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Academic year: 2021

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Terza Parte

A ciascuno il suo

I.

I.

I.

I. Il romanzo

Il romanzo

Il romanzo

Il romanzo: introduzione

: introduzione

: introduzione

: introduzione

I.1 Genesi e critica

La nascita di A ciascuno il suo coincide con il trasferimento di Sciascia a Palermo, in qualità di impiegato del Ministero della Pubblica Istruzione. È il 1966 e sono, pertanto, trascorsi cinque densi anni, per il paese e per la sua storia individuale, dalla deflagrazione de Il giorno della civetta: lo scrittore ha visto consolidarsi la sua notorietà e il suo prestigio con Il consiglio d’Egitto, del 1963, in cui si misurava con una maggiore complessità strutturale e tematica1, e si è cimentato nella drammaturgia, con L’onorevole (in cui non risparmia strali alla Democrazia Cristiana), e nella saggistica socio-antropologica, con una monografia sulle feste religiose in Sicilia.

Ora la memoria di un fatto di cronaca che lo aveva turbato e incuriosito lo porta a scrivere di nuovo di mafia politica e ad adottare ancora la forma dell’intrigo poliziesco: l’episodio a cui dice di essersi ispirato è l’assassinio del commissario di pubblica sicurezza agrigentino Cataldo Tandoy, avvenuta nel marzo del 1960 dinanzi alla moglie, amante di un noto membro di una potente famiglia democristiana, il professor Mario La Loggia. Le indagini sul delitto, certamente di mafia, furono agevolmente dirottate, come di consuetudine, sul delitto passionale, ma la notizia impressionò più del solito la pubblica opinione, perché nell’agguato perse la vita anche un giovane studente che passava per caso, Antonino Damanti. In realtà, tra il fatto di cronaca e la vicenda di fantasia le analogie si limitano al depistaggio e alla figura femminile della moglie-amante, visto che gli altri personaggi sono assai diversi, ma in Sciascia si ritrovano a volte appigli cronachistici2, profondamente rielaborati; nel caso specifico, l’avvenimento fermentò per anni fino a produrre quel gioiello di ironia che è A ciascuno il suo.

Il romanzo arriva alle stampe nel marzo del 1966. E di nuovo esplode un caso letterario, sia pure all’inizio più circoscritto del precedente, ma destinato a lievitare: il libro spopola già nella prima edizione de “I Coralli” della Einaudi3, vede crescere il suo pubblico attraverso la platea

1 Secondo Giuseppe Traina, questo libro è «da annoverare tra i risultati più alti della narrativa sciasciana, forse al vertice

di essa». G.TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 78.

2

Cfr. C.CAZALÉ BÉRARD, Riscrittura come ironia da Pirandello a Sciascia, inM.PICONE,P.DE MARCHI,T.CRIVELLI

(a cura di), Sciascia, scrittore europeo, Atti del Convegno internazionale di Ascona (1993), Basel, Birkhäuser Verlag, 1994,p. 70.

3 La fonte è ancora Giuseppe Traina per quantificare la tiratura di ogni singola edizione, sempre accolta con favore dal

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necessariamente più ampia ed eterogenea dell’omonimo film di Petri nell’anno seguente, si rispecchierà in un adattamento teatrale nel 1980, ad opera di Ghigo De Chiara, per la regia di Lamberto Puggelli, ma soprattutto conquista subito anche la critica che, questa volta pressoché unanimemente, gareggia nel lodarne i molti meriti, le indubbie qualità, il valore civile di denuncia.

Mi limito ad accennare a Vittorio Spinazzola, che vi ravvisa «l’opera più matura [...], di chi giudica paternalisticamente, dall’alto, senza rinunciare a sentirsi parte in causa [...], nonostante il pessimismo circa l’esito finale»4; a Gian Carlo Ferretti, che ne fa una lettura “gramsciana”, «nel senso [...] che Sciascia si pone il problema di affrontare temi politico-sociali, utilizzare moduli narrativi, recuperare soluzioni linguistiche, che appartengono ad una sfera di interessi popolari»5; a Carlo Salinari, che si entusiasma a tal punto da dargli la patente di «miglior narratore italiano della generazione di mezzo (quella per intenderci che ha da poco superato i quarant’anni)»6, in grado di proporre un libro «che può apparire un “divertimento”, che è ricco di umorismo e di pagine divertenti su ambienti e personaggi siciliani, ma che, in realtà, è un fermo atto d’accusa alle classi dominanti e un richiamo per i deboli, per i delusi, per gli sconfortati alla passione civile e all’impegno morale»7.

Ad onore di cronaca, si registra anche qualche giudizio un po’ meno entusiastico, come quello di Luigi Baldacci, che si limita ad affermare che «nel complesso il libro regge, sostenuto com’è dall’ostinata vocazione dell’autore»8, malgrado «qualche indulgenza all’effetto, alla battuta da copione cinematografico (vedi il colonnello Salvaggio)»9. In verità, il libro “regge” anche a distanza di oltre quarant’anni, con immutata piacevolezza ironica e con analogo effetto di «“estraniamento” [...] davanti a schemi ben conosciuti ai quali è assegnata funzione “altra”»10, come sostenne Giuliano Gramigna che vi ravvisava anche qualche “battuta da copione cinematografico”, elemento, dal suo punto di vista, di demerito11, secondo quella prospettiva aprioristicamente penalizzante il cinema, che all’epoca era piuttosto diffusa.

Sempre secondo Gramigna, inoltre, il romanzo in esame non è all’altezza dei due «piccoli capolavori che sono Il giorno della civetta e Il consiglio d’Egitto, nello stesso tempo così naturali e così meditati, lavorati con una sorta di altissima disperazione mentale»12, perché, a suo avviso, la denuncia «non avviene con quella stessa intensità morale, con quell’ampiezza di raggio raggiunta

Coralli” del 1971 (con circa 200.000 copie vendute) e poi ancora tredici con Adelphi nel 1988 (con oltre 100.000 copie vendute), senza contare la diffusione delle varie edizioni per le scuole. G.TRAINA, Leonardo Sciascia, cit., pp. 43-44.

4 V.S

PINAZZOLA, L’elegia di Sciascia, in “L’Unità”, 19 luglio 1973.

5

G.C.FERRETTI, Il nuovo Sciascia, in “Rinascita”, 19 marzo 1966, ora in A.MOTTA (a cura di), Leonardo Sciascia - La

verità, l’aspra verità, Manduria, Lacaita, 1985, pp. 295-297.

6 C.S

ALINARI, A ciascuno il suo, un richiamo alla passione civile e all’impegno, in “L’Unità”, 19 marzo 1966, ora in A. MOTTA (a cura di), Leonardo Sciascia - La verità, l’aspra verità, cit., pp. 299-301.

7

Ibidem.

8 L.B

ALDACCI,Quasi un giallo per capire la Sicilia e la mafia, in “Epoca”, 20 Marzo 1966, ora in A.MOTTA (a cura di), Leonardo Sciascia - La verità, l’aspra verità, cit., pp. 303-305.

9

Ibidem.

10 G.G

RAMIGNA, Il professore indaga, in “La Fiera Letteraria”, 31 marzo 1966, ora in A.MOTTA (a cura di), Leonardo

Sciascia - La verità, l’aspra verità, cit., pp. 307-309.

11 Superfluo precisare che, nell’ottica di questo lavoro, ciò costituisce invece un punto a favore. 12 Ibidem.

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nelle opere citate»13, ma egli stesso ammette, in conclusione, che si tratta di un «cercare il pelo nell’uovo per uno scrittore di tanta autenticità»14.

Di particolare interesse si dimostra il giudizio lusinghiero, tecnico e insieme sentito, di Italo Calvino, il quale, beninteso, non era pregiudizialmente benevolo nei riguardi del nostro, come dimostrano il rimprovero epistolare che gli aveva mosso appena l’anno prima per lo scarso spessore di Assunta, la moglie de L’onorevole, di cui critica la repentina trasformazione da comparsa a depositaria del portato ideologico del dramma, e l’ammonimento, per l’ottica di questo studio particolarmente interessante, a non avvalersi, come aveva fatto ne Il consiglio d’Egitto del 1963, di riferimenti ad attori di Broadway, e a Charlie Chaplin in particolare, reputando ciò «una gravissima stonatura»15 da eliminare repentinamente.

In questo caso, invece, si entusiasma e recensisce il romanzo, in una lettera privata, anticipando ciò che esso e il suo autore avrebbero rappresentato nella letteratura contemporanea:

Caro Leonardo, ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano. È insomma un ottimo Sciascia, che si affianca a Il giorno della civetta e lo supera, perché c’è più ironia, perché la presenza del nume tutelare Pirandello non è affatto marginale, perché si vede che viene dopo

Il consiglio d’Egitto. La commedia dei caratteri e la saggistica storico-letterario-sociologica

trovano un punto di fusione di cui solo tu, nella narrativa di oggi, possiedi la formula16 (lettera del 10 novembre 1965).

Calvino ha colto le prerogative del testo e suggerito implicitamente un preciso percorso di indagine, che è un po’ quello che proverò a seguire per un tratto, coniugandolo con altri sentieri: il contrappunto al poliziesco tradizionale «con esiti paradossali, in un certo senso parodistici»17, come dichiarerà più tardi lo stesso Sciascia; il tropo dell’ironia, declinato in tutte le sue forme; la “commedia dei caratteri” in una nuova coralità che distingue questo testo dal precedente; la riflessione metaletteraria, ma anche storica e sociologica, sulla sua terra; la presenza non più negata ma ricercata del “padre” Pirandello (e, qualche volta, del “maestro” Brancati) e, infine, la crescita e la maturazione artistica, che contribuiscono al lavoro di cesello di questo romanzo breve, di

13 Ibidem. 14

Ibidem.

15 Il testo della lettera di Calvino del 25 ottobre 1963 prosegue così: «Gravissima stonatura[...], non perché tu debba

fingere che il libro sia scritto allora[...], ma perché il piano delle metafore deve avere una sua coerenza, una sua armonia, se non è scrittura casuale, giornalistica [...].Togli perciò queste immagini moderne, mi raccomando, che abbassano il livello della tua prosa, sempre sorvegliata. Credo che potrai farlo facilmente anche in bozze» Cosa che Sciascia fece, reputando pertinente il suggerimento in un romanzo storico. I.CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 713. Cfr. in merito anche E.CANTARELLA, E Calvino rimproverò Sciascia: su

Stalin sbagli – Critiche, elogi, consigli: le lettere dello scrittore ligure a quello siciliano, in “Corriere della Sera”, 26

novembre 2004.

16 I.C

ALVINO, Lettere 1940-1985, cit., pp. 896-897.

17 L.S

CIASCIA,Conversazione in una stanza chiusa, intervista di Davide Lajolo, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, p.

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centoquarantacinque pagine18, esemplare dimostrazione di concentrazione diegetica e di scrittura concisa e affilata19.

Un’osservazione, la sua, condotta sulla condizione del profondo sud negli anni sessanta, ma dalla quale «balza fuori il male storico dell’isola nei suoi precisi contorni, che sono poi quelli dell’omertà, della collusione, dell’equivoco, della difesa rischiosa ma inesorabile del proprio patrimonio civile, positivo o negativo che sia»20. Sciascia parla ancora di mafia e di Sicilia, ma il discorso si è allargato, approfondito, trasformato: egli ha studiato a fondo il problema21 e condiviso l’approccio dello storico Eric J. Hobsbawm, secondo il quale il capitalismo italiano, difettando di energie sufficienti ad affermarsi nel Sud, era stato costretto a compromettersi con la mafia per conquistare e mantenere il potere in quest’area geopolitica. L’economia siciliana, infatti, essenzialmente agricola e votata alla coltivazione di prodotti non in concorrenza con quelli del Nord, per ragioni climatiche, aveva finito con il costituire una colonia agricola del Nord industrializzato, col quale trovò un non facile equilibrio, offrendo una preziosa riserva di voti per la crescita politica dello stesso, mentre l’industrializzazione in tutto il mezzogiorno faticava ad affermarsi, malgrado una temporanea illusione scaturita dalla scoperta di giacimenti di petrolio nell’isola.

Nel 1961, non a caso, lo scrittore aveva raccontato di appalti edilizi, perché già dalla fine degli anni ’50 questi si erano moltiplicati, favoriti dalla selvaggia speculazione che stava interessando il settore, mentre nuovi interessi si affacciavano agli orizzonti più “internazionali” della malavita: non solo i mercati all’ingrosso, ma soprattutto i primi lucrosi traffici di droga, che troveremo, accanto a un più elitario commercio di opere d’arte rubate, al centro del suo ultimo romanzo (1989). Nel 1966 Sciascia racconta di una famiglia potente, che non ha solo la protezione esterna di un’eminenza grigia e di onorevoli e ministri vari, ma che incarna essa stessa la commistione dei poteri: quello della Chiesa, attraverso lo zio arciprete, vero deus ex machina della vicenda, e quello della politica, perfettamente rinsaldato al potere economico, attraverso l’avvocato Rosello, il «notabile che corrompe, che intrallazza, che ruba» (p. 75), che fa parte di una «grande armata» (p. 76) di farabutti, calato nel tessuto del territorio, al punto da avere le mani in pasta davvero dappertutto, come emerge dalla dettagliata ricostruzione che il parroco di Sant’Anna fa allo sprovveduto Laurana.

La mafia di cui tratta il romanzo non è più soltanto immorale, è diventata amorale, ha perso i vecchi codici, ha contaminato fin nel cuore la famiglia, nucleo cardine del sentire isolano, che è divenuta clan; non ha più bisogno di essere nominata per essere riconosciuta: non è più negata, si è diffusa e radicata, tanto che personaggi come l’avvocato saranno «centomila persone» (p. 76), senza

18 L’edizione cui si farà riferimento (annotando le pagine in parentesi) durante tutto il percorso di analisi è quella curata

da Jole F. Magri per l’Einaudi, arricchita da un apparato didattico a cura di Carlo Minoia e Gabriella Salvini: L. SCIASCIA,A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1976 (prima edizione 1966).

19 Sciascia ambiva a raggiungere l’“aurea misura” di cento pagine circa. 20 Così W.M

AURO, Leonardo Sciascia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 63.

21 Per approfondire la tesi, qui rapidamente sintetizzata, cfr. N.F

ANO, Come leggere il giorno della civetta, Milano, Mursia, 1993, pp. 66-67.

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contare «quei galantuomini che sono già stati pescati e soggiornano nelle patrie galere» (p. 76), troppo pochi, in verità, rispetto al gran numero che avrebbe dovuto dimorarvi, visto che «il livello di impunità era frustrante per l’autorità e sconcertante per l’opinione pubblica»22, tant’è che Sciascia indicherà nell’impunità dei colpevoli uno degli effetti inevitabili di questa realtà.

La nuova mafia vive ancora “di ammazzamenti” e interviene quando il sistema delle “protezioni” si inceppa, ma anche, più profondamente, “di comportamenti”, non più e non solo circoscritti al boss e ai suoi affiliati, ma estesi a una altolocata e prestigiosa famiglia come quella dell’arciprete e del suo degno nipote avvocato. Essa è ormai una realtà allargata, se il pazzo Benito – colui che in ragione della sua follia, «una specie di porto franco della verità» (p. 95) si può permettere di non mentire, di non censurarsi – così ammaestra Laurana: «ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua» (p. 98).

Intervistato dalla Padovani, a distanza di circa quindici anni dalla stesura del romanzo, Sciascia ne dà un’interpretazione tutta politica, forse riduttiva:

A ciascuno il suo è il prodotto di una scelta quasi meccanica. Mi ero detto: “Voglio scrivere

il racconto di un fallimento storico, il fallimento del centrosinistra”. Il centrosinistra come formula di governo a partire dal 1964 aveva associato il Partito socialista alla Democrazia cristiana nella direzione degli affari del paese; dopo aver suscitato tante speranze nella popolazione, ci aveva però precipitati tutti nella delusione. Quest’evento, in realtà destinato a provocare un cambiamento radicale nella vita politica italiana, una volta di più era stato vanificato dall’eterna immutabilità dell’eterno fascismo italiano. Il libro è stato però interpretato come una storia di mafia23.

E quindi Rosello, abile manovratore politico, trasformista, spinto non già da ideali ma solo da calcolo, antesignano delle aperture a sinistra, con l’unico scopo di rimanere in sella per poter gestire impunemente i suoi loschi affari, diventa, con i suoi crimini e le sue ambiguità, emblema della corruzione di una classe politica che nella realtà storica italiana dell’epoca, in cui albeggiava l’esperimento del centro-sinistra, minacciava, secondo l’autore, di trasmettere i virus del clientelismo e della collusione con la mafia anche alle forze d’opposizione, che egli avrebbe desiderato rimanessero incontaminate.

Sciascia, dunque, veste ancora una volta di poliziesco il suo discorso altro, e parla in ogni caso di mafia, raccontando di una famiglia.

Per mettere un punto sull’argomento di A ciascuno il suo e sulle sue spinte motivazionali, credo basti, al momento, la ponderata riflessione che lo stesso autore fa nel 1976, confrontandolo con Il giorno della civetta, secondo quanto riferito da Lidia Panzeri Donaggio:

22 La frase testuale, riportata da Fano, è contenuta in M.I.F

INLEY,D.MACK SMITH,C.DUGGAN, Breve storia della

Sicilia, Bari, Laterza, 1987, p. 343.

23 L.S

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Pubblicato dieci anni addietro, questo racconto è generalmente considerato come un ragguaglio sulla mafia nel momento del trapasso da fenomeno rurale a fenomeno cittadino e da regionale a nazionale; un cinque anni dopo rispetto al Giorno della civetta, in cui la mafia era rappresentata nella sua struttura, patriarcale ancora, nonostante l’allargamento degli interessi economici, nella sua spietata e pessimistica visione del mondo, e insomma nella sua cultura. Ed è senz’altro vero che il racconto è stato scritto anche con questo intendimento, ma non con questo solo. Lo stato d’animo da cui veniva fuori era ben diverso da quello da cui era nato Il giorno della civetta: in questo l’investigatore, non a caso ex partigiano, antifascista, rappresentante delle leggi della repubblica, non si rassegnava alla sconfitta e decideva di tornare in Sicilia a rompercisi la testa; in A ciascuno il suo l’investigatore è invece un disarmato intellettuale di provincia, e della provincia siciliana, che non fa nemmeno in tempo ad accorgersi di essere sconfitto per il semplice fatto che la sua sconfitta è la morte. Lo stato d’animo era insomma di una totale delusione e disperazione. Gli elementi storici da cui tale stato d’animo sorgeva erano principalmente due: i primi governi detti di centro-sinistra e la costituzione e il funzionamento della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Ed è facile oggi constatare quale giusta ragion d’essere avessero delusione e disperazione.

Ma debbo confessare che a rileggere ora il racconto – con distacco, come fosse stato scritto da un altro e come se lo leggessi per la prima volta – meno mi interessa la rappresentazione della mafia, della situazione sociale e politica dell’Italia a quel momento, e più quella di una famiglia siciliana e italiana, e quindi cattolica, nelle sue apparenze e nella sua realtà, nei suoi divieti ipocriti e nelle sue continue e impunite trasgressioni. Mi pare cioè che quel che di più vivo c’è nel racconto è la demistificazione di quel “valore”, di quel sempre proclamato come inalterabile e insostituibile patrimonio morale degli italiani, e specialmente degli italiani del Sud, che è la famiglia – santità e bellezza della famiglia. Che può continuare a essere un “valore”: ma soltanto nella verità24.

I.2 Fabula e intreccio

La vicenda inizia in medias res, con l’arrivo di una lettera anonima al farmacista di un paese della provincia di Agrigento, il dottor Manno, minacciato di morte per una colpa imprecisata. Dopo una settimana, il 23 agosto 1964, il dottore, durante una battuta di caccia con l’amico medico dottor Roscio, cade vittima di un agguato, nel quale perdono la vita anche il suo compagno e uno dei cani della muta. «Due persone oneste, rispettate, benvolute, di ragguardevole posizione; e con parentela ragguardevole» (p. 15) muoiono così in apertura di romanzo, dopo poche pagine funzionali a

24 La lunga riflessione di Sciascia compare in chiusura dell’apparato didattico, nell’edizione de La Nuova Italia, collana

Eolo, curata da Lidia Panzeri Donaggio, che la riporta integralmente, senza tuttavia specificare se fosse stata raccolta da lei stessa o fosse contenuta in altra fonte. L.SCIASCIA,A ciascuno il suo, Milano-Firenze, Adelphi-La Nuova Italia,

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contestualizzare la vicenda: il caso più difficile che si fosse presentato al maresciallo dal suo insediamento nella carica, tre anni prima. La pubblica opinione si convince che Roscio sia la vittima incolpevole e che dietro l’omicidio del farmacista si nasconda qualche relazione adulterina, punita con un’esecuzione (duplice per eliminare un testimone scomodo), secondo la prassi consolidata del delitto d’onore.

Unica traccia per gli inquirenti: un mozzicone di sigaro Branca sul luogo dell’agguato. La polizia, tuttavia, che filma i funerali delle vittime per selezionare i sospetti, si lascia abbindolare dai falsi indizi e segue la pista preconfezionata dai mandanti, mentre un professore del posto, Laurana, docente di Lettere di un liceo di Agrigento, comincia a interessarsi al caso per pura curiosità intellettuale, intrigato dalla scritta “unicuique suum”, intravista sul rovescio della lettera anonima, le cui parole sono state ritagliate dall’“Osservatore Romano”. L’improvvisato investigatore accerta che in paese non arrivano che due copie del giornale, per i due prelati abbonati, l’arciprete Rosello e il parroco di Sant’Anna; ma la scoperta non lo porta a procedere nella ricerca dei colpevoli, in quanto, anziché restringere il campo, la destinazione e l’uso più disparati delle copie dei giornali dell’arciprete lo allargano a tutto il paese. Laurana saggia le reazioni dei frequentatori del suo circolo, rivelando i primi esiti delle sue indagini. Don Luigi Corvaia non nasconde la sua meraviglia, non tanto per le rivelazioni del professore, quanto per la sua dabbenaggine nel parteciparle e «offrirsi al tiro dell’una e dell’altra parte, della polizia e degli assassini» (p. 44); l’avvocato Rosello, nipote dell’arciprete nonché amante della cugina Luisa, a sua volta ormai vedova del defunto dottor Roscio, si mostra sorpreso e, all’apparenza, collaborativo.

Il professore supera l’impasse grazie a un incontro fortuito a Palermo con un ex compagno di studi, divenuto deputato nelle file del PCI, il quale gli rivela che, poco prima della sua morte, Roscio era andato da lui a Roma, alla Camera, per chiedergli di sostenerlo nello scandalo che voleva provocare a proposito di un notabile del paese dai molti affari sporchi, contro il quale aveva raccolto un dossier. La prospettiva, dunque, si ribalta: il bersaglio reale dell’agguato era Roscio e non il farmacista. Laurana decide di incontrare il vecchio padre di Roscio, che in termini sibillini lo indirizza a cercare i colpevoli fra le persone vicine; con crescente imprudenza, forse per leggerezza o per una sorta di inconscio cupio dissolvi, si confida proprio con Rosello: insieme vanno a cercare il dossier in casa di Roscio. Qui il professore avverte una forte attrazione fisica per la conturbante vedova, che ne obnubilerà le facoltà logiche nei successivi momenti chiave della storia. Da un colloquio illuminante con lo spregiudicato parroco di Sant’Anna, finalmente Laurana, pur recalcitrante ad accettarlo, comprende che il notabile intrallazzatore su cui Roscio stava indagando altri non è che l’avvocato Rosello. La faccenda si complica e il professore, peraltro non sostenuto da alcuno slancio civico (non ha la minima intenzione di denunciare il colpevole), pare rinunciare al passatempo del rompicapo da risolvere. Ma ancora una volta il fato lo riporterà a occuparsene: recatosi al Palazzo di Giustizia, ad Agrigento, per farsi rilasciare un certificato penale necessario per conseguire la patente di guida, si imbatte in Rosello, in compagnia di un onorevole democristiano,

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Abello, e di un ambiguo figuro che estrae dalla tasca sigari Branca. Recatosi nel paese di provenienza di quest’ultimo, Montalmo, apprende dal folle Benito che lo sconosciuto fumatore si chiama Raganà, uno spietato sicario di professione, sebbene ancora incensurato. Le tessere del mosaico si vanno ricomponendo, specialmente dopo la scoperta della “vicinanza affettiva” di Rosello e della cugina. Ma tale consapevolezza non fa aprire gli occhi all’investigatore, il quale, rientrato in servizio dopo il ponte festivo di novembre e incontrata la donna in corriera, presta fede al suo racconto circa l’esistenza di un diario del defunto consorte, da cui si evincerebbe la colpevolezza del cugino, e, soprattutto, alla sua disponibilità ad affrancarsi dalla soggezione nei confronti di Rosello. Laurana si lusinga dell’appuntamento propostogli dalla donna per l’indomani al caffè Romeris di Agrigento, dove però la aspetterà invano. Mentre, deluso, si reca alla stazione per far ritorno a casa, accetta il fatale passaggio in macchina offertogli da un conoscente non meglio identificato. Il suo cadavere sarà seppellito in una cava e il delitto rimarrà, come al solito, impunito. Trascorrono ancora dieci mesi e l’arciprete dà una festa per celebrare il fidanzamento ufficiale dei suoi due nipoti (i cugini Rosello e Luisa), dispensati dalla Sacra Rota. I due personaggi cardine del circolo si riuniscono per commentare le vicende recenti e lontane del paese: e don Luigi Corvaia, insieme con il notaro Pecorilla, tira le somme, chiarendo tutti i dettagli e gli antefatti, di cui è venuto a conoscenza soprattutto tramite confidenze di servette varie e della sua conformità alla cultura del territorio. Il lettore apprende, così, che i due cugini hanno continuato la relazione anche dopo il matrimonio di lei col dottor Roscio; quest’ultimo, finalmente scoperta la tresca della moglie fedifraga, aveva optato per una vendetta fredda, con la denuncia, cioè, degli intrallazzi dell’avvocato e lo scandalo che avrebbe colpito la famiglia della moglie e del cugino. Gli amanti diabolici avevano tessuto la trama della lettera anonima depistante, dell’omicidio prima dei due cacciatori e, poi, di quello del professore impiccione, la cui condotta non riscuote nessuna parola di apprezzamento o di pietà, ma solo l’epitaffio sardonico di don Luigi: «era un cretino».

I.3 Titolo ed epigrafe

A ciascuno il suo esibisce già nel titolo un intento ironico che solo l’intelligenza del testo

rivelerà nella sua pienezza.

Si deduce subito che esso deriva dalla scritta che, insieme a non praevalebunt25, fa parte del motto della testata dell’“Osservatore Romano”, organo di stampa ufficiale della Santa Sede: Laurana aveva letto in controluce, sul rovescio del foglio contenente la lettera anonima, quell’unicuique suum da cui era scattata la molla delle sue indagini. L’espressione dovrebbe simboleggiare l’equità della giustizia erga omnes: il titolo scelto da Sciascia trova, pertanto, giustificazione all’interno della storia narrata.

25 L’espressione è a sua volta tratta dal Vangelo di Matteo (XVI, 18), quando Cristo, elevando a dignità divina un gioco

di parole, dice a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e contro di essa le porte dell’inferno non prevarranno».

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La formula compare in Cicerone in vari contesti26, nella Rhetorica ad Herennium e nell’Institutio oratoria di Quintiliano, ma appare probabile e pertinente che a essere chiamate in causa siano le Istituzioni di Giustiniano, dove, al titolo I, si trova che Justitia est constans et

perpetua voluntas jus suum cuique tribuens, una definizione che allude opportunamente alla volontà

di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta, in base a precise norme confluenti nel diritto, che si possono agevolmente riassumere nei tre juris praecepta: honeste vivere, alterum (o neminem) non

ledere, suum cuique tribuere: se ci atterremo, pertanto, a un paio di regole basilari, quali il vivere

onestamente e il non nuocere ad alcuno27, ciò che a ognuno di noi toccherà non potrà essere che positivo.

La coerente conseguenza della premessa sarà che per la nostra giusta condotta forse non potremo pretendere un premio, ma certo non incorreremo in una punizione, visto anche che “a ciascuno il suo” è il motto dell’esercizio della giustizia: un ricco apparato di leggi, create nel tempo allo scopo di omologare il trattamento delle colpe e di arginare il rischio di arbitrio, sostiene il giudice nell’erogare la pena che, tuttavia, potrà essere equamente calibrata solo se il giudizio sarà espresso con serenità ed equilibrio.

L’A ciascuno il suo che figura nel titolo del romanzo sciasciano rimanderebbe, dunque, alla giustizia terrena, nella quale lo scrittore mostrerà di credere sempre meno28. E se, invece, la giustizia evocata dovesse essere quella divina, magari solo per suggestione dantesca o per un retaggio di formazione cattolica da cui anche un non credente si affranca con difficoltà, ancora più scoraggiante risulterebbe il messaggio rivolto al lettore.

26 Nel De officiis, nel De Inventione e nel De natura deorum figurano frasi sostanzialmente equivalenti. Curiosa la

valenza dell’espressione nell’ultima opera citata, in quanto viene sviluppata una tesi suggestiva sulla Giustizia che è da considerarsi prerogativa solo umana e non divina: Nam justitia, quae suum cuique distribuit, quid pertinet ad deos?

Hominum enim societas et communitas, ut vos dicitis, justitiam procreavit. La citazione è tratta dal terzo libro (cap. 38),

quello in cui l’accademico Cotta sta confutando le tesi esposte dagli interlocutori (un epicureo e uno stoico) a proposito di religione e di divinità e precisa quanto sia difficile individuare per gli dei, che non possono certo essere sforniti di virtù, quali di queste possiedano: sembrerebbe inutile che essi possiedano, ad esempio, la forza nella sopportazione del dolore o nella fatica, in quanto ne sono esenti, così come la facoltà di discernere il bene e il male (prerogativa, viceversa, indispensabile per la Giustizia), dal momento che tale capacità occorre agli umani, per dipanare le nebbie in cui sono immersi, mentre essi sono già nella luce, nella chiarezza pura. Ne discende che altra cosa è la Giustizia, che è una mera creazione degli esseri umani, alla quale compete di distribuire equamente il bene e il male e, di conseguenza, saper valutare le colpe commesse in base a una sorta di graduatorie che investono la sfera morale.

27Andrebbe precisato che, per alcuni studiosi, e in particolare «per il teorico del diritto giuspositivista, la pretesa di

cogliere l’essenza della giustizia tramite una definizione non può dare molti frutti: tutte le definizioni correnti del concetto di giustizia, a partire da quelle classiche dei giuristi romani [...], sono infatti per lui formule assolutamente prive di contenuto prescrittivo [...]. Affinché queste formule possano servire [...], occorrerebbe infatti precisare che cosa sia il “suo” che dev’essere dato a ciascuno, che cosa sia il “danno” che non dev’essere procurato ad altri e via dicendo» (M.JORI,A.PINTORE, Manuale di teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1988, p. 143). Ma Sciascia certo non intendeva addentrarsi nelle dispute tra teorici della filosofia del diritto, bensì affidarsi, come già i giuristi romani, «al significato costante del termine “giustizia”» (ibidem) e alla comune percezione di “vivere onestamente” e di “non nuocere ad alcuno”, che non è poi, nella sostanza, così variata nel tempo.

28 Cinque anni più tardi, ne Il contesto, Sciascia, richiamandosi, nell’epigrafe, a una frase di Rousseau rivolta a

Montaigne, ne ricorda l’invito, chiaramente retorico, a rivelargli «se esiste sulla terra un paese dove sia delitto il mantenere la parola data e l’essere clementi e generosi, dove il buono sia disprezzato e onorato il malvagio», a dimostrazione del radicamento in lui di una visione sempre più sfiduciata e amara riguardo alla giustizia e ai suoi tutori. L’epigrafe dell’ultimo romanzo è, inoltre, illuminante al riguardo. Cfr. L.SCIASCIA, Il contesto – Una parodia, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 7.

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Laurana, infatti, detective improvvisato, un asociale dotato di scarsa coscienza civica, troppo inadeguato all’azione e represso per non essere considerato inoffensivo (ma non la pensano così i due amanti del romanzo), troverà nella morte una condanna spropositata rispetto alla “colpa” della sua dabbenaggine, cadendo in una trappola fatale; il farmacista Manno, un galantuomo non del tutto esente da qualche pecca (una certa tendenza all’evasione fiscale), troverà una morte ancor più immeritata, con l’aggravio, per così dire, di una macchia indelebile alla sua reputazione; il dottor Roscio, ripetutamente tradito negli affetti più cari da una moglie fedifraga e da una parentela acquisita che egli aveva vanamente sperato lo nobilitasse (come insinua don Luigi che ne ricorda i modesti natali) e che invece si rivela scellerata, troverà una morte ugualmente ingiusta, per avere, lui vittima, soltanto pensato di vendicarsi. I killer non saranno puniti e i mandanti non solo non dovranno scontare alcuna pena, ma saranno addirittura premiati con il matrimonio in pompa magna, il favore (almeno apparente) della collettività, e perfino, agli occhi della gente, il crisma della sacralità della loro unione, grazie all’intermediazione presso l’alto (la Sacra Rota) dello zio arciprete, sul quale Sciascia ombreggia un allarmante alone di immoralità.

È questa, dunque, la giustizia che suum cuique distribuit? Ancora una volta c’è un rovesciamento delle regole: chi vive honeste è condannato senza appello, chi procura di alterum

ledere è premiato. Feroce l’antifrasi del titolo, che racchiude il senso del racconto, il cui registro

ironico il lettore coglierà a posteriori.

Il messaggio arriva irridente, senza violenza apparente. La giustizia è messa a soqquadro, perché, in verità, è nell’universo artificioso del giallo che essa millanta un credito negatole dalla realtà effettuale: l’autore mostra tutta l’inverosimiglianza della catarsi romanzesca e svela l’intenzione reale, mascherata di equità, di tradire, già dal titolo, l’orizzonte d’attesa29.

Quanto all’epigrafe, per A ciascuno il suo Sciascia ha optato per una citazione tratta da Edgar Allan Poe, scissa dal titolo e non a questo complementare come per Il giorno della civetta:

«E non crediate che io stia per svelare un mistero o scrivere un romanzo» (Poe, I delitti della

rue Morgue).

L’autore si diverte a confondere il suo lettore con una sconcertante dichiarazione: non è un romanzo quello che si accinge a leggere, e neppure svelerà un qualsivoglia mistero. Ma se davvero non ci fosse un mistero da svelare, non sarebbe un giallo. È, allora, uno scherzo? Una mistificazione? Eppure Sciascia si serve questa volta proprio dell’inventore del poliziesco per sintonizzarsi sul genere, come a legittimarsi.

Proviamo allora a interpretare il messaggio contenuto nel paratesto, pensando che forse l’autore ammicca al suo lettore, solleticandone la curiosità.

29 Che sia questa la chiave interpretativa corretta mi pare che siano le parole dello stesso Sciascia-narratore quando

descrive Laurana incantato a guardare la testata dell’“Osservatore Romano” che gli porge l’arciprete, con la scritta

Unicuique suum, a ciascuno il suo. Laurana, infatti, mentalmente commenta: «e anche al farmacista Manno e al dottor

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Forse non è un romanzo vero e proprio perché, come in altri casi (Todo modo, ad esempio, ma anche Il contesto e Il cavaliere e la morte, più o meno esplicitate parodie o soties), si tratta di una sorta di rivisitazione ironica del cosiddetto giallo classico, le cui certezze vengono minate alla base all’inizio del capitolo VII? O, piuttosto, non è un romanzo perché, nella nota diatriba tra vero e verosimile, il suo è un racconto di verità più che di verosimiglianza, così pervaso com’è di realtà da avvicinarlo alla cronaca, da cui ha tratto alimento, per quanto narrata nella forma-romanzo?

Nel romanzo di Poe la battuta è posta sulla bocca di un narratore intradiegetico che funge anche da spalla dell’investigatore Dupin, del quale racconta le imprese investigative: costui, rivolgendosi direttamente al lettore, così lo mette in guardia: «Da quanto ho detto, non si immagini che io stia per svelare un mistero, o per scrivere un romanzo»30.

Per cogliere pienamente il significato della frase è opportuno brevemente contestualizzarla, anche per provare a capire perché e in quale passaggio del testo sia scoccata la scintilla che ha indotto Sciascia a farla sua: scopriremo che, poco dopo l’avvio della storia, il personaggio disquisisce sulla tipicità dell’“analista” (l’investigatore), dotato di un’acutezza d’ingegno di certo superiore alla media, che lo spinge a cimentarsi nella risoluzione di enigmi sempre nuovi, quasi in gara con se stesso. L’esperienza vissuta nel seguire Dupin in azione induce l’io narrante a descrivere quella specie di metamorfosi, di sdoppiamento dell’investigatore, cui ha assistito quando costui si concentra nell’analisi degli indizi per lo scioglimento del caso e appare «freddo e distratto», lo sguardo inespressivo e persino il timbro della voce alterato31, quasi che il frenetico lavorio della mente ne adulteri la personalità, dissociandola. Nel timore, poi, di poter ingenerare fraintendimenti (non è sua intenzione congetturare uno sdoppiamento alla dottor Jeckill e mister Hyde né una presunta soprannaturalità dell’investigatore), avverte che non si prefigge di “scrivere un romanzo”: a scanso di equivoci, chiarisce che le peculiarità della personalità di Dupin, che ha appena descritto, sono semplicemente «il risultato di una intelligenza sovreccitata, o forse di una intelligenza malata»32. Praticamente, usa un espediente tecnico-retorico per convincere il lettore della sua onestà e oggettività di narratore e per dare credibilità alle facoltà eccezionali di Dupin.

Tutto di questo passo potrebbe aver suggestionato Sciascia: la puntuale enunciazione delle varie fasi del dispiegamento dell’acume intellettuale del detective, propedeutica alla descrizione

30 E.A.P

OE, Opere scelte, a cura di G. Manganelli, Milano, Mondadori, 2006, p. 413. La traduzione dei racconti è di Delfino Cinelli, Vincenzo Mantovani ed Elio Vittorini. La frase, in inglese, è: “ Let it not be supposed, from what I have

just said, that I am detailing any mystery, or penning any romance”. Se teniamo conto che il significato primario di detailing è “dettagliando/descrivendo” e di penning è “scrivendo /costruendo”, mentre per lo più “svelare” si rende con reveal, unveil, disclose o uncover, potremmo anche ipotizzare un’altra interpretazione, più letterale, del passo: “E non

crediate che io stia descrivendo (raccontando, parlando di) un mistero, o scrivendo/costruendo un romanzo”. In tal caso, se il verbo svelare è una scelta consapevole da parte di Sciascia, che lo ha preferito a raccontare, l’operazione sull’ipotesto si caricherebbe di ulteriori significati: l’autore potrebbe aver voluto intendere che narrare e svelare in qualche modo coincidono e forse non solo nello scrivere un giallo (che è, per antonomasia, lo scrivere una storia incentrata su un mistero che deve essere svelato), ma nell’atto dello scrivere in assoluto, che, in virtù dell’oggettivazione con cui si coniuga, rappresenta l’attività rivelatrice per eccellenza.

31 «La sua bella voce da tenore saliva ad un tono di testa che sarebbe apparso petulante senza la deliberatezza e la

chiarezza assoluta della dizione»: E.A.POE, Opere scelte, cit., p. 413.

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probante, da testimone oculare, che sarà ripresa nei suoi saggi sul giallo; il seduttivo tema del doppio, che troverà varia accoglienza nella sua opera e che, in questo racconto, si eserciterà sul protagonista Laurana; il gioco col lettore al quale si nega che ciò che leggerà è un romanzo, mentre è lapalissiano che si tratti comunque di un romanzo, per quanto anomalo; infine, che si neghi perfino l’intenzione di svelare un mistero, che, viceversa, è per statuto il perno intorno al quale ruota ogni vicenda gialla. D’altronde, nella storia in questione il mistero, se si esclude la percezione del lettore, non esiste per davvero nell’universo-mondo del racconto, nel senso che tutta intera la comunità descritta è a conoscenza dei fatti, dei misfatti e dei colpevoli, ad eccezione proprio dell’investigatore poco “eletto”.

Significative più delle analogie risultano le divergenze dall’ipotesto, poiché lo scrittore utilizza la battuta in modo assai più ampio, in quanto nel libro di Poe è la voce narrante ad avvalersene e si riferisce alla sola vicenda, al solo “romanzo”33 della trasformazione di Dupin, di un personaggio, quindi, interno alla storia. Sciascia, invece, pone la frase come epigrafe, collocandola sulla “soglia” del testo, come messaggio al lettore ben più carico di implicazioni, visto che proviene dall’autore, con il chiaro intento di veicolare un significato esteso al libro intero, e non limitato a uno specifico episodio o al singolo personaggio. Si tratta di una provocazione che va letta come ironia, carsicamente insinuata già dall’approccio al testo: Sciascia insinua il dubbio che ciò che sta per scrivere non si catalogherà come romanzo, per poi, ovviamente, disattendere il finto proposito; anticipa che non svelerà un mistero34, ma tutto sommato quello relativo ad alcune morti consumate nel romanzo sarà chiarito, sia pure in modo, come vedremo, insolito e “improprio”.

Potremmo addirittura spingerci a ipotizzare che l’allusione al “non romanzo” si riferisca all’attività stessa dello scrivere storie: non si scrivono, o, meglio, Sciascia non scrive romanzi, anche allorquando ne abbiano la veste esteriore, per il semplice motivo che parla di realtà, benché camuffata da un’apparenza di romanzo. E in effetti A ciascuno il suo – ma dovremmo dire buona parte dei racconti sciasciani – più che un “romanzo di finzione” appare la narrazione veritiera di una vicenda di fantasia emblematizzata e contestualizzata in una realtà nota e, tutto sommato, accettata.

Sciascia, pertanto, ridimensiona de facto la funzione fondamentale dell’epigrafe, di spunto chiarificatore, illustrativo, e se ne serve come pretesto per vivificare ab initio il suo rapporto con il lettore, coinvolgendolo in un gioco dialettico, una sfida intellettuale nel campo minato dell’ironia, che lo rende complice del suo progetto di scrittura e, per dirla con Calvino, “ermeneuta”.

33

L’espressione sarà ripresa più volte dallo stesso Sciascia, che si divertirà a scherzare sul termine “romanzo”.

34 Il “mistero” non esiste, come ho spiegato, per la comunità. Se vogliamo, l’unico mistero residuo che il narratore

avrebbe potuto svelare (ma non svelerà) potrebbe essere circoscritto alla mano omicida che ha fatto fuori il povero Laurana, al di là delle illazioni sui possibili moventi: e questo, in effetti, non verrà risolto, anzi non ci si porrà neppure il problema di risolverlo, essendo in verità ininfluente.

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I.4 Il secondo poliziesco di Sciascia: tradizione, innovazione e il tropo

dell’ironia

«La capacità dell’autore di gialli Sciascia si è sostanziata nel piegare il mezzo, lo strumento, cioè il cosiddetto “giallo” alla sua arte e di superarne i limiti»: il giudizio dello scrittore e poeta Domenico Cacopardo35 coglie l’essenza di quell’andare “oltre” gli schemi precostituiti, propria di Sciascia, di sapersi avvalere del genere, ma governandolo con disinvoltura e facendolo convergere verso i suoi intenti. Poco importa che Cacopardo volesse, probabilmente, polemizzare con classificazioni riduttive della categoria dei giallisti (cui appartiene), spesso aprioristicamente sottovalutati, e che, sostenendo che «le storie di Sciascia rompono i limiti di ogni classificazione e, sembrando gialle, raccontano la Storia [...], ci dicono l’Italia contemporanea», mirasse soprattutto a “riscattarlo” da etichette pregiudiziali, restituendolo al ruolo più consono del letterato che fonda i suoi racconti su un substrato di storia reale. Con grande equidistanza, Ambroise precisa: «Che Sciascia sia un giallista è un equivoco [...] Più che un giallo vero e proprio, ogni romanzo di Sciascia è un libro in cui c’è un giallo», ma per un altro e ancora più profondo motivo: il desiderio di raccontare la verità sulla società che produce l’inganno culturale della letteratura poliziesca, le cui possibilità di sussistere ancora e di resistere agli attacchi concentrici di una sorta di decostruzionismo letterario si affinano ogni volta di più.

È con A ciascuno il suo che inizia, infatti, la parabola dell’anti-detective novel, per ora al primo stadio, secondo la classificazione di Stefano Tani36: l’innovative. Non siamo ancora alla parodia corrosiva del genere, come accadrà con Il contesto, il cui sottotitolo ne esplicita l’appartenenza alla categoria parodica, o con il metafisico Todo modo, ma sono già numerosi gli elementi che conducono all’alveo della transtestualità37, o, se si preferisce, della ipertestualità.

L’analisi38 sarà, perciò, necessariamente più puntuale di quella riservata a Il giorno della

civetta, che mostra appena un timido approccio a questa coscienza trans-generica di Sciascia:

evidenziando nel testo gli aspetti specifici di una dialettica relazionale con il genere e di una

35

D.CACOPARDO, Una storia semplice, ovvero su una giustizia ancora possibile, in M.D’ALESSANDRA,S.SALIS (a cura di), Nero su giallo – Leonardo Sciascia eretico del genere poliziesco, Milano, La vita felice, 2006, p. 121.

36 S.T

ANI, The doomed detective, Carbondale and Edwardsville, Soothern Illinois Press, 1984, p. 40. La traduzione riportata è di Attilio Scuderi, cui si deve l’accurato saggio sull’argomento, al quale si rimanda per un confronto sulla fenomenologia dell’ironia, incentrato sui romanzi Todo modo e Il contesto: A.SCUDERI, Lo stile dell’ironia – Leonardo

Sciascia e la tradizione del romanzo, Lecce, Milella, 2003, p. 16 e ss. Tre sono i livelli individuati da Tani: uno

“innovative”, nel quale sono inclusi A ciascuno il suo e Il nome della rosa di Umberto Eco; un secondo “deconstructive”, in cui è compreso Todo modo; e un ultimo “metafictional”, che è pura stilizzazione (come Se una

notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino).

37 Cfr. G.G

ENETTE,Palinsesti – La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997, pp. 3-8.

38 Per lo sviluppo dell’analisi seguente, mi sia consentito rinviare a R.C

AVALIERE, A ciascuno il suo...giallo. Percorso

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divertita39 consapevolezza della trasgressione40, si vaglieranno elementi che contribuiscono a una corretta leggibilità dell’opera.

Prima di tutto, la sorprendente uccisione del detective, del personaggio, cioè, meno deputato a terminare i suoi giorni nel corso della vicenda, già defraudato del crisma dell’elezione, detronizzato e, alla fine, svilito al rango di cretino con un memorabile epitaffio; poi l’assenza del finale edificante e consolatorio; infine la duplice delusione preparata per il lettore, sul piano sia dell’orizzonte d’attesa letterario che della sua presumibile coscienza di cittadino, nonché altre variazioni sul tema dell’ironia costituiscono già un buon viatico per un percorso di verifica sul testo. All’apparenza, dunque, anche in questo caso gli ingredienti del poliziesco classico ci sono tutti: la storia incentrata su un mistero da risolvere, basato sul duplice delitto d’apertura, che rappresenta una delle costanti41 individuate nei gialli di Sciascia; indizi disseminati e una pista alternativa a quella giusta. C’è, inoltre, l’ormai consueto confronto tra le Forze dell’Ordine, che arrancano dietro la pista fasulla del delitto d’onore, e l’investigatore dilettante che, invece, si avvicina così tanto alla verità da bruciarsi. L’enigma sarà risolto senza lasciare margini di dubbio, in quanto il disegno criminale verrà ricostruito sia nelle modalità operative che nel movente, verranno individuati l’assassino materiale e il mandante, ma il detective sarà così vulnerabile da morire, sconvolgendo l’intreccio con un finale rivoluzionario, di rottura di ogni schema, non soltanto rispetto ai codici polizieschi, ma anche rispetto a quelli del romanzo moderno42 in generale. L’ordine infranto sarà ripristinato, ma non sarà quello della giustizia, bensì quello di matrice mafiosa; l’ansia di purificazione del lettore non sarà appagata, perché i colpevoli, come ho detto, non saranno puniti, contravvenendo, come di consueto, alla nona “ferrea” legge di Chandler; e

39

Nelle prove del livello di anti-detective novel “decostructive” lo spirito che le animerà, purtroppo, tenderà a incupirsi, tant’è che lo stesso autore racconterà, in nota a Il contesto, di aver cominciato a scrivere tale parodia con divertimento e di averla finita che non si divertiva più. Cfr. L.SCIASCIA, Il contesto – Una parodia, cit., pp. 117-118.

40 Per il momento Sciascia non esplicita il gioco instaurato con la tradizione, come farà a chiare lettere per Il contesto,

nella cui nota sopracitata si legge la sua mise en abîme del procedimento adottato, l’«utilizzazione paradossale di una tecnica e di determinati clichés» (ibidem).

41 Diverse sono le ulteriori costanti individuate nei testi analizzati, oltre quelle puntualizzate, per lo più riferibili alle

modalità di esecuzione dei delitti: come ho detto, il delitto non tarda ad arrivare (giusto il tempo per fornire le coordinate al lettore), quando non è proprio nell’incipit, come ne Il giorno della civetta; analoga categoria dell’arma del delitto: mai armi da taglio o veleni o fantasiose alchimie, sempre invece arma da fuoco (fucile o lupara nei primi due romanzi in esame, pistola della vittima e pistola d’ordinanza nell’ultimo); spazio aperto prescelto come luogo del delitto, eccetto che nell’ultimo romanzo; assenza in tutti i casi di lotta fisica, di descrizioni di violenza, di sangue, ferite.

42

La morte del protagonista è considerata un elemento destabilizzante della trama, che balza al primo livello di importanza nella gerarchia degli elementi da prendere in considerazione. «Quanto minore è la probabilità che un avvenimento possa aver luogo (cioè quanto maggiore è l’informazione portata dalla comunicazione del fatto), tanto più in alto l’avvenimento si troverà nella scala dell’intreccio. Così, ad esempio, quando in un romanzo moderno l’eroe muore, ciò presuppone che egli poteva anche non morire, e magari sposarsi». Così J.M.LOTMAN, La struttura del testo

poetico, Milano, Mursia, 1980, p. 279, la cui analisi è ripresa e approfondita in O.LO DICO, Laurana – Vita e morte di

un personaggio, in ID. Leonardo Sciascia: tecniche narrative e ideologia, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 1988, p. 81. Quanto sia pertinente l’espressione di Lotman, riportata da Lo Dico, quanto si attagli a Laurana lo si desume ripensando al fatto che costui, nominato al circolo tra i papabili futuri consorti di Luisa (benché si schermisca, arrossendo come per un complimento), avrebbe effettivamente potuto sposarla (e non morire), forse perfino con il beneplacito della terribile madre, così attenta alla roba da apprezzare quella che Luisa avrebbe portato in dote.

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perfino l’anelito di giustizia, evocato suo malgrado da Laurana, sarà spento, seppellito con lui, irrimediabilmente.

I colpevoli impuniti saranno tanti, a partire dal mandante diretto, l’intrallazzatore Rosello, e dalla sua complice, la subdola Luisa; poi c’è l’esecutore materiale, Raganà, insieme con un altro

killer di cui non sapremo neppure il nome, trattandosi di un’informazione fine a se stessa; poi l’alto

prelato, a capo del potente clan dei Rosello, che declina mentalità, condotta e stampo mafiosi; infine una lunga schiera di corresponsabili, di favoreggiatori, di taciti spettatori. Colpa collegiale, pertanto, aborrita dai legislatori, e colpevoli principali non già delinquenti di professione, nel senso di assassini materiali patentati, bensì farisaici esponenti di una borghesia corrotta fino al midollo e pronta a commissionare delitti pur di salvaguardare i propri interessi, personali e di parte.

Il narratore, tuttavia, riserva tutti i diritti al suo lettore: gli concede, infatti, le stesse possibilità dell’investigatore di risolvere il mistero (regola n. 1 di S.S. Van Dine), disseminando indizi e tracce, e fornendogli, addirittura, più numerosi elementi di giudizio che non allo stesso Laurana (il lettore, infatti, capirà presto quanto Luisa sia equivoca).

Il contrappunto ironico con la tradizione, ora seguita, ora sovvertita, è raffinato e spesso sommerso, ma emerge chiaramente dal confronto puntuale con i testi regolativi.

I.4.1 Un amore “travolgente” e un detective di troppo

La terza regola di S.S. Van Dine perentoriamente prescrive:

3. Non ci deve essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un

criminale davanti alla giustizia, non due innamorati all’altare.

Gli fa eco, suggerendo con maggiore savoir faire, Chandler:

8. Il romanzo poliziesco non deve cercare di fare tutto in una volta: se è una storia misteriosa in un clima mentale freddo, non può essere contemporaneamente una storia di violente avventure o di amore appassionato.

Perfino Aristotele appare di analogo avviso in merito all’unicità della storia da narrare:

8.3 Ora, come avviene nelle altre arti mimetiche, che uno è il soggetto dell’unica mimesi, così bisogna che anche il racconto, poiché è mimesi d’azione, lo sia di un’unica azione e completa, e le successive parti della vicenda debbono tra loro collegarsi in modo che, togliendone una o cambiandola di posto, il tutto si sciupi e si sconnetta: perché, ciò che nulla significa quando c’è o non c’è, non è neppure un elemento del tutto.

Lo scrupolo del filosofo è salvaguardare l’organicità del racconto, l’unità dell’azione; quello di entrambi i giallisti citati è di non distogliere l’attenzione del lettore dalla trama investigativa. Potremmo aggiungere, inoltre, che il carattere freddo, alieno da passioni, del detective ha la funzione precipua di consentirgli di svolgere bene il suo compito, che è poi quello di far venire a

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galla anche il movente dei delitti, quasi sempre riconducibile, appunto, a ragioni di interesse (denaro, potere) o sentimentali (odio o amore), mantenendosi appunto distante emozionalmente43. In questo caso, invece, Sciascia disattende tanto le aride prescrizioni formulari quanto lo spirito del giallo che esalta l’atarassica indifferenza del detective, anche se non si discosta in toto da Aristotele: il suo detective sarà fragile e perdente proprio perché sensibile alla passione dei sensi e la storia d’amore complicherà l’assetto della vicenda. C’è da dire che, benché Luisa rappresenti solo un turbamento unilaterale dei sensi e non il polo di una relazione a due, non si può prescindere dal ruolo sostanziale che le pulsioni suscitate in Laurana dal suo sex appeal giocano nella storia: la passione, invalidando la capacità di lucido discernimento del detective quando è accanto a lei, e, di conseguenza, influenzando i suoi comportamenti, condurrà il protagonista verso il tragico epilogo, assumendo nella storia un rilievo che si configura come una violazione significativa delle regole.

Sciascia, tuttavia, si diverte anche a contravvenire al canone relativo all’“unicità del deduttore”:

9. Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo “deduttore”, un solo deus ex machina. [...] Se c’è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.

Così raccomanda Van Dine, e certamente per il buon motivo di tutelare il lettore dal rischio di sentirsi frustrato nell’intento competitivo dalla presenza di più investigatori, in vantaggio su di lui per numero e possibilità di pervenire alla soluzione. In realtà, accade spesso che i giallisti usino vari investigatori che si attivano alla scoperta del colpevole, con lo scopo di far risaltare la bravura dell’investigatore principale, magari privato, che ha buon gioco su quelli istituzionali, spesso e volentieri descritti come inetti o poco brillanti (anche nel nostro romanzo il commissario cerca perfino di blandire i cani superstiti alla fatale battuta di caccia, per strappare loro informazioni!). In numerosi gialli classici, inoltre, compare un personaggio che funge da spalla all’investigatore protagonista, meno acuto di lui, nel quale si identifica il lettore medio, come in un suo provvidenziale doppio, perché pone le domande che probabilmente lui stesso avrebbe posto44, perché è dotato di saperi e di intelligenza comuni e non eccezionali (Watson per tutti), e perciò si affida ciecamente all’“eletto”, né mai oserebbe sottrargli la scena al momento dello scioglimento dell’intrigo o sostituirsi a lui. Mai, comunque, compare un detective minore al quale venga delegata la responsabilità dello scioglimento.

Sciascia, al contrario, in questo romanzo usa due “deduttori”, anche se il secondo è assai ben mimetizzato, poiché viene presentato come uno dei frequentatori del circolo del paese, conoscitore dell’ambiente assai più di Laurana, benché non coinvolto in prima persona nell’investigazione, né

43

Si confronti, al riguardo, A.BUDRIESI, Pigliari di lingua. Temi e forme della narrativa di Leonardo Sciascia, Roma, Effelle editrice, 1986, pp. 26-27.

44 È ancora Sciascia a guidarci in queste osservazioni, quando parla della delega alla “spalla” pregiudiziale e

conformistica, da parte di un lettore spesso rassegnato alla «passività intellettuale», nell’accingersi alla lettura di un giallo. Si veda L.SCIASCIA, Breve storia del poliziesco, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, p. 217.

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determinato a svelare il mistero. Almeno all’apparenza. Bisognerà, infatti, riflettere sulla conclusione e, andando a ritroso, in una catena regressiva come si deve poter fare in un ingranaggio giallo che si rispetti45, analizzare il ruolo svolto da don Luigi Corvaia, nel chiarimento dei fatti e dei retroscena relativi sia ai delitti d’apertura che, parzialmente, all’omicidio dello stesso Laurana. Don Luigi si affida squallidamente a giustapposizioni fortunose di pettegolezzi di cameriere d’ogni età e della propria memoria “storica” dei vizi e delle virtù dei compaesani, eppure è lui che il narratore designa per la spiegazione finale ai lettori: quella che nei romanzi di Agatha Christie spetta a Poirot o a miss Marple. Sarà don Luigi, infatti, a raccontare, attraverso gli arzigogolati intrecci di confidenze di cui si è avvalso per giungere alla soluzione del mistero, buona parte dei particolari necessari a completare il quadro informazionale, consentendo al notaro Pecorilla, suo “vice” e aiutante in piena attività, di aggiungere, a beneficio del lettore, un paio di episodi assai utili all’intelligenza piena dei fatti e delle responsabilità46.

Sciascia, quindi, ha creato, dotandolo addirittura di un collaboratore, un secondo detective, ancora più anomalo del primo, in quanto si avvale di metodi che hanno poco dell’attività ragionatrice, del calcolo geometrico teso a far combaciare tutte le tessere del mosaico delittuoso e non ha né statuto né apparenze di investigatore. Malgrado ciò, sarà lui, insieme al luogotenente Pecorilla, a dipanare le nebbie residue nella mente del lettore, che ha imprudentemente seguito Laurana nei suoi percorsi investigativi, fidandosi di lui e, forse, temendo per lui, a mano a mano che, più del suo “eroe”, faceva tesoro degli indizi rivelatori delle oscure trame del potente Rosello e di quella mantide religiosa di Luisa.

Ed è proprio in questa fiducia delusa che risiede un’altra provocatoria anomalia del romanzo. È vero che non si può parlare di oggettiva inosservanza dei codici, visto che Van Dine parla di sotterfugi e inganni da non esercitare sul lettore (regola n. 2) e Chandler di onestà da rispettare (regola n. 10), ma è anche vero che in A ciascuno il suo si consuma una beffa sottile verso il lettore: statutariamente, infatti, l’investigatore protagonista, dilettante o professionista che sia, accompagna il lettore passo dopo passo verso la soluzione, tra difficoltà e ostacoli, mentre ciò accade solo parzialmente nel romanzo di Sciascia. Il lettore è portato a fare assegnamento su Laurana, a delegare a lui la soluzione del caso, poiché sa che, laddove la propria capacità deduttiva

45 Il percorso regressivo nel tempo e parallelo al progredire delle indagini, che si svolge nella duplice storia di cui

teorizzano Todorov e, prima di lui, Reuter, è, infatti, quello che conduce alla soluzione dell’enigma. Todorov, avvalendosi dell’esempio de L’emploi du temps di Michel Butor, spiega anche che «la narrazione è una sovrapposizione di due serie temporali: i giorni dell’inchiesta, che cominciano dal crimine, e i giorni del dramma, che portano ad esso» e che «ogni romanzo è costruito su due delitti, di cui il primo, commesso dall’assassino, non è che l’occasione per il secondo, nel quale il criminale è vittima del carnefice puro e impunibile: il detective». Cfr. T.TODOROV, Poetica della

prosa – Le leggi del racconto, Milano, Bompiani, 1995, p. 7 e ss.

46 Il notaro racconta che Roscio era riuscito a fotografare gli scottanti documenti recandosi nello studio dell’avvocato un

giorno che sapeva che costui non c’era e, fingendo di avere con lui un appuntamento importante, vi era rimasto da solo, nella pausa pranzo: aveva probabilmente usato una controchiave, di certo era riuscito a carpire la buona fede del praticante che non poteva sospettare né che l’appuntamento fosse fantomatico né alcuna manovra oscura. In possesso del dossier, il dottore si era recato dall’arciprete, affinché riportasse il suo aut aut a Rosello: o lasciare per sempre il paese o affrontare la sua denuncia, che avrebbe esposto tutta la famiglia al rischio del discredito. Cfr. p. 145-146.

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risulti insufficiente, questi, più bravo di lui se non “eletto”, risistemando i suoi perfetti puzzle indiziari, non sbaglierà: avventurandosi nella lettura del libro, che presume trattarsi di un poliziesco malgrado l’avvertimento del narratore attraverso l’epigrafe, non ha messo minimamente in conto di potersi, invece, imbattere in un detective inaffidabile, e tanto meno ha previsto di essere abbandonato, prima che i dubbi maturassero in certezze, da una “guida” che finisce prematuramente i suoi giorni «sotto una grave mora di rosticci» (p. 140). La completa risoluzione del caso, infatti, sarebbe stata sepolta con Laurana, se il narratore non avesse affidato l’incarico all’investigatore vicario che, a posteriori, a distanza di poco meno di un anno dalla morte del professore, svelerà, con la collaborazione dell’assistente, i retroscena sfuggiti all’investigatore “cretino” e paradossalmente conosciuti da buona parte della comunità: fornito degli indizi sufficienti per addentrarsi nella storia, dall’adolescenza dei due cugini amanti al ricatto di Roscio e alla morte di Laurana, il lettore vedrà soddisfatte tutte le sue curiosità sulla soluzione del giallo.

I.4.2 Il caso volle... che il fumo “non” nuocesse alla salute del poliziesco

Una considerazione a parte merita il ruolo di sovvertimento radicale, di minaccia al sistema su cui si regge il giallo, che, in questo romanzo, il narratore assegna al caso, poiché, in virtù delle sue implicazioni, il deragliamento dal binario costituito dall’ortodossia del giallo non solo rivela l’intento parodico, ma sradica anche il fondamento razionale di ogni storia, vera o inventata che sia: gli eventi si succedono senza che noi possiamo esercitare alcun controllo, che ci piaccia o meno.

Il caso, la memoria, il gioco del combinarsi di occasioni, coincidenze, rispondenze, ricordi; il connettersi e il concatenarsi dapprima impercettibile delle cose viste, lette, immaginate, sospettate, sognate che assumono poi rapporti di cause ed effetti: e tutto si dispiega, si fa netto e necessario nel nostro sentimento, nella nostra ragione, nel nostro modo di essere. Sarebbe da dire, magari a sproposito: il caso o la necessità; degli universi minimi, s’intende47.

Sciascia annota questo pensiero per illustrare come solo a posteriori e nell’atto di ricostruire “razionalmente” i fatti, il caso si trasformi, nella percezione umana, nobilitandosi in «rapporti di causa ed effetti» in realtà inesistenti. In un’altra circostanza arriverà a dichiarare di non conoscere altra causalità che la casualità, che ribattezzerà come «il solo ordine possibile»48, ma già prima di approdare a tali convinzioni sperimenta percorsi arditi, sordo agli ammonimenti dei “legislatori” del poliziesco:

5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni, non per caso o per coincidenza o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia per dirgli poi che tenevate

47 L.S

CIASCIA, E come il cielo avrebbe potuto non essere..., in ID., Fatti diversi di storia civile e letteraria, Palermo, Sellerio, 1989, p. 124.

48 Giuseppe Giarrizzo riporta questo pensiero di Sciascia in G.G

IARRIZZO, Lo scrittore e il politico, in Z.PECORARO,E. SCRIVANO, Omaggio a Sciascia, Atti del convegno Agrigento, 6-8 aprile 1990, Provincia di Agrigento, 1991, p. 28.

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