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Nostalgia e fascino del «fallimento dichiarato d’ufficio»: l’overruling sul fallimento a iniziativa giudiziaria complessa (su richiesta del P.m. per segnalazione del tribunale dopo la desistenza del creditore) - Judicium

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1 Nostalgia e fascino del «fallimento dichiarato d’ufficio»: l’overruling sul fallimento a iniziativa giudiziaria complessa (su richiesta del P.m. per segnalazione del tribunale dopo la desistenza del creditore)

1. E’ veramente singolare leggere, oggi, di liti sopra la dichiarazione di fallimento di un imprenditore -fallimento sì, fallimento no- alle quali rimangano totalmente estranei i (presunti ?) creditori: la lite è normalmente agitata dal curatore, viene appoggiata dal pubblico ministero (non sempre, per il vero, da quello «concludente»

dinanzi alla Corte1) e si va svolgendo nei confronti di un debitore che, oltre a non essere inseguito da creditori apparenti, intenderebbe farsi efficacemente scudo con la

«giurisprudenza della Corte». Sennonché, malamente confida che la Cassazione abbia già ritenuta difettosa la legittimazione del P.m. quando la notitia decoctionis gli sia derivata proprio dal tribunale adito per la dichiarazione di fallimento: dichiarazione alla quale quel tribunale abbia comunque ritenuto di abdicare dopo la rinuncia del creditore, e però avendo dato informazione della pur emergente insolvenza all’Ufficio requirente.

Adesso, secondo il Collegio di legittimità (con tre decisioni rese nella medesima composizione e da un unico estensore2), è tempo di «mutamento di giurisprudenza» e, così, di «disattendere il precedente applicato»3 per introdurre in via di principio la

1 Di «questa singolare figura processuale» si occupa da ultimo Verde, Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012, 164 ss.

2 Cass. 15 giugno 2012, nn. 9857 e 9858 e Cass. 14 giugno 2012, n. 9781, pres. Fioretti, est. Didone; P.m.

Capasso (concl. diff.). La prima di queste decisioni è commentata da Papagni, in Dir. e giust., 2012, 0, 579, L’iniziativa del P.M.: tra notitia decoctionis e giusto processo.

3 Cass. 26 febbraio 2009, n. 4632, in Foro it., 2009, I, 1404, con osservazioni di M. Fabiani; in Corr.

giur., 2009, 925, con nota di Ferro, La terzietà spettatrice del giudice dell’insolvenza: le segnalazioni al pubblico ministero e l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; in Fallimento, 2009, 521, con nota di De Santis, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice.

Lì si era ritenuto che: «in sostanza se nella legge fallimentare ante riforma, in cui era consentita la iniziativa di ufficio, il riferimento all'imprenditore "parte del giudizio" non lasciava dubbi che il procedimento non fosse quello prefallimentare, non essendo concepibile la segnalazione del tribunale a sé medesimo, la soppressione di tale riferimento appare giustificata dalla necessità di evitare che, con il venir meno della iniziativa di ufficio, possa essere ritenuta comunque legittima la segnalazione, proprio alla stregua del fatto che il procedimento prefallimentare ha come parte l'imprenditore soggetto al

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dichiarazione di fallimento che vien fatto di definire «a iniziativa giudiziaria complessa», restaurando -frammento dopo frammento- l’ etica pan-pubblicistica della procedura, quella che lascia sopravvivere, secondo il lessico dei magistrati supremi,

«l’interesse pubblico ad eliminare dal sistema economico i focolai d’insolvenza»; fino al punto da convalidare senz’altro il sospetto che la riforma sia stata condotta per ossequio al noto criterio del nipote del Principe di Salina: «se vogliamo che tutto rimanga com’ è, bisogna che tutto cambi»4.

Sì, dopo aver già stabilito che sono forme esemplari di uno pseudo-potere diffuso le previsioni altrimenti relative soltanto alla legittimazione del P.m. che abbia mutuato dal procedimento penale la notizia dell’insolvenza5, la Cassazione di fatto ripristina la dichiarazione officiosa del fallimento compiacendo gli ansiosi magistrati di merito che ne denunciavano sofferenti la privazione6: operazione condotta qui con sbrigativa obliterazione del ruolo di «Corte del precedente» oltre che abituale noncuranza delle opinioni scientifiche dissonanti (che sono comunque altro dalla «dottrina giudiziaria»7).

Opinioni che, rispetto all’enunciato giurisprudenziale appena disatteso, non avevano fatto mancare autonomia di argomenti, e che da ultimo avevano ancora prodotto fallimento». «Non trova invece difficoltà ad essere applicata alla ipotesi che il tribunale fallimentare segnali al pubblico ministero la insolvenza che incidentalmente "risulti" nei riguardi di soggetti diversi da quelli destinatari della iniziativa per la dichiarazione di fallimento, non trovando in tal caso la segnalazione ostacolo nei principi che governano la giurisdizione e nel carattere di terzietà del giudice, non essendo egli investito, in relazione ad essi, della funzione giudicante e non essendo, dunque, impegnato in accertamenti neanche sommari, che lo trovino incompatibile a decidere, quando la segnalazione sia assecondata dalla richiesta del pubblico ministero, al punto da risultare o comunque apparire autosegnalazione e realizzare la soppressa iniziativa di ufficio, in elusione della volontà del legislatore».

4 La fattispecie normativa interessata è «esempio di quell’ipocrisia che rappresenta uno dei principali tratti del nostro carattere nazionale» anche secondo Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, in Giusto proc. civ., 2009, 733.

5 Cfr. Cass. 21 aprile 2011, n. 9260, con mia nota in Riv. dir. proc., 2012, 780, Ancora sui limiti della legittimazione del p.m. all’ istanza di fallimento; e con nota di Farina, in Fallimento, 2011, 1167, La legittimazione del P.M. a presentare la “richiesta” di fallimento in caso di insolvenza risultante in sede penale.

6 La ribellione all’indirizzo promosso dalla Corte suprema era scoppiata subito, al punto da suscitare un’eco finanche nella stampa quotidiana: Negri, Nei fallimenti spazio al giudice, in Il Sole 24 ore, 21 ottobre 2009. Di recente, v. App. Torino, 8 novembre 2010, in Fallimento, 2011, 327, con nota adesiva di Tiscini, Potere di azione per la dichiarazione di fallimento e potere di segnalazione dello stato di insolvenza: entità eterogenee a confronto. Altri e minuti riferimenti alle disparate versioni municipali del

«consapevole dissenso» si leggono in Dell’Osso, Sul meccanismo officioso nella procedura fallimentare e sul fallimento di società sottoposta ad attività di direzione e coordinamento, in Dir. fall., 2012, II, 290, nota 15.

7 Campione della quale è senz’altro Plenteda, Profili processuali del fallimento dopo la riforma, Milano, 2008, 20, dove l’A. aveva sostenuto in sede dottrinale le tesi che ha poi concorso ad affermare nella sentenza overruled -di cui è stato estensore- del 26 febbraio 2009, n. 4632, cit.

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l’ammonimento per cui «l’abolizione dell’ iniziativa officiosa sarebbe quindi svuotata di ogni significativa novità, se si ritenesse possibile per il tribunale fallimentare, all’esito di un’ istruttoria terminata per la desistenza del creditore istante, segnalare al pubblico ministero la risultanza di uno stato di insolvenza»8.

Proprio quel che la Corte viene invece ammettendo qui: «il nuovo art. 7 L. Fall., va letto nel senso che, ove un giudice civile, nel corso di un procedimento civile, rilevi l’insolvenza di un imprenditore "deve" farne segnalazione al Pubblico Ministero e - specularmente - il pubblico ministero presenta la richiesta […] “quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”. Giudice civile e’ anche il tribunale fallimentare che abbia rilevato l’insolvenza nel corso di un procedimento L. Fall., ex art. 15, anche se definito per desistenza del creditore istante».

2. La giusta legittimazione del P.m. alla richiesta di fallimento deriva anzitutto dal riconoscere che la sua iniziativa, a cominciare dalla stessa doverosità, non sostanzia uno dei casi di manifestazione del suo potere di azione, né si inscrive nel genere di quelli di cui trattano gli artt. 69 ss. c.p.c.9. La fattispecie normativa della legittimazione del P.m.

include, piuttosto, la specifica qualità della notitia decoctionis, con sequela di incapacità a presentare richiesta fuori dei casi previsti dalla legge. Il potere dell’organo pubblico non è veramente omologabile al potere individuale di azione, atipico per Costituzione;

invece, l’iniziativa del P.m. (che mai ritrova copertura dall’art. 24, 1° comma, Cost.), dato il catalogo dei casi in cui viene riconosciuta, postula che -già con l’atto di impulso- della fattispecie tipica l’autore della richiesta debba vantare l’integrità. Vuol dire che la fattispecie costitutiva del potere del P.m. risente dell’ avveramento (o meno) dell’

ipotesi prevista dalla legge, onde viene meno la validità della dichiarazione di fallimento che consegua a vicende innominate dalla legge medesima. Così, la qualificazione legislativa della notitia decoctionis finisce per appartenere non soltanto

8 Dell’Osso, op. cit., 301.

9 Ho dato più approfonditamente conto di ciò in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, I, Milano, 2010, rispettivamente 115 ss. (Iniziativa per la dichiarazione di fallimento) e 137 ss.

(Iniziativa del Pubblico ministero). Non mette conto qui replicare analiticamente gli argomenti che suggeriscono la conclusione, tanto più che anche più recenti prese di posizione in senso diametralmente contrario («si tratta […] di un diritto di azione», di un «potere d’ iniziativa di carattere generale e discrezionale»: Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2012, 70 s.

–testo e nota) non si danno carico di superare nemmeno una delle obiezioni manifestando preferenze per scelte che invero non paiono offerte al gradimento dell’interprete come prodotti fungibili o equivalenti.

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alla fattispecie costitutiva del dovere del P.m. di promuovere la dichiarazione di fallimento ma anche a quella della sua stessa legittimazione all’atto iniziale del procedimento.

Allora, se tra i «presupposti per la [valida] dichiarazione di fallimento» (art. 15 L.F.) si pone anche la (valida) «richiesta del pubblico ministero», è dirimente l’ esatta individuazione del «procedimento civile» nel corso del quale può darsi la segnalazione dell’insolvenza all’organo requirente10.

3. Ora, la (ribadita) doverosità (anche) della segnalazione, una volta congiunta alla doverosità della conseguente richiesta del P.m., il quale «presenta» -e non già può presentare11- la richiesta al tribunale, dovrebbe indurre di per sé a escludere che anche il tribunale al quale abbia fatto ricorso un creditore per la dichiarazione di fallimento del debitore possa risolversi in ultimo nell’ autore di tale segnalazione: se così fosse, l’innovazione sistematica relativa al fallimento non più dichiarabile d’ufficio sarebbe una foglia di fico stesa a malcelare l’intatto status quo ante. E il potere del giudice di promuovere recta via il procedimento per la dichiarazione di fallimento sarebbe stato sostituito da un farisaico duetto, per cui la segnalazione del tribunale va al P.m. e di qui l’affare torna davanti al medesimo tribunale sub specie di richiesta del P.m. per la dichiarazione di fallimento, senza però aver rimosso la delenda figura del giudice-attore (pur se, stavolta, soltanto mediato)12.

4. In realtà, per ovviare a una soluzione del genere, che pare ispirata dal Tancredi gattopardesco, sta la considerazione che l’avvenuta soppressione del fallimento d’ufficio non è assolutamente incompatibile con la permanente possibilità di dichiarare il fallimento anche senza un’ attuale manifestazione di interesse del creditore (già) ricorrente. E tanto la Cassazione avrebbe potuto affermare esaminando lo spettro

10 Tanto più che Cass. 11 febbraio 2011, 3472, ritiene che anche «in caso di accertamento dell' insussistenza del credito in capo al ricorrente, la conseguente carenza di legittimazione di tale parte impone una pronuncia in rito di inammissibilità, senza alcuna possibilità di ulteriore esercizio della giurisdizione».

11 L’uso del presente indicativo nella legistica indica la cogenza dell’azione: «nella formulazione dei precetti è adottata la massima uniformità nell'uso dei modi verbali, la regola essendo costituita dall'indicativo presente»; per conseguenza, «è evitato l'uso del verbo servile diretto a sottolineare la imperatività della norma («deve»; «ha l'obbligo di»; «è tenuto a»)»: cfr. «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi» in Circolare del Presidente del Senato del 20 aprile 2001 (www.senato.it/istituzione).

12 Cfr. il mio L' “iniziativa per la dichiarazione di fallimento” (specie del “creditore sedicente o non legittimato o rinunciante”), in Fallimento, 2010, 129 ss. .

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completo degli effetti della c.d. desistenza del creditore: avrebbe, allora, scoperto che la sua essenziale «iniziativa» è soltanto quella del «procedimento», mentre la

«dichiarazione di fallimento» rimane istantaneamente acquisita al potere del tribunale sol che un procedimento ad hoc risulti indotto da uno dei soggetti pro tempore legittimati13.

In sintesi, «ricorso» o «richiesta» costituiscono immediatamente il dovere decisorio del giudice. E, dato l’atto di impulso, al tribunale è pure dato tutto quanto necessario e sufficiente per «l’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento», quindi viene subito creato il relativo dovere di pronunciare tale dichiarazione, talché il deficit eventualmente sopravvenuto nell’impulso procedimentale non è in grado di

togliere o diminuire la già piena capacità di decisione di merito del tribunale .

Non sarebbe, in altre parole, consentito assumere, stante la tecnica organizzativa del processo fallimentare che non conosce poteri di «impulso endoprocessuale»14, pronunce in dipendenza di eventi successivi alla proposizione del ricorso e pertinenti all’

eventuale in-attualità dell’ interesse del creditore: non l’estinzione né l’ improcedibilità , perciò, andrebbe pronunciata all’esito della manifestata «desistenza» del creditore.

Piuttosto, la circostanza dovrebbe essere apprezzata per la sua capacità di incidere sullo stato di decozione, la cui essenziale attualità al tempo della sentenza di fallimento nemmeno può revocarsi in dubbio siccome trattasi di sentenza costitutiva di status, come tale terminativa di una fattispecie destinata a riceversi tutti gli accidenti sostanziali che sopravvengano alla domanda15.

13 Ho dato più ampio conto di ciò anche in Irretrattabilità della “richiesta”,(in-) concludenza del fatto che non “interviene il Pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa”, “conclusioni”: un’analisi dei poteri del P.M. nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Giur. merito, 2011, 10, 2431 ss.

14 Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino, 2010, 91.

15 Il creditore che promuove il procedimento per la dichiarazione di fallimento non può confidare, dunque, sulla propria desistenza senza prendere sopra di sé il rischio del decreto di rigetto, con tutte le conseguenze del caso, non escluse -di là delle spese - quelle (già ipotizzate nel nuovo assetto normativo da Marelli, Commento all’ art. 22 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio, I, Bologna, 2006, 412, e Trib. Monza, sez II, 9 gennaio 2008 citata da Filippi, Contrasti su … potere dei creditori e ruolo del pubblico ministero, in Giur. merito, 2009, 1568 ss., nota 5; ma non da Cass., 14 ottobre 2009 n. 21834, che ammette una «prospettazione identica a quella respinta, su istanza dello stesso creditore») preclusive di altra iniziativa fondata sulla ragione di credito desistita. E però, Cass. 14 ottobre 2009, n. 21834, cit. sostiene che «l'atto di desistenza proveniente dal creditore che abbia proposto la relativa istanza determina l'adozione, da parte del tribunale fallimentare, di un decreto di archiviazione, in quanto la necessità del decreto di rigetto sussiste solo nei confronti di un'istanza che continui ad essere effettivamente coltivata e che sia ritenuta priva di fondamento».

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Sennonché, la «giurisprudenza della Corte» aveva già ritenuto che l’esclusione di ogni iniziativa d'ufficio del tribunale «implica, pertanto, che il giudice possa pronunciarsi nel merito solo in presenza di iniziativa proposta da soggetto legittimato ed a condizione che la domanda sia mantenuta ferma, cioè non rinunciata»16.

A opinare diversamente, come possibile, si sarebbe almeno evitata la pena di porre, come è invece costretta a fare la Cassazione al fine di supportare l’ overruling, il tema della natura della cognizione inerente alla «segnalazione» operata dal tribunale per escludere ogni incompatibilità degli stessi magistrati all’ esercizio, dopo la richiesta del P.m., delle ulteriori funzioni de eadem re17. Con ogni evidenza non è qui il punto, e forse sarebbe un po’ lungo giungervi: basterà allora ricordare che quando era ormai giunta al tramonto la lunga stagione del c.p.p. del 1930, dov’era l’emblema del giudice- attore nella sintesi insuperata del Pretore, quello di Bergamo arrivò a denunciare di illegittimità costituzionale una norma (l'art. 343-bis, 5° comma, c.p.p.) perché non contemplava il giudice a quo tra i legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento di sopravvenuta riforma della sua decisione18. E, si sa, … a volte ritornano.

16 Cass. 11 febbraio 2011 n. 3472, cit..

17 Secondo la Corte, «la trasmissione al pubblico ministero della notitia decoctionis emersa nel corso del procedimento non è un atto avente contenuto decisorio, neppure come precipitato di una cognizione di tipo sommario e non incide - né direttamente, né indirettamente - sui diritti di alcuno mentre il giudice che a ciò procede non fa altro che esercitare il potere-dovere di denunzia di fatti che prima facie gli appaiano potenzialmente lesivi dell’interesse pubblico ad eliminare dal sistema economico i focolai d’insolvenza.

Trattandosi di un atto "neutro", privo di specifica valenza procedimentale o decisoria, “il cui impulso riposa su una valutazione estemporanea, che non vincola nessuno”, la valutazione decisoria del tribunale non é tecnicamente "pregiudicata" dall’avvenuta segnalazione, perché il tribunale, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del pubblico ministero. La natura di valutazione prima facie dell’insolvenza e il potere esercitato dal tribunale fallimentare a seguito di cognizione piena, se del caso difformemente da quella prima valutazione, sta a confermare, semmai, la terzietà dell’organo giudicante»

18 Corte cost. 23 aprile 1987, n. 150, in Giur. cost., 1987, I, 999.

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