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CONCLUSIONI Il diritto al rifiuto delle cure, protagonista dei due noti casi italiani, il caso Welby (2006-2007)

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CONCLUSIONI

Il diritto al rifiuto delle cure, protagonista dei due noti casi italiani, il caso Welby (2006-2007) ‒ il diritto al rifiuto delle cure di persona capace e cosciente ‒ ed il caso Englaro (1999-2008) ‒ il rifiuto delle cure per persona non più capace e in stato di incoscienza ‒, come, anche, la questione relativa all’utilizzo del cognome materno sono ipotesi che possiamo definire di “diritti costituzionali accertati, ma non tutelati”. A fronte di un diritto fondamentale, ritenuto costituzionalmente garantito, non si può dire che questo diritto non è tutelato dall’ordinamento perché il legislatore ha mancato di emanare norme di attuazione, e pertanto la richiesta di far valere il diritto in sede giudiziaria è inammissibile. In altre parole, non si può affermare che esiste un diritto perfetto insuscettibile di tutela: “un diritto soggettivo o esiste o non esiste; se esiste non potrà non essere tutelato, incorrendo l’organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con l’effetto di lasciare senza risposta una pretesa giuridicamente riconosciuta”.

Una contraddittoria attuazione del diritto costituzionale al rifiuto delle cure si è avuta, appunto, nella vicenda giudiziaria di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare scapoloomerale progressiva dal 1963, senza possibilità di guarigione, ma non in fase terminale, il quale, però, era consapevole e in grado di sostenere con forza le proprie ragioni. Egli chiedeva che fosse riconosciuto il suo diritto di rifiutare in modo libero, informato e volontario la terapia di ventilazione artificiale che lo teneva in vita.

Altro caso che ha avuto ampia risonanza nelle cronache italiane è quello di Eluana Englaro, donna in stato vegetativo permanente dal 1992, quando, ventunenne, riportò un gravissimo trauma cranico-encefalico a séguito di un incidente stradale. In ragione del suo stato, Eluana era incapace radicalmente di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi di avere alcun contatto con l’ambiente esterno.

Come scrive C. Tripodina “la giustiziabilità di interessi fondamentali della persona prescinde dalla mediazione legislativa e reclama una diretta tutela

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giurisdizionale sulla base della immediata precettività delle norme costituzionali”. E questo perché, la Costituzione repubblicana è un testo idoneo a dare risposte in modo diretto alla domanda di giustizia che proviene dalla società, senza la necessaria intermediazione legislativa. Tanto più che nel nostro ordinamento vige il princípio, sancito dagli artt. 2 e 24 della Costituzione italiana e ribadito numerose volte dalla Corte costituzionale, per cui non può esservi un diritto soggettivo perfetto e poi mancare un giudice davanti al quale farlo valere.

La nostra Carta costituzionale è un sistema normativo costituito da disposizioni caratterizzate dal massimo di cogenza, che sono proposizioni normative aventi valore giuridico in quanto suscettibili di esprimere un contenuto precettivo concreto. È, infatti, ormai tramontato il tentativo di ridurre alcune delle disposizioni di princípio a semplici dichiarazioni di programmi. La Costituzione è un atto integralmente e direttamente obbligante, data la diretta obbligatorietà, l’immediata capacità precettiva e la concreta attitudine delle disposizioni di incidere sull’ordinamento, si ha quindi una concezione rigidamente normativa della Legge fondamentale. Sottolineare la natura legislativa della Legge costituzionale è la premessa per rivendicare il ruolo fondamentale di diretta applicazione delle disposizioni costituzionali. Il diritto costituzionale è, dunque, da assumere in tutto e per tutto come diritto legislativo in senso stretto: “una Costituzione deve essere intesa ed interpretata, in tutte le sue parti magis ut valeat, perché così vogliono la sua natura e la sua funzione, che sono o non potrebbero non essere, […] di atto normativo, diretto a disciplinare obbligatoriamente comportamenti pubblici e privati”. Questa celebre affermazione di V. Crisafulli segna una pagina importante della storia costituzionale italiana, caratterizzata dalla lotta per la “normatività” della Carta repubblicana contro ogni tentativo di svalutarne la funzione prescrittiva e rimandarne l’effettività ad una fase successiva (ed eventuale) in cui si sarebbe attivata la legislazione d’attuazione.

Concludendo sul diritto al rifiuto delle cure, alla luce dei due casi Welby ed Englaro, si può affermare che esso sia un diritto rimasto spesso non ascoltato

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nel nostro ordinamento, nonostante la chiarezza soprattutto del secondo comma dell’art. 32 della Costituzione, e così ancora oggi è in corso un vero e proprio conflitto, all’interno delle aule dei tribunali e nelle stanze degli ospedali, per l’affermazione della sua effettività.

I casi Welby ed Englaro, al di là di quanto disposto nelle decisioni giudiziarie in merito al diritto al rifiuto delle cure, sono emblematici anche per un altro aspetto, cioè quello di aver posto al centro della scena politica italiana la questione fondamentale di chi debba essere il soggetto ‒ i giudici o il Parlamento? ‒ titolare delle questioni eticamente controverse, incluse quelle sulla vita e sulla morte, dovendo tenere a mente che l’innovazione scientifica e tecnologica ha fatto progressivamente venire meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere e di morire. In entrambi i casi viene denunciata dall’autorità giudiziaria la mancanza di un intervento legislativo in materia. Di conseguenza, viene dichiarata l’impossibilità del giudice di procedere alla risoluzione del caso controverso per mezzo dei consueti strumenti d’interpretazione, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai princípi generali dell’ordinamento. Ma quando il giudice decide di non decidere a causa della carenza legislativa, egli viene accusato di aver violato di divieto di

non liquet; se, invece, egli decide di decidere nonostante la carenza

legislativa, egli viene, allora, accusato di avere invaso la sfera di competenza del legislatore. La grande questione politica e costituzionale che viene portata alla luce è: se il giudice sia giudice delle leggi, e quindi debba rifiutarsi di decidere quando non esiste una legge da applicare; o sia giudice dei diritti, e quindi, accertata l’esistenza di un diritto, debba pronunciarsi comunque sulla sua tutela. Eppure, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, afferma che “pur a fronte dell’attuale carenza di disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei princípi costituzionali”. Ed, anni prima, anche la giurisprudenza costituzionale in diverse occasioni ha invitato in simili circostanze il giudice a ricercare lui stesso la soluzione e a

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garantire la tutela dei diritti fondamentali rifacendosi direttamente ai princípi costituzionali. Si legge, infatti, nella sentenza n. 11 del 5 febbraio 1998 della Corte costituzionale che “spetta al giudice, attraverso l’esercizio pieno dei poteri di interpretazione della legge e del diritto, risolvere, conformemente alla Costituzione, il problema che la rilevata lacuna normativa in ipotesi determina” oppure, nella sentenza n. 347 del 26 settembre 1998 sempre della Consulta, che “nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali”. Non si può, in assenza di un intervento del legislatore, consegnare alla maggioranza parlamentare la possibilità, con la sua inerzia, di annullare l’esistenza di un diritto costituzionale, ed, infatti, come scrive R. Bin “di fronte al disinteresse del legislatore, la difesa dei diritti costituzionali delle persone deve prevalere sulla gelosa inerzia del legislatore”.

La disputa, a chi spettano, in uno Stato liberal-democratico, le decisioni fondamentali sulle questioni eticamente controverse, incluse quelle sul fine-vita, è evidentemente un quesito sulla legittimazione a decidere. Da questo punto di vista, gli Stati liberal-democratici contemporanei offrono due modelli profondamente diversi, i quali hanno in comune il fatto di muoversi per lo più nel quadro di princípi costituzionali molto generici. Da un lato stanno quei sistemi giuridici in cui le decisioni generali sui problemi eticamente sensibili sono rimesse al legislatore; è cioè la legge del Parlamento, eletto democraticamente dai cittadini, e questo modello è prevalente nella tradizione europea. Non a caso in Europa tutte le scelte in materia di questioni eticamente sensibili, per quanto controverse, sono state compiute da Parlamenti democratici, cioè da organi legittimati dal voto, aperti alla dialettica con l’opinione pubblica e assoggettabili a responsabilità al termine del loro mandato (con la conseguenza che tali decisioni generali sono rovesciabili da maggioranze future orientate a diverse prospettive valoriali). Oltre a questo primo modello, ne esiste però un secondo: il modello del «governo dei giudici», tipico dei paesi di common law. In tale sistema tutte le grandi questioni eticamente sensibili hanno la sua ultima

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istanza di decisione non nel legislatore democratico, ma nel potere giudiziario, interprete della Carta fondamentale. Per cui è il giudice che deve garantire i diritti individuali anche contro i possibili abusi del Parlamento e del Governo.

La scelta tra il «governo del buon legislatore» e il «governo del buon giudice» è l’alternativa tra un ordinamento in cui le scelte politiche fondamentali vengono fatte in modo generale ed astratto dal legislatore democraticamente eletto e politicamente responsabile, e un ordinamento in cui la scelta sulle questioni eticamente controverse viene attribuita ai giudici, nella risoluzione di caso per caso.

Casi come quello Welby, e soprattutto, quello Englaro, letti in questa prospettiva, sono l’ennesimo esempio di uno scivolamento dell’ordinamento italiano dal primo al secondo modello, perché le due decisioni hanno avuto come protagoniste la magistratura, avendo il giudice assunto la propria responsabilità di fronte a questioni difficili, non negando, così, quella giustizia che i cittadini chiedevano. E non è un caso che i giudici italiani, di fronte al vuoto di norme legislative, richiamino nelle loro sentenze le pronunce delle corti straniere, quasi con l’intento di voler dare vita a un sistema di precedenti giudiziali su scala mondiale. Se, infatti, le due vicende italiane costituiscono una novità nel panorama italiano, non lo sono invece nelle decisioni adottate in altri ordinamenti giuridici, si pensi ai casi Cruzan (1990) e Schiavo (1992-2005) negli Stati Uniti e, al caso Bland (1993) in Gran Bretagna.

Nella discussione italiana si invocano nuove categorie, ma essendo troppo timorosi del nuovo, si continua poi a ricorrere ai vecchi strumenti, così che l’unica norma possibile sembra essere il divieto. Per molti anni, infatti, è stato detto no alla procreazione assistita, no a quel modo di organizzare le relazioni personali rappresentato dalle unioni civili, e ancora oggi si continua a dire no all’interruzione dei trattamenti di sopravvivenza e no al testamento biologico. Ma l’unica tecnica disponibile non può essere rintracciata nel divieto e il legislatore non può essere l’unico protagonista che diventa padrone di ogni dettaglio. Non è pensabile che il Parlamento possa produrre

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una regolazione minuta, di dettaglio a séguito di ogni innovazione prodotta dalla scienza e dalla tecnologia. Non si può sostenere che il legislatore è il solo ad avere diritto di parola in determinate materie, compito suo è quello della legislazione per princípi che richiede poi la mediazione giudiziaria, la quale deve adattare la legge generale ed astratta alle specifiche vicende individuali del caso concreto e deve dare risposta ai nuovi quesiti provenienti dalla società, ai quali non può sottrarsi senza negare giustizia a chi la chiede. La vera posta in gioco nelle due vicende in esame ha da sempre riguardato il ruolo dei giudici nell’officina del diritto. L’obiettivo era quello di mettere un cerotto in bocca alla «bocca della legge», come a suo tempo Montesquieu definiva il potere giudiziario, ma non si può ignorare che nel 1804, quando entrò in vigore il Code Napoléon, esso introdusse l’obbligo di rendere giustizia in ogni caso sottoposto alla magistratura. E questo princípio è ancora valido e rappresenta la prima forma di tutela per i cittadini. Tanto che le preleggi al codice civile prevedono l’ipotesi in cui manchi una precisa regola della controversia, ma stabiliscono che il caso sia comunque deciso sull’onda di regole analoghe o dei princípi generali. L’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, che impone al giudice di decidere sempre e comunque, anche sulla base dei soli princípi generali dell’ordinamento giuridico, affonda le sue radici nell’art. 4 del codice Napoleone, il quale riconosce al cittadino il diritto di reclamare contro il giudice che si fosse rifiutato di giudicare “sous prétexte du silence, de l’obscurité, ou de

l’insuffisance de la loi”.

Le scelte sulla vita e sulla morte non sono compiute da un Parlamento democraticamente legittimato e democraticamente responsabile, ma, di fronte alla consapevole inattività di tale organo, sono adottate da giudici che si ergono ad àrbitri supremi dei valori fondanti della convivenza civile. Alcuni Autori sono arrivati, così, ad affermare che la controversia sui temi eticamente sensibili si svolga unicamente nei tribunali, che hanno ormai “sequestrato” la Costituzione.

Ma, in realtà, soprattutto in materia di diritti fondamentali e quanto più tragiche sono le scelte da compiere, si dovrebbe perseguire un modello

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culturale collaborativo, non combattivo, in cui non vi sia antagonismo tra le diverse parti che concorrono alla vita del diritto, alla sua creazione e alla sua applicazione, riconoscendo il valore culturale e il ruolo di tutte. È soprattutto il caso Englaro con i suoi conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato che dimostra che si è ancora molto lontani dal modello collaborativo tra le diverse istituzioni. E se su temi come il diritto al rifiuto delle cure la Carta costituzionale non è muta, e dunque l’attività dei giudici non è totalmente libera, per altri «nuovi diritti», cioè quelli di ultima generazione emersi nell’età della tecnica, della tecnologia e del progresso, sui quali la Carta fondamentale nulla dice, sempre più la totale mancanza di una legge generale ed astratta elaborata dal legislatore ordinario può avere ricadute sulla certezza del diritto.

Il caso Englaro ha sollevato, poi, una ulteriore questione, di grande interesse, circa i limiti della funzione legislativa nell’ambito di un ordinamento giuridico come il nostro. Il potere legislativo nell’ordinamento costituzionale incontra dei limiti dati dal carattere proprio della funzione che a questo potere è riservata, cioè quella della predisposizione di norme giuridiche. La questione dei limiti che il potere legislativo incontra si pone laddove esso intenda fuoriuscire dal suo ambito naturale, che è quello della emanazione di norme giuridiche applicabili alla generalità delle fattispecie che si verificano successivamente all’entrata in vigore della relativa legge. Si tratta della ben nota questione, relativa al divieto di retroattività della legge, salve rare eccezioni. I limiti propri del potere legislativo si estendono alla funzione legislativa in ogni forma che essa può assumere nel nostro ordinamento costituzionale. E quindi sia se essa si svolge nella forma ordinaria, e tanto più se si svolge, eccezionalmente secondo la Costituzione repubblicana, attraverso atti normativi del Governo, decreti legge e decreti legislativi. A riguardo, una osservazione va fatta al caso di specie: il decreto legge adottato dal Governo, se contenente una norma applicabile solo per l’avvenire e, quindi non applicabile al caso di cui ci stiamo occupando, già definito con decisione irrevocabile dell’autorità giudiziaria, risultava privo dei requisiti della necessità e dell’urgenza, dato che era una materia da tempo

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all’esame del Parlamento; se viceversa contenente una norma applicabile al caso Englaro, il provvedimento d’urgenza risultava incostituzionale perché con esso si finiva per travalicare i limiti propri della funzione legislativa. Limite alla funzione legislativa è la c.d. riserva di giurisdizione, che è anche essa questione direttamente attinente all’oggetto delle mie riflessioni. Il legislatore o il potere esecutivo, quando emanano atti che, hanno la forma della legge o degli atti ad essa equiparati, ma che producono effetti che incidono su materie già definite in sede giurisdizionale, finiscono per trasformarsi in giudici. In ordine alla riserva di giurisdizione, che opera come limite alla funzione legislativa, la giurisprudenza costituzionale afferma che è comunque precluso al legislatore di intervenire, con norme aventi portata retroattiva, per annullare gli effetti del giudicato.

Parlamento e Governo nelle loro rispettive attribuzioni, possono adottare con i propri atti a carattere legislativo ogni scelta politica, assumendosi essi intera e piena responsabilità. E l’indirizzo politico, di cui sono, appunto, titolari Parlamento e Governo, deve essere conforme con l’indirizzo costituzionale, di cui è responsabile il Presidente della Repubblica. Particolare è la funzione del controllo presidenziale circa i decreti del potere esecutivo, in considerazione del fatto che la funzione legislativa dell’esecutivo è di carattere eccezionale e perché i decreti di carattere legislativo di tale organo entrano in vigore immediatamente, producendo effetti spesso irreversibili. Un controllo puntuale e doveroso è stato svolto dal Capo dello Stato nel caso Englaro, non solo in ordine alla sussistenza in concreto dei presupposti di necessità ed urgenza ma anche con riferimento alla materia di cui si tratta; e nel caso in cui il Governo adotti l’atto ritenuto incostituzionale il Presidente ha l’obbligo costituzionale di rifiutare l’emanazione del decreto.

La funzione giurisdizionale, invece, è espressamente attribuita in via esclusiva ai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Nel romanzo Il buio oltre la siepe di H. Lee, l’arringa conclusiva dell’avvocato Atticus Finch, chiamato nell’arduo compito di difendere, in una piccola

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contea dell’Alabama del 1935, un afroamericano imputato dello stupro di una ragazza bianca, nonostante egli fosse evidentemente innocente, trova uno dei punti più significativi nel passaggio in cui afferma: “I nostri tribunali hanno i loro difetti, come ogni istituzione umana, ma nel nostro paese sono grandi strumenti di livellamento sociale. Nei nostri tribunali si attua il princípio secondo cui tutti gli uomini furono creati eguali”.

Che sia proprio questo il vero problema?

Ed il legislatore è davvero intenzionato a tacere sulle questioni eticamente controverse? A lasciare al potere giudiziario la soluzione, sotto la pressione incessante dei casi? Con i rischi in ciò insisti per il princípio di eguaglianza, visto che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i princípi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes? A poco vale colpevolizzare i giudici ricorrendo a conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, perché è l’inerzia della rappresentanza politica che ha aperto ampi spazi all’intervento dell’interpretazione dei giudici, necessaria per risolvere antinomie o per colmare lacune. Solo l’esercizio più attento delle istituzioni politico-rappresentative può riequilibrare il rapporto tra i poteri in riferimento alla individuazione e alla tutela dei diritti fondamentali. Non è attaccando, infatti, il potere giudiziario e accusandolo di averlo espropriato del suo esclusivo potere legislativo (il ragionamento della maggioranza del Parlamento era che, poiché manca una disciplina normativa destinata espressamente a regolare la materia, le istituzioni di garanzia avrebbero esercitato una prerogativa esclusiva del soggetto politico), ma riappropriandosi del proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere a spada tratta la propria potestà legislativa. È da qui che se volesse il legislatore potrebbe ripartire, anzi dovrebbe.

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