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IL C.D. DANNO ESISTENZIALE.

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Academic year: 2022

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IL C.D. DANNO ESISTENZIALE.

SCHEDA DI INQUADRAMENTO Dr. Marco Rossetti

1. Le definizioni dottrinarie.

2. I riscontri giurisprudenziali.

(A) La giurisprudenza di legittimità.

(B) La giurisprudenza di merito.

3. Osservazioni critiche alla tesi del danno esistenziale.

(A) Imputabilità del danno.

(B) Contenuto del danno.

(C) (In)distinzione dal danno morale.

4. Il nuovo orientamento della Cassazione in tema di danni non patrimoniali.

1. Le definizioni dottrinarie.

Il danno esistenziale, per chi ne sostiene l’esistenza e la risarcibilità, costituisce una categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali diversi da quelli morali, che riassorbe in sé il danno biologico, quello alla vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, eccetera (Ziviz, Alla scoperta dal danno esistenziale, in Contr. e impr., 1994, 864-865).

Secondo i sostenitori della tesi in esame, il danno esistenziale si differenzia da tutti e tre i consueti tipi di danno:

(-) da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una lesione della psiche o del corpo;

Magistrato, Tribunale di Roma

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(-) da quello morale, in quanto esso non consiste in una sofferenza (la quale, ovviamente, può essere indotta dal danno, ma non si identifica con esso), ma nella rinuncia ad una attività concreta;

(-) da quello patrimoniale, in quanto esso può sussistere a prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio. E’ stato icasticamente osservato, a questo riguardo, che il danno morale si identifica con “le lacrime”, il danno esistenziale si identifica in una

“rinuncia al fare” (Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139).

Il danno esistenziale viene dunque configurato come un pregiudizio areddituale (in quanto il relativo risarcimento prescinde del tutto dal reddito del danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali), tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento.

I sostenitori della nozione di danno esistenziale precisano altresì che la nuova figura non viola (o meglio, non aggira) il disposto dell’art. 2059 c.c.. Si sostiene, infatti, che la rigida dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, voluta dal legislatore del 1942 ed incentrata sugli artt. 2043-2059 c.c., è definitivamente entrata in crisi con l’emersione della nozione di danno biologico: di un danno, cioè, tipicamente non patrimoniale, ma ritenuto risarcibile e sottratto all’ambito di applicabilità dell’art. 2059 c.c.. L’affermata risarcibilità ex artt. 2043 c.c. e 32 cost. del danno biologico dimostrerebbe che non esiste una irrisarcibilità assoluta dei danni non patrimoniali non causati da reato. Insomma, il diritto vivente per come elaborato dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità ha sempre di più eroso l’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.c., sicché occorre prendere atto che esiste oggi non una, ma molteplici categorie di danni non patrimoniali:

di queste, sono soggette alla limitazione di cui all’art. 2059 c.c. soltanto i danni non patrimoniali consistenti in sofferenze dell’animo (i danni morali propriamente detti), mentre la suddetta limitazione non sussiste per le altre categorie di danni non patrimoniali (Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e resp., 1999, 6).

La risarcibilità del danno esistenziale viene fondata dunque puramente e semplicemente sul disposto dell’art. 2043 c.c., secondo un sillogismo argomentativo che può così riassumersi: (a) lo svolgimento di attività non remunerative costituisce un interesse

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dell’individuo, che l’ordinamento tutela; (b) la lesione della possibilità di svolgere tali attività costituisce di conseguenza un danno ingiusto ex art. 2043 c.c.; (c) l’ingiustizia del danno ne comporta necessariamente la risarcibilità.

2. I riscontri giurisprudenziali.

I sostenitori della categoria del danno esistenziale adducono, a sostegno della validità di essa, una serie di decisioni giurisprudenziali, solitamente distinte in due gruppi:

(a) quelle che hanno fatto espresso riferimento al “danno esistenziale”;

(b) quelle che hanno di fatto liquidato un danno esistenziale (cioè un danno non patrimoniale asseritamente diverso da quello morale), ma problematicamente etichettandolo con una categoria nota (biologico, patrimoniale, ecc.) o creata ad hoc (danno edonistico, danno da perdita del rapporto parentale, ecc.).

Esaminiamo ora più da vicino queste decisioni, distinguendo quelle di legittimità da quelle di merito.

(A) La giurisprudenza di legittimità.

Tra le sentenze favorevoli alla risarcibilità del danno esistenziale viene solitamente citato il decisum di Cass., 7-6-2000, n. 7713 (in Danno e resp., 2000, 835, con note di Monateri,

“Alle soglie”: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, e di Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata, nonché in Dir. e giust., 2000, fasc. 23, 23, ed ivi, fasc. 24, 4, con nota di Rossetti, Messa da requiem per il 2059 c.c. se passa la linea del “danno in sé”).

In questa decisione, la S.C. ha affermato che la lesione di uno qualsiasi dei diritti fondamentali della persona, anche a prescindere dalla commissione di un reato, è causa di un danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c., che va risarcito in via equitativa in aggiunta rispetto agli eventuali pregiudizi patrimoniali (nella specie, è stato ritenuto che il mancato adempimento, da parte del genitore, degli obblighi di assistenza della prole, produce a quest’ultima un “danno esistenziale”, che si aggiunge a quello morale ed a quello patrimoniale).

Tale decisione è stata indirettamente corroborata, più di recente, da Cass. 3.4.2001 n.

4881, in Guida al dir., 2001, fasc. 19, e da Cass., 10-5-2001, n. 6507, in Dir. & giust.,

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2001, fasc. 22, 15, con nota di Rossetti, Risarcita la lesione della reputazione senza prova del danno patrimoniale. Anche secondo queste due sentenze (nelle quali comunque non si parla mai di “danno esistenziale”), dovute al medesimo estensore, la lesione dei diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti, costituisce un danno risarcibile ex art. 2043 c.c., che si aggiunge sia al danno morale, sia a quello patrimoniale.

Al percorso argomentativo seguito da queste sentenze si è obiettato che esse si richiamano tutte, più o meno ampiamente, alla motivazione di Corte cost. 184/86, cioè della sentenza con la quale la Corte costituzionale dichiarò, per la prima volta, la risarcibilità del danno biologico, in base al combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 c.c..

La Corte di cassazione, con le sentenze del 2000-2001, non ha fatto che applicare lo schema utilizzato per affermare la risarcibilità del danno biologico anche ad altri diritti costituzionalmente rilevanti. Anche nel caso di lesione di questi ultimi, si afferma, il combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 2 cost. (o comunque della norma costituzionale che sancisce il diritto violato dall’altrui illecito) dà diritto ad un autonomo risarcimento del danno, secondo la teoria del “danno-evento” (supra, § 1.2).

La Corte di legittimità, tuttavia, sembra avere trascurato di considerare che la Consulta aveva successivamente abbandonato sia la distinzione tra “danno evento” e “danno conseguenza”, sia il principio secondo cui la lesione di un diritto costituzionalmente protetto fosse risarcibile di per sé, a prescindere dalle conseguenze che tale lesioni abbia cagionato (cfr. Corte costit., 27-10-1994, n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029, con nota di BUSNELLI, Tre «punti esclamativi», tre «punti interrogativi», un «punto e a capo»).

E questo assunto era stato ribadito anche dallo stesso giudice di legittimità, che aveva osservato (con riferimento al danno biologico, ma le conclusioni non cambiano rispetto a qualsiasi altro tipo di danno): “per il [danno biologico] non vale la regola che, verificatosi l'evento, vi sia senz'altro un danno da risarcire.

Il risarcimento del danno vi sarà se vi sarà perdita di quelle utilità che fanno capo all'individuo nel modo preesistente al fatto dannoso e che debbono essere compensate con utilità economiche equivalenti” (Cass., 29-5-1996, n. 4991, in Foro it., 1996, I, 3107;

per la inutilizzabilità della distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, in tema di responsabilità civile, si veda anche Mastropaolo, Il danno biologico tra meriti e miti, in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Atti dell’Incontro di

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studio per i magistrati, Trevi 30 giugno - 1 luglio 1989, Quaderni del CSM, Roma, 1990, 212).

In controtendenza, rispetto a questo orientamento, pare tuttavia orientata Cass. 5.11.2002 n. 15449, in Dir. e giust., 2002, fasc. 41, 22, la quale ha affermato - sia pure obiter dictum - che, a prescindere da qualsiasi questione circa la configurabilità o meno del danno esistenziale, esso, quand’anche esistesse, non sarebbe che una “voce” o aspetto del danno morale, e quindi non sarebbe risarcibile autonomamente.

V’è dunque, un contrasto, in seno alla S.C., in merito alla immediata risarcibilità della lesione di un diritto costituzionalmente protetto, in aggiunta al danno morale ed a quello patrimoniale.

E comunque, anche nelle sentenze addotte a sostegno della tesi del danno esistenziale (Cass. 7713/2000, Cass. 4881/2001, Cass. 6507/2001), la Corte si è guardata bene dall’affermare che la perdita di qualsivoglia attività della vita quotidiana costituisce un danno risarcibile. Si legge infatti nella motivazione di Cass. 6507/2001, cit., che non tutte le “proiezioni della persona nella realtà sociale” godono di pari tutela costituzionale e, perciò risarcitoria. Ove sia leso un diritto personale, potrà farsi luogo al risarcimento soltanto ove quest’ultimo “si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo”. Una posizione, quindi, ben diversa dalla teoria del “danno esistenziale”, secondo cui la perdita di qualsiasi attività, per bislacca che sia, dà diritto ad un autonomo risarcimento.

Si parla di danno alla “sfera esistenziale” dell’individuo, infine, anche nella motivazione di Cass. 17.5.2000 n. 6414 (inedita, ma inserita nella raccolta a cura di Cassano, La nuova giuripdrudenza del danno esistenziale, Piacenza 2002, 195): ma tale decisione non ha davvero nulla a che vedere con il “danno esistenziale” di cui qui si discorre, avendo ad oggetto il risarcimento di un danno patrimoniale da ridotta godibilità del fondo per effetto di immissioni nocive.

(B) La giurisprudenza di merito.

Le sentenze di merito che hanno liquidato ore rotundo un danno qualificato “esistenziale”

non sono ormai né poche, né isolate. Esiste anzi un nutrito gruppo di decisioni, che spesso si richiamano a vicenda, le quali hanno ritenuto risarcibile il danno da perdita delle “attività

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realizzatrici della persona umana” (una recente e ricca rassegna ne enumera ben 29: si veda, al riguardo, Cassano, La prima giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza 2002, 69 e ss.).

Lo schema argomentativo di tali decisioni è quasi sempre coincidente, ed è così concepito:

(a) l’art. 2 cost. tutela la persona in tutte le sue attività;

(b) l’atto illecito altrui ha limitato od impedito questa o quella attività della vittima;

(c) ergo, la vittima ha subito una compromissione delle proprie attività realizzatrici, nel che risiede il danno.

Nondimeno, se si sposta l’attenzione dalle massime alle motivazioni, ci si avvede come in molti casi in cui il giudice ha liquidato il risarcimento di un danno definito (dal giudice stesso o dagli interpreti) come “esistenziale”, a ben vedere non si è fatto altro che attribuire nome diverso a pregiudizi già noti e tutelabili con gli strumenti del diritto vigente. Infatti:

(-) un primo gruppo di decisioni ha liquidato a titolo di danno esistenziale (talora denominato danno da perdita o lesione dell’affettività parentale) il pregiudizio non patrimoniale conseguente alla perdita di una persona cara (Giud. pace Sora 10.7.2000, in Giurispr. romana, 2001, 341; Trib. Milano 31.5.1999 e Trib. Treviso 25.11.1998, ambedue in Riv. giur. circolaz., 2000, 143; Trib. Torino, 08-08-1995, in Resp. civ., 1996, 282), e quindi un danno - per quanto si dirà meglio nei §§ seguenti - tipicamente morale;

(-) altre decisioni hanno liquidato un danno di natura psichica, e quindi biologico (Pret.

L'Aquila, 10-05-1991, in Foro it., 1993, I, 317, con riferimento al danno all'integrità fisio- psichica causato da licenziamento illegittimo);

(-) altre decisioni ancora hanno liquidato come esistenziale un danno in realtà consistente nella lesione dell’immagine, della reputazione o dell’identità personale della vittima agli occhi di terzi (Trib. Verona, 26-02-1996, in Foro it., 1996, I, 3529, relativa alla pubblicazione non autorizzata di una fotografia; Pret. Parma 24-3-1999, in Cassano, op.

ult. cit., 168, relativa ad una ipotesi di licenziamento ingiurioso; Trib. Milano 8.6.2000, ivi, 241, relativa ad una ipotesi di protesto illegittimo; Trib. Forlì, 15.3.2001, ivi, 341, relativa ad un caso di mobbing);

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(-) altre decisioni ancora hanno qualificato come esistenziale un pregiudizio consistente puramente ed unicamente nel disagio dell’animo, e quindi in un danno morale. Le fattispecie concrete prese in esame dalle decisioni di questo tipo hanno ad oggetto una vasta gamma di “dolori”, che vanno dalla semplice perdita di un valore d’affezione (Pret.

Salerno-Eboli, 17-02-1997, in Giust. civ., 1998, I, 2037, relativa all’inadempimento del contratto di videoripresa della cerimonia nuziale), ad eventi variamente incidenti sulla serenità della vittima (Trib. Locri-Siderno, 6.10.2000, in Danno e resp., 2001, 393, relativa alla nascita di un bimbo malformato, senza che la madre ne fosse stata informata; Trib.

Milano 15.3.2001, in Cassano, op. cit., 327, relativa al danno da ingiurie ed aggressioni;

Giud. pace Casamassima 10.6.1999, ivi, 184, relativa ad una ipotesi di forzosa interruzione della gravidanza; Giud. pace Siracusa 26.4.1999, in Giust. civ. 2000, I, 1205, relativa ad una ipotesi di vacanza rovinata).

Non si pensi, comunque, che ogni qual volta sia stato chiesto in giudizio il risarcimento del danno esistenziale, questo sia stato accordato: le principali trattazioni dell’argomento, sinora, hanno tutte omesso di riferire che esistono anche precedenti (editi) contrari, i quali hanno espressamente affermato che il danno esistenziale non è che un danno di tipo morale, e quindi non risarcibile in aggiunta a quest’ultimo (Trib. Roma 17.10.2001, in Giurispr. romana 2002, fasc. 2; Trib. Napoli 24.12.1999, in Riv. giur. circolaz., 2000, 765).

3. Osservazioni critiche alla tesi del danno esistenziale.

Alla nozione di danno esistenziale, sono stati mossi in dottrina diversi rilievi, che possono essere così riassunti:

(a) eccessiva indeterminatezza: infatti, intendendo per “danno” qualsiasi privazione, qualsiasi rinuncia a qualsiasi attività anche non communis omnium, si renderebbe risarcibile ogni e qualsiasi “capriccio” del danneggiato;

(b) il danno esistenziale, in quanto danno non patrimoniale, non potrebbe essere risarcito se non nei casi di cui all’art. 2059 c.c., e cioè nella ricorrenza di una ipotesi di reato.

Affermare, pertanto, la risarcibilità di questo tipo di danno al di fuori dello schema normativo di cui all’art. 2059 c.c. significa aggirare il contenuto di quest’ultima norma;

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(c) il danno esistenziale è spesso un danno imprevedibile, e come tale non imputabile al danneggiante a titolo di colpa.

A queste critiche i sostenitori della nozione di danno esistenziale replicano che:

(a) per quanto concerne la pretesa indeterminatezza del danno esistenziale, essa è davvero tale soltanto se si considerano le conseguenze del danno (ciò che non rileva ai fini dell’inquadramento dogmatico), piuttosto che il danno stesso. Allo stesso modo del danno esistenziale, anche il danno biologico può comportare una gamma indeterminata ed indeterminabile di privazioni esistenziali: e nondimeno la giurisprudenza continua a ripetere che di esse tutte, nessuna esclusa, il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno alla salute.

(b) Per quanto concerne, invece, la pretesa sovrapponibilità concettuale tra danno esistenziale e danno morale, si replica che il danno esistenziale consiste propriamente in una rinuncia: una rinuncia, per l’esattezza, a compiere una qualsivoglia attività od atto per l’innanzi frequentemente compiuto. Il danno esistenziale, pertanto, non è un soffrire, un

“lagrimare”, ma è propriamente un non facere forzosamente indotto dal fatto illecito del terzo. Per quanto, poi, attiene al fondamento teorico della nozione, all’accusa di surrettizio aggiramento dell’art. 2059 c.c. si replica che occorre - piaccia o non piaccia - prendere atto che la dicotomia tradizionale danno biologico-danno patrimoniale è definitivamente entrata in crisi con l’emersione del danno biologico. Anche quest’ultimo, infatti, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale risarcito al di fuori, e nonostante, l’art. 2059 c.c.. Non varrebbe, pertanto, trincerarsi dietro il dettato dell’art. 2059 c.c. per negare legittimità alla nozione di danno esistenziale, perché proprio la vicenda del danno biologico dimostrerebbe che l’ostacolo costituito dalla norma codicistica non è insormontabile.

(c) Per quanto concerne, infine, la pretesa imprevedibilità del danno (e quindi l’impossibilità di imputarlo a titolo di colpa al danneggiante), i sostenitori della nozione di danno esistenziale osservano che, ai fini dell’accertamento della sussistenza della colpa, è necessario che sia prevedibile l’evento dannoso, e non le conseguenze dannose di esso.

In conclusione, sul danno esistenziale si può osservare come le teorie che ne sostengono la risarcibilità muovono tutte da un rilievo difficilmente contestabile: il nostro ordinamento non prevede una tutela risarcitoria completa, a 360°, di qualsiasi tipo di pregiudizio. Il danno biologico è sempre risarcibile; il danno patrimoniale è sempre risarcibile; ma il danno morale è risarcibile soltanto nei limiti di cui all’art. 2059 c.c.. Questa tutela

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incompleta costituisce indubbiamente una irrazionalità del nostro sistema, specialmente dopo che le Sezioni Unite della Cassazione hanno “riletto” il testo dell’art. 2043 c.c., stabilendo che tale norma non è affatto una norma in bianco, bisognevole d’essere integrata con altre disposizioni, dalle quali desumere la natura “ingiusta del danno”. Al contrario, l’art. 2043 c.c. è una norma completa, dotata di precetto e sanzione, in virtù della quale deve ritenersi “danno ingiusto” qualsiasi lesione non solo di diritto soggettivi, ma anche di interessi, comunque denominati, altrui, purché “presi in considerazione” da una norma giuridica (Cass., 22-7-1999, n. 500/SU, in Foro it., 1999, I, 2487).

Dopo tale sentenza, appare oggettivamente difficile conciliare, da un lato, la piena risarcibilità della lesione di qualsiasi interesse, e dall’altro, la limitata risarcibilità del danno morale. La tesi del danno esistenziale nasce quindi da una esigenza obiettiva, da una difficoltà realmente esistente, al limite, vien fatto di dire, da una iniquità non più tollerabile.

E tuttavia, non sembra che lo strumento prescelto per superare questa anomalia sia consentaneo allo scopo.

Alla tesi del danno esistenziale, infatti, possono muoversi tre serie obiezioni, relative: (a) all’imputabilità del danno; (b) al contenuto del danno; (c) - soprattutto - alla distinzione dal danno morale.

(A) Imputabilità del danno.

Come noto, il nostro sistema della responsabilità civile si fonda sul criterio della colpa, con poche (anche se non marginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli artt. 2048, 2050, 2052 c.c.). La nozione di colpa civile, distinta da quella di colpa penalmente rilevante (Cass., 22-2-1996, n. 1375, in Arch. circolaz., 1996, 537; Pret. Forlì, 19-2-1986, in Resp.

civ. prev., 1986, 176), viene tradizionalmente fondata su due elementi: da un lato l’idea di deviazione, di scostamento, di abbandono, di inosservanza di una regola di condotta, sia essa frutto di una norma di legge, regolamentare, contrattuale, deontologica, di comune prudenza (arg. ex art. 1176 c.c.). Dall’altro lato, la nozione di colpa viene tradizionalmente fondata sull’idea della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento. Nella prevedibilità ed evitabilità, anzi, risiede la distinzione tra colpa e caso fortuito: giacché non sarebbe giusto né condivisibile ascrivere ad un soggetto le conseguenze di un fatto che egli non poteva

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né prevedere né evitare (per una recente ed approfondita disamina di questo tema si veda Radé, L’impossibile divorce de la faute et de la responsabilité civile, in Recueil Dalloz, 1998, 301). La necessaria prevedibilità dell’evento dannoso è stata affermata anche dalla Corte costituzionale, la quale ha espressamente affermato che, là dove essa manchi, non è possibile una valutazione autonoma della colpa (Corte cost., 27-10-1994, n. 372, in Giust.

civ., 1994, I, 3029). Ovviamente, la prevedibilità o prevenibilità dell’evento non va confusa con la prevedibilità delle conseguenze dannosa da esso scaturite. Come noto, infatti, in materia extracontrattuale il danneggiante risponde anche delle conseguenze imprevedibili della propria condotta.

E’ a questo punto, però, che la nozione di danno esistenziale sembra entrare in apparente collisione con la nozione di colpa come ora tratteggiata. Infatti delle due l’una:

(a) se il danno esistenziale, come i suoi sostenitori mostrano di ritenere, va qualificato

“danno-conseguenza”, la prevedibilità o la prevenibilità dell’evento dannoso (fonte del danno esistenziale, cioè il “danno-evento” propriamente detto) dovrà necessariamente concernere una lesione ontologicamente diversa dalla perdita dell’attività esistenziale: e quindi, ancora una volta, una lesione o biologica, o patrimoniale o morale. Insomma, se il danno esistenziale è un danno-conseguenza, esso presuppone un danno-evento che difficilmente potrebbe collocarsi al di fuori delle tre categorie tradizionali. Ma, se così è, gli effetti della lesione dovranno essere retti dalle regole consuete, e quindi:

(-) in caso di lesione della salute, le perdite esistenziali da questa causate sono già oggi risarcibili, ex artt. 32 cost. e 2043 c.c.;

(-) in caso di danno patrimoniale, le perdite esistenziali da esso causate non sono risarcibili, ex artt. 1223 e 2056 c.c.;

(-) in caso di danno morale, le perdite esistenziali, in quanto fonte di sofferenza, sono già oggi risarcibili ex art. 2059 c.c.;

(b) se invece, per evitare le secche del doppio nesso causale tra condotta illecita e danno- evento, e tra quest’ultimo e danno-conseguenza, si volesse configurare il danno esistenziale come danno-evento, allora verrebbe a mancare del tutto il requisito della prevedibilità o prevenibilità dell’evento di danno, e con esso la configurabilità stessa della colpa civile. Le attività esistenziali perdute in conseguenza dell’altrui illecito, infatti, sono troppo varie e multiformi per potere essere ritenute prevedibili dal danneggiante (come potere seriamente affermare, infatti, che l’offensore possa astrattamente prefigurarsi che

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l’offeso, in conseguenza dell’illecito, non giocherà più a scacchi, non tirerà più di scherma, non collezionerà più etichette di acqua minerale, eccetera?).

Il primo nodo irrisolto della nozione di danno esistenziale appare dunque così riassumibile:

(-) se questo danno è un danno-evento, esso è imprevedibile e dunque non può essere ascritto all’offensore a titolo di colpa;

(-) se esso è un danno-conseguenza, presuppone necessariamente un danno-evento, che dovrà essere biologico, patrimoniale o morale, ed ubbidire alla regole risarcitorie normativamente poste o giurisprudenzialmente elaborate per questi tre tipi di danno.

(B) Contenuto del danno.

Come si è visto in precedenza, il danno esistenziale è tendenzialmente omnicomprensivo:

qualsiasi rinuncia, qualsiasi privazione, qualsiasi perdita di attività dell’esistenza, rappresenterebbe una lesione astrattamente risarcibile. Anche qui, dunque, la nozione di danno esistenziale deve affrontare una “scelta tragica”:

(a) o ammettere che persino la perduta possibilità - ad esempio - di fare schiamazzi, imbrattare i muri, ed insomma di compiere qualsiasi insignificante gesto quotidiano costituisca un danno risarcibile: ed in questo caso l’interprete deve spiegare perché mai debba considerarsi “ingiusta” la perdita della possibilità di compiere un gesto od un’attività insignificanti, inutili od illeciti;

(b) ovvero, ammettere che non qualsiasi perdita esistenziale possa costituire un danno risarcibile: ed in questo caso l’interprete avrà il non agevole compito di individuare il

“selettore”, cioè il criterio in base al quale discernere le perdite esistenziali meritevoli di tutela risarcitoria da quelle non risarcibili, e non è difficile prevedere che l’attività esistenziale meritevole di tutela sarà immancabilmente ancorata o a princìpi costituzionali, o a norme di legge. Ma, in questo modo, viene a perdersi tutta la portata innovativa del danno esistenziale: se infatti, perché il danno sia risarcibile, è necessario individuare la norma costituzionale o la norma di legge alla quale “ancorare” l’ingiustizia del danno, non c’è bisogno di mettere in campo una nuova figura, in quanto già oggi la lesione di un interesse normativamente qualificato costituisce un danno risarcibile, secondo quanto stabilito da Cass. S.U. 500/99. Secondo quest’ultima decisione della Corte di legittimità, qualsiasi lesione, e quindi qualsiasi perdita (patrimoniale, biologica, morale od

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esistenziale), può dar luogo a un risarcimento, a condizione che l’interesse leso: (a) sia protetto da disposizioni specifiche; ovvero (b) sia oggetto di norme che rivelano una esigenza di protezione. Nel primo caso, il risarcimento sarà sempre dovuto, purché sussistano gli altri elementi dell’illecito; nel secondo caso, il risarcimento sarà dovuto se il giudice accerti, nel caso concreto, la prevalenza dell’interesse leso rispetto a quello, eventualmente concorrente, dell’offensore.

La rilettura dell’art. 2043 c.c., proposta dalle Sezioni Unite, pare in qualche modo

“spiazzare” il danno esistenziale: infatti, nel momento in cui si proclama la risarcibilità della lesione di qualsiasi interesse, purché “preso in considerazione dall’ordinamento”, si ammette per ciò solo la risarcibilità anche di qualsiasi perdita esistenziale, a condizione che essa abbia formato oggetto di tutela da parte di una norma positiva.

(C) (In)distinzione dal danno morale.

Il vero punctum dolens della tesi del danno esistenziale è, a parere di chi scrive, la sua distinzione dal danno morale.

Secondo i sostenitori della tesi del danno esistenziale, quest’ultimo costituisce una rinuncia ad un facere, ad una attività positiva, mentre il danno morale costituisce una mera sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile, un pati.

A tale affermazione può replicarsi, in primo luogo, che è pericoloso e controproducente sostenere che il danno morale costituisce una sofferenza “interna”. Se così fosse, tale danno non potrebbe mai essere dedotto né provato in giudizio, giacché i moti dell’animo sono noti solo a chi li avverte. Il risarcimento del danno morale diverrebbe così una pura e semplice sanzione, o - se si preferisce - un grazioso regalo, che il danneggiato avrebbe sempre diritto di pretendere, a prescindere da qualsiasi dimostrazione circa l’effettiva esistenza di esso.

In verità, parte della dottrina perviene in effetti a tale conclusione, argomentando anche dal fatto che il giudice di merito non indaga mai sull’esistenza della sofferenza, ma questa è “presunta sol che l’atto illecito integri gli estremi di un reato (Bilotta, Il danno esistenziale: l’isola che non c’era, in Danno e resp., 2001, 402-403). Argomento che, tuttavia, prova troppo: è in fin troppo chiaro, infatti, che la neghittosità del giudice

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nell’accertare l’esistenza e l’entità del danno non può mai trasformare il risarcimento in sanzione.

In secondo luogo, non convince la distinzione tra danno morale e danno esistenziale fondata sul rilievo secondo cui chi subisce un danno morale “soffre”, mentre chi subisce un danno esistenziale “non fa”. La sofferenza morale causata dall’illecito, infatti, è sempre una sofferenza causata da una rinuncia. Chi non può più andare a cavallo in conseguenza dell’altrui illecito subisce un danno non già nella rinuncia alla cavalcata, ma sofferenza causata da tale rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il c.d. “danno esistenziale” non è che la sofferenza causata da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi un danno morale.

Così, per fare un esempio: la vedova inconsolabile che non trova la forza di uscire di casa dopo la perdita del coniuge, indubbiamente rinuncia a molteplici attività esistenziali (andare al cinema, andare a passeggio, visitare musei e mostre, eccetera). Ma questo tipo di danno, conseguenza della sofferenza morale, già oggi viene messo in conto a valutato al momento della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse, accanto a quest’ultimo, la risarcibilità anche del danno esistenziale, delle due l’una: o si compie una duplicazione risarcitoria, liquidando due volte la pecunia doloris per le medesime privazioni; oppure, se si “scomputa”, per così dire, il danno esistenziale da quello morale, quest’ultimo corre il rischio di divenire davvero una entità sfuggente e difficilmente valutabile.

Del resto, l’identità tra ciò che viene chiamato danno esistenziale, e le più risalenti definizioni di “danno morale”, emerge con chiarezza sol che ci si metta a considerare la

“verità effettuale della cosa, piuttosto che l’imaginatione di essa”.

Sia la dottrina, sia la giurisprudenza che aderisce alla tesi del danno esistenziale definisce quest’ultimo come “disagio”, “sofferenza”, “lesione delle attività realizzatrici della persona”,

“sconvolgimento della vita”. Già le formule utilizzate evidenziano, quindi, che la quidditas del danno consiste in una angustia, nel senso latino del termine.

Ebbene, se questa è l’essenza del danno esistenziale, deve ammettersi che essa - cioè la sofferenza causata dalla forzosa rinuncia ad una attività non remunerativa - si identifica senza residui con la tradizionale definizione di “danno morale” (valga per tutti l’autorità del Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano 1946, 750, il quale definisce il danno

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morale come qualsiasi lesione della “personalità umana in tutta la sua interezza”). Lo stesso è a dirsi per la perdita di una persona cara: già il Laurent, nei suoi celebri Principii, citando una decisione del tribunale di Aix, non aveva dubbi nell’affermare che il danno morale subito dai figli, per la perdita del padre, consisteva sia nella privazione della

“salutare influenza del padre di famiglia”, sia nella lesione dei “ligami di affetto” (Laurent, Principii di diritto civile, XX, Napoli-Roma-Milano, 1881, 413): parole che andrebbero ricordate a quanti pretendono di distinguere tra il danno morale e il danno da lesione dell’affettività parentale.

La sovrapponibilità concettuale tra danno morale ed esistenziale emerge anche su un piano più prettamente giuridico. I sostenitori della tesi del danno esistenziale affermano che il danno morale risarcibile ex art. 2059 c.c. sarebbe rappresentato dalla mera

“sofferenza”; mentre il danno esistenziale risarcibile ex art. 2043 c.c. sarebbe rappresentato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Orbene, poiché si afferma la diversità ontologica di questi due pregiudizi, deve concludersi che i sostenitori della tesi in esame ammettono implicitamente che il danno morale ex art. 2059 c.c. non costituisce una lesione di diritti costituzionalmente protetti. Se, infatti, la “sofferenza morale” costituisse lesione di un diritto costituzionalmente protetto, l’art. 2059 c.c.

dovrebbe di necessità ritenersi costituzionalmente illegittimo. Invece, nessuno dei sostenitori della tesi del danno esistenziale prospetta un esito demolitorio della norma in esame, come se il danno morale non costituisse mai un vulnus ad alcun diritto costituzionalmente protetto. Ma questa conclusione è palesemente insostenibile. La sofferenza per la perdita d’una persona cara, per la perdita della salute, per la perdita della reputazione, per la perdita della stima da parte dei propri familiari, se causate dall’altrui atto illecito, costituiscono altrettante gravi violazioni di altrettanti diritti costituzionalmente protetti. Il danno morale dunque deriva (o almeno deriva anche) dalla lesione di diritti tutelati a livello di costituzione; ma se così è, non si comprende come la vittima possa pretendere il risarcimento d’un danno esistenziale per la perdita di un’attività oggetto di tutela costituzionale, e nel contempo il risarcimento d’un danno morale per la sofferenza causata da quella rinuncia. Medesima è la lesione, medesima la sofferenza, ma duplice il risarcimento invocato.

Si consideri, inoltre, che tra i vari “casi previsti dalla legge” in cui è risarcibile il danno morale, rientrano l’impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali (art. 29,

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comma 9, l. 31.12.1996 n. 675), e l’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi (art. 44, comma 7, d. lgs. 25.7.1998 n. 286). Ebbene, sarebbe assai difficile sostenere che il diritto alla riservatezza dei propri dati personali o quello a non essere discriminati per ragioni razziali non costituiscano diritti costituzionalmente garantiti.

Eppure, se il legislatore ha voluto espressamente prevedere la risarcibilità del danno morale anche in questi casi, vuol dire che gli strumenti ordinari (primo fra tutti, l’art. 2043 c.c.) non erano sufficienti a dare tutela ai diritti in esame. Detto altrimenti: se davvero, come sostengono i sostenitori della tesi del danno esistenziale, il combinato disposto dell’art. 2 cost. e 2043 c.c. consentirebbe di risarcire il danno (per restare nell’esempio) da discriminazione razziale che non costituisca reato e non causi perdite patrimoniali o biologiche, l’art. 44, comma 7, d. lgs. 25.7.1998 n. 286 non avrebbe alcun senso, ed il legislatore avrebbe sancito la risarcibilità di un danno che sarebbe stato comunque pacificamente risarcibile, anche in assenza della suddetta norma.

Ove si condividano le osservazioni sin qui svolte, deve concludersi che il la teoria del danno esistenziale non costituisce che un raffinatissimo tentativo di aggirare (consapevolmente o meno) il divieto di cui all’art. 2059 c.c., secondo una tecnica che la storia del nostro ordinamento ha già conosciuto (per una rilettura dell’intera “vicenda” del danno biologico quale aggiramento dell’art. 2059 c.c., si veda l’ampio studio di Rossato, Considerazioni in tema di risarcimento del danno non patrimoniale. Una comparazione economico-giuridica, Riv. dir. civ., II, 59).

4. Il nuovo orientamento della Cassazione in tema di danni non patrimoniali.

Con l’importante sentenza 31.5.2003 n. 8827, in Assicurazioni, 2003, II, 2, 111, la corte di cassazione è intervenuta in tema di danni non patrimoniali, provvedendo ad una rivisitazione dell'intera materia. Rinviando alle schede "Danno biologico" e "Danno morale"

per una più approfondita analisi della sentenza appena ricordata, ai fini che qui rilevano può osservarsi come la sentenza in esame abbia scelto, sul tema del danno esistenziale una tesi "compromissoria".

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La corte di cassazione, infatti, in sintonia con i sostenitori della tesi del danno esistenziale, ha affermato che il mutamento forzoso delle proprie abitudini di vita, causato dal fatto illecito altrui, può certamente costituire un pregiudizio risarcibile.

Essa ha tuttavia aggiunto, e ciò in distonia rispetto ai sostenitori della tesi del danno esistenziale, che:

(a) il mutamento forzoso delle abitudini di vita, causato dal fatto illecito altrui, può costituire un danno risarcibile soltanto a condizione che esso derivi dalla lesione di un interesse della persona di rango costituzionale;

(b) il danno in esame è risarcibile non già in base all'articolo 2043 cod. civ., ma in base all'articolo 2059 cod. civ., sia pure senza il limite ivi previsto;

(c) il danno in esame non è mai in re ipsa, ma va sempre allegato e dimostrato;

(d) infine, quel che più rileva ai fini pratici, il danno in esame rientra nell'ampio gene uso dei danni non patrimoniali, al pari del danno morale e di quello biologico. La liquidazione di esso, pertanto, non può puramente e semplicemente sommarsi alla liquidazione del danno morale e di quello biologico, ma deve essere adeguatamente calibrata dal giudice del merito, il quale deve tener conto congiuntamente e complessivamente di tutti i pregiudizi non patrimoniali patiti dalla vittima nel caso concreto, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie.

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