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FORUM DANNO ESISTENZIALE*

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TAGETE -ARCHIVES OF LEGAL MEDICINE AND DENTISTRY

TAGETE 2-2009 Year XV

FORUM DANNO ESISTENZIALE

FORUM DANNO ESISTENZIALE*

*Dibattito sul danno esistenziale dopo la sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione. I contenuti sono stati liberamente inseriti dagli utenti sul forum di discussione tenuto sul sito www.melchiorregioia.it durante tutto il 2009.

COMMENTO INSERITO DA: Maurizio Hazan

*

E ALLA FINE DECISE OCCAM: LA REGOLA DEL RASOIO NEL NUOVO DANNO NON PATRIMONIALE….

Lunghi anni di ricami ideologici, intessuti su intelaiature talvolta metagiuridiche, hanno imbastito un dibattito - quello sull’esistenza del così detto danno esistenziale e sulle nuove coordinate del danno non patrimoniale - giocato più sul piano della dialettica fine che su quello della effettiva individuazione dei concreti criteri a cui fare riferimento nella valutazione e liquidazione dei danni alla persona. ...

* Avvocato, Foro di Milano

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E alla fine decise Occam : la regola del rasoio nel nuovo danno non patrimoniale….

Maurizio Hazan Avvocato in Milano

Lunghi anni di ricami ideologici, intessuti su intelaiature talvolta metagiuridiche, hanno imbastito un dibattito - quello sull’esistenza del così detto danno esistenziale e sulle nuove coordinate del danno non patrimoniale - giocato più sul piano della dialettica fine che su quello della effettiva individuazione dei concreti criteri a cui fare riferimento nella valutazione e liquidazione dei danni alla persona.

La centralità – sociale e macroeconomica - del tema, a fronte del dilatarsi del confronto tra sostenitori ed oppositori della dottrina esistenzialista, ha via via diffuso presso gli operatori del diritto un latente, ma netto, senso di insoddisfazione verso i più recenti approcci giurisprudenziali (non sempre coerenti ed, anzi, sovente incerti e zigzaganti).

Di qui una non procrastinabile esigenza di chiarezza, mirabilmente espressa nella nota ordinanza interlocutoria di rimessione n. 4712/2008 del 25 febbraio 2008D, già pubblicata in questa stessa rivista1, ed in particolare negli otto quesiti che ne costituiscono il fulcro argomentativo.

Febbrile l’attesa che ne è scaturita, tra l’auspicio ed il dubbio che le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel dare risposta a tali quesiti, potessero effettivamente risolvere ogni precedente incertezza e chiudere il cerchio con argomenti (oltre che intenzioni) definitivi e dirimenti.

Attesa che, a nostro parere, non è rimasta delusa, se è vero, come è vero, che la tanto agognata pronunzia ha fornito un contributo deciso, tutt’altro che timido e destinato ad incidere fortemente sulle future sorti del risarcimento danno alla persona.

Ci riferiamo alla sentenza in commento (26972/08 dell’ 11 novembre 2008), la quale – in uno con le altre pronunzie “gemelle” emesse in pari data – ha inteso scardinare a colpi di maglio buona parte dei precedenti avvitamenti teorici, risistemando la materia nell’alveo di una semplicità smarrita e tutta incentrata sul recupero del valore positivo di principi sanciti a livello normativo (in luogo di quelli, meno definiti, ispirati ad un giusnaturalismo di “ritorno” e rinvenibili nel così detto diritto “vivente”).

Peraltro, nel superare di slancio i recinti della questione esistenziale e votandosi all’affermazione di una incontrovertibile unitarietà del danno non patrimoniale, la Corte di Cassazione, con specifico riferimento ai danni da lesioni personali, si è spinta sino a negare alcuni automatismi liquidativi che per decenni hanno informato la prassi; con ciò abrogando, di fatto, una posta di danno - quello morale - che, proprio in quella prassi, non era mai stata messa in discussione (almeno nelle Corti, use a quantificare tale voce in termini percentuali rispetto alla misura accertata del danno biologico).

Il prevedibile impatto di una tale impostazione sull’intero sistema dei risarcimenti dei danni fisici alla persona, profilando il rischio di una evidente contrazione dei compendi concretamente liquidabili, ha costituito il primo argomento attorno al quale qualche d’uno tra i primi commentatori ha ritenuto di poter

“gridare allo scandalo”, tacciando la sentenza di ingiustizia sostanziale, lesiva del principio di integrale risarcimento del danno.

Così, vi è chi, propugnando il cestinamento delle conclusioni della Suprema Corte – frutto, a suo dire, di

“incredibile abbaglio” - ha affermato la necessaria sopravvivenza dei criteri liquidativi precedentemente in uso, con mantenimento del separato risarcimento del danno biologico (personalizzato) e del danno morale2. Altri hanno parlato di “Ossessione negazionista”, criticando apertamente il “nuovo generico calderone del danno non patrimoniale”3.

1Diritto ed Economia dell’Assicurazione, Anno L Fasc. 2-3 2008, con nota di M. Hazan, pag. 524 ss.

2M. Bona, Danno biologico e pregiudizi morali nelle sentenze delle Sezioni Unite, in www. altalex.com

3G. Cesari, Il risarcimento del nuovo danno non patrimoniale con pregiudizi esistenziali. Prime riflessioni, in www.altalex.com

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Più in generale, si è adombrata una visione filo assicurativa, in quanto tale inopportuna e meritevole di censura.

Tali critiche, a nostro parere, non colgono – o non colgono del tutto - nel segno.

Al di là degli schemi concettuali utilizzati, la rivoluzionaria idea di assorbire nel danno biologico non solo le componenti dinamico relazionali proprie del pregiudizio esistenziale, ma anche le più evanescenti poste

“morali soggettive”, risulta tutt’altro che un’avventurosa astrazione contra legem; al contrario, pare fondarsi proprio su di una tra le possibili interpretazioni degli artt. 138 e 139 del nuovo Codice delle Assicurazioni private. Norme cui può attribuirsi una valenza catalizzante di ogni aspetto del danno risarcibile, senza lasciar spazi residui per separate ed ulteriori valutazioni di danni esistenziali o morali4.

D’altra parte, anche al di là delle novità introdotte dal Codice delle Assicurazioni, l’effettiva possibilità di separatamente enucleare un pregiudizio morale soggettivo, in aggiunta ed a fianco del danno biologico nella sua proiezione dinamico relazionale (rectius: esistenziale), si scontra con un limite euristico difficilmente superabile (così ponendo seri, ancorché tardivi, dubbi sulla reale validità dei consolidati criteri di liquidazione del danno morale, sempre computato in quota percentuale del biologico ed in assenza di solidi agganci valutativi).

Nell’attingere, dunque, alle indicazioni fornite dal Codice, gli Ermellini confermano la bontà di alcune opzioni ermeneutiche precedentemente ipotizzate (in nota in questa rivista), rivisitando la teoria del danno non patrimoniale in termini semplificati, ma non per questo semplicistici (e neppure, a ben voler vedere, negazionisti rispetto al tema dell’”esistenza del danno esistenziale”; ma sul punto torneremo più avanti) . Rimangono, certo, alcune zone d’ombra; ma non tali, a nostro parere, da giustificare le rinnovate

“geremiadi” che, trovando linfa e pretesto nella pronunzia, sembrano invece aver già alimentato un nuovo serrato dibattito dottrinale. Dibattito pericoloso, perché tale da poter condurre a sgradevoli ricadute negli antichi imbarazzi ed annichilire gli sforzi compiuti dalla Suprema Corte al fine di fornire coordinate operative il più possibile nette.

Si tratta dunque di verificare, se e come - alla luce della pronunzia delle Sezioni Unite (e dei rinvii normativi in essa contenuti) - sia oggi possibile calibrare con sufficiente precisione il nuovo assetto risarcitorio del danno non patrimoniale, soprattutto nel campo del danno da lesioni personali pisco fisiche. E in questo senso ci muoveremo, tentando di approcciare la materia secondo un percorso metodologico il più possibile semplice e lineare.

I temi generali e un po’ di storia

Come è noto, l’emersione della tesi esistenzialista è coincisa con la progressiva erosione dell’idea della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale alle sole ipotesi di reato; idea che, strettamente ancorata al combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 185 del Codice Penale, rivelava finalità non soltanto compensative ma anche apertamente punitive (come ben confermato dalla relazione ministeriale al cod.civ., che sull’art. 2059 c.c. non lascia spazio a dubbi: “soltanto nel caso di reato é più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere preventivo”5

Nella sua veste “penalistico” repressiva, il danno non patrimoniale veniva fatto coincidere con una sofferenza contingente e transitoria, del tutto fisiologicamente correlata all’offesa subita e convenzionalmente definita come “danno morale soggettivo”.

4in tal senso mi sia concesso di richiamare quanto rilevato in M. Hazan, La nuova assicurazione della RCA nell’era del risarcimento diretto, Milano 2006, pag. 165.

5Relazione della commissione Reale al progetto del Libro “Obbligazioni e Contratti” p. 27

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Il percorso di ulteriore emancipazione del danno non patrimoniale6 doveva dunque passare attraverso la liberazione da tali iniziali strettoie penalistiche, con progressiva affermazione di aree entro le quali quel tipo di danno risultasse risarcibile anche a prescindere dalla qualificabilità del fatto illecito in termini di reato.

Come ben sintetizzato dalla pronunzia in commento, tale percorso si è articolato in più fasi, muovendo dal riconoscimento giurisprudenziale del così detto danno biologico, inteso quale lesione dell'integrità psico fisica della persona, diversa dal danno morale soggettivo e non necessariamente derivante da un reato (si pensi alle ipotesi in cui ci si trovi di fronte a criteri oggettivi di imputazione della responsabilità).

Si è poi assistito al progressivo ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge, con esplicito riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in determinate e ben tipizzate ipotesi di lesione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; art.

44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; art. 2 1. n. 89/2001).

Di passo in passo si è addirittura giunti allo sdoganamento dell’idea della risarcibilità del danno non patrimoniale a favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000), quale pregiudizio evidentemente non confondibile con il danno morale soggettivo.

Ebbene, nella scia di tale tendenza evolutiva va collocata la genesi della concezione esistenzialista, secondo la quale il “valore persona” - la cui compromissione esigeva naturale riparazione anche sotto il profilo non patrimoniale - non avrebbe potuto esaurirsi nella dimensione psicofisica dell’individuo, né nella sfera soggettiva dei turbamenti interiori. Secondo tale teoria, doveva dunque risarcirsi anche il pregiudizio individuato nella alterazione della vita di relazione, intesa in senso lato e consistente nel “non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati”.

Al fine di affermare l’autonoma risarcibilità di tale posta di danno si ritenne, come già era stato fatto per il danno biologico, di doversi sganciare dalla tradizionale dicotomia codicistica, secondo la quale l’art. 2043 c.c. costituiva clausola generale per il risarcimento dei soli danni patrimoniali, mentre l’art. 2059 c.c.

individuava (tassativamente e tipicamente) gli spazi di residua risarcibilità dei danni non patrimoniali. Così, il risarcimento del danno esistenziale avrebbe dovuto essere ammesso sulla scorta di una nuova lettura dell’art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice non solo del risarcimento del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona (sotto il profilo tanto biologico che dinamico relazionale).

Ma a prescindere dagli appigli teorici di volta in volta escogitati, non vi era dubbio che all’alba del nuovo millennio il danno non patrimoniale avesse completato un disegno espansivo, arricchendosi di significati e componenti che in origine non gli erano propri. La coscienza sociale, corroboratasi nella crescente consapevolezza dell’importanza – nei tempi moderni – dei valori correlati allo sviluppo ed alla espressione della personalità in ambito famigliare e civile, ne reclamava a viva voce la risarcibilità, protestando l’assoluta inadeguatezza dei rigidi schemi codicistici del ’42 (divenuti ormai anacronistici).

Si trattava, dunque, di individuare un definitivo argomento giuridico attorno al quale costruire una più sicura teoria del danno non patrimoniale, tale da assicurare la soddisfazione di quelle istanze, socialmente condivise e ormai non più trascurabili. In questo contesto, ed in assenza di interventi legislativi, si collocano le celebri sentenze gemelle n. 8827 e n. 8828/2003, con le quali la Suprema Corte ha dato avallo ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. e del rinvio in essa contenuto. In forza di tale impostazione è stato affermato che il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, “….anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale”.

Per effetto di tale nuovo approccio al problema, subito ratificato dalla Consulta7, il risarcimento di ogni danno da lesione di interessi personali garantiti dalla legge fondamentale veniva ora assicurato dalla

6si consideri come l’art. 185 c.p. avesse di per sé contraddistinto il primo superamento formale della teoria della non risarcibilità del danno morale.

7Corte Cost., sent. n. 223/2003

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semplice applicazione dell'art. 2059 c.c., nella sua interpretazione costituzionalmente orientata. Ciò consentiva di mantener ferma la bipartizione codicistica, rispettando le aree di applicazione originariamente e rispettivamente assegnate agli artt. 2043 e 2059 e riconducendo entro il paradigma di quest’ultimo il risarcimento di ogni danno non patrimoniale, anche se derivante dalla compromissione di valori personali costituzionalmente protetti (compreso il biologico, ex art. 32 della Costituzione).

Questo, in sintesi, lo stato dell’arte, anteriore alla pronunzia delle Sezioni Unite.

A quel punto il dibattito attorno all’esistenza, o meno, del danno esistenziale poteva ritenersi sostanzialmente esaurito, dal momento che la stessa Consulta non ebbe titubanze nell’affermare che l’art.

2059 c.c., proprio per effetto di tale lettura estensiva, consentiva di risarcire non solo il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo, ma anche il danno biologico ed il danno

“(spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona ».

Il passaggio ulteriore avrebbe dovuto consistere nella trasposizione sul piano pratico di quegli enunciati teorici, attraverso la selezione degli interessi costituzionalmente garantiti (la cui lesione doveva ritenersi effettivamente risarcibile) e l’indicazione dei relativi criteri di quantificazione del danno .

Il tutto avendo cura di chiarire i rapporti di correlazione eventuale con le altre e diverse poste di danno non patrimoniale (biologico e morale soggettivo), individuandone, ove possibile, i tratti distintivi.

Ma proprio nella difficoltà di utilmente distinguere, al di là dei meri esercizi definitori, il danno morale da quello esistenziale (e quest’ultimo dal danno biologico) si è andato manifestando il limite maggiore incontrato dalla dottrina esistenzialista più radicale. Una dottrina che, muovendo da una equivoca e parziale interpretazione del triclinio concettuale sancito dalla Consulta, ha ritenuto di accordare apodittica rilevanza non tanto all’interesse leso quanto al fatto stesso della compromissione della sfera del “fare aredittuale del soggetto” (a prescindere dalla individuazione del valore costituzionale leso, posto a monte di quella compromissione). Ciò dava luogo ad una tautologia - quella secondo cui qualsiasi diminuzione nella qualità della vita di relazione implicasse, ex se, la violazione di un interesse costituzionalmente protetto - in nessun modo autorizzata dalla Consulta (né dalle Sentenze gemelle del 2003) e tale da ingenerare la fallace convinzione che il danno esistenziale potesse ritagliarsi uno spazio del tutto autonomo rispetto alle altre figure di danno non patrimoniale (in quanto tale suscettibile sempre di separata liquidazione, anche laddove coesistente con componenti di tipo non patrimoniale o morale soggettivo).

Tale modo di ragionare implicava, all’evidenza, almeno due gravissimi problemi:

a) il rischio di una evidente duplicazione dei risarcimenti, indotto dalla liquidazione a titolo diverso (morale ed esistenziale od esistenziale e biologico) di uno stesso pregiudizio sostanziale; rischio aggravato dalla seria difficoltà di distinguere, sul piano ontologico, il danno morale soggettivo da quello dinamico relazionale, posto che il “non poter più fare” costituisce, per il soggetto leso, pur sempre un pregiudizio attinente la sfera del “sentire interiore”, consistente nella sofferenza derivante dalla propria diminuità sfera dinamico relazionale (sofferenza che potrebbe, in determinati casi, non manifestarsi affatto, laddove l’illecito abbia impedito attività che il soggetto considerava sgradevoli)8. E semanticamente ben potrebbe affermarsi un rapporto di vera e propria iponimia tra il lemma “morale” e quello “esistenziale”.

b) Il rischio di dare ingresso al risarcimento di una serie infinita di risibili pretese di ristoro di danni bagatellari, da “lesione dello stile di vita”; pretese del tutto disancorate da seri addentellati costituzionali e fondate invece sulla affermazione della necessaria riparazione di qualsiasi compromissione del valore “vita di relazione”, in sé e per sé considerato.

E’ soprattutto attorno a questi due argomenti di rischio che il tema del danno esistenziale ha continuato ad esser trattato nel quinquennio successivo all’intervento della Consulta.

8si pensi al caso limite di un coniuge che per effetto del decesso dell’altro, perda la possibilità di intrattenere con questi rapporti che, in realtà, disdegnava, essendosi la relazione di coniugio deteriorata in modo irreversibile.

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Nel mentre (settembre 2005) irrompeva nel nostro sistema di diritto positivo il Codice delle Assicurazioni9, destinato a fornire un contributo insospettabile alla compiuta elaborazione della nuova teoria del danno non patrimoniale. Ed invero, sia pur con limitato angolo di visuale (quello dei risarcimenti da lesioni personali in caso di sinistri stradali), il nuovo Testo Unico - artt. 138 e 139 - forniva le nuove coordinate del pregiudizio risarcibile, ratificando, da un lato, l’idea della necessaria disfunzionalità, sul piano dinamico relazionale, del danno biologico10; dall’altro avallando la tesi della separata risarcibilità, sia pure entro limiti pre designati, di quelle componenti di danno – tipicamente esistenziali – che avessero inciso in modo significativo e rilevante la sfera personale del soggetto leso.

Si trattava, dunque, del primo, espresso, riconoscimento del danno esistenziale, valorizzato nella sua dimensione specifica ed individualissima, a latere di quelle componenti dinamico relazionali “medie” che devono ritenersi normalmente connaturate a qualsiasi apprezzabile lesione della salute.

Come già ebbi occasione di rilevare11, tale contributo poteva ritenersi davvero decisivo, giacchè indicava anche un percorso selettivo attraverso il quale stabilire se, e quando, i pregiudizi esistenziali meritassero di essere risarciti; percorso selettivo da effettuarsi in base al criterio della rilevanza (art. 138 comma 3) e quindi della effettiva serietà e gravità delle conseguenze dinamico relazionali materialmente derivate al soggetto leso.

Di più. La mancata indicazione del danno morale soggettivo, quale posta risarcibile a fianco del biologico (e delle componenti esistenziali, ove separatamente e percentualmente liquidate) poteva già far sorgere il (legittimo) dubbio circa l’espunzione di tale voce dal novero dei pregiudizi meritevoli di separata ed autonoma valutazione.

In questo passaggio, si badi, risiede la straordinaria assonanza, di cui daremo conto tra breve, con l’impostazione – asseritamente rivoluzionaria – oggi seguita dalle Sezioni Unite (proprio in relazione alla radiazione del morale dalle voci di danno risarcibile in caso di lesioni fisiche).

Malgrado la sua evidente centralità – costituendo la prima esperienza di trasposizione legislativa dei principi elaborati dalla Consulta – il Codice delle Assicurazioni è stato relegato ai margini della questione esistenzialista. Una questione il cui sterile e continuo avvilupparsi ha condotto alla ordinanza di rimessione n. 47982/2008 ed alla successiva emissione della sentenza in commento.

La definitiva affermazione del danno non patrimoniale come categoria unitaria ed altre questioni di metodo. Loro relativa irrilevanza.

Ora, nell’intervenire sul tema, le Sezioni Unite hanno inteso preliminarmente chiarire (rectius: ribadire) un aspetto metodologico che, nonostante il dilatarsi del confronto dottrinale, doveva ritenersi fermo e ben definito sin dal 2003.

In questo senso viene infatti subito precisato che le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle “sentenze gemelle” del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte costituzionale, vanno intese come mera sintesi descrittiva, e giammai come autonome categorie di danno: “ Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003) , e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003) . Considerazioni che le Sezioni unite condividono”.

Si può dunque agevolmente rilevare come l’affermazione della unitarietà della categoria generale del danno non patrimoniale (ribadita in più passi della pronunzia in commento) non costituisce un elemento di effettiva

9D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209.

10idea già insita nella definizione di cui al D.Lgs. 38/2000.

11v. sub nota 1.

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novità, limitandosi - al contrario – a recepire le indicazioni da tempo fornite dalla stessa Corte di Cassazione.

Sulla scorta della predetta affermazione, le Sezioni Unite hanno quindi escluso la possibilità di conferire autonomo rilievo alla categoria del danno esistenziale, anche perché “attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo la Costituzione”.

Sennonché l’utilità pratica di tale impostazione resta tutta da dimostrare: che il pregiudizio da compromissione del fare areddituale del soggetto leso sia liquidabile quale posta autonoma di danno, ovvero come semplice espressione di uno dei vari aspetti attraverso i quali il danno non patrimoniale (unitariamente inteso) può manifestarsi, pare – a mio parere – questione meramente accademica e tale da non incidere sulla concreta quantificazione del compendio risarcibile (complessivamente valutato). Cosa cambia, in effetti, se la valutazione del danno esistenziale viene fatta in via autonoma o all’esito di un processo di scomposizione del pregiudizio non patrimoniale in ciascuna delle sue componenti?!12

Il centro della questione non sta del resto nella scelta della cornice argomentativa più idonea o convincente, bensì nell’individuazione di criteri valutativi chiari e definitivi, tali comunque da consentire – dapprima – di evidenziare, separare ed enucleare i profili esistenziali, distinguendoli, ove possibile, da altri e diversi aspetti non patrimoniali; indi di valutarne la risarcibilità, sotto il profilo dell’an e del quantum.

In questo senso, la differenziazione tra pregiudizio esistenziale e danno morale (ovvero l’assorbimento del secondo nel primo) torna a costituire l’elemento di maggior complessità valutativa.

Ma neppure la tesi della necessaria tipicità del danno non patrimoniale, a fronte della atipicità di quello patrimoniale, ancorché costruita attorno al noto dualismo codicistico (retto dal binomio rappresentato dagli artt. 2043/2059 c.c.), sembra rivestire significati concretamente apprezzabili.

Per tale via le Sezioni Unite hanno voluto ulteriormente sostenere l’impossibilità di accordare alla categoria del danno esistenziale quell’autonoma rilevanza che, ove sostenibile, darebbe luogo alla possibilità di risarcire qualsiasi compromissione della sfera dinamico relazionale in sé e per sé considerata, e cioè anche a prescindere dalla rilevanza costituzionale dell’interesso leso.

Tale tesi impatta il limite, ben evidenziato in dottrina, della nota difficoltà di tipizzare e circoscrivere la categoria dei diritti inviolabili e costituzionalmente garantiti; il fatto che l’art. 2 Cost. “venga inteso alla stregua di una clausola generale, attraverso la quale potrebbe essere riconosciuta la rilevanza di un ventaglio di interessi della persona potenzialmente illimitato”13 colora il rinvio contenuto nell’art. 2059 (nella sua lettura costituzionale) di una tipicità soltanto apparente, dietro alla quale si cela in realtà un evidente polimorfismo sostanziale14

Ciò a maggior ragione laddove si consideri come le stesse Sezioni Unite finiscano esse stesse per relativizzare il rinvio alla norma costituzionale, descrivendone l’elasticità di applicazione, anche in prospettiva evolutiva: “La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.”15

A voler continuare l’opera di disgregazione delle astratte architetture teoriche fatte proprie dalla sentenza in

12Al riguardo sono da conidvidersi le osservazioni in tal senso svolte da alcuni autori, secondo i quali “il contrasto segnalato è più teorico che pratico” ( in F. Caringella – De Marzo, Manuale di diritto civile, II – Le obbligazioni, Milano - 2007)

13Così Patrizia Ziviz, “Il danno non patrimoniale nell’era del mutamento” in Resp . civ. e prev. n.2/Febbraio 2006, pag. 235

14In questo senso pare più che condivisibile il rilievo svolto da Cassano a proposito della “falsa tipicità” del danno non patrimoniale; in G. Cassano, Primissime note critiche alla sentenza n. 26972/2008 della Cassazione Civile, in www. altalex.com).

15Cass. S.U. sent. n. 26972/2008.

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commento, potrebbe opinarsi la sostenibilità della tesi relativa alla necessità di “riportare il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.)”.

Orbene, che il sistema risarcitorio si fondi sulla bipolare distinzione del danno patrimoniale da quello non patrimoniale non pare revocarsi in dubbio.

Che la disciplina del danno non patrimoniale trovi esclusiva fonte nel rinvio di cui all’art. 2059 c.c.

costituisce, invece, passaggio ulteriore, forse non inevitabile. Passaggio sostenuto dalle Sezioni Unite senza avvedersi della larvata contraddizione in cui le stesse sono cadute occupandosi degli aspetti connessi al risarcimento dei danni in ambito contrattuale. Ed invero, al punto 4.1. della pronunzia in commento si afferma che “L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali. Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.” Qui il principio del necessario riconoscimento della minima tutela risarcitoria per i diritti inviolabili della persona pare dotato di assoluta autosufficienza, e tale da postulare l’obbligo risarcitorio a prescindere dal contesto, contrattuale od aquiliano, in cui è chiamato ad operare. Ma se così fosse, non si comprenderebbe la necessità di costituzionalizzare, in ambito extracontrattuale, il rinvio contenuto nell’art. 2059 c.c.: rinvio che, proprio alla luce della ontologica risarcibilità dei danni da lesione di diritti inviolabili della persona, non risulterebbe affatto necessario. Ciò parrebbe ridar pregio alla tecnica, da taluni definita del “travaso” dall’art. 2059 c.c. al 2043 c.c. 16, già utilizzata con riferimento al danno biologico (senza necessità alcuna di qualificare la lesione dei diritti costituzionalmente garantiti come tertium genus di danno, distinto dalle due macro categorie istituzionali).

Alla luce delle osservazioni sin qui svolte può ricavarsi un senso di velata insoddisfazione per le didascaliche enunciazione teoriche elaborate dalle Sezioni Unite (ed in realtà sostanzialmente recepite dalle precedenti sentenze gemelle del 2003): nulla di nuovo e nulla di rilevante, insomma. Ma il contributo di fondamentale novità sta, come vedremo tra poco, altrove.

Alla ricerca di adeguati criteri selettivi: la gravità e la serietà del danno.

A fronte della cennata labilità e vaghezza del rinvio all’art. 2 della Cost., il cui filtro selettivo potrebbe rivelarsi tanto lasso da ammettere al risarcimento pregiudizi personali del più disparato genere e tipo, le Sezioni Unite forniscono una chiave di lettura ulteriore, e certamente più pregna di significati concreti.

Ci riferiamo a quanto sottolineato al punto 3.11 dell’arresto in commento:

“3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. … Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).”

Ecco, dunque, che non ogni pregiudizio derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona postula un correlato diritto risarcitorio, ma soltanto un pregiudizio di apprezzabile serietà e rilevanza. Anche sotto questo profilo non possiamo non notare l’esistenza di chiari punti di contatto con l’art. 138 comma 3 del codice delle assicurazioni, nella parte in cui, normando l’individualissima componente dinamico/relazionale del danno da lesioni di non modesta entità, ne condiziona la risarcibilità al ricorrere di determinati requisiti di rilevanza, escludendone ab implicito il ristoro in ipotesi non sufficientemente apprezzabili (sotto il profilo dell’ incisione della sfera personale del soggetto leso).

La sussistenza dei declamati requisiti di gravità e serietà devono “essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in

16M. Rossetti, Guida pratica per il calcolo di danni, interessi e rivalutazione - Milano 2006.

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materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002)”17 . Il che introduce un concetto giustamente elastico, ma non per questo inidoneo a risolvere, in via forse definitiva, il primo dei due macroproblemi di cui si era fatto cenno poc’anzi. Quello della necessità di evitare spinte inflazionistiche di quel contenzioso, di dubbia serietà, fondato su richieste di risarcimento di pregiudizi bagatellari invocate nel nome di pretese compromissioni esistenziali. Ed invero, in tutti i casi in cui il filtro della riconducibilità dell’interesse leso entro il menzionato paradigma costituzionale non si rivelasse sufficiente, entrerebbe in gioco il secondo barrage della rilevanza e gravità della lesione. Ecco dunque disegnarsi un sistema selettivo coordinato su di un asse cartesiano ideale, tale da sopperire alla bisogna e consentire di espungere dal novero delle posizioni risarcibili, in ambito aquiliano, quelle richieste di non apprezzabile consistenza.

Ciò del resto, segna il punto di approdo di un percorso, quello compiuto dal danno non patrimoniale nel corso del ventesimo secolo, che ha tratteggiato un arco assai esteso, muovendo dalla affermazione della propria ontologica irrisarcibilità sino a giungere alla rivendicazione di spazi di tutela sempre più ampi.

Ebbene, tale iter emancipativo, connesso al progressivo “deperimento delle alternative funzionali che esoneravano la responsabilità civile dal carico dei problemi sociali da esse fronteggiate”18 non dovrebbe giungere ad un totale ribaltamento delle prospettazioni di partenze. Dall’affermazione della non convertibilità del dolore in danaro alla opposta rivendicazione della risarcibilità di qualunque moto avverso dell’anima il salto è troppo brusco per poter essere concepito, prima ancora che accettato.

E ciò a maggiore ragione in ossequio a quel principio conservativo di equo contemperamento dei rischi e di corretta ridistribuzione delle risorse di cui, in un’ottica di utilità sociale condivisa, non potrà non tenersi conto anche nell’affrontare il secondo dei due temi posti al centro della vicenda del danno non patrimoniale.

Ci riferiamo al problema della

Individuazione dei criteri distintivi tra le varie poste di danno.

Come a più riprese segnalato, lo snodo finale della questione risiede, a mio parere, nella necessità di distinguere effettivamente le diverse poste di pregiudizio riconducibili entro la nozione di danno non patrimoniale.

Che si tratti di sottocategorie autonome (come ragionevolmente dovrebbe escludersi) o di semplici indicazioni aventi mera valenza descrittiva poco importa: le voci definite come danno morale soggettivo, danno biologico e danno esistenziale richiedono di poter essere, tra loro, adeguatamente distinte, prima di esser separatamente o cumulativamente valorizzate. Il tutto avendo cura di comprendere in quale rapporto di reciproca correlazione/interazione possano porsi, ove coesistenti.

Il problema merita di esser affrontato muovendo dal tripartizione ratificata dalla Consulta, che ha ritenuto di poter ricomprendere, nell’astratta previsione dell’art. 2059 c.c. “ sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dllo stato d’animo che….. il danno biologico in senso stretto…...che il danno (spesso definito come esistenziale) derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”19.

Questa definizione che, per anni, ha costituito il punto di partenza di ogni teoria in materia, consente anzitutto di evidenziare il differente approccio seguito dalle Sezioni Unite nel limitare il rinvio costituzionale non ad ogni interesse tutelato dalla Carta ma ai soli diritti inviolabili della persona. A prescindere da tale intento selettivo (la cui utilità concreta non pare, come detto, risolutiva), va osservato come la formula utilizzata dalla Consulta ha finito per ingenerare un equivoco di fondo, espresso dal sillogismo “danno esistenziale = danno da lesione di interessi di rango costituzionale”.

Quasi a voler dire che al verificarsi di una tale lesione ci si trovi necessariamente innanzi ad una fattispecie

“tipica” di danno esistenziale.

Trattasi, all’evidenza, di un diverso modo per approcciare un medesimo problema: quello afferente la necessità di distinguere l’interesse leso dalle sue conseguenze, evitando di fare assurgere le seconde, in modo

17Cass. S.U. sent. n. 26972/2008.

18Così assai acutamente rileva P. Barcellona, in Il danno non patrimoniale, Milano, 2008, pagg. 132 e ss. Secondo l’Autore le alternative funzionali a cui si fa cenno sono quelle offerte dal “costume”, dal sistema famiglia, dal sistema religioso e dal sottosistema del diritto penale.

19Cass. S.U. sent. n. 26972/2008.

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del tutto autosufficiente, a vere e proprie categorie di danno (spostando ogni valutazione dell’ ingiustizia dal diritto pregiudicato all’effetto lesivo).

Nel rigettare tale impostazione, concentrando l’attenzione su aspetti meno teorici, non può, a parere di chi scrive, dubitarsi del fatto che ad una lesione di interessi costituzionalmente garantiti possa accompagnarsi, a seconda dei casi, tanto una compromissione psicofisica (come nelle ipotesi, legalmente tipizzate, di danno biologico), quanto un turbamento morale soggettivo (transitorio o meno), quanto – infine – un pregiudizio della propria sfera dinamico relazionale non reddituale.

La definizione di danno esistenziale va, dunque, data, in sintonia con le SS. UU, come “peggioramento della qualità della vita connessa ad una alterazione del fare non reddituale”, che può - ma non necessariamente deve - discendere dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti.

Di più. Tale pregiudizio potrebbe ben manifestarsi anche a fronte della compromissione di diritti della persona non inviolabili o di altre situazioni non tutelate dalla Carta Costituzionale.

Così, esemplificativamente, ad una grave offesa diffamatoria ben potrebbe far seguito, oltre che ad un turbamento morale per l’offesa alla propria dignità, l’abbandono di determinate frequentazioni (per non sopportare la vergogna od il disagio di sentirsi giudicato). Ove il disagio psicologico degenerasse a livello patologico, inegenerando un disturbo comportamentale discendente dall’offesa, ma a questa non razionalmente correlabile, ci troveremmo di fronte ad un danno di carattere biologico nella sua accezione lata e normativamente sancita. Ma neppure potrebbe escludersi che il pregiudizio sia limitato ad un semplice moto avverso dell’animo, a cui non segua alcun disagio dinamico relazionale.

Ancor di più, in certi casi limite, potrebbe ipotizzarsi l’assenza di qualsivoglia pregiudizio, laddove, ad esempio, l’offesa e la diffamazione fosse stata consapevolmente provocata (e quindi – di fatto - voluta), con l’auspicio ritorsivo di poter reagire in sede penale.

La varietà delle possibili conseguenze non patrimoniali di determinati illeciti è dunque tale da richiedere assoluta attenzione nella valutazione del loro effettivo impatto nella sfera del soggetto leso, sia sotto il profilo probatorio che, soprattutto, sotto l’aspetto del rapporto di reciproca combinazione, sovrapposizione od interazione delle diverse voci, laddove coesistenti.

Ciò al fine di evitare il rischio, giustamente ostracizzato, di duplicazione di risarcimenti di medesimi pregiudizi a diverso titolo.

A tal fine, come non tornare a sottolineare la non sostenibilità della tesi secondo la quale il danno morale soggettivo si distinguerebbe dal danno esistenziale per la diversa ontogenesi?20 Al contrario, tali due poste di danno condividono medesima ontogenesi, differenziandosi piuttosto sul piano degli effetti. Il che legittima l’affermazione secondo la quale un determinato danno morale soggettivo potrebbe non accompagnarsi ad una compromissione dinamico relazionale, ma non viceversa.

Al cospetto di tali considerazioni, gli Ermellini hanno assai correttamente puntato l’indice contro qualsiasi tendenza a liquidare, in via sovente automatica, poste di danno in realtà tra loro non cumulabili, proprio perché non distinguibili.

E tale percorso argomentativo ha condotto alla – questa sì – inaspettata censura della consolidata prassi secondo la quale, in ipotesi di lesioni fisiche, il danno morale veniva risarcito in forza di un automatismo di calcolo scevro da qualsiasi concreta valutazione della sua effettiva dimensione e sussistenza.

Il danno non patrimoniale in caso di lesioni fisiche: il paradigma risarcitorio definito nel codice delle assicurazioni.

E’ noto che l’art. 138 del CAP ha fornito una definizione di danno biologico di carattere disfunzionale, sostanzialmente recepita dai risultati di una precedente, e lunga, elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (ma anche legislativa). E’ altrettanto noto che lo stesso estensore del Codice ha tenuto distinti gli aspetti dinamico relazionali medi, e cioè comuni a tutti (conglobati entro la nozione di danno biologico), da quelli specifici e personalissimi, in quanto propri soltanto del soggetto leso (ed oggetto di separata disciplina) Orbene, nell’accordare separata disciplina a questi ultimi profili individuali, suscettibili di autonoma valorizzazione – sia pur entro determinati limiti – il testo unico ha di fatto sancito in termini positivi, e per la prima volta, la risarcibilità di un danno (dinamico relazionale) di tipo certamente esistenziale. Poco importa se tale pregiudizio sia materialmente ristorabile attraverso una maggiorazione percentuale del compendio risarictorio riconosciuto a titolo di danno biologico. Il criterio di computo attiene al quomodo della

20Perun caso esplicativo di quanto affernatov. sub nota 8.

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liquidazione, e non vale a trasformare il pregiudizio esistenziale specifico in lesione di tipo biologico.

Esattamente come in passato la liquidazione del danno morale in quota percentuale del biologico non poteva valere a confondere la prima posta con la seconda.

L’art. 138 comma 3 del CAP, ci insegna (meglio: conferma) che il danno dinamico relazionale esiste e può essere autonomamente valutato, purchè serio e rilevante, anche in abbinamento al danno biologico.

L’approccio del Codice, sostanzialmente assunto dalle SS.UU. quale modello normativo di riferimento, risponde dunque positivamente al quesito relativo all”’esistenza del danno esistenziale”. Pertanto, rispetto a tale tipo di pregiudizio, ancorché non deducibile in autonoma categoria di danno, non ha alcun senso sostenere che la decisione in commento sia stata animate da una ossessioni negazioniste21. Al contrario.

Ciò che invece nella pronunzia in parola si nega, con radicale riforma di ogni pregresso orientamento, è la cumulabilità del danno morale rispetto al biologico.

Sul punto, decisivo, meritano di essere letteralmente riportate le parole della Suprema Corte, la quale, pur ammettendo la separata risarcibilità del danno morale, precisa che “deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”.

In forza di quanto sin qui detto, secondo le SS.UU. la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo, determinerebbe una inaccettabile duplicazione di risarcimento. “Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.”

Tale impostazione, come più volte sottolineato, rischia di cambiare la storia delle dinamiche risarcitorie nei casi di lesioni personali psicofisiche, tanto più nell’ambito della RCA (stanti i rigidi paletti imposti dalle norme di riferimento).

Non si tratta, tuttavia, di un volo pindarico.

La tesi propugnata dagli Ermellini può trovare, infatti, positivo ancoraggio nella stessa impostazione seguita dall’art. 138 del Codice delle Assicurazioni, nell’ambito della quale viene escluso ogni riferimento al danno morale (di cui, dunque, ben potrà escludersi la separata risarcibilità).22

A prescindere dalla possibilità di fondare l’argomento su basi normative, è possibile sostenere che la tesi relativa all’impossibilità di cumulare - in linea di principio - biologico e morale, trovi appigli concreti nella disamina fenomenologica della realtà.

Tanto può dirsi anche a prescindere dall’assoluta, e forse mia personale, insoddisfazione verso gli stereotipi definitori utilizzati dai migliori esperti della psicologia forense23.

Al di là degli enunciati teorici, si tratta invero di comprendere se, al verificarsi di determinate lesioni psicofisiche, sia possibile individuare, in modo utile e concreto, un danno morale soggettivo distinto dalla componente esistenziale (e cioè dinamico relazionale).

Detto in altri termini: è effettivamente differenziabile la sofferenza per il fatto in sé di aver subito una diminuzione della propria integrità fisica, dal dolore che si prova “per non poter più fare” quanto si faceva prima di aver subito la predetta lesione?

Ritengo di no.

L’offesa alla dignità della persona, potenzialmente insita in ogni compromissione dell’integrità psicofisica,

21G. Cesari, op.cit.

22V. quanto sub nota 1.

23V. P. Capri, Lo psicologo forense: ruolo e competenze nell’accertamento del danno psichico, esistenziale e morale; intervento del 5 luglio 2008 in www.altalex.com

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coinvolge, in modo naturale, non tanto il dolore per la lesione in sé quanto per le conseguenze dinamico relazionali di quel pregiudizio.

E non valga a sostenere il contrario l’affermazione secondo la quale la percezione della propria diminuita efficienza fisica integri da sola una fonte di turbamento soggettivo, non potendosi realmente astrarre quella componente (ideale e statica) dalla sfera dinamica entro la quale il soggetto leso estrinseca la propria personalità. Così ben potrebbe ipotizzarsi una compromissione fisica che non condizioni in alcun modo l’agire della vittima: in quanto tale risarcibile sotto il solo profilo del danno biologico, senza alcuna necessità di personalizzazione esistenziale.

Pare, dunque, perfettamente sostenibile l’abrogazione di un meccanismo liquidatorio (quello del danno morale in quota percentuale del biologico) che si è fondato, per più di trent’anni, sull’applicazione di automatismi totalmente privi di seria giustificazione (se si eccettuano i tentativi di sostenere tale prassi sulla scorta della rilevanza penale dell’illecito e quindi sulla possibile valenza anche sanzionatoria di tale voce di danno24).

Del resto, il lento ma inevitabile superamento di tale metodo meccanico era stato già propugnato, sia pure sotto un diverso angolo visuale, in altre pronunzie della Suprema Corte, tutte votate all’affermazione del principio secondo cui “La liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta……solo nell'effettiva considerazione del danno concreto e al di fuori di ogni automatismo.”25

Quanto sopra argomentato non autorizza, peraltro, a ritenere che il danno morale soggettivo non possa mai accompagnarsi al danno esistenziale (in caso di danno da lesioni psico fisiche).

La sussistenza di un turbamento morale soggettivo diverso ed ulteriore rispetto al dolore causato dalla consapevolezza della propria diminuita integrità psicofisica (nella sua componente dinamico relazionale personale) potrà infatti essere ravvisata, e separatamente valorizzata, in tutti i casi in cui le modalità di causazione dell’offesa, od altre circostanze correlate alla condotta del danneggiante, integrino diverse ed ulteriori ragioni di pregiudizio.

Si pensi alla diversa offensività, sul piano morale, di un danno da sinistro stradale piuttosto che da una lesione inferta da violente percosse. In quest’ultimo caso, alla sofferenza intimamente connaturata al pregiudizio fisico patito, si aggiungerà il turbamento indotto dall’aver subito una odiosa aggressione, di per sé fonte di diverso ed ulteriore disagio.

E in quanto tale separatamente apprezzabile.

Altrettanto potrebbe dirsi nel caso in cui ad un investimento pedonale facesse seguito una omissione di soccorso, anche se in tale ipotesi ci troveremmo di fronte a due distinte condotte, ciascuna delle quali singolarmente valutabile.

In tal senso si segnala come la rilevanza delle circostanze attinenti alla condotta dell’autore dell’illecito (ai fini della valutazione equitativa del danno ingiusto non patrimoniale) sia stata recentissimamente ribadita proprio dalla stessa Suprema Corte.26

Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, rimane dunque la sensazione che il repulisti effettuato dalle SS.UU. risponda, sì, ad esigenze di aderenza all’impostazione codicistica, ma soprattutto a quelle istanze di chiarezza operativa, e prima ancora definitoria, sottese alla nuova teoria del danno non patrimoniale. Un danno di cui viene ribadita, ancora una volta, la non sussistenza in re ipsa, dovendo invece formare oggetto di prova, sia pure per presunzioni.27.

A fronte di tale urgenza probatoria non poteva continuare a legittimarsi un metodo liquidativo ancorato su automatismi impalpabili.

24Cfr. Cass. civ. n. 13336/1999 cit. in F. caringella – G. De Marzo, cit. pag. 903.

25Ex plurimis: Cassazione civile sez. III 19 giugno 2008 n. 16637.

26Cass. civ. sent. n. 479 del 13 gennaio 2009.

27Devesi rilevare come in determinati casi il regime probatorio si risolva, nella sostanza, in una inversione degli oneri a carico del danneggiante, anziché dell’attore danneggiato. In questo senso si veda la sentenza Cassazione n. 88/2009 del 7 gennaio 2009.

(13)

La sola critica che può muoversi ad un tale impianto è quella di non aver considerato, in modo separato, gli aspetti connessi alla sofferenza connessa al dolore fisico in conseguenza di una lesione all’integrità personale.

Ed infatti in quel pregiudizio - evidentemente non patrimoniale - avrebbe potuto individuarsi quel danno morale soggettivo transeunte posto dalla Consulta a fianco del danno biologico e degli altri danni derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, mantenendo fede a quella tripartizione anche nel campo delle lesioni fisiche, giustificando (sia pur al riparo dei denegati automatismi precedentemente in uso), la separata liquidabilità di una posta morale accanto al biologico ed alla componente esistenziale.

Ma sul punto, come detto, le SS.UU hanno glissato, senza nemmeno tentare di giustificare una eventuale ricomprensione del danno da sofferenza fisica entro la nuova definizione di danno psicologico. Tesi - quest’ultima - che non sembra in ogni caso convincente, in quanto lascia aperta la questione relativa all’autonoma risarcibilità, o meno, di tale posta di danno.

Rimane, peraltro, il dubbio di fondo correlato alla difficoltà di far metabolizzare, agli operatori del diritto e, soprattutto, ai danneggiati, un indirizzo tale da far “sparire dal tavolo” e dalle loro aspettative di ristoro una significativa componente economica, da sempre liquidata (sia pur in forza di criteri automatico/compensativi e non – può dirsi col senno del poi - risarcitori).

Vi è da credere, pro futuro, che nella costruzione delle Tabelle di valutazione del danno biologico, previste dall’art. 138 CAP (e ad oggi non emanate), i parametri in precedenza utilizzati verranno rivisti, anche al fine di assecondare esigenze di giustizia sostanziale che potrebbero essere avvertite, proprio al fine di non ingenerare palesi differenze di trattamento tra i danneggiati già risarciti e coloro i quali ancora sono in attesa di giudizio.

Rimane il fatto che, nel vuoto lasciato dalla mancata attuazione della norma in commento, le Tabelle in uso presso ciascuna corte di merito (ivi comprese quelle formulate dall’osservatorio per la giustizia civile presso il Tribunale di Milano) risulteranno di fatto non più utilizzabili, proprio in quanto ritagliate (anche) attorno al meccanismo di automatica liquidazione del danno morale oggi ripudiato.

Dal codice delle assicurazioni ai risarcimenti di diritto comune.

Prima di concludere, ci sia concesso di prendere in considerazione un’ ultima questione. Quella relativa alla critica, da più parti rivolta alla sentenza in commento, di aver sostanzialmente avallato l’impostazione seguita dal Codice delle Assicurazioni, e di averne affermato la generale applicabilità anche al di fuori dell’ambito della RCA.

Ebbene, la tesi dell’integrale esportazione della disciplina vincolistica del danno patrimoniale proposta dall’art. 138/139 CAP non pare cogliere nel segno.

E’ vero che le SS.UU. hanno avuto modo di sottolineare come gli artt. 138 e 139 del d.lgs. in parola danno una definizione del danno biologico “suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.”

Ma ciò non pare avallare nessuna altra operazione di transfert della disciplina codicistica agli illeciti di diritto comune. Il che equivale a dire che la limitazione prevista dalle norme del codice a proposito della valorizzazione degli eventuali pregiudizi dinamico-relazionali (liquidabili entro il tetto del 20 o del 30%, a seconda si tratti di lesione di modesta o non lieve entità) rimane confinata nel solo ambito della RCA, non propagando alcuna influenza al di fuori di esso.

Quanto sopra, a nostro parere restituisce (o meglio: ribadisce) in ambito di diritto comune (no- RCA) il potere in capo al giudice sovrano di liquidare il danno non patrimoniale, nella sua componente dinamico relazionale personalizzata, senza alcun limite prefissato, fermo restando l’obbligo di congruamente motivare le proprie scelte.

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Fuori dalle strettoie assicurative, pertanto, la “riespansione” del potere equitativo del giudice consentirà di relegare nella sostanziale irrilevanza ogni discussione relativa alla teorica radiazione del danno morale, la cui confusione all’interno del danno esistenziale potrà essere compensata da una più ampia valutazione delle poste dinamico relazionali personalizzate.

All’interno del CAP, invece, ciò non potrà avvenire.

Ma senza che ciò legittimi le censure di anticostituzionalità sollevate proprio in relazione all’affermata

“minorata tutela” accordata alle vittime della strada rispetto agli altri danneggiati di diritto comune. Questo perché la materia attinente al rischio della circolazione stradale comporta valutazioni di carattere sociale e macroenomico di largo respiro, tali da giustificare scelte di campo tese a garantire una adeguata ridistribuzione delle risorse. Ciò, a fortiori, a fronte di un rischio, come quello connaturato alla circolazione veicolare, sostanzialmente condiviso e socialmente accettato.

Oltre a tale aspetto, va poi debitamente considerato l’impatto di larga scala dei risarcimenti sul sistema economico nazionale (a partire dall’incidenza dei premi assicurativi nel paniere inflazionistico), sulla stessa tenuta e capienza delle imprese assicurative e sulla necessità di garantire a ciascun danneggiato un congruo ristoro.

In tale contesto ben potrebbe pensarsi, in luogo di incoraggiare iperboli risarcitorie (talvolta del tutto inopportune e potenzialmente in grado di porre in crisi il sistema) ad un migliore allocamento delle risorse rinvenute attraverso una più oculata gestione delle posizioni liquidative, magari con la creazione di strumenti pubblicistici di tutela delle vittime della strada (in ipotesi, i macrolesi) più adeguati e tali da compensare le inefficienze strutturali di un sistema assistenziale ad oggi carente.

Tutt’al più potrebbe ipotizzarsi che i tetti risarcitori introdotti dal CAP possano contravvenire al c.d.

principio di integrale riparazione del danno, se non fosse che la valenza costituzionale dello stesso è tutta da dimostrarsi, come già in precedenza si é avuto modo di rilevare28.

Maurizio Hazan Avvocato in Milano

28V. op. cit. sub nota 1, ed in particolare quanto segnalato in merito alle osservazioni svolte in argomento da P. Brun; ivi pag. 545, nota 14.

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