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IV. I VIAGGI DI CUTICCHIO

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Academic year: 2021

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IV. I VIAGGI DI CUTICCHIO

IV. 1 IL TESTO DELLA TRADIZIONE

Nel precedente capitolo ho parlato di Cuticchio nella veste di guida di un collettivo di teatranti, e in quella di maestro di possibili continuatori. Il festival La Macchina dei sogni è un modo di socializzare e condividere una poetica artistica, testimoniando la volontà di aprire nuove strade, e dare luce, allo stesso tempo, a quelle già avviate, in un reciproco confronto. Mimmo entra in relazione con altri testi e generi della vita teatrale, creando configurazioni più vaste e intercorrelate, attraverso la strategia della festa.

Cuticchio è un viaggiatore e, come Ulisse, cerca nuove terre da esplorare; ciò che ci racconta non è la terra raggiunta ma il percorso che ha fatto per giungervi1. Rimane sì ancorato alla sua origine, e vi ritorna continuamente, ma poi se ne allontana, di nuovo, perché è forte il desiderio di scoprire e cambiare. I viaggi di Mimmo sono molteplici, e pluralistico è il suo approccio al mondo dell’arte a cui appartiene. A questo proposito è interessante la definizione di tradizione come patrimonio conteso:

«Se da un lato, quindi, tutti i “patrimoni” sono potenzialmente di interesse etnografico, essi sono sempre al tempo stesso potenzialmente di altro dominio. Questa ricchezza di sguardi sui patrimoni culturali, il considerare l’oggetto sotto angoli diversi, spesso divergenti, fa sì che esso sia, a volte anche materialmente “conteso”»2.

Nell’evento del festival Cuticchio agisce con questa modalità di sguardo; il suo è un approccio polivalente, ampio, contro ogni etichetta di genere e di tempo. È determinante, in questa prassi

1

Cfr. Dialogo con Cuticchio, cit.: “Raccontare un viaggio significa tutto quello che hai attraversato”

2

(2)

sperimentale, creare una tensione costruttiva fra i coefficienti che compongono il suo teatro e, più in generale, fra i “patrimoni vivi delle tradizioni culturali”3.

Gli incontri artistici di Mimmo creano ocasioni di scambio culturale, ed, in prospettiva, rinnovati contesti di fruizione4. Se l’esperienza di un incontro è il risultato di una negoziazione di significati, il successivo tentativo di narrarla è il modo per organizzarla e renderla comprensibile. Penso che questo meccanismo di organizzazione narrativa, di ricerca di intelligibilità, appartenga anche alla prassi di Mimmo. Non è sufficiente fare incontri, conoscenze, fusioni e travasi di linguaggi, è necessario che questo patrimonio di amicizie, personali e artistiche, venga raccontato, reso visibile, diventi lo spunto per ulteriori racconti artistici, e per gli studiosi, spunto per diverse coordinate epistemologiche. L’evento della Macchina dei sogni, in particolare, è una delle strategie5 narrative con cui il teatrante tesse la sua esperienza esistenziale e artistica. Esperienza che si nutre, da un lato, delle occasioni e degli incontri che la dimensione esterna, sociale, offre: il complesso delle manifestazioni, rassegne, festival, e convegni; dall’altra di un movimento interno, più personale, caratterizzato dalla ri-scrittura e rielaborazione della propria tradizione e di un patrimonio immateriale di cui è continuatore e autore.

A partire da una lettura del testo-Cuticchio, si può forse comprendere il contesto di riferimento; decifrando la sua personale “narratività”, (la struttura discorsiva del suo agire), si possono dedurre le coordinate per una ricognizione più generale. A complicare, però, il processo di interpretazione delle varie testualità culturali, è l’avvenuto mutamento sociale, nella produzione e nella fruizione dei “fatti culturali”

3

Cfr. Antropologia culturale, anno 3, numero 7, estate 2004

4

Cfr. P. CLEMENTE- F. MUGNAINI, Oltre il folclore. Tradizioni popolari e antropologia nella società

contemporanea, Roma, 2001: “Nuovi oggetti in nuovi luoghi” . 5

(3)

Nella società contemporanea, le tradizioni hanno avuto spesso la caratteristica di un ritorno turistico oppure quella di un recupero localistico, particolaristico: un iper-contestualizzazione che rende ancora più opaca la finalità di una determinata forma folfklorica6.

Paolo De Simonis individua alcune motivazioni, che starebbero alla base di questo genere di manipolazione delle tradizioni:

«Da un lato, la “forte domanda di ‘radici’, presente nella società contemporanea assieme a quella della riscoperta della natura, dell’artigianalità, del passato in generale; (…) dall’altro, l’esigenza di “coinvolgere, interessare e divulgare, a favore dell’utenza locale e, più ampiamente, non specialistica»7.

Il rischio è quello di una decontestualizzazione di senso e di significato, un romanticismo inconsapevole8, se l’opera di manipolazione e recupero dei saperi avviene acriticamente e in modo

astorico.

«Nel mondo altamente industrializzato delle grandi città non sono cambiati solamente il contenuto del folklore e le condizioni della sua produzione, ma lo stesso folklore non sta già più in una relazione di tensione con la letteratura, in quanto è anch’esso una componente della produzione di beni culturali, specialmente nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa»9

La tendenza relativista e interpretativista, che caratterizza l’odierno approccio epistemologico-antropologico, ha determinato una rarefazione percettiva di quegli ambiti che, fino ai primi del novecento, erano ritenuti contesti localizzati e definiti10: manifestazioni espressive condivise esclusivamente da alcuni gruppi sociali, e contesti di fruizione “assoluti” (sciolti dal resto della società). Adesso non è più possibile concepire lo scenario delle tradizioni disinteressato e avulso dalle più generali dinamiche culturali.

6

Cfr. P. CLEMENTE- F. MUGNAIN, Op. cit.

7

Cfr.F.DEI,in Beethoven e le mondine Ripensare la cultura popolare, Roma, 2002 8

Cfr.R. SCHENDA in P. CLEMENTE- F. MUGNAIN, Op. cit.

9

Cfr. P. CLEMENTE- F. MUGNAIN, Op. cit.

10

Cfr. DEI, in Op. cit., “Questo concetto di cultura come conchiuso microcosmo è entrato progressivamente in crisi sia per motivi epistemologici sia, parallelamente, per i mutamenti della realtà politica del pianeta”

(4)

«Questa consapevolezza della natura “costruita” di ciò che eravamo soliti pensare come testi neutrali è stata una delle idee più forti nei recenti studi delle forme orali».11

Ciò che sembra essersi persa è l’aura di autenticità12, e oggi lo studioso si ritrova a studiare un fenomeno non nel suo contesto d’uso, ma nella contemporanea società dello spettacolo e della riproducibilità.

«Questo cambiamento radicale ha travolto anche la relazione tra “studioso” e “portatori di

tradizione”: non sono più due soggetti storici che si “contemplano” da distanze culturali siderali

(…) né soggetti sociali che partecipano del medesimo “progetto politico”(…)»13

Sia studioso che teatrante di tradizione devono “fare i conti- e non genericamente- con la realtà socio-culturale contemporanea”14, e ognuno di essi consegna, all’altro, il portato della personale

analisi culturale. Gli elementi che fondano la personalità e il sistema simbolico degli individui, coinvolti nell’incontro, fanno parte, rispettivamente, di un contesto di riferimenti più ampio: lo studioso porta con sé una stratificazione “accademica”, l’“altro” una stratificazione poetica (nel caso di Mimmo). Il recente spostamento concettuale da contesto culturale a testo culturale, risponde ad una problematica epistemologica, (ancora dibattuta), che non toglie, però, “densità” alla nozione di contesto, entro cui si inserisce l’incontro etnografico. La conoscenza antropologica presupporrebbe, così, non soltanto la negoziazione di significati ma anche uno scambio di responsabilità: entrambi gli attanti, sono portavoce di un contesto.

11

Cfr. FINNEGAN, Tradizioni orali e arte verbale: il caso speciale del “testo”, in CLEMENTE-MUGNAINI, op. cit : «E’ cresciuto l’interesse non più per i testi come oggetti da collezionare, ma per i processi di composizione, performance, ricezione, circolazione e manipolazione delle formulazioni verbali»

12

Benjamin, nel 1936, “L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato (…). La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione”.

13

CfrCLEMENTE-MUGNAINI, op. cit.

14

(5)

Mimmo Cuticchio, naturalmente, oltre ad essere sperimentatore, è depositario di un sapere, di un patrimonio immateriale, ed è “cittadino” di un contesto ben preciso; ma alla luce della sua poetica attuale, tale condizione assume connotati diversi, rispetto ai suoi predecessori.

«La struttura degli eventi folklorici è un prodotto dell’interazione di numerosi fattori situazionali, tra cui l’ambientazione fisica, l’identità e il ruolo dei partecipanti, le norme culturali che disciplinano la performance, i codici di reciprocità e di interpretazione e la sequenzialità delle azioni, tutti fattori che compongono lo scenario convenzionale di un evento che è, in sé, una rappresentazione culturale».15

Il contesto della tradizione sarebbe, dunque, un quadro di atteggiamenti, azioni e simboli, strutturato e relativamente solido nel tempo. La persistenza di saperi, trasferitisi da una generazione all’altra, ha fatto sì che concetti di autenticità, verità, autorità costituissero i coefficienti sostanziali dei patrimoni “ereditati” dal passato. A questo si aggiunge una concezione del contesto della tradizione come ambiente naturale e immediato, luogo di purezza in cui si salvaguarderebbe il discorso patrimoniale da contaminazioni esterne. In effetti, il concetto di patrimonio folklorico è stato sovente spiegato in termini di sopravvivenza, di conservazione nel tempo, di un repertorio di tecniche, storie, e comportamenti, il cui contesto di espressione si manifesterebbe autentico (vedi definizione dell’Unicef).

Il bagaglio simbolico-espressivo sarebbe, sotto questa luce, esclusivo di un gruppo sociale, autoreferenziale e immutabile nel tempo16.

È vero che “resta fondamentale l’idea che il folklore sia situato in una rete di relazioni, in un sistema di riferimento che consente l’indagine di connessioni e moduli precisi(…)” ma, in base alla

recente critica antropologica, che ha messo l’accento sulla complessità delle culture, non in termini

15

Cfr. BAUMAN,in CLEMENTE-MUGNAINI, op. cit

16

Cfr. G. LENCLUD, in CLEMENTE-MUGNAINI, op. cit, «La nozione di tradizione rimanda innanzi tutto all’idea di una posizione e di un movimento nel tempo. La tradizione sarebbe un fatto di permanenza del passato nel presente, una sopravvivenza in atto, il lascito vivente di un’epoca, peraltro, globalmente conclusa. Ovvero qualcosa di antico, che si suppone essersi conservato per lo meno relativamente immutato e che, per certe ragioni e secondo certe modalità, sarebbe stato oggetto di transfert in un nuovo contesto»

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quantitativi, (in riferimento al pluralismo delle espressioni culturali), quanto piuttosto in relazione alla densità della struttura discorsiva di esse, è opportuno prendere atto dell’opacità di questa nozione.

«(…) il rinnovamento delle discipline antropologiche, che sembra aver messo in crisi modelli di rappresentazione delle società e schemi teorici totalizzanti, avviando una revisione dei confini tra scienza e letteratura, a tutto vantaggio di quest’ultima,(…). Dobbiamo considerare che le trasformazioni sul piano sociale e culturale in atto, come si usa dire, su scala planetaria agiscono anche sulle comunità cui si riferiva solitamente lo studioso di folklore. I suoi oggetti sembrano farsi meno riconoscibili, sfuocati in certi casi (…) ed enfatizzati in altri (…)»17

La tradizione non è un semplice prodotto del passato, è piuttosto una “rappresentazione culturale”, è una dinamica di significazione in un discorso condiviso. Alle forme culturali, passate o presenti, sono, quindi, estranei concetti di immutabilità e permanenza:

«Il folklore non è una cosa fissa, ma un fenomeno che si modifica sulla base di due aspetti mobili: il cambiamento sociale, il cambiamento delle idee sulla società»18.

Il ricongiungimento di un “passato” al presente non è necessariamente prerequisito di staticità di un sapere e del suo patrimonio, anzi “la catena della continuità nell’espressività umana è anche una catena di mutamenti”19.

In un certo senso il processo di transazione culturale non avviene soltanto in senso sincronico, fra individui dello stesso gruppo sociale, o fra culture differenti e lontane20, ma anche secondo una linea diacronica: una sorta di negoziazione fra passato e presente. Anche lo scenario delle tradizioni folkloriche, come insieme di idee, simboli e, soprattutto modi di fare21, può essere analizzato come

17 Mugnaini 18 Pietro Clemente 19 Bauman 20

Cfr. J. Bruner, in La ricerca del significato, “Il nostro affacciarsi alla vita di uomini è un po’ come l’entrata in scena di un attore quando la rappresentazione è già cominciata, una commedia la cui trama, in una certa misura possibile di cambiamenti, decide quali sono le parti che possiamo interpretare, e quale sarà l’epilogo a cui possiamo giungere. Quelli che già si trovano sulla scena sono già a conoscenza dell’argomento della commedia in modo abbastanza approfondito da poter effettuare una negoziazione col nuovo”

21

(7)

un complesso di testi, dinamico e polisemico22. Non tutti i patrimoni del passato trovano uno spazio di espressione nel presente, e in fondo, delle tradizioni tramandate non se ne eredita la struttura completa. Si attua un processo di selezione, similmente al meccanismo mnemonico: il ricordo si focalizza su alcuni aspetti degli eventi passati, non si conserva tutto e passivamente23. Ma ancora, più significatamene, la tradizione risulterebbe “un punto di vista che gli uomini del presente sviluppano su ciò che li ha preceduti, una interpretazione del passato condotta in funzione di criteri

rigorosamente contemporanei”24.

È l’appropriazione di porzioni significative del passato, in dinamiche sociali contemporanee, a determinare la tradizione, è una “filiazione inversa”, è il presente che sceglie alcuni simboli, alcuni modi di fare, alcuni “usi e costumi” che meglio giustificherebbero, e spiegherebbero, esigenze e discorsi contemporanei. Non c’è un antitesi tra passato e presente, ma un reciproco, e continuo, scambio di contenuti e atteggiamenti, costruiti socialmente, in una vera e propria struttura discorsiva, testuale. Quest’ultimo aspetto relativizza le nozioni di autenticità o artificialità di contesti a confronto: un passato autentico di fronte ad un presente artificiale.

“Il problema non è di distinguere tra contesti naturali (che sarebbero dunque autentici) e contesti artificiali (in autentici). La differenza non è in termini di valore, ma di portata euristica e di rappresentatività” (Mugnaini).

La verità di una tradizione è reale se considerata in relazione all’originario contesto di riferimento, all’interno del quale aderenza, credenza, e appartenenza sono i coefficienti agiti di una comunità, in quel dato momento e in quel preciso luogo.

«La verità è una convenzione. (…), una sorta di allegoria riconosciuta»25

22

Cfr. Bauman, discorso sui vari contesti della tradizione: isituzionale, culturale, situazionale ecc.

23

Cfr. C. SEVERI in Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria,Torino, 2004; Cfr., “La tradizione è evidentemente qualcosa che accade lungo l’asse del tempo e che lega il passato al presente: e lo “ieri” che persiste nell’oggi. Ma non tutto lo ieri diventa oggi: la tradizione è dunque il filtro che opera la selezione, riconoscendo e selezionando ciò che merita di essere riprodotto, portatore quindi di un messaggio culturalmente significativo, attraverso determinate modalità di trasmissione”

24

Lenclud, in Op. cit.

25

(8)

Nel momento in cui la comunità subisce un cambiamento, modificando le proprie strategie comunicative e narrative (nel senso culturale), cosa rimane? cosa viene tramandato di un patrimonio?. Invertendo il rapporto di dipendenza fra passato e presente, (è il presente che decide il passato), allora il problema non è il salvataggio di una cultura, ma piuttosto quello di capire se un dato bene folklorico può essere ancora rappresentativo di un discorso collettivo26. La parola tradizione deriva dal latino “tradizio”, che si riferisce all’“atto di trasmettere” e non tanto alla “cosa

trasmessa”; penso che ciò possa giustificare la natura mutevole, discorsiva27 delle tradizioni: l’atto di trasmissione è un atto di comunicazione culturale e perciò costruito, scelto, selezionato, sia socialmente che individualmente.

«In breve, la tradizione, che si suppone essere conservazione, manifesta una singolare capacità di variazione e consente un sorprendente margine di libertà a coloro che la seguono (o la manipolano».

Tale opportunità creativa, all’interno di un quadro strutturato, rivela un altro livello discorsivo della tradizione, e cioè l’essere anche un contesto individuale:

«Se il folklore è l’espressione collettiva di gruppi sociali, è anche l’espressione personale degli individui che ne fanno uso. Come la vita sociale e il gruppo costituiscono il contesto in cui gli individui acquisiscono e usano il folklore, la biografia di un individuo, la struttura e l’evoluzione di un repertorio individuale rappresentano importanti cornici contestuali per la comprensione dello spazio che il folklore occupa nella vita umana»28.

Il procedimento critico che lo studioso deve svolgere nei confronti delle tradizioni studiate, è attuato anche dal portatore rispetto al proprio sapere.

La dimensione sociale del festival, in cui empiricamente Mimmo costruisce un discorso collettivo, corrisponde e si riflette in quella della ricerca artistica personale. Esterno ed interno sono le coordinate fondamentali di questo movimento di ri-scrittura patrimoniale.

26

Cfr. Fabio Dei in Beethoven e le mondine, “Ma non c’è nessuna cultura autentica da salvare”.

27

Geertz, in Opere e vita, in Fabio dei, Beethoven e le mondine

28

(9)

Nel luglio del 2004 la Compagnia Cuticchio si trova nella città di Dubrovnik, in Croazia. L’occasione è un festival di tradizione popolare, all’interno del quale Mimmo è stato invitato come maestro della tradizione dell’Opera dei pupi29.

L’esperienza di Dubrovnik evidenzia un diverso livello della testualità di Cuticchio e del suo processo di auto-valutazione poetica: la tradizione praticata fuori dal contesto d’uso30, come strategia31 di rielaborazione del proprio patrimonio. Il teatro dell’Opera dei pupi, in passato, si svolgeva con tempi e modalità che oggi non sono più proponibili; la funzionalità delle antiche performance teatrali era legata al contesto di appartenenza: gente dei quartieri e teatranti di riferimento condividevano uno stesso tessuto sociale e si riconoscevano in quella particolare espressione “narrativa”.

In varie occasioni, Cuticchio, ha espresso l’idea che i maestri dell’Opera dei pupi non fossero semplici esecutori, ma veri autori di repertori e di diverse innovazioni. La profonda conoscenza di tecniche e di storie ha costituito il terreno su cui, varie generazioni di pupari, hanno sperimentato e innovato, (ambito, questo, che in una ricognizione antropologico-teatrale rivelerebbe molti spunti di riflessione); a conferma dell’idea di tradizione anche come contesto di libertà individuale. Il rinnovamento si indirizzava, però, ad un oggetto chiaro e ben definito: il pubblico dei quartieri. Oggi, invece, il puparo rielabora il proprio patrimonio in un contesto totalmente differente e distante. Giacomo Cuticchio, padre di Mimmo, si trovò, alla fine della sua carriera, a rappresentare per un pubblico di stranieri, che non conosceva le storie e, cosa più importante, era diverso tutte le sere; non era più possibile garantire la ciclicità tipica del repertorio, bisognava adattarlo e renderlo fruibile. Simile operazione è stata attuata da Mimmo a Dubrovnik: semplificazione delle storie, sintesi e introduzioni significative. Nella sua poetica l’adattamento non corrisponde ad una rinuncia,

29

In appendice riporto parte del diario di questa esperienza, all’interno del quale vi sono brevi dialoghi con i figli di Cuticchio e con il tecnico delle luci.

30

Cirese

31

(10)

quella che forse segnò gli ultimi anni di attività del padre Giacomo, ma riflette criticamente una nuova strategia: l’adattamento come valore.

«(…) anche i beni mobili e immobili, se considerati da un punto di vista etnologico e non tecnico o artistico, presentano una aspetto volatile: il loro contesto d’uso. (…) la decontestualizzazione è già di per sé uno spostamento di senso da valore d’uso a valore di documento»32.

E ancora:

«L’oggetto è mobile, quand’anche di per sé immobile, e cambia funzione e valore cambiando di contesto»33

Cuticchio ha deciso di rappresentare, ancora, un repertorio antico, non perché la sua condizione di continuatore glielo imponga, ma perché ha riconosciuto l’esistenza di un livello di significatività del discorso patrimoniale a cui appartiene, che tutt’oggi, può essere rappresentativo e intelligibile. Ciò che egli ha ereditato, al di là della “cassetta degli attrezzi”, è il valore sociale di uno scenario culturale, e nello specifico, teatrale.

«Ma dal punto di vista etnologico, la tradizione, anche rituale, che identifica l’autenticità (l’aura), appartiene alla prassi della cultura e, in quanto tale, non può che essere partecipata: solo la trasposizione dei suoi oggetti, riprodotti quindi in un modo o nell’altro, è comunicabile»34.

Le varie operazioni di modifica, e di adeguamento del materiale tradizionale, che Cuticchio ha messo in atto negli anni, sono motivate non esclusivamente da un senso di salvataggio e recupero di un teatro, o dall’illusione di poter ripristinare un contesto d’uso, ma sono agite in una prospettiva sperimentale.

Il percorso di Cuticchio “ha senso se si è consapevoli che si tratta di un fare teatro del teatro e non di una neutra ricostruzione verbale del passato”35.

32

Cfr. Silvia Paggi in Antropologia museale.

33

Cfr. Silvia Paggi in Antropologia museale.

34

Silvia Paggi

35

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Dubrovnik è evidentemente un fuori contesto d’uso, caratterizzato da un pubblico straniero che non può credere in una verità del teatro dell’Opera dei pupi, per il semplice fatto che non c’è appartenenza simbolica e sociale, ma al limite uno stupore devitalizzato36.

Allora perché riproporre un repertorio antico? Chi, realmente, ne usufruisce?

Cuticchio mantiene, nel suo teatrino a Palermo, un calendario, di rappresentazioni tradizionali, per il pubblico della prima infanzia; in questo caso la diversità del pubblico è emblematica e più profonda. Un pubblico di bambini, non può certo possedere una conoscenza delle storie dei paladini, non è il pubblico giudice e complice di una volta. Eppure l’intelligibilità e la potenza comunicativa dell’opra si verifica tutte le volte che viene proposta a questa particolare comunità. Cosa arriva, cosa coinvolge questo pubblico, il cui stupore non è intellettuale ma immediatamente emotivo? Cuticchio raggiunge una comprensibilità teatrale utilizzando la forza (iconica e vocale) connaturata alla sua tradizione; una forza simbolica che riesce a connettersi con l’immaginario vivace dell’infanzia. Di fronte ad un pubblico adulto, Mimmo mette in atto lo stesso “gioco” evocativo; ciò che si modifica è la natura della risposta, cioè la reazione dei fruitori: il pubblico “bambino” vive lo spettacolo immedesimandosi e partecipando attivamente, il pubblico adulto lo fa con l’intensità dell’entusiasmo, superficiale ed intellettuale.

Cuticchio è consapevole che, proponendosi con il repertorio tradizionale, non può riprodurre l’originaria condizione di fruizione, se non quando si trova di fronte a quella parte di pubblico, nella città di Palermo, affezionata e memore degli antichi repertori37. Questa consapevolezza lo ha salvaguardato dall’immobilità e da un senso nostalgico del “passato”, e ancor di più, non gli ha impedito di risolversi in un procedimento laboratoriale. L’attività svolta per l’infanzia è il contesto dentro cui poter ancora esercitare il linguaggio della fantasia e dello stupore, un allenamento creativo di cui, forse, avrebbe bisogno qualsiasi teatrante. L’immediatezza emotiva dell’infanzia è una cartina di tornasole dell’efficacia, o meno, di una comunicazione teatrale, di un artificio. Il

36

Cfr. Antonio Attisani, in Op. cit.

37

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“primo teatro”38 è teatro a tutti gli effetti, e in quanto tale, determina, in chi lo propone e lo rappresenta, un rigore scenico, drammaturgico e visionario, complesso come quello previsto per un pubblico adulto. La proposta, quindi, del teatro dell’Opera dei pupi ad un pubblico cronologicamente delimitato non risponde a scelte di facilità, così come non lo è il repertorio delle narrazioni orali fatte per i ragazzi delle scuole superiori39. Mimmo sperimenta le potenzialità comunicative delle proprie arti, partendo dall’idea che il teatro è un linguaggio totale, che deve però specificarsi, attraverso strategie di volta in volta differenti, a seconda del tipo di pubblico che si ha davanti. La particolarizzazione in diversi linguaggi teatrali, l’apertura “democratica” alle varie anime del pubblico, lungi da ogni etichetta stilistica, manifesta un’idea forte che, secondo me, fonda la prassi di Mimmo: teatro come atto politico e sociale. Una simile operazione di democratizzazione acquisisce densità perché, parallelamente allo “studio” del pubblico e dei contesti, ogni volta diversi, viene svolta una ricerca di innovazioni tecniche e drammaturgiche. È interessante notare che originariamente il teatro di figura era destinato ad un pubblico di adulti; dico questo per sottolineare che l’infanzia, a cui si rivolge Mimmo, non è un pubblico naturale né scontato come, di solito, ci si immagina40. La riflessione fin qui svolta potrebbe costituire una risposta al precedente quesito: perché riproporre un repertorio antico?: esercizio, pratica, democratizzazione teatrale. Rimane la questione della fruizione del pubblico adulto e, occasionalmente, straniero. Acquisita, criticamente, l’idea di non poter risuscitare le modalità discorsive del contesto di provenienza, con la semplice riproposizione del repertorio classico, anziché rinunciare ad esso, Mimmo riparte dal linguaggio tradizionale per approfondirlo: nuovi repertori e scenari con gli antichi personaggi (eroi-paladini e pupi di farsa) dell’opera dei pupi. Teatralmente, marionette, burattini e pupi sono sì portatori di un particolare significato e linguaggio scenico, ma appartengono al più ampio linguaggio teatrale: essi possono entrare e uscire, parlare e cantare, evocare, piangere e ridere come qualsiasi attore e, come questi, possono vestire qualsiasi costume e interpretare qualunque testo. La

38

Mimmo Cuticchio, dialogo Polizzi Generosa

39

Cfr. dialogo a Palermo e diario sulle sperimentazioni

40

(13)

banalizzazione nell’uso della “figura” sarebbe quella di dimenticare la specificità di questo mezzo teatrale. Ciò in Mimmo non può accadere, per il semplice fatto di essere nato, letteralmente, tra i pupi, di cui è figlio e padre allo stesso tempo.

Da questa ricognizione rappresentativa, Mimmo trova soluzioni teatrali che raggiungono il contemporaneo pubblico adulto, sia quello straniero che quello avvezzo al teatro “alternativo”. Da un lato conservando la langue e l’identità del suo teatro d’origine, dall’altra aprendosi al nuovo immaginario del pubblico, alter ego secolare di qualsiasi teatro.

«Prima del teatro è cambiato il pubblico, è cambiato il mondo»41 .

Chi usufruisce, in ultima analisi, di questo teatro, ed in particolare di questo processo di innovazione?

Mettendo a confronto la condizione teatrale del passato con quella del presente ne risulterebbe che non c’è una differenza formale, perché in entrambi i casi è un pubblico a usufruirne. Lo scarto, fra passato e presente, si evidenzierebbe, invece, rispetto alla natura sostanziale dei tipi di pubblico. L’uno (quello tradizionale) era uniforme, riconoscibile, complice, una sorta di “seconda voce” costante del teatrante, l’altro (quello contemporaneo) è poliforme, sfuggente, e occasionalmente solidale42.

Cuticchio ha reso quello che potrebbe apparire un limite contestuale una risorsa, una fonte di ricerca; l’Opera dei pupi, e in generale il mondo della narrazione orale, nell’originale visione di Mimmo, divengono cantiere, laboratorio, dentro cui esperire nuove strategie rappresentative. Idealmente si potrebbe però anche rispondere che è la cultura, in generale, ad avvantaggiarsi di questa particolare ricerca ed elaborazione linguistica di un patrimonio antico, arricchendosi di un linguaggio, poetico e teatrale, capace di fornire un’alternativa a quelle problematiche connesse alla possibilità o meno di creare, e raccontare, partendo da ciò che appare “superato”, fonte,

41

Cfr. Antonio Attisani, L’invenzione del teatro

42

(14)

esclusivamente, di rivisitazioni nostalgiche. Semplificando, i viaggi creativi di Mimmo, possono costituire un precedente, un esempio di metamorfosi nello scenario contemporaneo.

Esemplarità che non garantisce, però, un processo di trasmissione di “originalità”; il lavoro di sperimentazione, che lui svolge, è intimamente legato alla sua profonda conoscenza dell’ arte dei pupi e del cunto e questo è un livello di trasposizione poco trasmissibile. Il senso della scuola “per

pupari e cuntisti”, che Mimmo ha avviato anni fa, sicuramente, risiede nella naturale necessità di tenere vive delle tecniche e delle precise modalità teatrali43; tutti sono possibili allievi, ma pochi saranno compagni di viaggi poetici. Il sapere di cui dispone Mimmo gli consente di attuare coerenti e sensati stravolgimenti della materia teatrale, ma è un viaggio del tutto personale, legato alla sua specificità. Questo non vuol dire che Mimmo rinunci a “trasmettere” e comunicare, ma lo fa cercando osmosi, travasi, sintonie: individualità a confronto. Il senso ultimo della sua esemplarità non risiede, quindi, nella trasmissione di un mestiere, ma nel rappresentare le possibilità creative e il rigore visionario della ricerca come fatto totale, del demone dell’esperimento44.

La contemporaneità di Mimmo sussiste nell’aver respirato individualmente, e in solitudine, il disorientamento, il “dramma sociale” della sua tradizione di riferimento.

«Più ho conosciuto il mondo, più ho capito il valore della tradizione. Da un lato l’ho mantenuta come memoria storica, dall’altro sono rimasto irrequieto e ribelle al mestiere. Non riesco più a fare uno spettacolo classico se non con un po’ di sforzo. E se lo faccio, lo faccio cercando di essere il più fedele possibile alla tradizione. La mia sfida è anche questa. Io, quando faccio il tradizionale, lo faccio cercando di fare tutte le voci, così come quando ero bambino e sentivo la magia di mio padre. La mia volontà, però, è quella di sconvolgere tutto. Io non lo so esattamente cosa voglio fare. Ma so cosa non voglio fare».45

43

Cfr. Giancarlo Sammartano, in “Convegno, una scuola per pupari e cuntisti, Palermo-10-11 maggio; L’opera dei pupi e il cunto, una tradizione in viaggio”, pag. 15: “Mimmo (…) sceglie di traghettare i sogni, le tecniche, le idee, i

sentimenti, in modo che incarnandosi negli allievi possano sperare di passare indenni la dogana del consumo” 44

Cfr Giancarlo Sammartano, in “Convegno, una scuola per pupari e cuntisti”, documento citato

45

(15)

IV. 2 Coazione allo spettacolo

46

La pratica teatrale di Cuticchio, quindi, non si limita alla riproposizione, più o meno rinnovata, del repertorio tradizionale, ma si amplia nella creazione di nuove messe-in-scena, nell’invenzione di occasioni rappresentative di respiro diverso da quello da cui proviene. La necessità di rappresentare e giocare ancora con le sue arti, più che un’azione di sopravvivenza, è una vitalità espressiva, è un bisogno di metamorfosi intenso e profondo. Cuticchio si perpetua nel cambiamento, nella ricerca infaticabile di codici performativi e logiche rappresentative di ciò che è sostanzialmente immutabile: la sua identità e la sua memoria.

In occasione della mia visita al suo laboratorio, a Palermo, alla fine di Agosto nel 2004, ho avuto l’opportunità di visionare alcuni dei suoi lavori sperimentali e di discutere con lui del processo di invenzione e creazione di queste nuove rappresentazioni teatrali.

La teatrografia di Cuticchio è vasta ed eclettica47 ma è possibile evidenziare un percorso discorsivo e di ricerca puntando l’attenzione su alcuni spettacoli, che hanno dato corpo alla sua volontà di metamorfosi: La spada di Celano (1983)48, Visita Guidata all’Opera dei pupi (1989), Francesco e

46

Riflessione di Maurizio Grande in Tessari

47

Cfr sito

48

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il Sultano (1992), L’urlo del mostro. Viaggio nei poemi omerici per puparo-cuntista, pupi e

manianti (1993), Storia di Manon Lescaut e del Cavaliere Des Grieux (1999)49, Don Giovanni

all’Opera dei pupi (2002)50, e Alla ricerca della città di Troia del 200451.

La spada di Celano nasce come omaggio al maestro Peppino Celano, morto nel 1973, presso cui

Mimmo ha svolto il suo apprendistato per tre anni (1970-1973), nelle forme e nei tempi previsti dalla tradizione orale ottocentesca. Come Guido Di Palma ci informa, tre erano le principali fasi dell’apprendistato: scelta del maestro, il momento in cui l’allievo comincia a mettere in pratica le regole apprese precedentemente e il finale riconoscimento, da parte del maestro, delle competenze dell’allievo che può così iniziare una propria professione. Lo spettacolo La spada di Celano ripercorre queste fasi di apprendimento, attraverso cui Mimmo acquisisce un nuovo mestiere.

La formula scenica e drammaturgica che Cuticchio sceglie per rappresentare questa fase fondamentale della sua carriera artistica, è l’uso teatrale del cunto e di un aspetto della sua autobiografia, e più che come spettacolo esso si configura come una sorta di conferenza scenica e poetica di una storia. Mimmo entra in scena con una spada, emblema dell’arte del cunto, ed in particolare, della nascita di Mimmo come cuntista; infatti la spada che lui mostra è quella che gli fu regalata dal maestro, a seguito del riconoscimento professionale. Lo spettacolo non si svolge attraverso la tipica performance del cunto, perché il teatrante alterna spiegazioni sull’arte ereditata da Celano, ricordi, registrazioni, esempi pratici. Il cunto è stato così messo in gioco, è guardato e “parlato” dall’esterno, è un cunto del cunto, è razionalizzato in regole e codici, che un tempo non venivano presentati ma vissuti contestualmente e, cosa più interessante, non regalati dal maestro ma rubati dall’allievo. La storia dell’apprendistato di Cuticchio, così rappresentata, va oltre il testo

autobiografico e diviene un pretesto per ricontestualizzare l’arte del cunto in un nuovo ambiente, quello teatrale. Qui il teatro è inteso come il luogo della riflessione e del distanziamento, come lo spazio entro cui può muoversi materia umana e poetica in assoluta libertà creativa. Categorizzando

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Dal libro dell’abate Prévost e dal libretto di D. Oliva, G. Ricordi, L. Illica e M. Praga. Musiche di Giacomo Puccini.

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Dal libretto di Lorenzo Da Ponte, musiche di W.A.Mozart.

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le regole del cunto, Mimmo trasforma le possibilità di trasmissione di un sapere, perché in questo modo egli provoca, o quanto meno, consolida il passaggio dalla cultura performativa popolare (nota da Guido di Palma), rigorosamente contestualizzata, alla cultura teatrale, intesa come patrimonio “sfruttabile” da qualunque teatrante. È ovvio che il processo non è né lineare né sereno, rimane la personale competenza e capacità creativa di un teatrante a fare di alcune specifiche tecniche materia teatrale. L’ingresso di una determinata arte performativa nel più indefinito mondo del teatro, testimonia un ulteriore spostamento: il viaggio di una tradizione popolare nei sentieri della tradizione teatrale. Le tradizioni, come abbiamo visto, sono intrinsecamente processi discorsivi e non un prodotto, in questo caso si tratterebbe della metamorfosi di un’arte, il cunto, da contesto circoscritto ad uno culturalmente più ampio e magmatico, da un presunto passato ad un effettivo contemporaneo. L’arte del cunto diviene patrimonio teatrale perché è Mimmo stesso ad essere entrato nel linguaggio universale del teatro, con la sua prassi sperimentale e metamorfica. L’iniziativa di utilizzare in modo diverso i propri strumenti poetici, in una cornice fertile e rischiosa, come quella teatrale, è originale anche in un altro senso: Mimmo porta a compimento un processo innovativo già presente nella storia del cunto, in quanto, consciamente o no, è attratto da un teatrante che nello scenario tradizionale ha costituito una novità, per la sua eccletticità, completezza e capacità di sperimentare. Peppino Celano, appartenente all’ultima generazione dell’ottocento, è un ibrido: a differenza degli altri pupari-cuntisti era capace di costruire i pupi in tutte le loro parti, e il processo di acquisizione del repertorio narrativo e del mestiere, in genere, non avvenne in modo canonico, non era un figlio d’arte né un semplice apprendista. Tutto quello che Don Peppino ha ereditato è stato il frutto di un’azione individuale, di un’opera personale di

ricognizione narrativa52, diciamo che si è appropriato di una tradizione e l’ha trasformata. Con lui si interrompe la linea di continuità delle performance dei cuntisti precedenti, perché per la prima volta avviene un “ripensamento delle strutture compositive del cunto” alla luce della drammaturgia dell’opra, e soprattutto mette in connessione oralità e scrittura: riscrive gli antichi canovacci,

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rendendoli più funzionali alla sua particolare performance orale, ne scrive di nuovi, andando quindi oltre il tradizionale repertorio dei paladini, rinnova un sapere sistematizzandolo53. La figura di Celano è, in qualche modo, lo specchio delle scelte di Mimmo, nulla è casuale.

Dopo la morte di Celano Cuticchio non intraprende subito la professione, almeno in modo ufficiale, del cunto; è impegnato nella promozione e crescita del suo nuovo teatrino. In questo momento egli sta vivendo un’altra morte, quella dell’Opera dei pupi: suo padre fa spettacoli per i turisti, molti altri pupari hanno abbandonato il mestiere, le istituzioni non pensano ancora ad una politica di recupero del patrimonio dell’opra. Dall’apertura del teatrino (1973), fino ai primi anni ottanta, Mimmo si dedica alla riscrittura degli antichi canovacci, competenza di litterazione ereditata da Celano, e tenta di scriverne altri con altri argomenti e storie54: sta maturando un sentiero e una rinascita dalle macerie.

Questo è anche il periodo in cui consolida l’amicizia con Salvo Licata, giornalista, drammaturgo e critico teatrale palermitano, grazie al quale Mimmo perfeziona la propria strumentalità drammaturgica e scenica. La sapienza scritturale di Licata si innesta con la sapienza e l’intuito scenico di Mimmo, insieme inventano un vero e proprio metodo di mediazione teatrale tra drammaturgia orale e drammaturgia per parole:

«Il metodo che è nato nella pratica del nostro lavoro prevedeva che io improvvisassi sulla scrittura di Salvo, il quale a sua volta rimodellava la scrittura sulla mia interpretazione»

L’autorialità di Mimmo si fa sempre più corposa e significativa, è ormai padrone del proprio patrimonio ed è pronto per ampliarlo e rinnovarlo in qualcosa di diverso, ha imparato ad interpretare testi e scritti in chiave contemporanea, ma, prima di intraprendere la sua nuova vita, sente il bisogno di avvertire tutti che qualcosa è stato sacrificato e frainteso: la sua tradizione.

53

Cfr. V.Venturini

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Il primo testo che Mimmo ha scritto era per pupi in paggio, cioè pupi senza armi (i primi rudimentali personaggi dell’opra), dal titolo “Giuseppe Balsamo Conte di Cagliostro”, Copione e adattamento suo, ispirato alle letture di A. Dumas e altri romanzi popolari sulla vita di Cagliostro; è interessante questo dato perché le iniziali prove di Cuticchio ripercorro dall’origine la sua tradizione.

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Nasce Visita Guidata all’opera dei pupi, (in collaborazione con Salvo Licata), come denuncia e monito, riflessione ed esplosione creativa.

«Non si tratta di rispettare ciò che è morto nel senso della conservazione ma piuttosto di accettare la trasformazione. (…) Di rifiutare un presente senza futuro e trovare nei depositi del passato il progetto che trasformi il delirio quotidiano in teatro»

Questo spettacolo, che nasce dal ricordo di una città martoriata dalla guerra (siamo nel 1945) e degli ultimi atti dell’opra, mette in scena il disperato e disorientato tentativo di un puparo di conservare una memoria, di recuperare i pezzi ormai distrutti e spersi di un’identità: il suo mestiere, i suoi pupi. La visionarietà del puparo, solo in mezzo alle sue macerie, unico oggetto rimasto un vecchio pianino, rievoca voci, volti, personaggi: i fantasmi di un’esistenza. Nello stesso momento in cui Mimmo attesta che l’arte dei pupi è morta, perché la verità dei suoi personaggi non incontra più nessuno, pone le basi per uno sguardo diverso:

«Se i pupi hanno perduto il pubblico è anche vero che non tutti i pupari sono morti. Se rimane una sapienza scenica che farne? Questo è il punto di partenza di Visita Guidata, il punto d’arrivo un delirio».

I pupi appaiono come spiriti senza anima, hanno perso la corporeità che avevano nell’antico teatrino, giungono dal buio per frammenti e senza storie da raccontare a qualcuno, se non al puparo che attende di ripristinare un dialogo. Tutta la forza evocativa e narrativa di questo teatro non è però persa perché si incarna e prende di nuovo vigore nel corpo del puparo, ancora detentore di una sapienza.

Tramite l’arte del puparo pupi e voci possono ancora essere teatro, sotto altra forma e funzione. La questione è ancora la capacità di guardare e progettare oltre la cornice del contesto tradizionale e inventare a partire da ciò che è rimasto, “reagire ad una disappartenenza”. Se un tempo i pupi erano l’alter ego dell’identità del pubblico, adesso diventano il doppio del maestro, del puparo, del narratore, perché i pupi “non sono solo le storie che raccontano”. Quello che comincia come elaborazione dolorosa di un lutto, si evolve in “riscatto nella trasformazione” per radicarsi nel

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presente come discorso teatrale. Il puparo approda in una terra dove l’impossibile, l’ignoto, l’estraneità si ergono a parola e possibilità di significazione di una esistenza: è il presente del teatro. Qui risiede il nuovo progetto discorsivo di Mimmo.

«Sulle spalle di Mimmo, lo spettacolo smonta il meccanismo classico, cercando di esaltare le potenzialità del teatro dei pupi nel più ampio spazio di un palcoscenico. Gli elementi costitutivi di una tale flagrante tema compongono adesso una rituale d’avvicinamento tra altre macerie».

Le macerie su cui deve camminare Mimmo, e su cui è spinto a edificare un nuovo teatro, non sono la prova della decadenza di una casa privata, ma quella di un edificio cha ha già manifestato i suoi segni di crollo: ciò con cui si sta per confrontare il teatrante di tradizione è la crisi di una teatralità, di un linguaggio che non smuove più i cuori e le menti di un pubblico. In questo dislocamento Cuticchio non giunge in una terra serena e facilmente complice. Il delirio del puparo, di Visita Guidata, per il disfacimento del suo patrimonio, corrisponde al delirio e al disorientamento di un

intero linguaggio di espressione che non trova più un referente e un contesto, perché ha perso di vista la propria identità. Il teatro, oggi, subisce i meccanismi di una spettacolarizzazione e di un appiattimento culturale che sottrae verità e corporeità all’espressività in genere. Anche in questo senso la progettualità di Mimmo non si risolve nella sicurezza della sorpresa per il nuovo, ma si confronta con la complessità e l’ambiguità del contemporaneo.

Continua nel frattempo la collaborazione con Salvo Licata, con cui sperimenta altre drammaturgie e scenicità, altri giochi tra improvvisazioni, intuizioni sceniche, parole e poesia, altri modi di concepire il rapporto con il testo teatrale.

Nel 1992 nasce lo spettacolo Francesco e il sultano, in cui vengono utilizzati i pupi di farsa, oltre che pupi nuovi (circa quaranta) costruiti per questa rappresentazione, nata in occasione di un convegno sulla figura del santo.

È da notare che parallelamente alla creazione di testi nuovi si svolge la costruzione di nuovi pupi e strumenti di scena: la tecnica rimane un terreno fertile di sperimentazione. La genesi e il processo di elaborazione di questo spettacolo è magmatico, vivace, e conflittuale, come molti altri lavori di

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Mimmo, ma qui la ricerca di Cuticchio/Licata raggiunge l’acme della teatralità. Dal racconto che Mimmo mi ha offerto nel nostro primo dialogo a Polizzi, è evidente che lo scambio tra lui e Licata determinava un’elaborazione scenica e drammaturgica tormentata ma prolifica, fertile e arricchente per entrambi, che andavano così formulando un metodo e un nuovo linguaggio teatrale.

È estremamente interessante l’uso che Mimmo fa dei pupi di farsa, i più antichi personaggi del teatro popolare palermitano. Essi rappresentavano i palermitani, in tutte le loro categorie: popolani, ricchi, borghesi. Ognuno di loro incarnava non soltanto un sentimento o un carattere sociale ma la verità della vita di tutti i giorni. Erano gli ufficiali portavoce di una fetta di società che non possedeva canali di espressione e di critica, gli umori e le lamentele dei pupi erano le parole e il sentire di una società: il doppio di una umanità. Nello spettacolo di Mimmo, e non soltanto in questo, diventano testimoni della tradizione, sono quello che una volta era il contesto di riferimento, in modo altamente poetico si regalano come memoria di qualcosa che non c’è più: uno sguardo e un essere del passato. Non a caso nella drammaturgia di Cuticchio essi spesso assumono il ruolo del popolino che assiste a cunti e scene e che soli possono capire, e comunicare di riflesso al pubblico reale, la forza e l’emozione di quel teatro. Il fantasma del pubblico perduto è diventato un personaggio teatrale: pupi dalle fattezze caratteristiche, deformi, ingenui, cinici e comici si assumono la responsabilità di uno sguardo e di un’attenzione che non si può più rinnovare.

Nello specifico della drammaturgia scenica, costituiscono l’anello di congiunzione fra una scena e un’altra, dando respiro ad una narrazione altrimenti artificiosa e difficile. Pur sperimentando su antiche funzioni e figure, azione straniante, questa, rispetto alla tradizione, Mimmo non dimentica “la drammaturgia dello spettatore”, e conserva una narratività e un realismo di punteggiatura nella proposta della storia, offrendo l’occasione a tutti di comprendere, e questa è una delle eredità feconde della sua tradizione. C’è un altro aspetto da sottolineare ed è la figura di San Francesco d’Assisi, recuperato recentemente come figura sostanziale di una certa idea dell’agire scenico55.

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La pratica divulgativa e la performatività religiosa di San Francesco apparirebbe più complessa e innovativa rispetto all’immagine diffusa di “patrono dell’ingenuità e di un blando ecologismo”. In un certo senso sarebbe un precursore dell’irrequietezza filosofica e fisica delle avanguardie contemporanee nei confronti della rappresentatività, in generale:

«Tuttavia, se è vero che applicarsi a tracciare una storia ipotetica è un’impresa vana, il fatto di orientare l’attenzione verso l’originaria idea francescana di teatro, o meglio (…) di azione poetica, mette in condizione di comprendere come in Francesco si incarnasse una concezione della teatralità non fondata nella illustrazione ideologica di concetti o testi, ossia in un’articolazione discorsiva , e nemmeno riducibile alla successiva predicazione tramite exempla. In altre parole, ciò che si può definire come «teatralità francescana» non ha nulla da spartire con il sistema della rappresentazione europeo rinascimentale e post-rinascimentale. Dal Cinquecento il teatro assumerà la propria fisionomia moderna di specialismo e arte intesa come produzione di forme, mentre Francesco concepisce la teatralità come un’attività filosofica e cognitiva, come gioco e insegnamento nel quale ciò che conta non sono le forme come risultato, ma un’azione che trasforma il corpo-mente di attori e spettatori».

Ci sono alcuni elementi della teatralità di San Francesco che si ritrovano in certe sperimentazioni teatrali del Novecento (nota), in particolare per quanto riguarda l’uso della parola e del testo, la funzione del corpo, il rapporto tra racconto e rappresentazione. La prassi predicativa di Francesco mirava non all’indottrinamento ideologico ma all’esperienza della trasformazione individuale e collettiva, esperienza estatica e irreversibile; parola, canto e suoni in una partitura narrativa che doveva determinare nell’uditorio un cambiamento della mente e del corpo. Non a caso gli exempla di Francesco, le azioni “folli” del predicatore, erano la trasmissione fisica di un principio, non rappresentato ma agito. Anziché parole e immagini, il “teatro” di San Francesco era spettacolo, come forma di vita, offerta nella sua verità e povertà. Povertà di mezzi a cui corrisponde però la forza e la ricchezza del fare (nota Ruffini); sembra, infatti, che le sue azioni e performance religiose non fossero mai le stesse. Altri dati compongono la ricchezza di questo personaggio: la conoscenza delle tecniche dei giullari, un ideale cavalleresco derivato dalla letteratura di genere, ed infine un nomadismo che lo porta a incontrare più realtà e forme di vita.

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Nello spettacolo di Cuticchio e Licata il pupo-personaggio di San Francesco, che ha le fattezze di Cristo, incarna problemi sociali, politici, spirituali di tutti i tempi e di tutte le società. Il pre-testo della storia di San Francesco, che qui ha inizio con il prologo dei pupi di farsa Nofrio e Virticchio giunti a Palermo per raccontare la storia, è anche il sotto-testo di una riflessione più ampia:

«(…) “Francesco” si dimostra in realtà il centro ispiratore di un mondo teatrale che fa della sua diversità il suo centro di attrazione e di fascino»56 .

Nel 1993 Mimmo giunge a Urlo del mostro. Viaggio nei poemi omerici per puparo e cuntista, che rappresenta un ritorno di sguardo sul personale viaggio di rottura e creazione, dalle macerie di Visita Guidata alle macerie di un’appartenenza.

«“L’urlo del Mostro” vuole essere una favola aperta, che rimescola tempi, luoghi e persone con l’impossibilità del sogno, ma anche con l’oculatezza della veglia. Il filo narrativo è il travagliato ritorno di Ulisse in patria. Ma in trasparenza, o in assoluta evidenza, passano altre favole e si compiono altri viaggi, come quello del puparo-cuntista, che rischia le possibilità espressive del suo mestiere, nel tentativo di “toccare” la realtà»

In questa operazione Mimmo inventa, letteralmente, un nuovo linguaggio: per la prima volta sulla scena si incontrano pupi e cunto, manianti e puparo, poemi omerici e opra. Se fino a questo momento le due tecniche espressive dell’opera dei pupi e del cunto convivevano nel personale patrimonio di Mimmo, adesso si confrontano in teatro, e qui è il pupo in paggio-Omero a narrare con i ritmi del cunto, incarnando, allo stesso tempo, il ruolo del puparo-regista. Cuticchio ha spesso sottolineato la funzione del cuntista come puparo senza pupi, un “guerriero a mani nude” (nota Ruffini) che spoglio di qualsiasi strumento e orpello deve, narrando, far immaginare e far credere. Ciò che è affascinante nell’ Urlo del Mostro è la funzione svolta dal pupo, come narratore e maestro esso ha trovato una nuova collocazione nel piccolo bocca-scena del teatrino, da cui risuona la sua nuova realtà. Le radici a cui Mimmo è legato non vengono, quindi, sostituite ma rivalorizzate e

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impiegate per altri significati, pupi e cuntista assumono una presenza scenica differente (“il personaggio “morto” (…) ritrova il proprio doppio” Kantor).

Questo gioco di conservazione e rinnovamento delle proprie radici è manifesto anche nell’uso del dialetto, affidato ai personaggi-compagni di Ulisse, mentre Omero parla in italiano che è il portatore dell’intera storia. Un altro sconfinamento57 è la presenza di due manianti, i due aiutanti a cui spetta il compito di interpretare Telemaco e che, in alcuni momenti, recitano litanie e canzoni infantili che sono i ricordi dei due autori (Cuticchio e Licata). Rivelandosi al pubblico, mostrandosi vicino al puparo, un tempo unico detentore delle voci di tutti i personaggi, essi spezzano un incantesimo, l’antico mistero del dietro le quinte del teatrino, ma contribuiscono a crearne un altro: il mistero della trasformazione. Quando il personaggio-Ulisse parte per le sue avventure, i due manianti trasformano il teatrino, davanti a tutti, in barca, quella su cui tutto un repertorio e una storia intraprenderà un nuovo viaggio.

È anche la prima volta che la tradizione dell’opera dei pupi tratta i temi omerici, e che incontra il narratore e il poeta per eccellenza, Omero. Visita Guidata si concludeva con la pazzia di Orlando, il guerriero e il folle che rappresenta il dolore, la solitudine e la lotta intellettuale del puparo, qui, attraverso la poesia di Omero, come “contrappeso alla follia dell’intelletto” (Kantor), è Ulisse, il viaggiatore e lo sperimentatore, a farsi portavoce delle intuizioni e delle inquietudini di Mimmo: mostri, fantasmi, avventure sono lo scenario entro cui si muove Cuticchio. Dalle macerie di una tradizione all’odissea di una nuova esistenza. Nell’Urlo del Mostro Ulisse non è un semplice pupo perché è sdoppiato dall’uomo-Mimmo, il quale è partorito, fisicamente, dal boccascena del teatrino; con grande impatto stilistico e discorsivo Mimmo fa il suo ingresso nel piccolo palcoscenico invadendolo con la sua gamba, affermando la sua nuova identità.

Franco Ruffini:

57

Cfr. Quaderno num.4: “In Mimmo, figlio d’arte, insieme con il culto della tradizione e il risentimento per

l’abbandono di un tale patrimonio da parte delle istituzioni culturali, convive e prevale il desiderio di dare nuovo respiro al repertorio poetico dei pupari e dei cuntisti, imboccando necessariamente altre vie, sconfinando”.

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«Il teatro è il paese in cui i contrari convivono, ci dice l’urlo muto di Helene Weigel; che nella fragilità del teatro sta la sua forza, ci dice lo schianto dei Giganti; che il vero teatro sta nella mente, ci dice l’inizio di Wielopole. Mimmo Cuticchio attore gigante- un colpo- tra i suoi pupi a misura d’uomo, ci dice che la vita del teatro è “lotta di tradizioni”».

Mimmo-Ulisse infatti, nella scena degli inferi, incontra il padre, un grande maschera con tante teste (come l’antica figura di Demorgene, il re dei maghi); rappresentando questo riavvicinamento egli si riappropria di una paternità per ribaltare i ruoli, solo partendo dall’oblio può ricominciare il suo viaggio.

«Un momento importante per me è quando Ulisse-Cuticchio scende nel regno dei morti e incontra il padre. In quel momento mi confronto con il padre-maestro, verso il quale provo un sentimento di riverenza ma al quale ho dovuto voltare le spalle per intraprendere il mio viaggio. (…) A sancire questo nuovo rapporto con le mie radici, nel segno di un nuovo viaggio, concludevo lo spettacolo facendo ascoltare una registrazione con la voce di mio padre; così lui diventava il mio Ulisse-maestro e io il suo Telemaco».

Le trasmigrazioni di Cuticchio continuano, fino ad imbattersi nel mondo dell’opera lirica; dalla fascinazione della parola alla fascinazione della musica, due linguaggi aperti e ineffabili che comunicano sul palcoscenico, ancora una volta luogo del possibile.

Nel 1999 Mimmo mette in scena Storia di Manon Lescaut e del cavaliere Des Grieux, con le musiche di Giacomo Puccini. In realtà già nel 1983 Mimmo ebbe il suo primo approccio con l’Opera lirica, quando fu chiamato da Roberto Bacci al festival di Santarcangelo con la storia di Tosca, di Sordou (con musiche di Puccini); spettacolo riproposto in occasione della riapertura del

Teatro Massimo di Palermo. In questo frangente il critico teatrale e referente dell’Associazione Teatro Scuola di Palermo, Francesca Taormina, chiede a Mimmo di realizzare una versione di Manon Lescaut. Una novità di questo spettacolo è l’essere nato come opera su commissione e non

da un progetto o da un’esigenza personale di Cuticchio. Questo è un segno che l’arte del puparo e cuntista comincia ad essere percepita come materia teatrale elastica e creativa a più livelli, non esclusiva del teatrino per pupi. Nell’allestimento di Manon Mimmo affronta diverse difficoltà, così

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come per altri allestimenti per la grande scena, perché non possiede un proprio spazio dove provare, ideare rappresentazioni più complesse, che il teatrino-laboratorio non può contenere. Tutto quello che assume forma sul palcoscenico è prima ideato, monitorato e cucito nella sua mente, e solo occasionalmente ha a disposizione un altro luogo dove poter verificare o meno la funzionalità delle sue intuizioni sceniche. In fondo la lotta di Cuticchio per un’autonomia economica, avviata con l’esordio della “Compagnia Cuticchio”, è anche una lotta per la propria libertà creativa. La sapienza del puparo, il complesso delle tecniche mnemoniche e narrative, ed un immaginario profondo e avvezzo alla propria magmaticità, alla fine lo sostengono in questa operazione di creazione nella povertà e nella precarietà dei mezzi spaziali.

La drammaturgia dello spettacolo prevede la promiscuità tra pupi e cantanti lirici veri, oltre al gioco di sdoppiamento e scambio di ruoli fra Mimmo e i suoi personaggi-pupi, nella cui partitura il cunto, della storia tratta da Prévost, è la linea narrativa, a volte comica e a volte tragica, che garantisce una continuità nel percorso visionario del regista, che “riesce ad unificare l’anima popolare del melodramma con quella del teatro dei pupi”. In uno spostamento concettuale, la corporeità dei

personaggi non è affidata alle persone dei cantanti ma alla drammaticità dei personaggi-pupi, infatti i cantanti rappresentano non il doppio dei pupi ma la loro anima, i loro sentimenti e travagli. L’espressività terrena è dei pupi attorno a cui si agitano spiriti, voci, proiezioni di immagini, oggetti scenici che si trasformano continuamente. In Manon pupi e marionette non sono apparizioni ma attori immedesimati ed estatici, portatori di storie senza tempo, e per questo vicine ad una sensibilità contemporanea.

Nel 2002 Cuticchio approda al Don Giovanni all’Opera dei pupi, altro significativo esempio di sconfinamento e di contaminazione di tecniche. Per l’analisi di questo spettacolo vorrei riportare

una sezione del dialogo con Cuticchio a Palermo, in cui si può comprendere, in parte, la sua modalità di ideazione e creazione di uno spettacolo, e cogliere alcune caratteristiche della visionarietà e polivalenza della drammaturgia scenica e personale di Mimmo.

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Mimmo: Per adesso sto sperimentando, sono in fase di pensiero, siccome io non scrivo a tavolino, ma prendo appunti, soprattutto leggo e viaggio. Sperimentare in tanti modi uno spettacolo credo che sia un po’ come, per esempio, il teatro elisabettiano. Shekespeare girava con la compagnia, lui scriveva, dava battute, dava copioni, poi cambiava, tagliava, accorciava, allungava. Infatti arrivano a noi i copioni scritti per la scena, non come quelli di Pirandello, che li pubblicava. Io lavoro, penso, più in quel modo, lavoro sulle idee sceniche, sui testi che poeticamente e umanamente mi toccano. Parto dal testo e arrivo al mio teatro di gioco. Metto il gioco e la gioia insieme alle cose drammatiche della vita. Perché il ballo con i pupi che hai visto tu (nello

spettacolo) non è che il Mimmo Cuticchio bambino che vive tra i pupi da quando si ricorda. I pupi erano i

miei giocattoli, erano i miei compagni di gioco, assieme ai miei fratelli con cui ci vedevamo sul palco per giocarci. Per cui anche se io sono adesso un uomo, un adulto, mi libero in un’opera che è un’opera giocosa, è un dramma giocoso. Il problema iniziale di questo spettacolo è che avevo visto il Don Giovanni delle marionette di Salisburgo, che mi era piaciuto molto, a livello di messa in scena, ma non mi interessava farlo in quel modo. Lo spettacolo era anche ironico, c’era un maestro che rappresentava Mozart, e che giocava un po’ sulla scena. Poi tutto il resto era serio, la musica, le marionette rappresentavano il testo ecc. Quando ho dovuto affrontarlo io, l’ho montato una settimana prima dello spettacolo, perché prima è stato un continuo studiare e più leggevo più scoprivo altri Don Giovanni, e più pensavo che non mi interessava. Ero qui dentro con tutti i miei pupi appesi, e quando ero solo e avevo delle idee mi segnavo delle cose, siccome c’era una data e una scadenza non mi potevo nascondere, non potevo fare come con altri spettacoli miei che dicevo, va bé non sono pronto, non ho il tempo lo faccio un’altra volta. Questa volta avevo preso un impegno, un contratto. Lo dovevo fare, tanto che dissi ai miei familiari di non preoccuparsi perché se alla fine non mi veniva l’idea giusta avrei fatto il cunto. Rimarranno delusi perché non ho fatto una messa in scena con i pupi, però almeno salvo la faccia con il cunto, perché con il cunto me la sento di raccontarla da solo la storia. Invece poi quando a volte ero solo o con mio figlio Giacomo, mi giravo, guardavo i pupi e facevo loro delle battute “e tu chi talii?”, “tu chi talii?!”, “no iu ti rissi a tia tu chi talii?”, ”io staiu sintennu a tia chi si in

confusioni pi muntari u Don Giovanni”, “ah si, e tu comu u muntassi u Don Giovanni?”, “ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno avissi chianciri, avissi rirri”, ”e va bè non è che facile fari chianciri e fari rirri”58. C‘era questo gioco con i miei pupi che poi era con me stesso, erano le domande che io mi volevo fare e me le facevo attraverso i pupi, e soprattutto quei pupi di quando io ero bambino e che mio padre utilizzava per le farse. I personaggi della farsa sono legati alla mia infanzia, al dialetto siciliano, alle battute, all’animo popolare. Facevo parlare loro che non erano altro che il mio io, perché sì io potevo parlare con mio figlio della musica, dello spartito, delle belle voci, dei cantanti, perché mio figlio studia pure musica ecc., però la verità è che dentro di me avrei voluto dire le cose che dicevano i pupi di farsa. A questo punto ho capito che quella era la via, qui a salvare la faccia dovevano essere loro.

Io: […]nello spettacolo ho visto un gioco a più livelli, per esempio tu che sei di spalle e dai vita a dei pupi che…

58

“Che guardi?”- “Tu cosa guardi?”- “No, io ho detto a te che guardi!”- “Io sto sentendo te che sei in confusione per montare il Don Giovanni”- “Ah sì, e tu come lo monteresti?”- “Ma se è un’opera giocosa e drammatica, uno dovrebbe piangere, dovrebbe ridere”- “E va bene, però non è facile fare piangere e far ridere”.

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Mimmo: Posso risponderti subito. Prima sono dietro le quinte e faccio il canto “vitti na crozza”59, fatto con l’antica voce dei carrettieri (una musicalità della voce siciliana), per attirare il pubblico, e anche perché “vitti

na crozza” ha un legame con la storia di Don Giovanni che comincia proprio da una piccola favola su un

teschio. Per me tutti i conti tornano, non ci sono dubbi. Poi nomino ‘Mpeppennino60 che rappresenta anche me stesso, bambino, è infantile come tutti bambini che venivano al teatro di mio padre e chiedevano continuamente cose, che partecipavano. C’erano anche gli adulti che facevano come ‘Mpeppennino, non erano solo i bambini, che chiedevano “ma stasira cè Rinardu?”, “no, nun cè”, “allura nun viegnu, rumani

assira viegnu, picchì a mia mi piaci Rinardu”61. Succedeva di tutto quando ero bambino io. Allora

‘Mpeppennino chiama Mastro Ramunno62, perché lui ama il cunto e questo significa anche che Mimmo Cuticchio oggi fa il cunto e molti vengono da me perché gli piace il cunto. Allora ‘Mpeppennino aspetta il cuntista come il ‘Mpeppennino di oggi, il giovane di oggi che non sa niente di me, o l’amatore, o quello che si intende di teatro, che gli piace il cunto ma non sa che dietro l’arte dei pupi c’è una grande teatralità. Allora che faccio io? Gli faccio dire a ‘Mpeppennino “ma Mastro Ramunno, viene?”, come dire “ma stasera

Mimmo Cuticchio fa il cunto?”, e l’oste dice “non ti preoccupare, quello all’orario è sempre qua e comincia puntuale e chi c’è c’è”; questo era ciò che anche mio padre diceva, che all’orario bisognava cominciare, non

bisognava mai aspettare nessuno, “chi c’è c’è, noi dobbiamo isare u tiluni, u sipariu all’orario”63. Quindi mi vengono in mente tutte queste frasi di mio padre. Quando poi, in questo spettacolo, esco dalle quinte, lo faccio da Mimmo Cuticchio, esco anche per dire al pubblico “ora giochiamo a carte scoperte, volete che

Mimmo vi faccia il cunto, e io ve lo faccio, però poi ascoltate anche un’altra storia che vi propongo io”, e gli

faccio quei dieci minuti di cunto sul duello di Orlando e Rinaldo e Gattamugliere.

Io: È interessante la sovrapposizione di immagini, quelle del racconto di Leporello e quelle dei paladini che sono poi ciò che vedono in quel momento i popolani, quando Leporello elenca le donne deluse…

Mimmo: Questo è ciò che diviene man mano drammaturgia, per ora io ti sto spiegando il viaggio, visto che tu dici “come si monta lo spettacolo?”, se non ho preparato un copione prima come lo monto. Quindi avevo trovato questo rapporto con i pupi e andavo mettendo dentro tutto una serie di elementi, ti sto spiegando anche il sotto, la doppia linea, quella drammaturgico-teatrale e quella drammaturgico-personale che rientra nei ricordi della mia infanzia, nel vissuto con mio padre e con la mia famiglia. Allora io faccio Mastro

Ramunno, mi sono preso questo nome che è anche per me un nome mitico perché io Mastro Ramunno non

l’ho mai sentito raccontare, però quando io ero da Celano, quando stavo a bottega da lui, lui mi diceva sempre che Mastro Ramunno quando faceva i duelli faceva vedere le cose, quando descriveva i duelli a cavallo con le lancie ecc. Io sentivo sempre parlare di questo Mastro Ramunno che ho conosciuto una volta, prima che lui morisse, perché era passato vicino a dove abitava Celano, in via Scippatesta al Capo, e Celano me lo fece conoscere. Quindi io lo conobbi così, vecchio e di passaggio ma non l’ho mai sentito, per cui per me Mastro Ramunno era l’Omero della situazione. Perché mentre Genovese, Celano, Totò Spataro e i vari

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“Ho visto un teschio”

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Pupo-personaggio della farsa

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“Ma stasera non c’è Rinaldo?”- “No, non c’è!”- “Allora non vengo, vengo domani sera perché a me piace Rinaldo”

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Mitico puparo palermitano.

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