Dimissioni volontarie e assegno di mantenimento
28 Febbraio 2021Redazione
Licenziarsi dal lavoro non è una buona ragione per accampare richieste di assegno di divorzio o per chiederne l’annullamento: la disoccupazione deve essere sempre incolpevole e l’impossibilità economica oggettiva.
Licenziarsi per non pagare l’assegno di mantenimento o, dal lato opposto, per riceverne uno in misura superiore: sono condotte tutt’altro che rare, da cui sono poi partite indagini e lunghi contenziosi giudiziari. Cosa dice la giurisprudenza in merito alle dimissioni volontarie e assegno di mantenimento? Tutto dipende chiaramente dal caso concreto, da chi si dimette e dallo scopo per cui ciò avviene.
Cerchiamo di fare il punto della situazione e di chiarire quali sono i rischi per chi rinuncia al posto di lavoro solo per fare il furbo.
Licenziarsi per non pagare il mantenimento
Non è una buona idea dimettersi dal lavoro per non pagare il mantenimento all’ex coniuge. Specie se, a fronte di ciò, permane comunque un’attività di lavoro in nero.
Intanto, lo stato di disoccupazione non è condizione sufficiente per non versare gli alimenti al coniuge e, soprattutto, ai figli. L’incapacità economica, infatti, deve essere oggettiva e incolpevole, cosa che chiaramente non succede nel caso delle dimissioni volontarie. Insomma, anche chi è senza un’occupazione deve preoccuparsi di mantenere l’ex coniuge e la prole, facendo tutto ciò che è nelle sue capacità per sfruttare la propria capacità lavorativa, eventualmente cercando un nuovo lavoro o vendendo i beni di cui è proprietario (ad esempio, un immobile).
Vengono ammesse le «dimissioni per giusta causa»: si pensi a un lavoratore che non riceve lo stipendio o che viene mobbizzato. In tal caso, si ha diritto a percepire il sussidio di disoccupazione (la Naspi) che non può essere pignorato. Le dimissioni per giusta causa non sono certamente riconducibili alla volontà del lavoratore, costretto dalle circostanze a rinunciare al posto fisso. Sicché, quest’ultimo potrà far ricorso al tribunale per chiedere una modifica delle condizioni economiche di separazione o di divorzio, al fine di ottenere una riduzione dell’importo dell’assegno di mantenimento.
Licenziarsi e lavorare in nero per non
pagare il mantenimento
Nei confronti di chi si dimette volontariamente e continua a lavorare in nero c’è sempre la possibilità di avviare delle indagini tramite la polizia tributaria, al fine di ricostruire il suo effettivo tenore di vita e, da questo, argomentare la presenza di redditi non dichiarati. Non che da ciò potrebbero derivarne procedimenti penali o accertamenti fiscali, ma il lavoratore irregolare non subirebbe alcun taglio dell’assegno di mantenimento che, anzi, potrebbe addirittura aumentare se le sue disponibilità economiche dovessero risultare superiori a prima.
Nel corso del giudizio di separazione o di divorzio, o di quello successivo per la revisione delle condizioni economiche, la parte può sempre chiedere l’accertamento al giudice delle reali condizioni reddituali dell’ex coniuge, quando vi sia il sospetto che i dati presenti nella dichiarazione dei redditi non coincidano con quelli effettivi. È appunto il caso di chi, pur in apparenza risultando disoccupato, lavora invece in nero.
Dimissioni volontarie per avere l’assegno di mantenimento
Lo stesso discorso si può fare all’inverso. Il coniuge che richiede l’assegno di mantenimento non può limitarsi a dedurre il proprio stato di disoccupazione per accampare pretese economiche dall’ex. Egli deve dimostrare anche che tale condizione non dipende da propria colpa: il che succede quando, ad esempio, si ha un’età avanzata per ricercare un posto (si pensi a un over 50), si versa in condizioni di salute tali da avere una ridotta capacità lavorativa, si vive in un contesto lavorativo depresso (in tal caso, bisognerà dimostrare di aver cercato inutilmente un posto di lavoro, di aver partecipato a bandi e concorsi, di essersi iscritti ai centri per l’impiego).
Dunque, anche per il coniuge beneficiario del mantenimento, non è una buona idea dimettersi per ottenere un assegno più elevato. Difatti, in tale ipotesi, sarebbe fin troppo evidente la condizione di “colpevolezza” nella perdita del reddito che escluderebbe in radice il diritto agli alimenti. Anche in questo caso, però, resta pur sempre valida l’eccezione delle dimissioni per giusta causa, in quanto non dipendenti dalla volontà del lavoratore.
Una recente ordinanza della Cassazione [1] ha rigettato la richiesta di assegno di mantenimento avanzata da un’ex moglie la quale – all’esito di alcune indagini investigative – era risultata perfettamente abile e in salute: inutile quindi il tentativo di quest’ultima di licenziarsi dal lavoro sulla scorta di non ben dimostrati motivi di salute.
La donna disoccupata non può quindi crogiolarsi in questa sua condizione: se ancora sana e in età lavorativa, deve fare di tutto per trovare un’occupazione e non campare alle spalle del marito. Se non fornisce questa prova perde il diritto al mantenimento.
Un’altra sentenza della Cassazione [2] ha invece giustificato la richiesta di aumento dell’assegno di mantenimento giustificata dalla domanda di pensionamento dell’ex coniuge. La Corte ha detto a riguardo che «Nel caso di cessazione o diminuzione dei redditi lavorativi della ex moglie, che scelga di andare in pensione o di dimettersi volontariamente, il sopravvenuto peggioramento delle sue condizioni economiche è suscettibile di assumere rilievo quale giustificato motivo per chiedere un assegno di divorzio, ovvero l’aumento dell’assegno concesso; ed il giudice non dovrà limitarsi alla sola considerazione dell’avvenuto peggioramento delle possibilità economiche, od alla sua volontarietà, ma dovrà procedere ad una rinnovata valutazione comparativa delle situazioni reddituali delle parti alla luce delle concrete circostanze, di fatto e di diritto, d’ogni singola fattispecie».
Mantenimento del figlio e dimissioni volontarie
Ultimo capitolo di questa trattazione è quello relativo all’assegno di mantenimento dovuto al figlio maggiorenne. Come noto, il contributo è dovuto finché quest’ultimo non raggiunge l’indipendenza economica, il che coincide di norma con un lavoro stabile. Una volta conquistato questo obiettivo, il figlio perde definitivamente il diritto al mantenimento. Ne consegue che l’eventuale successivo atto di dimissioni volontarie non potrebbe determinare la reviviscenza del diritto al mantenimento essendo questo ormai venuto definitivamente meno e non essendo suscettibile di riesumazione neanche per un sopravvenuto stato di disoccupazione.
[1] Cass. ord. n. 5077/21 del 25.02.2021.
[2] Cass. sent. n. 17041/2007.
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