• Non ci sono risultati.

CAPITOLO SECONDO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO SECONDO"

Copied!
86
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO SECONDO

I REATI DI BANCAROTTA

SEZIONE I

Profili generali

1. Il bene giuridico tutelato

La questione relativa all’individuazione del bene giuridico tutelato dai reati fallimentari è complessa. La dottrina penalistica sul tema risulta essere, da sempre, caratterizzata da un coacervo di opinioni che ancora oggi non è stato districato.

Secondo l’opinione prevalente -tanto in dottrina1 quanto in giurisprudenza2 - la bancarotta è un delitto contro il patrimonio; un delitto che aggredisce gli interessi patrimoniali dei creditori, danneggiandoli o ponendone comunque in pericolo la soddisfazione. Il precursore di questa linea di pensiero è G. Delitalia.

Detta opinione, per altro, si diversifica al suo interno. Così, l’oggetto giuridico dei reati in esame, da alcuni autori viene ravvisato nel diritto di

1 L. CONTI, Trattato di diritto commerciale, (A CURA DI F. GALGANO), I Reati fallimentari, Cedam, Torino, 2001, cit., 527; G. DELITALIA, Contributo alla determinazione giuridica del reato di bancarotta, ora in Diritto penale.

Raccolta degli scritti, II, , Milano, cit., 723; Ambrosetti , Mezzetti , Ronco ,

Diritto penale dell’ impresa. Quarta edizione. I reati fallimentari, Bologna ,

2014, cit., 305; C.PEDRAZZI, A.ALESSANDRI, L.FOFFANI, S.SEMINARA, G.SPANOLO, in Manuale di diritto penale dell’impresa, I reati fallimentari ed. II, cit. 101.

2 Cass., Sez. V, 30 novembre 2006/ 31 gennaio 2007, n. 3615, De Paola, in Ced.

(2)

garanzia che i creditori vantano sul patrimonio del debitore; da altri nel diritto alla egualitaria distribuzione dei beni dell’imprenditore fallito; secondo i più nel diritto di credito vantato dai soggetti che hanno intrattenuto rapporti commerciali con l’imprenditore o con l’impresa, poi dichiarati falliti3.

Tuttavia, nonostante tali differenziazioni interne, le argomentazioni richiamate dai diversi autori sono omogenee: le norme penali in tema di bancarotta fraudolenta sono complementari rispetto alle norme civilistiche. Nell’ambito del diritto privato la tutela preventiva del credito è data dai «mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale», in campo penale è invece rappresentata dall’incriminazione delle condotte di bancarotta4.

Contro la concezione patrimoniale -sopra esposta- è stato osservato come vi siano ipotesi di bancarotta- prima fra tutte la bancarotta documentale- che non tutelano alcun diritto di credito; ancora è stato rilevato come la violazione di un diritto di credito non si identifichi in un requisito necessario dei reati in esame.

In particolare, il Santoriello avanza due tipi di obiezione. In primo luogo accusa la teoria in esame di interpretare erroneamente gli artt. 216 e ss., L.F., in quanto concentra l’attenzione esclusivamente sulle condotte tenute

3 G. DELITALIA ritiene che l’art. 216 l.fall. tuteli il diritto di credito sotto un

triplice profilo: a) contro gli atti di illecita disposizione del patrimonio posti in essere dal debitore, tutela che si rinviene in art. 216,1°c, lett. A; b) contro la violazione dell’obbligo di ostensibilità del patrimonio, che è imposto dalle disposizioni riguardanti le scritture contabili, la tutela la si ha in art. 216,1°c lett. B; c) contro gli atti di alterazione della par condicio creditorum, in tal caso la tutela penale è rinvenibile in art. 216,3°c. Per un maggior approfondimento si veda L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, in Diritto penale, Raccolta

degli scritti, II, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 840.

4 C. PEDRAZZI, A. ALESSANDRI, L. FOFFANI, S. SEMINARA, G.

SPANOLO, in Manuale di diritto penale dell’impresa, I reati fallimentari ed. II, cit.,102.

(3)

dal soggetto attivo, tralasciando completamente il rilievo che nella struttura dell’illecito assume la dichiarazione di fallimento. In realtà, tale elemento non è privo di rilevanza ai fini dell’individuazione dell’oggettività giuridica dei reati in parola, infatti l’imprenditore, prima dell’intervento della sentenza dichiarativa di fallimento, può disporre liberamente di tutti i suoi beni a prescindere «dall’esistenza di obbligazioni alla cui garanzia quei beni risultano vincolati (...) ed a prescindere dall’eventuale stato di insolvenza e decozione in cui può versare l’impresa da lui gestita»5.

Le condotte tenute dall’imprenditore potranno essere oggetto di sindacato penale solo dopo che sia intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento e, in seguito a tale declaratoria, potranno eventualmente assumere carattere di illiceità.

In secondo luogo, si imputa ai sostenitori di tale concezione un’errata interpretazione dell’art 2740 c.c.; infatti, tale articolo costruisce la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore non nel momento di assunzione dell’obbligazione ma nel momento in cui questa non sia regolarmente adempiuta: «con tutti i suoi beni presenti e futuri risponde non genericamente il soggetto passivo del rapporto obbligatorio, ma solo colui che volontariamente non abbia adempiuto l’obbligazione »6.

Di conseguenza, fino a che il creditore non ha intrapreso azioni di aggressione sul patrimonio del debitore su quest’ultimo non grava alcun vincolo in ordine alla facoltà di disporre del proprio patrimonio. Con la conseguenza, secondo questa lettura critica, che il << bene giuridico tutelato dai reati fallimentari non è identificabile nel patrimonio dei creditori sociali, giacché tale bene, in presenza dei medesimi

5 C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Torino, cit., pag. 8.

6C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, ed. Giappichelli, Torino, cit., pag. 8.

(4)

comportamenti, non trova protezione alcuna fino a che non sia intervenuto l’accertamento giurisdizionale dello stato di insolvenza dell’impresa e gli stessi interessi patrimoniali dei creditori, nell’ ambito delle fattispecie criminose in parola, non vengono tutelati di per sé, ma solo in quanto si inseriscono in una procedura fallimentare o concorsuale>>7.

Un orientamento di segno diverso, prevale, invece, nella dottrina commercialista8. Si parte dal presupposto che i diritti dei creditori siano già pienamente salvaguardati dal diritto civile, attraverso la disciplina dell’istituto fallimentare, e che, di conseguenza, l’oggetto della tutela penale debba essere diverso. Esso viene identificato nel corretto andamento delle relazioni economiche. L’argomento richiamato dai vari autori a sostegno di tale tesi, è il seguente: posto che è intrinseca alla stessa attività di impresa la richiesta di credito, e che ordinariamente l’imprenditore fa ricorso a finanziamenti per poter portare avanti la propria attività, nel momento in cui lo stesso non è più in grado di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni c’è il rischio che il virus dell’insolvenza si propaghi, andando a contagiare anche altre imprese, e così il problema da individuale diventa collettivo, mettendo in pericolo, in questo modo, l’intera economia pubblica.

Orbene, sicuramente la tesi in questione ha un fondo di verità9. E’stato però criticamente osservato come gli interessi della pubblica economia, seppur non del tutto ignorati dal legislatore “restino comunque sullo sfondo e non appartengono al nucleo indefettibile dell’oggettività

7C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, ed. Giappichelli, Torino, cit., pag. 9.

8 A. CANDIAN, Della bancarotta, in Riv. Dir. Comm., 1935, I, p. 218; G.

NOTO SARDEGNA, I reati in materia di fallimento, Priulla, Palermo, 1940, pag. 63.

9 C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 10; C. PEDRAZZI, I reati

(5)

giuridica: sia perché coinvolti in via soltanto eventuale; sia perché pregiudicati in via indiretta, tramite l’offesa ai diritti dei creditori. La perturbazione macro economica, quando si riscontra, non è che l’ulteriore ripercussione del sacrificio inflitto ai creditori”10.

In secondo luogo, è molto difficile comprendere cosa si intenda per economia pubblica, essendo questo un concetto astratto, evanescente, cosicché il suo utilizzo potrebbe mettere in pericolo il principio di determinatezza, non agevolando la comprensione e l’interpretazione della norma. Di conseguenza, individuando il bene giuridico nella «pubblica economia» si rischia di facilitare, attraverso il ricorso all’interpretazione teleologica, un ampliamento delle condotte incriminabili. A tal proposito, Pedrazzi osserva che «la dilatazione dell’oggettività giuridica alla pubblica economia non è affatto indolore, stimolando una tendenza estensiva nell’interpretazione delle fattispecie delittuose, piegate ad una funzione dirigistica»11.

Infine, Santoriello rileva come tale teoria confonda il danno derivante dal fallimento o dallo stato di insolvenza del debitore con il danno derivante dalle condotte di bancarotta: il fatto di bancarotta non può danneggiare l’economia pubblica, in quanto si sostiene che “per quanto grave possa essere la condotta posta in essere, non avrà mai efficacia lesiva tale da danneggiare gli interessi patrimoniali dell’intera collettività”12.

Una terza concezione è stata affermata da Nuvolone che, con ampie

10Testualmente C. PEDRAZZI, A. ALESSANDRI, L.FOFFANI, S.SEMINARA,

G.SPANOLO, in Manuale di diritto penale dell’impresa, I reati fallimentari ed. II, cit., pag.113.

11C. PEDRAZZI, I Reati commessi dal fallito, cit., pag. 9.

12 C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., pag. 10

.

(6)

argomentazioni, ha evidenziato come la bancarotta debba essere considerato un reato contro l’amministrazione della giustizia . Tale linea di pensiero ha trovato diffuso appoggio nella dottrina penalistica13.

Il Nuvolone afferma la sua teoria partendo da una critica rivolta alla concezione patrimonialistica della bancarotta: l’autore, infatti, ritiene che la tesi in questione interpreti erroneamente l’art. 2740 c.c. In realtà, i creditori non hanno alcun diritto a che il debitore conservi il proprio patrimonio, posto che, al sorgere del rapporto obbligatorio, essi hanno semplicemente diritto a ricevere la prestazione dovuta e dunque la controparte può disporre liberamente dei propri beni. Il diritto alla conservazione della garanzia patrimoniale nasce successivamente, quando, il debitore viene meno al suo obbligo, risultando così inadempiente. Fino a che la violazione del dovere non si verifica, i creditori possono semplicemente ricorrere ai «mezzi di conservazione della garanzia», strumenti cautelari nella disponibilità dei creditori, approntati dal legislatore per proteggerli da un eventuale inadempimento.

Negata la sussistenza di un diritto di garanzia preesistente all’inadempimento, il Nuvolone ritiene di dover spostare i termini del problema in ambito fallimentare. Infatti, i comportamenti sanzionati dai reati di bancarotta assumono rilevanza sul piano penalistico solo laddove siano commessi prima o durante le procedure concorsuali. Proprio guardando al diritto fallimentare emerge il fondamento concorsuale dei reati in esame: in tale ambito,infatti, i creditori non sono tutelati individualmente ma come categoria, cosi l’interesse sotteso alla fattispecie è «il raggiungimento degli scopi delle procedure concorsuali», ossia quello «pubblicistico al massimo soddisfacimento di tutti i creditori

13vedi per tutti: C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit. pagg.10 ss.

(7)

secondo i criteri della par condicio»14. Laddove l’imprenditore integri le condotte di cui all’art. 216 l.fall, i creditori vedrebbero pregiudicato il pieno soddisfacimento dei crediti vantati, posto che, quella parte di patrimonio che è stata distratta, occultata, dissimulata, distrutta o dissipata non entrerà a far parte dell’attivo fallimentare; così come non si avrà il rispetto della par condicio creditorum laddove l’imprenditore abbia eseguito pagamenti preferenziali o simulato titoli di prelazione. Si sostiene che i falsi documentali siano predisposti alla tutela di un interesse processuale alla veridicità della prova. Ecco allora che i delitti in questione sono qualificabili come reati contro l’amministrazione della giustizia.

Il bene giuridico così individuato sarebbe proprio, tanto della bancarotta prefallimentare, quanto di quella postfallimentare. Tuttavia, mentre in riferimento alle condotte successive alla dichiarazione di fallimento non sussistono problemi di determinazione, discorso diverso vale per le condotte antecedenti. Più specificamente: si è detto che la fattispecie di bancarotta ha un fondamento concorsuale, ma che prima della dichiarazione di fallimento i creditori non costituiscono ancora una massa. Come si fa allora a capire quali delle condotte prefallimentari sono suscettibili di assumere rilevanza penale una volta intervenuto il fallimento? Ovviamente non si può retroagire all’infinito sanzionando ogni atto di disposizione compiuto dall’imprenditore -prima del suo fallimento- ritenendolo lesivo o pericoloso nei confronti di un qualcosa che ancora non esiste: la massa creditoria. Per risolvere il problema, Nuvolone ha introdotto la c.d. «zona di rischio penale», affermando che la legge può considerare esistente la massa anche prima che si apra la

14 P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure

concorsuali, Milano, 1955 cit., pag. 24.

(8)

procedura concorsuale, a condizione però che si presenti lo stesso presupposto richiesto per la dichiarazione di fallimento: l’insolvenza. Ecco allora che il problema di determinazione delle condotte prefallimentari sembra risolto: assumono infatti rilevanza penale solo le condotte rientranti nella «zona di rischio penale» -id est le condotte tenute in uno stato di insolvenza-, mentre sono del tutto irrilevanti quelle poste in essere da un imprenditore commerciale in bonis. Infatti l’interesse tutelato può subire un pregiudizio «solo quando vi sia il presupposto della procedura fallimentare, e cioè lo stato di insolvenza»15.

L’ultima e più innovativa concezione sul tema in esame è quella sostenuta da Francesco Antolisei. L’affermazione di tale prospettazione, incardinata su una visione plurioffensiva delle ipotesi di bancarotta, prende avvio dall’analisi della concezione precedentemente analizzata. Antolisei sostiene che Nuvolone, per fondare la propria tesi, abbia dovuto sostenere che le norme incriminatrici considerano in ogni caso i creditori come massa.

Senza tale presupposto, infatti, non si potrebbe in alcun modo affermare l’esistenza di alcun vincolo processuale su beni del debitore e sui mezzi di prova.

Pur concordando con le argomentazioni del Nuvolone per i fatti di bancarotta post fallimentare, l’Antolisei esclude che la tesi in questione trovi applicazione per i fatti precedenti alla dichiarazione di fallimento; poiché la “formazione della massa dei creditori è senza alcun dubbio subordinata all’apertura della procedura concorsuale e nulla, proprio nulla, autorizza a ravvisarla prima di tale momento e cioè prima che i creditori siano giuridicamente unificati”. Cosicché il Nuvolone si sarebbe trovato costretto ad affermare che per la punibilità dei fatti di bancarotta

15Quasi testualmente P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre

(9)

prefallimentare, è necessario che al momento della commissione del reato si sia verificato il presupposto della procedura concorsuale: lo stato di insolvenza del debitore.

Tale conclusione solleva non poche perplessità circa la correttezza della costruzione, non potendo in alcun modo ammettersi che non siano punibili i fatti di bancarotta commessi dall’imprenditore prima di cadere in stato di insolvenza.

Proprio sulla base di tali considerazioni, Antolisei ritiene che tra i diversi interessi lesi dai reati di bancarotta rientri anche l’amministrazione della giustizia, e che tale lesione potrà essere prospettata solo laddove le condotte tipizzate avvengano dopo la dichiarazione di fallimento.

Il reato di bancarotta arreca danno anche alle ragioni creditorie e contestualmente anche all’economia pubblica, integrando una fattispecie criminosa plurioffensiva e non monoffensiva come affermato dalla precedente dottrina16 . Anche nei confronti delle affermazioni di Antolisei non mancano critiche. In particolare il Pedrazzi ritiene che interessi quali la pubblica economia e l’amministrazione della giustizia subiscano una lesione solo indiretta17.

A nostro avviso, è condivisibile la tesi18 che individua il bene giuridico protetto dai reati di bancarotta nel diritto di credito vantato dai creditori. Non si può negare che l’integrazione di una delle condotte tipizzate dalle fattispecie di bancarotta favorisca un pregiudizio alle ragioni creditorie.

16Così, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, tredicesima edizione, cit., pagg. 43 ss. .

17 PEDRAZZI, I reati fallimentari , cit., pag.103 s. .

18 C. PEDRAZZI, A. ALESSANDRI, L. FOFFANI, S. SEMINARA, G.

SPANOLO, in Manuale di diritto penale dell’impresa, I reati fallimentari ed. II, cit.,102.

(10)

Il creditore ha un interesse alla conservazione della garanzia patrimoniale, e per quanto il debitore sia libero di disporre del proprio patrimonio nel modo che ritiene più opportuno, incontra il limite dell’insolvenza.

Nel momento in cui si realizza tale condizione, il debitore non può più tenere comportamenti tali da pregiudicare l’espletamento proficuo dell’azione esecutiva da parte dei creditori.

Il legislatore ritiene tutelare l’interesse del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale tanto con disposizione civili (ex art. 67 L.F.,), quanto con disposizioni penali.

I reati di bancarotta proteggono indirettamente ulteriori interessi , tra i quali rientrano l’amministrazione della giustizia e l’economia pubblica , tuttavia, per stessa ratio del legislatore, tali beni giuridici, per quanto rilevanti, , non possono assurgere a definire l’oggettività giuridica dei reati in esame.

2. Il ruolo della dichiarazione di fallimento nei reati pre- fallimentari e post- fallimentari

Da sempre nella materia fallimentare la sentenza dichiarativa di fallimento assume un ruolo di rilevante importanza. Gli artt. 216 e 217 l.f. prevedono infatti che risponda di bancarotta fallimentare oppure di bancarotta semplice l’imprenditore che ha commesso uno dei fatti descritti negli articoli sopracitati “se è dichiarato fallito”.

Ne risulta che per l’integrazione delle fattispecie non basta la commissione dei fatti anzidetti, come non basta da solo il fallimento: è indispensabile il concorso degli uni e dell’altro19.

La determinazione del ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento in

19 F.ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, tredicesima edizione, cit., pag. 36.

(11)

tema di bancarotta post fallimentare trova una soluzione pacifica in dottrina e in giurisprudenza nel caso di bancarotta post fallimentare; infatti i due schieramenti ritengono che qualora i fatti di bancarotta siano commessi dopo l’apertura della dichiarazione fallimentare, questa debba essere ritenuta un presupposto del reato.

Molto problematica è, invece, la configurazione della dichiarazione di fallimento nella bancarotta prefallimentare.

Su questo punto da sempre si contrappongono due orientamenti consolidati: da un lato si colloca la giurisprudenza20, che assegna al fallimento il ruolo di elemento costitutivo del reato; dall’altro si pone, invece, la dottrina21, che rinviene nell’istituto una condizione di punibilità, secondo la nozione ricavabile dall’art 44 cod. pen. .

2.1 Elemento costitutivo del reato

La giurisprudenza, sulla scia tracciata dalla pronuncia a Sezioni Unite 25 gennaio 1958 n.2, ha da sempre qualificato la dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo del reato.

Tale affermazione poggia sulle argomentazioni che seguono.

La prima argomentazione, sostenuta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, fa riferimento alla necessità di tutelare il diritto dell’imprenditore alla libera gestione della propria impresa, gestione che non può essere sindacata dal giudice penale fino al realizzarsi dell’insolvenza.

20

Tra le molte sentenze in merito si richiama qui, a titolo esemplificativo, Cass., Sez. Un., 25 gennaio 1958, n.2, in Giust. Pen., 1958, II, pagg. 513 ss. .

21 cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II,

tredicesima edizione, cit., pagg. 48 ss; PEDRAZZI, I reati fallimentari , cit., pag. 105.

(12)

Infatti, le condotte dell’imprenditore sono sussumibili sotto le figure tipiche che sostanziano il reato di bancarotta esclusivamente nel contesto dell’avvenuto fallimento, mantenendo, in assenza di tale dichiarazione, la natura di atti penalmente leciti, privi dell’autonomo disvalore idoneo a giustificare un intervento sanzionatorio penale. In altri termini, per quanto possa apparire dissennata, la politica gestionale dell’impresa da parte dell’imprenditore rientra sempre nella sua sfera di libertà e come tale sfugge da una possibile incriminazione sul piano penale.

Tale libertà, però, trova il limite dell’insolvenza, cosicché, una volta intervenuto il fallimento -e creatosi un danno per i creditori- emerge la natura illecita degli atti precedentemente compiuti.

La tesi giurisprudenziale che individua nella dichiarazione di fallimento un elemento costitutivo del reato, si fonda, altresì, sul ruolo dell’assoluta centralità che tale procedura concorsuale assume nell’ambito dei reati fallimentari. Poiché essa partecipa così intensamente alla descrizione dell’offesa, fondendosi con le condotte tipiche realizzate dal soggetto agente, non si potrebbe fare a meno di assegnarle un ruolo egualmente significativo all’interno della fattispecie incriminatrice. Chi attribuisce alla sentenza di fallimento il ruolo di condizione obbiettiva di punibilità, finisce con il marginalizzare eccessivamente un elemento che è invece centrale per l’integrazione del disvalore, di cui è portatrice la fattispecie incriminatrice. Occorre però mettere in evidenza che, il suddetto elemento secondo la giurisprudenza non costituisce né l’evento, né la condotta del reato fallimentare, concretizzando un tertium genus di dato oggettivo , di cui tuttavia la stessa giurisprudenza ha difficoltà a precisare la natura, evitando così qualsivoglia qualificazione. Tale linea interpretativa esclude, categoricamente, che la sentenza dichiarativa di fallimento, quale elemento costitutivo del reato, possa assurgere al ruolo di evento naturalistico della fattispecie; ciò soprattutto sulla base del fatto che l’

(13)

espressione «se dichiarato fallito» non può essere ritenuta idonea a descrivere un nesso eziologico tra la condotta e il fallimento. Questo è comprovato in primis da un argomento di tipo letterale, e cioè il significato delle parole esclude che vi sia un rapporto di derivazione causale; e in secundis da un argomento di tipo sistematico. Come si può dedurre dall’art 223 co. 2 l.f, quando ha voluto richiamare un rapporto causale con l’avvenuto fallimento, il legislatore lo ha fatto esplicitamente, attraverso l’enunciazione del verbo «cagionare».

Pertanto, nei casi di cui all’articolo 216 l.f., il giudice dovrà esimersi dall’accertare la sussistenza del nesso causale.

Non solo. Il giudice non dovrà procedere neppure all’accertamento del nesso psicologico -tra fatti di bancarotta e stato di insolvenza-, un collegamento in tal senso è infatti richiesto solo tra condotta ed evento22. Queste affermazioni della Suprema Corte hanno spinto la Cassazione a rivedere il tradizionale orientamento sopra riportato. Con la sentenza della sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, si è proceduto a qualificare la sentenza di fallimento non come elemento tout court della fattispecie, ma come evento naturalistico. Nel momento in cui si assegna alla sentenza dichiarativa di fallimento il ruolo di elemento costitutivo del reato sarebbe necessario prendersi carico delle conseguenze che tali affermazioni comportano e rispettare i corollari che ne conseguono: da un lato, la necessità di accertare il dolo anche con riferimento al fallimento e dall’altro, la necessità di indagare l’esistenza di un nesso eziologico tra le condotte tipizzate e il realizzarsi dell’insolvenza.

22 Cass., sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, per il commento si veda F. D’ALESSANDRO, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di

fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni

tradizionali, pubblicato in data 8 maggio 2013, sul sito www.penalecontemporaneo.it.

(14)

Le argomentazioni utilizzate a sostegno di tale interpretazione sono due:

in primis, si ritiene che la sentenza dichiarativa di fallimento non sia una

condizione obiettiva di punibilità ma un elemento costitutivo del reato, che, in quanto tale, non può che essere l’evento, dato che «non esiste un elemento costitutivo del reato, successivo alla condotta, che non richieda un legame eziologico con essa»; in secundis, si fa riferimento all’ aleatorietà della sanzione penale quale conseguenza del mancato accertamento dell’esistenza del nesso causale.

In merito al primo argomento, la dottrina23 ha affermato che le ragioni a sostegno dell’argomentazione della S.C. in realtà si fondino su una fallacia di tipo logico. Nella parte motivazionale si usa un sillogismo la cui premessa maggiore è data dal ruolo di elemento costitutivo del reato svolto dalla sentenza dichiarativa di fallimento, e la premessa minore è data dalla necessità che un elemento costitutivo cronologicamente successivo alla condotta sia l’evento. La conclusione è che il fallimento, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, sia l’evento, poiché successivo alla condotta. La fallacia, come evidenzia D’Alessandro, sta nel fatto che il sillogismo poggia su premesse discutibili che comportano automaticamente anche la discutibilità della conclusione. La premessa maggiore è viziata perché dà per scontato che il fallimento sia elemento costitutivo della fattispecie: ma scontato non è. La declaratoria di fallimento potrebbe essere qualificata come condizione obiettiva di punibilità. La premessa minore è fallacie in quanto dà per scontato che un elemento costitutivo della fattispecie successivo alla condotta, sia l’evento, ma anche tale affermazione non è scontata.

Molti autori sostengono che elementi del fatto tipico non siano solo la condotta e l’evento, ma anche altri, tra cui, ad esempio, le condizioni che

23In particolare F. D’ALESSANDRO, op. cit

.

(15)

debbono sussistere perché il fatto possa realizzarsi24.

L’altra argomentazione richiamata dalla pronuncia è che se non si considerasse il nesso eziologico tra condotta ed evento, si arriverebbe all’ aberrante conseguenza di far dipendere la sanzione penale da fattori esterni alla volontà dell’imprenditore, tra cui la volontà o meno dei creditori di aderire ad una soluzione concordata25.

D’Alessandro critica anche questa impostazione della Suprema Corte, affermando che in realtà l’indagine sul nesso causale non risolve il problema ma anzi lo aggrava, poiché l’aleatorietà della sanzione in questo modo viene trasferita sul nesso causale. In particolare, D’Alessandro fa l’esempio di due imprenditori che tengano le condotte previste all’art 216, e mentre il primo scampa alla sanzione poiché i creditori acconsentano alla soluzione concordata, il secondo, non beneficiando del consenso dei creditori al piano concordato, viene riconosciuto autore del reato di bancarotta. Inoltre, si evidenzia come, una volta riconosciuta la multifattorialità del fallimento, l’accertamento del nesso causale in sede processuale sia tutt’altro che semplice: il fallimento può dipendere da una molteplicità di cause, spesso esterne e indipendenti dalla volontà dell’imprenditore, come ad esempio una crisi economica.

Indipendentemente dalle criticità rilevate dalla dottrina, la sentenza in esame è stata subito sconfessata da una successiva sentenza, pronunciata nello stesso giorno e dalla stessa sezione V, che ha ribadito l’orientamento tradizionale. In quest’ultima sentenza si afferma a chiare lettere che «la

24

Testualmente «non è detto che debbano considerarsi elementi del fatto solo condotta ed evento (legati dal nesso di causalità), ma debbano come tali considerarsi anche tutti quegli elementi, circostanze, condizioni che debbono sussistere perché il fatto possa delinearsi». In questo senso Bettiol, richiamato in G. COCCO, La

bancarotta preferenziale, come testualmente richiamato da F. D’ALESSANDRO,

op. cit.

25

(16)

punibilità della condotta di bancarotta per distrazione non è subordinata alla condizione che la stessa distrazione sia stata causa del dissesto, in quanto, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilevanza penale in qualsiasi tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza; né è rilevante, trattandosi di reato di pericolo, che al momento della consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato»26.

La Cassazione è tornata sull’argomento con la sentenza, Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 15613 sul caso Parmalat-Capitalia.

Con tale sentenza, la Suprema Corte ha nuovamente attribuito al fallimento il ruolo di elemento costitutivo della fattispecie, ricostruendo l’orientamento tradizionale e precisando i motivi per cui non condivide l’indirizzo contrario della sentenza Corvetta, precedentemente analizzata. Sono indicati ulteriori motivi giustificativi della correttezza dell’orientamento cui mostra di aderire. Di seguito si richiamano le parole della Corte: “va (...) chiarito come il genuino significato dell'orientamento giurisprudenziale che si è visto largamente maggioritario sia quello per cui, se la dichiarazione di fallimento attribuisce rilevanza penale alle condotte contemplate dall'art. 216 (essendo al pari di tutti gli elementi della fattispecie uno dei presupposti di tale rilevanza), non per questo può essergli attribuita anche un'efficacia -per di più retrospettiva- qualificante dei fatti di bancarotta sul piano dell'illiceità o addirittura della tipicità. Deve insomma ribadirsi, come da tempo affermato dalla più autorevole dottrina, che le condotte incriminate non sono prive di autonomo disvalore, anche prima della declaratoria giudiziale del fallimento. Conclusione, questa, suggerita dalla loro stessa configurazione normativa.

(17)

Infatti, termini come 'distrarre', 'dissipare', 'occultare', 'distruggere', 'dissimulare', o locuzioni come 'esporre passività inesistenti' (...) appaiono impregnati di una evidente connotazione negativa, rivelando l'intenzione del legislatore di selezionare per l'incriminazione soltanto comportamenti che, in quanto evocativi di una anomala gestione dell'impresa, risultino intrinsecamente idonei a mettere in pericolo l'interesse dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. violando il relativo dovere gravante sull'imprenditore. (…).

In definitiva, il disvalore intrinseco delle condotte tipizzate deve essere ricostruito in funzione della tutela penale del diritto di credito, che non si fonda sul mero inadempimento, bensì sulla responsabilità patrimoniale del debitore. Il fallimento non determina il disvalore della fattispecie ma ha la funzione di rendere l’offesa attuale e meritevole di pena. Infine, si afferma che la selezione dei comportamenti da sussumersi all’interno della fattispecie incriminatrice deve avvenire anche su un piano oggettivo- e non solo su quello soggettivo- attraverso la verifica dell’idoneità degli stessi a pregiudicare l’integrità della garanzia patrimoniale. Sul profilo soggettivo, tale idoneità deve essere quantomeno rappresentabile da parte dell'agente, anche quando egli non agisca con l'obiettivo di recare pregiudizio ai creditori, finalità invero non richiesta per la sussistenza del reato di bancarotta patrimoniale27. Ad opinione di chi scrive, le argomentazioni, contenute in tale sentenza, appaiono contraddittorie: anche se formalmente la Corte mostra di aderire all’orientamento da sempre affermato dalla giurisprudenza , le argomentazioni utilizzate dalla stessa per aderire all’orientamento tradizionale la conducono ad affermare

27Cass. Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 15613 per il commento vedi: LA CASSAZIONE

SUL CASO PARMALAT-CAPITALIA (E SUL RUOLO DEL FALLIMENTO NEL DELITTO DI BANCAROTTA) commentodi Carlo Bray, in Penale contemporaneo.

(18)

sostanzialmente quanto , da sempre , affermato dalla dottrina , la quale qualifica la sentenza di fallimento come condizione di punibilità del reato di bancarotta. Quindi, è sicuramente da accogliere con favore l’ultima pronuncia, in ordine di tempo, della Cassazione, intervenuta sull’argomento, in data 8 febbraio 2017. Con una decisione sicuramente storica, la Corte di Cassazione (sez. V penale – udienza 8 febbraio 2017- Presidente Fumo- Rel. De marzo) ha affermato che nei reati di bancarotta pre- fallimentare la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità. In tal modo i giudici di legittimità hanno mutato l’orientamento tradizionale, che qualificava il fallimento come elemento del reato, accogliendo, invece, la diversa impostazione sostenuta dalla dottrina . In attesa di conoscere le motivazioni della decisione, vista l’ importanza della stessa, si è ritenuto opportuno riportare l’ informazione provvisoria della Quinta Sezione della Corte di Cassazione , pubblicata in data 14 febbraio 201728.

2.2 Condizione di punibilità

Da sempre, la dottrina qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità. Già G. Delitala nel 1935 aveva affermato tale assunto. Secondo tale autore, “il fatto principale costitutivo del reato è rappresentato dall’atto di bancarotta e la condizione dal fallimento, poiché il fallimento può essere, a seconda dei casi, volontario o involontario. Il precetto legislativo non dice non fallire, ma più semplicemente non compiere uno dei fatti di bancarotta qui specificamente elencati, perché in caso di fallimento saresti punito29”.

28 La corte muta orientamento: la sentenza dichiarativa di fallimento, nella bancarotta pre- fallimentare , è condizione obiettiva di punibilità ( informazione provvisoria), pubblicata su www.penalecontemporaneo.it, 15 febbraio 2017

(19)

Si parte quindi dal presupposto che il disvalore delle fattispecie di bancarotta non sia integrato dalla dichiarazione di fallimento, ma dal compimento delle stesse condotte che tali fattispecie incriminatrici elencano. Sono quelle, ed esclusivamente quelle, che il legislatore vuole punire. Il fallimento ha esclusivamente la funzione di rendere punibili tali condotte, ponendo un limite alla tutela penale: limitazione che trova giustificazione in opportunità di carattere prevalentemente economico. Se l’imprenditore è ancora in bonis , e svolge perciò normalmente la propria attività, l’esercizio di un’azione penale in relazione a fatti di bancarotta potrebbe risultare nociva alla vita dell’impresa, aggravandone la crisi e aumentando le probabilità di un dissesto, che magari poteva ancora essere evitato.

La dottrina, in maniera unanime, riconduce la problematica in esame all’ istituto disciplinato all’art 44 c.p., ovvero alle c.d. condizioni di punibilità. Tuttavia, alcuni autori30 ritengono che si tratti di condizione di punibilità intrinseca, altri31 che si tratti di condizione di punibilità estrinseca.

La prima consiste in fattori portatori di un interesse solo formalmente estraneo da quello del reato, ma sostanzialmente del medesimo tipo; la seconda, del tutto estranei alla sfera di offensività propria del fatto tipico, svolgono la funzione di far interagire il disvalore della condotta con un accadimento esterno, in assenza del quale il legislatore preferisce non punire una condotta comunque connotata da profili di antigiuridicità e colpevolezza.

Secondo autorevole dottrina32, aderendo alla tesi che qualifica la sentenza

30Tra i vari, qui si richiamano C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 28;

P. NUVOLONE, Diritto penale del fallimento, cit., p. 42; F. ANTOLISEI, Leggi

complementari, cit., p. 169.

31 D’ALESSANDRO, op. cit., p. 13, Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, cit., p. 20 ;

CONTI , Trattato di diritto commerciale , I reati fallimentari , cit. 530.

32C. PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito, cit., pag. 20

(20)

di fallimento come condizione obiettiva di punibilità intrinseca, si rischia di intaccare la costituzionalità dei reati in parola. La stessa Corte costituzionale ha precisato come ai fini del rispetto dell’art 27 Cost. tutti gli elementi che concorrono a delineare il disvalore del fatto tipico devono essere oggetto di giudizio di rimproverabilità. In conclusione quindi non si può che aderire alla tesi che attribuisce al fallimento il ruolo di condizione obiettiva di punibilità estrinseca, essendo questa quella che più rispetta, in chiave garantistica, tanto la lettera dell’art 216 l.f, quanto il principio di colpevolezza espresso all’art 27 Cost. .

3. L’efficacia vincolante della sentenza dichiarativa di fallimento Un’altra importante questione suscitata dalla sentenza dichiarativa di fallimento, attiene alla sfera di efficacia che questa deve assumere nell’ambito del procedimento concernente uno dei reati di bancarotta di cui agli arti 216 co.1° e 217 co. 2° l.f .

Innanzitutto è opportuno sottolineare che la sentenza di fallimento, resa in sede civile, rappresenta nel nostro ordinamento un atto giurisdizionale dal quale il giudice penale non può prescindere, non potendo quest’ultimo procedere all’accertamento dello stato di decozione né in via autonoma né

incidenter ai meri effetti della decisione penale.

Il fallimento assume rilevanza esclusivamente come provvedimento giurisdizionale: questo trova conferma nella lettera della norma, in cui si usa l’espressione < se è dichiarato fallito>.

La sentenza civile rispetto al dato del fallimento vincola ad ogni effetto il giudice penale, il quale non può far altro che prenderne atto.

Un diverso profilo della pronuncia stessa attiene invece all’aspetto contenutistico, relativo alla valutazione di quei presupposti -in primis, la

(21)

qualifica di imprenditore commerciale- che sono valutati all’interno della sentenza emessa in ambito civile.

Ci si chiede se la valutazione circa quei presupposti possa essere messa in discussione dal giudice penale, oppure se anche quella abbia efficacia vincolante.

Sotto la vigenza del vecchio codice di rito, non c’era alcun dubbio che la dichiarazione di fallimento fosse vincolante nel processo penale. Ciò in base al presupposto, affermato dalla prevalente dottrina, secondo cui la decisione del giudice civile avrebbe accertato un vero e proprio status della persona e segnatamente quello di fallito33.

In questa prospettiva si riteneva, dunque, che la sentenza di fallimento facesse stato in ordine sia alla qualifica soggettiva di imprenditore commerciale, sia allo stato di insolvenza.

Anche la giurisprudenza giungeva alla medesima conclusione.

Dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito (1989), si è cominciato a impostare il problema in esame in modo differente. Infatti, l’art 2 c.p.p. ha enunciato il principio dell’autonoma cognizione del giudice penale riguardo alle questioni che si pongono in antecedenza logica rispetto alla decisione finale. All’art 3 c.p.p. si prevede che laddove vi siano questioni pregiudiziali inerenti a stato di famiglia o cittadinanza, al ricorrere di certe condizioni, si debba procedere alla sospensione del processo penale, con conseguente efficacia di giudicato del provvedimento civile. La disciplina riguardante la cognizione del giudice e delle questioni pregiudiziali, contenuta nel nuovo codice di rito, ha condotto dottrina e giurisprudenza a dividersi sul tema. Da un parte34, vi è chi ancora ritiene applicabile il principio che vigeva sotto l’ormai abrogato codice di rito e quindi ritiene

33 P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, cit., pag. 133. 34 C. SANTORIELLO, Reati di bancarotta, cit., pagg. 34 ss.

(22)

la sentenza dichiarativa di fallimento ancora oggi vincolante per il giudice penale. D’altra parte35, c’è chi invece afferma, sulla base della nuova disciplina, una soluzione diversa a quella prospettata precedentemente: la sentenza dichiarativa di fallimento, anche se irrevocabile, non fa stato nel processo penale e può così essere messa nuovamente in discussione dal giudice penale.

La soluzione di tale contrasto è stata apportata dalle Sezioni unite della Cassazione che, con sent. 28 febbraio 2008. n. 19601, ha escluso la possibilità da parte del giudice penale di sindacare il decisum della sentenza resa in sede civile, aderendo all’indirizzo più risalente, secondo cui deve ritenersi vincolante l’accertamento dello status di imprenditore commerciale compiuto dal giudice fallimentare, anche agli effetti della legge penale.

La sentenza ha affermato che lo status di fallito non rappresenta una questione pregiudiziale da cui dipenda la decisione sul reato di bancarotta, poiché detto status è diretto effetto della sentenza dichiarativa di fallimento che non è, per questo motivo, sindacabile dal giudice penale36. Parte della dottrina37 è ancora oggi critica rispetto a questa impostazione. In particolare, si afferma che non sia sufficientemente garantista escludere dalla cognizione del giudice penale elementi essenziali della fattispecie, che per loro natura, dovrebbero essere invece accertati all’interno del processo penale e nel rispetto delle garanzie per questo stabilite. La declaratoria di fallimento vincola il giudice penale ; tuttavia, questo non è privo di qualsivoglia potere di accertamento. Il provvedimento

35M. LA MONICA, Manuale di diritto penale commerciale, cit., pag. 245

.

36 Cfr. Cass., Sez.Un., 28 febbraio 2008, cit.

37 cfr. A. FIORELLA, M. MASUCCI, Gestione dell’impresa e reati fallimentari,

2014, pag. 27.

(23)

giurisdizionale civile è vincolante per quanto riguarda la qualifica di imprenditore commerciale fallibile che il soggetto riveste al momento in cui è dichiarato fallito -tale requisito non potrà più essere sindacato dal giudice penale - tuttavia quest’ultimo dovrà verificare che la qualifica fosse stata rivestita dal soggetto all’epoca della commissione dei fatti, giacchè «ai fini penali la qualifica deve risalire al tempo delle condotte tipiche»38.

Si rende necessario, infine, stabilire a partire da quale momento la sentenza dichiarativa di fallimento diviene vincolante per il giudice penale. E’ necessario attenderne il passaggio in giudicato?

La sentenza di fallimento è un provvedimento giurisdizionale provvisoriamente esecutivo anche quando sia proposto reclamo, di conseguenza, il procedimento penale può iniziare dal momento in cui questa sia stata pronunciata. Detto in altri termini: anche qualora sia proposta opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento, e quindi quest’ultima non sia divenuta irrevocabile, il procedimento penale può avere inizio. Nel caso in cui il reclamo contro la sentenza sia accolto, gli effetti prodotti dalla declaratoria di fallimento saranno immediatamente rimossi. Nell’eventualità in cui ci si trovi di fronte ad un’opposizione contro la declaratoria di fallimento, si aprono due possibilità: la prima è quella di consentire al giudice di sospendere il dibattimento ai sensi dell’art 479 c.p.p fino a quando la sentenza non sia divenuta definitiva; la seconda ipotesi è che si prosegua nel giudizio penale e qualora la sentenza di condanna intervenga prima, e successivamente il reclamo sia accolto e gli effetti del fallimento siano revocati, si consenta all’imprenditore condannato di esperire lo strumento della revisione.

Se si aderisce -come abbiamo affermato in precedenza- alla tesi secondo

38C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 41.

(24)

cui la declaratoria di fallimento deve essere considerata una condizione obiettiva di punibilità e non di esistenza giuridica del reato, al fine di evitare inutili sospensioni processuali, ben potrebbe il giudice penale pronunciare la propria sentenza, senza attendere che divenga irrevocabile la declaratoria di fallimento. Fermo restando il rimedio della revisione, a norma dell’art 630, lett. b) c.p.p , qualora la dichiarazione di fallimento venga revocata successivamente all’emanazione della sentenza penale di condanna per bancarotta39.

La giurisprudenza40, che invece ritiene la sentenza di dichiarazione del fallimento un elemento essenziale della fattispecie, non aderisce a questa conclusione, ritenendo che l’opposizione alla sentenza di fallimento, ove seriamente fondata, possa rientrare fra le ipotesi di sospensione del dibattimento ai sensi del art 479 c.p.p.. In tal senso si è affermato che l’imputato che voglia richiedere la sospensione -che ricordiamo rientra nella discrezionalità del giudice- debba fornire allegazioni in ordine alla serietà della questione civile41.

4. Il momento consumativo dei reati di bancarotta.

Dalla qualificazione che si attribuisce alla sentenza dichiarativa di fallimento nei reati pre-fallimentari dipendono molteplici conseguenze giuridiche: prima fra tutte l’individuazione del momento consumativo di tali reati.

39 C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., pag. 38.

40 Cass. Pen., sez. V, 5 aprile 2001, in Cass. Pen., 2002, 3504.

41Cass. pen. Sez. V, 05-02-1992, n. 3670

(25)

La dottrina prevalente42 e la giurisprudenza43 -pur in contrasto circa il ruolo da assegnare alla declaratoria di fallimento- sono comunque concordi nell’affermare che il tempus commissi delicti debba essere individuato nel momento in cui è pronunciata la sentenza di dichiarazione di fallimento, ai soli fini del decorso della prescrizione, sulla base della considerazione che, soltanto con il fallimento, le condotte tipizzate dalle fattispecie di bancarotta assumono il crisma di illiceità, divenendo penalmente rilevanti.

La dottrina minoritaria propone una visione contrastante con tale conclusione. Dato il ruolo di condizione di punibilità assegnato alla declaratoria di fallimento, i fatti realizzati avrebbero già un contenuto autonomo di disvalore, e che il fallimento interverrebbe solo per rendere la pena applicabile a comportamenti già tipici sul piano sostanziale; ne consegue che nell’ipotesi di bancarotta prefallimentare il tempus commissi

delicti dovrebbe essere individuato, non nel momento di emissione della

declaratoria, ma nel momento in cui le singole condotte incriminate si sono realizzate44 .

Sulla base di tali considerazioni, si arriva allo stesso risultato per quanto riguarda il decorso della prescrizione: la stessa decorrerà dalla data di pronuncia della sentenza di fallimento. Si giungerà a conclusioni diverse, invece, per quanto riguarda l’individuazione del locus commissi delicti, che sarà individuato nel luogo in cui tali condotte si sono manifestate. Non è detto che tale luogo coincida con quello di emissione della sentenza di

42 La decisione della Cass. Sez V penale, in data 8 febbraio 2017, nell’ affermare che la sentenza di fallimento nei reati pre fallimentari è condizione obbiettiva di punibilità ha precisato che: il momento consumativo del reato – anche ai fini della competenza territoriale e del decorso della prescrizione- rimane fissato nel momento e nel luogo ove tale condizione si verifica( tempo e luogo della dichiarazione di fallimento). Informazione provvisoria , pubblica in www. penalecontemporaeo.it, 15 febbraio 2017

(26)

fallimento, così l’ufficio competente ad accertare le condotte di reato potrebbe essere diverso dalla sede di tribunale competente a pronunciare sentenza di fallimento.

Non sussistono invece le medesime incertezze per l’individuazione del momento consumativo dei reati commessi dopo la dichiarazione di fallimento: esso coincide con il tempo in cui tali condotte sono state eseguite.

5. Il soggetto attivo

Con riguardo al soggetto agente del reato, si distingue fra reati di bancarotta propria e reati di bancarotta impropria, i quali trovano disciplina all’ art 223 l.f e ss.. In particolare, l’ipotesi di bancarotta propria è integrata quando le condotte tipizzate sono realizzate dall’imprenditore fallito (art. 216 l.f e 217 l.f) o soci illimitatamente responsabili di s.n.c o s.a.s (art 222 l.f). Al contrario, la bancarotta impropria si realizza se le condotte tipizzate dalla norma sono integrate da persone diverse dal fallito. L’art 223 L.F menziona fra i soggetti agenti gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori di società dichiarate fallite.

Il soggetto “principale” dei reati di bancarotta propria è l’imprenditore commerciale. Ciò si desume dal combinato disposto degli art 216 - 217 l.f con gli art 2082 e 2195 c.c.45.

Per determinare il soggetto agente dei reati in esame sono necessari due requisiti: la commercialità e la fallibilità. La nozione di commercialità la desumiamo dal collegamento fra l’art 2082 c.c. che definisce la qualifica di imprenditore, come l’esercizio professionale di un’attività economica

45 F. ANTOLISEI, Leggi complementari, cit., 78; A.FIORELLA, M. MASUCCI, Gestione dell’impresa e reati fallimentari , 2014, pag. 28; E.M. AMBROSETTI ,E. RONCO , M.MEZZETTI , in Diritto penale dell’ impresa . Quarta edizione. I

(27)

organizzata al fine della produzione e lo scambio di beni o servizi con l’ art 2195 c.c. dove troviamo un elenco di attività per le quali l’imprenditore è obbligato ad iscriversi nel registro dell’imprese; il criterio della commercialità, così delineato, serve ad escludere, dal novero dei soggetti agenti, l’imprenditore agricolo.

La nozione di fallibilità può essere desunta dall’art 1 l.f come modificato dal d.lgs 12 settembre 2007 n.169. Prima di tale intervento tale articolo si limitava ad affermare la non fallibilità del piccolo imprenditore e a dare una definizione valida agli effetti della sola legge fallimentare. Tale definizione, concepita esclusivamente in termini monetari, mal si coordinava con la definizione di piccolo imprenditore di cui all’art 2083 c.c., che descriveva tale soggetto in termini qualitativi.

Tale problema di coordinamento venne meno quando entrambi i criteri richiesti dall’ art.1 l.f. vennero soppressi: il primo, che prendeva come riferimento l’imposta di ricchezza mobile e qualificava come piccolo imprenditore chiunque avesse un reddito inferiore al minimo imponibile,- venne soppresso in seguito all’eliminazione di tale imposta; il secondo, che faceva riferimento al capitale investito, venne abrogato da una pronuncia di incostituzionalità del 1989.

A seguito di tale pronuncia, era rimasta in vigore la sola definizione codicistica di piccolo imprenditore individuale che però creava non pochi problemi pratici in sede di dichiarazione di fallimento: non era semplice, infatti, accertare in concreto i criteri che tale definizione prevedeva. Per queste ragioni, la riforma della legge fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169, ha reintrodotto nell’ art 1, 2° comma, l.f. un sistema di regole basato su criteri esclusivamente quantitativi. La nuova norma non definisce più il “piccolo imprenditore” ma individua alcuni parametri dimensionali dell’impresa, al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce. Il nuovo art.1 l.f. recita:

(28)

“Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

La nuova formulazione della norma ha comportato una riduzione della categoria dei soggetti fallibili e di conseguenza anche una diminuzione dei soggetti ai quali può essere addebitata responsabilità penale ex artt. 216 ss. L.F.. Tale riforma ha comportato una querelle nella dottrina penalistica circa il problema delle modificazioni mediate della fattispecie incriminatrice. A titolo esemplificativo, pensiamo a un imprenditore che, dichiarato fallito sotto la previgente disciplina, risultasse, a seguito della riforma “carente” dei requisiti in assenza dei quali a seguito della riforma del 2006, egli non potrebbe essere soggetto alle procedure concorsuali, col risultato di difettare della qualifica di imprenditore fallito46.

La domanda che si cominciò a porre la dottrina era se ci si trovasse di fronte a un abolitio criminis sancita all’art 2 , 2 ° comma c.p. .

La dottrina47 è unanime nel dare risposta positiva. La giurisprudenza, sul

46 testualmente F. ANTOLISEI, Leggi complementari, cit., pag. 85.

(29)

tema, ha proposto orientamenti discordanti. Il primo si è manifestato nella sentenza 17.5.2007 della V sezione della Suprema corte, nella quale si è affermato che “i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del dlg. 5 del 2006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare presenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore”.

Tale affermazione è stata sostenuta sulla base dell’applicazione della disciplina transitoria, prevista all’art 150 del suddetto dlg., applicabile, ad opinione della corte, anche in campo penale.

Poco dopo, con la sent. 21 novembre 2007 n. 43076, la V sezione della Cassazione ha affermato l’orientamento opposto. Con tale sentenza infatti la Suprema Corte ha ritenuto che l’intervenuta modifica del 2006 abbia comportato un’abolito criminis parziale, a prescindere dalla previsione di una disciplina transitoria ai sensi dell’art 150 del suddetto dlg. .

Si è creato così un contrasto giurisprudenziale che è stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con sentenza del 2008 hanno affermato l’orientamento meno favorevole all’imputato sulla base di tre considerazioni: l’efficacia vincolante della sentenza dichiarativa di fallimento per il giudice penale, la non incidenza dell’art 1 l.f sulla struttura del reato e l’operatività dell’art 150 del dlg. suddetto anche in campo penale.

5.1. L’imprenditore occulto

Sempre in tema di qualifica del soggetto agente, è opportuno segnalare il problema del c.d. imprenditore occulto ovvero colui che, anziché apparire 47 Ex multis: F. ANTOLISEI, Leggi complementari, cit., pag. 85.

(30)

come gestore dell’impresa di cui è titolare, operi nell’ombra facendo apparire un altro soggetto, persona fisica o società, che funge da prestanome.

Nel caso in cui integri le condotte incriminate dall’art 216 l.f., tale soggetto può essere chiamato a risponderne solo ed esclusivamente se si ammette la possibilità di poterlo dichiarare fallito.

La domanda da porsi è quindi la seguente: può l’imprenditore occulto fallire?

Sul punto si registrano due orientamenti dottrinali. Da una parte 48, c’è chi sostiene che nel nostro ordinamento, per l’integrazione della nozione di imprenditore commerciale, non sia necessaria la spendita del nome, ma sia sufficiente l’esercizio effettivo di un’attività di impresa. Di conseguenza, si ritiene che anche l’imprenditore occulto possa essere dichiarato fallito e chiamato a rispondere di reati di bancarotta; d’altra parte49, invece, c’è chi afferma che l’istituto del fallimento sarebbe posto a tutela del diritto di credito e dell’affidamento che i terzi hanno posto sul patrimonio del soggetto con il quale hanno intrattenuto rapporti. Nel caso dell’imprenditore occulto, questo affidamento difetterebbe, non avendo egli mai offerto a garanzia dei creditori il proprio patrimonio. In conclusione, l’imprenditore occulto non potrebbe fallire e potrebbe semmai, ove ne ricorrano i presupposti, essere chiamato a rispondere di reato di bancarotta in concorso con il soggetto prestanome.

Va infine ricordato che, nel tentativo di dare una diversa soluzione al problema e di includere nella sfera di punibilità l’imprenditore occulto, alcuni autori hanno riportato tale figura all’art 227 l.f, norma che sanziona l’institore, ricomprendendo in tale figura anche il gestore di fatto. Vista la

48 In tal senso F. ANTOLISEI, Leggi complementari, cit., 80.

49 Vedi sul punto: G.F CAMPOBASSO, Diritto commerciale, diritto dell’impresa, vol. I, ed.7°, 2013, cit., 89.

(31)

previsione di un’eventuale responsabilità dell’institore (ex. Art 227 l.f.), sebbene non dichiarato fallito, l’impossibilità di punire il gestore dell’impresa non troverebbe alcuna giustificazione. Ciò considerato, si dovrebbe ritenere che << l’art 227 l.f abbia voluto sanzionare un principio ovvio: tutti i collaboratori dell’imprenditore che esercitano funzioni direttive dell’impresa, e quindi institori o gestori o procuratori generali dell’imprenditore individuale che si avvalgono dell’esercizio della loro funzione per commettere bancarotta, devono rispondere del reato in caso di fallimento>>50.

Un diverso problema riguarda, infine, l’applicabilità delle fattispecie di bancarotta alle persone che pur non rivestendo la qualifica formale di imprenditore fallito, abbiano collaborato con il soggetto attivo, aiutandolo a porre in essere le condotte incriminate. A titolo esemplificativo, pensiamo al commercialista dell’impresa o al consulente d’impresa che aiuti il soggetto a realizzare condotte che integrano i reati in esame. Ci si chiede se a tali soggetti possa essere contestato di aver concorso nel reato di bancarotta.

La giurisprudenza, più volte chiamata a esprimersi sul tema, ha chiarito le condizioni in base alle quali l’extraneus può essere chiamato a rispondere a titolo di concorso nei reati di bancarotta. Occorre l’attività tipica di almeno un soggetto che possiede le qualità previste dalla legge, per l’integrazione dei reati in esame; che vi sia stata l’influenza causale del concorrente estraneo sul verificarsi del dissesto fallimentare ed infine la consapevolezza del concorrente, da un lato, della qualifica del soggetto attivo primario, dall’altro, della lesione degli interessi dei creditori51. Tale questione interessa soprattutto il comparto della bancarotta societaria.

50UBALDO GIULIANI - BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali

, ED. IV, Giuffrè, 1999, cit., pag. 285

(32)

In linea generale, ci si limita a rilevare, che l’art 223 l.f, il quale disciplina la bancarotta impropria, sancisce l’applicabilità di tali disposizioni anche agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci, ai liquidatori delle società fallite, quali persone <<diverse dal fallito>>. Nei casi di bancarotta societaria il soggetto proprio dei reati indicati è quello munito di una determinata qualità nell’ambito della società.

Anche in tale ambito, si pone il problema della qualifica del soggetto che, pur sprovvisto di investitura formale, si sia assunto la gestione effettiva dell’impresa: il c.d. amministratore di fatto.

Ci chiediamo se l’eventuale responsabilità di tale soggetto debba essere configurata in via diretta a titolo di amministratore ex art 223 L.F , oppure debba essere addebitata a titolo di concorso con il soggetto qualificato: il c.d. amministratore di diritto.

Secondo un’opinione dominante in giurisprudenza e in dottrina52, anche gli amministratori di fatto possono essere annoverati tra i soggetti attivi dei reati di bancarotta, in quanto lo svolgimento di fatto delle funzioni di amministratore, con un minimo di continuità, comporta l’assunzione della qualifica. Al contrario, dottrina autorevole 53 ritiene che non si possa includere tali figure nella categoria dei soggetti attivi dei reati in esame. Tali affermazioni si basano sulla argomentazione che segue: se si ammette che la nozione di imprenditore è determinata dalla legge civile e che la qualità di imprenditore è accertata dalla declaratoria di fallimento, occorre concludere a favore dell’impossibilità di stabilire le qualifiche soggettive degli autori dei fatti di bancarotta, rilevanti in sede penale.

In altri termini: o tutte le qualifiche sono accertate dal giudice civile, o

52 F. ANTOLISEI op., cit., p. 187 ss.; CONTI, Trattato di diritto commerciale, I reati

fallimentari, pag. 523.; UBALDO GIULIANI- BALESTRINO, La bancarotta e gli

altri reati concorsuali, pag. 295.

53

PEDRAZZI, in Riv. Delle Società, 1962, pag. 220.

(33)

nessuna. Non si possono ammettere le figure dell’amministratore di fatto, del direttore generale di fatto ecc., se contestualmente si afferma la necessità che la qualifica di imprenditore sia stabilita dalla legge civile, perché nei casi sopracitati tali qualifiche sarebbero accertate, non dalla giurisdizione civile, ma dal giudice penale.

Infine, si ricorda che l’art 222 l.f. estende la fattispecie di bancarotta propria ai soci illimitatamente responsabili di società fallite. Tale norma trae il suo presupposto nell’art 147 l.f. la quale stabilisce che, nel testo come modificato ad opera del d.lgs. 9 gennaio 2006, n.5, << la sentenza che dichiara fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del Titolo V del Libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili>> In altri termini, i soci illimitatamente responsabili falliscono al pari dell’imprenditore-persona fisica; tuttavia, non essendo riconosciuta a tali soggetti la qualifica di imprenditore, spettante per l’opinione prevalente alla sola società, le fattispecie incriminatrici di cui all’art 216 l.f e 217 l.f non sarebbero direttamente applicabili, se non vi fosse la norma estensiva di cui all’art 222 l.f. .

Infine, mentre l’art. 147 L.F interessa tutte le società con soci a responsabilità illimitata, l’art 222 L.F, non modificato dalla riforma, trova applicazione in ambito di società in nome collettivo e società in accomandita semplice. La società in accomandita per azioni, pur contemplando anch’essa soci illimitatamente responsabili, non viene presa in considerazione dal legislatore.

A questa lacuna l’interprete non può porre rimedio: gli accomandatari, essendo amministratori di diritto, potranno essere chiamati a rispondere dei fatti commessi nella gestione della società ai soli sensi degli artt. 223 l.f e 224 l.f. .

(34)

SEZIONE II

LE FATTISPECIE DI BANCAROTTA

6. La bancarotta nella legge vigente.

La figura della bancarotta costituisce il più classico reato fallimentare. La tipologia è scandita da qualificazioni e partizioni: bancarotta fraudolenta e semplice; bancarotta patrimoniale, documentale, preferenziale; bancarotta propria ed impropria; bancarotta prefallimentare e post fallimentare . La bancarotta fraudolenta propria è contemplata nell’art 216 l.f., il quale recita:

È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni, ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

(35)

È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

La bancarotta semplice propria è delineata nei seguenti termini dall’art. successivo (art 217 l.f.);

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell'articolo precedente:

1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;

2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;

3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa;

5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.

La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall'inizio dell'impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa

Riferimenti

Documenti correlati

Inoltre, ai fini del pagamento &#34;in misura intera&#34; o &#34;ripartita&#34;, il richiedente può scegliere una delle diverse opzioni che avrà a disposizione nel modulo della

Quando la controversia rientra tra quelle per le quali il presente decreto prevede l'applicazione del rito del lavoro, il giudice fissa l'udienza di cui all'articolo 420 del codice

  2. Dall'attuazione dei decreti legislativi di cui al  comma  1  non 

A seguito dell’estensione della limitazione dell’accesso delle persone a partire dai 16 anni alle persone con un certificato in caso di manifestazioni, in luoghi chiusi di strutture

Viene affermato, in particolare, che il pregiudizio derivante dalla perdita o dalla riduzione della capacità lavorativa generica, se il grado di invalidità non consenta

Per questo, a partire dalla fi ne degli anni Novanta, la prosa si è spaccata in due campi: gli uni mostrano l’emancipazione come tappa fondamentale nel raggiungimento della

La norma indica, preliminarmente, il momento, all’interno del processo, nel quale avrà da valutarsi ed effettuarsi il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Si

CONCORSO, PER ESAMI, PER L’ASSUNZIONE A TEMPO INDETERMINATO DI UN FUNZIONARIO (CATEGORIA D – POSIZIONE D), NEL PROFILO PROFESSIONALE DI ISTRUTTORE AMMINISTRATIVO-CONTABILE,