originata dall’impulso della parte soccombente in prima istanza) è stato oggetto di analisi da parte di diversi autori e nell’ambito di svariati argomenti attinenti il processo civile. In specie si tratta di una questione ontologicamente connessa con il problema dell’efficacia o meno del giudicato, ex Art. 2909 C.c., da attribuire a provvedimenti non opposti o la cui opposizione è stata rigettata emessi all’esito di una prima fase sommaria. Tra gli altri si ricordano F.P. Luiso, Diritto

Processuale Civile, Volume IV, Milano, Giuffrè, 2013 Pag 138, sul decreto ingiuntivo. Ancora F.P.

Luiso, La disciplina processuale speciale della L. 92/2012 nell’ambito del processo civile: modelli di

riferimento ed inquadramento sistematico, in Judicium, 2012. Poi D. Buoncristiani, Rito licenziamenti : profili sistematici e problemi applicativi, su Riv. it. dir. lav., 2013.

(24)

Infine mi pare d’obbligo ricordare, ad ulteriore dimostrazione della fattibilità di una cognizione sommaria in prima istanza , 34 la recente introduzione nel nostro sistema processuale del procedimento sommario di cognizione (Artt. 702-bis, ter e

quater C.p.c), ad opera della L. 69/2009, poi modificata dal

D.Lgs 150/2011 e dalla recentissima L. 162/2014 (di

conversione del D.L. 132/2014, il c.d. “Decreto Giustizia”). In estrema sintesi si tratta di un procedimento ulteriore ed alternativo al rito ordinario, privo di una plena cognitio e che va ad affiancarsi agli altri processi speciali, quali il

procedimento per ingiunzione e quello di convalida di licenza e di sfratto. La prima fase di tale rito si conclude con

un’ordinanza sommaria (Art. 702-ter comma IV C.p.c) emessa all’esito di un’istruttoria descritta dall’Art. 702-ter mutuando le stesse espressioni usate dal già citato Art.

669-sexies C.p.c (senza ovviamente il riferimento ai presupposti e

ai fini del provvedimento richiesto, non trattandosi di un procedimento cautelare). Un provvedimento questo, con efficacia provvisoriamente esecutiva, costituente titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione il quale, se non opposto nei termini, è idoneo (come il decreto

ingiuntivo) ad assumere la dignità e a produrre gli effetti della cosa giudicata (Art. 2909 C.c). Di nuovo, e ancora come nel procedimento monitorio, l’impugnazione avverso tale

ordinanza sommaria, seppur letteralmente denominata

appello (Art. 702-quater C.p.c), va ad originare nella sostanza

Tuttavia, sulla questione, la giurisprudenza e la dottrina non sono del tutto concordi. Ad esempio 34

Cass., 2 Gennaio 2012 n. 3, in Giusto proc. civ., 2012, Pag. 157, ove si parla di rito “semplificato” di cognizione piena, oppure C. Cecchella, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento. Un Rito

Camerale Ibrido, Padova, Cedam, 2012, Pag. 2. Impostazione questa, in parte rafforzata dallo stesso

D.Lgs 150/2011, il quale ha assoggetato obbligatoriamente talune tipologie di controversie (come quelle relative alla liquidazione degli onorari degli avvocati) a tale nuovo procedimento.

(25)

un processo di primo grado a cognizione piena ed esauriente . 35

Se la legge fallimentare del 1942 aveva dunque adottato per il rito di cui all’Art.15 un modello processuale bifasico

simil-monitorio, per ogni diversa fattispecie (per lo più

endoprocessuale) continuava a rimandare allo schema

camerale “puro”. Le due ipotesi concorsuali più emblematiche nelle quali il fenomeno in questione aveva modo di

manifestarsi erano le contestazioni avverso gli atti di

amministrazione e di liquidazione del patrimonio compiuti dal curatore e dal giudice delegato (Artt. 26 e 36 L.F). Reclami che qualunque interessato, analogamente a ciò che accade nell’opposizione agli atti esecutivi (Art. 617 C.p.c), poteva sollevare in ordine alla legittimità e all’opportunità di tali provvedimenti. Ciò, in buona sostanza, significa che tutto il contenzioso concernente la gestione e la liquidazione del patrimonio del fallito, e che molto spesso coinvolgeva veri e propri diritti soggettivi, era affidato a forme processuali nate per amministrare questioni di volontaria giurisdizione. Si

pensi alle controversie nascenti dai piani di riparto, ove erano implicati i diritti soggettivi dei creditori, oppure alla

liquidazione dei compensi al curatore, agli ausiliari e ai

difensori, pure queste riguardanti diritti derivanti da contratto. Affidare alle forme camerali di cui agli Artt. 737 e ss C.p.c, e alle loro caratteristiche, contenziosi su diritti non poteva certo essere tollerato dal nuovo e fortemente garantista impianto costituzionale.

Si tratta di un procedimento nel quale può proporsi ogni tipo di domanda (mero accertamento, 35

condanna, costitutive) e il cui ambito di applicazione coincide con le cause attribuite alla decisione monocratica del tribunale (sono dunque escluse le cause demandate alla cognizione del collegio, ex Art. 50-bis C.p.c). L’attore quindi, nel rispetto di tale limite, ha la possibilità di intraprendere questa strada in alternativa al rito ordinario. Il c.d. “Decreto Giustizia” (D.L. 132/2014) ha poi previsto la

conversione d’ufficio, da rito ordinario a sommario di cognizione, sulla base di una valutazione del

giudice circa la complessità della lite e dell’istruzione probatoria. Per un esame dettagliato di questo procedimento e delle relative problematiche sistematico-interpretative si rimanda a F.P. Luiso, Diritto

Processuale Civile, Volume IV, Milano, Giuffrè, 2013, M. Bove, Il procedimento sommario di cognizione di cui agli Artt. 702-bis e ss C.p.c, in Judicium, 2010, Menchini, L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr. Giur. 2009, Pagg. 1025 e ss, nonchè Balena, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it. 2009, V, Pagg. 324 ss., spec. 325.

(26)

Nel prossimo paragrafo vedremo gli interventi della Consulta e della Corte di Cassazione nonchè le relative soluzioni giurisprudenziali a cui poi l’ordinamento fallimentare ha dovuto in qualche modo adeguarsi per poter sopravvivere nella nuova cornice costituzionale.

3.2. Gli interventi della Corte Costituzionale. Il rito ordinario per la tutela dei diritti soggettivi.

Come ricordato nel paragrafo precedente, le fattispecie concorsuali più rilevanti e sintomatiche nelle quali, dopo

l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, l’adozione del rito camerale aveva maggiormente creato realtà

giuridiche poco compatibili con i nuovi principi erano quelle previste dagli Artt. 26 e 36 L.F. Si tratta delle contestazioni (aventi ad oggetto la difformità dell’atto dal suo schema legale tipico ovvero la sua opportunità) che qualsiasi interessato, compreso il curatore per gli atti da lui non compiuti, poteva proporre in relazione ai provvedimenti di amministrazione e liquidazione della procedura fallimentare. In particolare l’Art. 26 L.F. ammetteva, salva contraria

disposizione, una generale reclamabilità dei decreti del

giudice delegato avanti al Tribunale Fallimentare su iniziativa del curatore, del fallito, del comitato dei creditori nonchè di qualsiasi altro interessato, entro tre giorni dalla data del

deposito del decreto stesso. Il Tribunale Fallimentare

decideva in camera di consiglio (comma 2) e la pendenza del mezzo impugnatorio non sospendeva gli effetti del

provvedimento (comma 3).

L’ Art. 36 L.F. prevedeva invece una generale ricorribilità avanti il giudice delegato degli atti del curatore, su iniziativa dell’imprenditore fallito come di qualsiasi altro interessato. Avverso la decisione del giudice delegato, ancora in camera di consiglio e resa tramite decreto, era possibile un ulteriore reclamo, entro tre giorni dal deposito dell’atto, al Tribunale Fallimentare, il quale, di nuovo, decideva mediante rito

(27)

camerale e tramite decreto (quest’ultimo tuttavia, ex Art. 23 comma 3 L.F., non più impugnabile, neppure in forme

camerali).

Nessun’altra specificazione normativa era prevista in merito. Dunque il sistema abbandonava alle forme processuali tipiche della giurisdizione volontaria (Artt. 737 e ss C.p.c) tutte queste controversie le quali, come accennato, non poche volte andavano ad intaccare veri e propri diritti

soggettivi. Una disciplina processuale di fatto inesistente, ove il giudice è pieno sovrano della conduzione del rito e dove le garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa (Artt. 24 e 111 Cost.) sono rimesse del tutto alla sua volontà. Non solo. Si trattava di un procedimento che impediva, di fatto,

l’esercizio del diritto della parte ad impugnare l’atto o il

provvedimento, muovendo il relativo dies a quo da un termine non solo eccessivamente breve (tre giorni dalla data del

deposito) ma che questa, con un comportamento diligente e

attento, poteva non sempre conoscere. A coronamento del sistema c’era poi l’impossibilità di un reclamo, neppure in forme camerali, avverso i decreti emessi dal Tribunale Fallimentare (Art. 23 comma 3 L.F.).

Questo tipo di impostazione, se poteva essere compatibile con un ordinamento giuridico-processuale tendenzialmente privo di forti garanzie e dal carattere nettamente inquisitorio 36 quale quello fascista, di certo iniziò ad esserlo in misura assai minore dopo il gennaio 1948. La Corte Costituzionale, per prima, avvertì il contrasto della normativa ordinaria

fallimentare con i nuovi principi costituzionali e in specie di quelle disposizioni (Artt. 26 e 36 L.F.) che avviavano verso forme camerali la gestione di reclami aventi ad oggetto diritti soggettivi.

La struttura inquisitoria del processo durante il ventennio rispecchiava ovviamente il sistema 36

politico dittatoriale vigente all’epoca e la si poteva percepire ancora meglio in ambito processual-penalistico. In tal senso si veda, tra gli altri, P. Caretti, I Diritti Fondamentali, Libertà e Diritti Sociali, Torino, Giappichelli, 2011, Pagg. 43-46. Quanto alla natura inquisitoria propria del rito di cui all’Art. 15 L.F. nel sistema previgente si veda G. Mura, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento, Roma, DIKE Giuridica Editrice, 2013, Pag.14.

(28)

Il primo intervento della Consulta fu nel 1963, tramite Sent. 9 Luglio n.118 , mediante il quale la Corte ritenne la questione 37 manifestamente infondata, interpretando la norma

concorsuale come escludente dalle forme camerali le

controversie che intaccavano posizioni di diritto soggettivo. Dunque, a contrario, ciò comportava che i reclami avverso gli atti di amministrazione e liquidazione con natura decisoria avrebbero dovuto prendere la via del rito ordinario a

cognizione piena ed esauriente.

La sentenza n. 118/1963 era tuttavia interpretativa di rigetto e in molti dubitarono della sua portata precettiva o comunque “rivoluzionaria”.

Per diversi anni l’orientamento della Consulta in merito fu abbastanza altalenante e, salvo ammettere sempre

un’impugnabilità tramite Ricorso Straordinario in Cassazione (Art. 111 comma 7 Cost.), l’ammissibilità o meno del reclamo in forme camerali fu alquanto discussa.

Si è dovuto aspettare il 1981, con la Sentenza 23 Marzo n. 42 , per avere un intervento davvero incisivo e che 38

segnasse in modo netto la strada da percorrere. Tramite questa pronuncia infatti, la Corte dichiarò l’incostituzionalità dell’ Art. 26 L.F. relativamente alle controversie che potevano originarsi in sede di riparto. Ne seguì un’altra a breve

distanza di tempo, nel 1985 (Sent. 22 Novembre n. 303 ) e 39 ancora di illegittimità costituzionale (stavolta in relazione alle controversie sui compensi a qualunque incaricato in sede fallimentare) per poter stabilizzare in modo più o meno definitivo la valenza del principio.

Dall’insieme di queste pronunce, due delle quali succedutesi velocemente e che sancivano de jure l’incompatibilità

costituzionale di una parte assai rilevante della realtà processual-concorsuale previgente, si originò

comprensibilmente un vuoto normativo. Tuttavia la soluzione In www.Giurcost.org.

37

In Foro it., 1981, I, Pag. 1228. 38

In Fall., 1986, Pag. 21. 39

(29)

esegetica era abbastanza scontata: si trattava di avviare la soluzione delle controversie incidenti su diritti soggettivi e scaturite da atti o provvedimenti di

amministrazione-liquidazione del curatore e del giudice delegato mediante le forme del rito ordinario di diritto comune. La Consulta aveva in pratica depennato le forme camerali dall’elenco dei mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti. Queste potevano andare bene per autorizzare la vendita di beni appartenenti al minore o per omologare atti societari ma di certo non per gestire e risolvere episodi di giurisdizione contenziosa.

Non solo. La Corte Costituzionale, seppur non in materia concorsuale bensì in relazione alla volontaria giurisdizione

latu sensu, tramite la già citata Sent. 22 Novembre 1985 n.

303, sancì l’incostituzionalità del termine per proporre 40 reclamo, il quale muoveva da un dies a quo (tre giorni dalla data del deposito del decreto) che l’interessato non poteva sempre conoscere, neppure con un comportamento più che diligente.

Dunque, all’esito di tali pronunce, lo schema

giuridico-processuale che emergeva e che rispecchiava l’orientamento della Consulta era chiaramente delineato. Qualora l’atto di gestione e/o liquidazione del patrimonio avesse inciso su posizioni giuridiche integranti un diritto soggettivo la relativa controversia avrebbe dovuto essere “amministrata” tramite le forme ordinarie del rito civile comune . 41

Se invece l’atto o il provvedimento in questione fosse meramente ordinatorio (e quindi non decisorio) la forma camerale poteva continuare ad applicarsi in quanto, in tal caso, si realizzava un’amministrazione di interessi e non una controversia su diritti (rientrandosi così nel paradigma della giurisdizione volontaria). Tuttavia, come specificato dalla Corte, in questa seconda ipotesi, il termine per proporre reclamo, pur rimanendo pari a tre giorni, avrebbe dovuto

Principio poi ribadito anche in tema di amministrazione controllata (al tempo ancora vigente) 40

tramite Sent. 24 Giugno 1986 n. 156, in www.Giurcost.org.

Sul modello delle contestazioni in sede di riparto o dell’opposizione agli atti esecutivi (Art. 617 41

C.p.c). In tal senso C. Cecchella, Il Processo Per la Dichiarazione di Fallimento. Un Rito camerale

(30)

decorrere non più dalla data del deposito del provvedimento bensì da quella della sua comunicazione.

3.3. La posizione della Cassazione. Un rito camerale di creazione giurisprudenziale.

Se quella appena descritta era la soluzione che pareva più corretta agli occhi della Corte Costituzionale (soluzione da adottare almeno medio tempore, in prospettiva di un

intervento riformatore del Parlamento) la stessa non fu condivisa dalla giurisprudenza della Cassazione.

Quest’ultima infatti, pur mettendo mano ad alcuni aspetti della disciplina di cui agli Artt. 737 e ss C.p.c (quando calata in materia concorsuale), ha ritenuto che le forme camerali fossero assolutamente idonee a risolvere le controversie endoprocessuali di cui agli Artt. 26 e 36 L.F. ancorchè incidenti su diritti soggettivi.

Addirittura, è d’obbligo ricordarlo, in un primo momento la stessa Cassazione si vide favorevole all’eliminazione del reclamo camerale, ammettendo solo ed esclusivamente lo strumento del Ricorso Straordinario di cui all’Art.111 comma 7 Cost. Indirizzo poi fortunatamente superato e sostituito da 42 quello più garantista che ammetteva sia il reclamo che il ricorso (sempre in relazione ai decreti c.d. decisori). Una soluzione del genere avrebbe infatti comportato l’impossibilità di una verifica circa l’opportunità dell’atto o del provvedimento Dunque, stando alla Corte, le pronunce di Incostituzionalità che la Consulta aveva partorito e che indirizzavano verso l’utilizzo del rito ordinario quando la controversia fosse

originata da provvedimenti decisori, non abrogavano affatto il reclamo in forme camerali previsto, de jure condito, dall’allora

Tra le prime pronunce in tale direzione ricordiamo Cass., 5 Febbraio 1982 n. 654, in Fall., 1982, 42

Pag. 337, ove veniva fissato il termine ordinario di sessanta giorni (Art. 325 comma 2 C.p.c) per il ricorso, decorrente dalla data del deposito.

(31)

vigente legge fallimentare . Era solo sufficiente qualche 43 piccolo “ritocco” alla scarna disciplina fallimentare dei riti camerali puri per poter benissimo utilizzare tale paradigma processuale nelle controversie inerenti posizioni di diritto soggettivo.

Tra le modifiche che la Corte di Cassazione propose ricordiamo:

1) Il termine per proporre il reclamo, pari a tre giorni dalla data del deposito del decreto, venne allineato a quello previsto dall’Art. 739 C.p.c, ossia dieci giorni. Inoltre,

coerentemente a quanto già disposto dalla Consulta, il dies a

quo avrebbe dovuto decorrere dalla data della comunicazione e non da quella del deposito del

provvedimento.

2) Necessità di garantire l’integrazione del contraddittorio verso qualunque controinteressato attraverso la notifica del ricorso e del decreto col quale veniva fissata l’udienza. Dunque se l’Art. 23 comma 2 L.F. qualificava tale elemento come un’eventualità lasciata alla discrezionalità del Tribunale Fallimentare, la Cassazione lo impose come obbligatorio. Ritenne poi doverosa la realizzazione di un minimo

d’istruttoria (anche solo con la tecnica delle sommarie informazioni) . 44

3) Imposta motivazione al decreto, la cui mancanza fu considerata idonea ad integrare un vizio lamentabile con i mezzi di impugnazione.

Ne risultò un rito camerale a cognizione sommaria, rispettoso “quanto basta” delle garanzie costituzionali in materia di

Tra le altre, Cass., sez. un., 7 Luglio 1978 n. 3372, in Dir. fall., 1978, II, Pag. 568. Per una 43

ricostruzione più analitica delle posizioni della Cassazione e della Consulta si veda anche F.De Santis, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento, Padova, Cedam, 2012, Pagg. 148 e ss.

In caso contrario si sarebbe configurata una nullità del processo. In tal senso Cass., 26 Novembre 44

(32)

processo, di “creazione giurisprudenziale” e adeguato, 45 stando alla Cassazione, a risolvere controversie su diritti originate da atti di gestione e/o liquidazione a carattere

decisorio .46

Quanto invece alle controversie originate da provvedimenti (sempre di amministrazione-liquidazione) meramente

ordinatori, e dunque non incidenti affatto su posizioni di diritto

soggettivo, si sarebbe dovuta applicare tout court la disciplina della legge fallimentare, senza quelle piccole correzioni e aggiunte prima elencate. Dunque reclamabilità del

provvedimento entro tre giorni (sempre però dalla sua comunicazione) e senza possibilità di ricorrere in via straordinaria ex Art.111 comma 7 Cost. per motivo di legittimità . 47

3.4. Nuove questioni di compatibilità costituzionale. Verso la riforma del diritto fallimentare.

L’impostazione processuale elaborata dalla Cassazione, come visto abbastanza discordante da quella emersa dalle pronunce della Consulta negli anni ‘80, si trovò poi di fronte all’ostacolo rappresentato dalla novellazione dell’Art. 111 Cost. ad opera della Legge Cost. 23 novembre 1999 n. 2, con la quale fu introdotta, tra le altre, la garanzia del giusto processo precostituito per legge (Art. 111 comma 1 Cost.). La Corte aveva, come visto, “creato” un rito camerale ad hoc per le controversie originate da atti di gestione e/o

liquidazione fallimentare con carattere decisorio, adeguando la anemica disciplina prevista in merito dalla legge del 1942 ai principi costituzionali. Tuttavia anche questo “nuovo rito” (in Così C. Cecchella, Il Diritto Fallimentare Riformato, Milano, ilSole24Ore, 2007, Pag.138, nonchè, 45

dello stesso autore, Il Processo per la Dichiarazione di Fallimento. Un Rito Camerale Ibrido, Padova, Cedam, 2012, Pag. 17.

Tra le pronunce rilevanti della Corte di Cassazione relative alla “creazione” di questo rito e alla 46

specificazione dei suoi svariati profili si ricordi Cass. 23 Luglio 1997 n. 68911 e Cass. 24 Luglio 1992 n. 8294.

In tal senso Cass., 22 Maggio 1997 n. 4590, in Fall., 1998, Pag. 147. 47

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realtà un ordinario procedimento camerale e sommario in parte modificato e precisato con qualche correzione) non poteva certo essere compatibile con il nuovo disposto dell’Art.111 comma 1 Cost., in virtù del quale “ La

Giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Lo connotavano infatti una disciplina ancora

troppo scarna, un termine eccessivamente breve concesso all’interessato per poter reagire all’atto o al provvedimento dell’organo fallimentare, la mera facoltà (e non la necessità) di integrazione del contraddittorio, la mancanza di

motivazione del provvedimento finale (non espressamente richiesta) nonchè la forte discrezionalità del giudice nella conduzione del processo e sulle sue forme di svolgimento. A ciò si aggiungeva, e forse questo è il punto più rilevante di tutti, l’impossibilità di dare origine ad un processo a

cognizione piena ed esauriente sui diritti soggettivi eventualmente inficiati dall’atto o dal provvedimento

decisorio.

Dunque, in assenza di un intervento legislativo che

prendesse posizione sul punto e che risolvesse l’impasse, l’unica soluzione era un nuovo e ancor più incisivo intervento della Corte Costituzionale che superasse definitivamente l’orientamento fatto proprio dalla Cassazione (che dopo la riforma dell’Art.111 Cost. non reggeva più) e che imponesse come prevalente e in qualche modo “ufficiale”

quell’impostazione da lei stessa creata durante gli anni ‘80: rito ordinario per controversie endofallimentari di natura contenziosa e rito camerale (de jure condito) per le altre. Le questioni di compatibilità costituzionale delle previsioni di rito della legge fallimentare interessarono non solo, come appena visto, gli episodi endoprocessuali relativi ai reclami (Artt. 26 e 36 L.F.) ma anche lo stesso rito per la

dichiarazione di fallimento. Quest’ultimo, seppur modellato su di uno schema bifasico simil-monitorio, e dunque aperto alla possibilità di una cognizione piena in seconda istanza, si sviluppava comunque, in prima fase, attraverso le forme camerali e sommarie individuate dall’allora vigente Art. 15 L.F. La disposizione ora ricordata, nel suo testo originario, si

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