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Discrimen » Il diritto penale che cambia in una conversazione tra Francesco Palazzo e Francesco Viganò

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Academic year: 2022

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L DIRITTO PENALE CHE CAMBIA IN UNA CONVERSAZIONE TRA

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RANCESCO

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ALAZZO E

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RANCESCO

V

IGANÒ

Vincenzo Maiello

Ancora ottant’anni fa la scienza penale veniva definita da Massimo Severo Giannini una “Cina imperiale chiusa nelle sue muraglie e con i porti sbarrati”.

L’impressione è che da allora sia passata un’era geologica, tanto numerose e profonde sono le trasformazioni – talune manifeste, altre occulte e per certi tratti carsiche – che hanno ridefinito struttura, ampiezza e funzioni della materia; nel progredire di spinte che, pur quando hanno investito il nucleo dei suoi caratteri identitari, sono apparse sorrette da una ‘forza storica prorompente’, innanzi alla quale la difesa degli stessi sacri principi ha talvolta rischiato di assumere il volto di impresa (normativa) e pratica (culturale ed epistemica) di retroguardia.

È così accaduto che senso e portata di un settore dell’ordinamento (in apparenza) vocato a perpetuare quasi con irriflessa inesorabilità i suoi caratteri originari – sul con- vincimento di vivere una condizione di ‘ontologica ed astorica anelasticità’, frutto di principi e paradigmi di una ‘ragione universale’ e, perciò, resiliente alle torsioni autori- tarie delle contingenze di governo ed alle contaminazioni di una ‘fatticità’ spesso drammatica – abbiano invece subito trasfigurazioni e sorprendenti mutamenti di rotta:

nel dinamismo istituzionale del sistema delle fonti e delle procedure di produzione giuridica, ma anche sul terreno dell’applicazione giudiziaria e del discorso teorico.

La complessità di questi cambiamenti – acuita, nella situazione italiana, dalla perdurante coesistenza di registri disciplinari calibrati su assiologie e modelli politi- co-criminali di differenti matrici – reclamava un proprio manifesto narrativo.

Un documento ‘scientifico’ che ne illustrasse lo statuto, indagandone l’imprinting di provenienza, i caratteri formali, le ideologie di riferimento, le impli- cazioni sulla prassi e sul nuovo protagonismo dei soggetti chiamati a dipanare il farsi progressivo della materia.

Non che la nuova penalità, quella che ha riscritto regole di comportamento in molti settori della vita sociale ed economica e che – in un gioco di rimandi recipro- ci – influenza il lavoro quotidiano delle Corti, sia sfuggita alle competenze del di-

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scorso teorico, il quale anzi sempre più vi dedica momenti e strumenti di elabora- zione, nella consapevole necessità di doverne mettere a fuoco contenuti, distorsioni ma anche nuove virtù.

Essa mancava, però, di un proprio ‘manuale’ – che potremmo definire di se- condo livello – nel quale il respiro largo della riflessione si facesse racconto sistema- tico della sua realtà e ricostruzione critica dei relativi paradigmi e mappe concettuali.

Questa lacuna viene ora colmata dal bel volume Diritto penale – Una conver- sazione – che Francesco Palazzo e Francesco Viganò hanno confezionato per i tipi de Il Mulino, ove ha trovato coerente posto nella collana Il diritto che cambia.

Come traspare dal sottotitolo, il discorso dell’opera è affidato al registro narra- tivo del dialogo. Un colloquio – dunque; nel quale la curiosità sistematica e ordinan- te di Francesco Viganò interpella la vocazione del grande Maestro a decifrare – con acribia critica e realismo storico – il volto attuale della giustizia penale e a penetrane l’anima complessa dei suoi significati, nell’ottica di conoscere se e quanto le trasfor- mazioni intervenute abbiano destrutturato senso e dimensioni della sua razionalità democratica, liberale e garantistica, oppure costituiscano una tappa delle ‘sorti pro- gressive’ di assestamento della sua identità.

La proficuità critico/epistemologica di un’analisi di questo genere avrebbe po- tuto essere garantita solo da studiosi immersi nella storicità dell’esperienza giuridi- ca, addestrati, quindi, a letture del dinamismo normativo dello heutige Zeit non dogmatiche epperò permeate dalla consapevole irrinunciabilità del nomos del libe- ralismo penale e dei paradigmi di attribuzione della responsabilità penale consu- stanziali alla sua filosofia.

È un viaggio, quello che i due Autori fanno compiere al lettore, che segue il filo rosso delle trasformazioni in atto con lo spirito costruttivistico di concezioni pro- gressive, senza dunque mai cedere a catastrofismi di maniera.

Molto opportunamente Palazzo prende le distanze dalle letture ‘astoriche’ ed

‘ontologizzanti’ del diritto penale, che, nel postulare ‘costanti criminologiche’, pre- dicano un diritto penale universale, riconoscibile nelle sue strutture portanti in ogni tempo e luogo. Per il Maestro fiorentino il rifiuto di questa impostazione di- scende, in primo luogo, dalla considerazione che il diritto penale è “uno strumento dotato della funzione pratica di stabilizzazione e tutela della società”; dunque, dall’esigenza di garantire, in una società democratica, spazi alla critica penale, inte- sa quale pratica intellettuale orientata all’“osservazione empirica del fenomeno

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criminale” ed alla “discussione sempre aperta su limiti e mezzi della penalità, quale condizione essenziale di civiltà giuridica”.

Pur riconoscendo che la dimensione storicamente condizionata delle soluzioni di tutela è, sul terreno dei criteri di imputazione della responsabilità, meno ampia di quella riscontrabile riguardo agli ‘oggetti della protezione’, Palazzo non manca di sottolineare che finanche le categorie della ‘pena’ e della ‘colpevolezza’ – quelle, cioè, che si rispecchiano “negli strati e nei bisogni inconsci della persona umana” – sono al centro di ciclici processi di ripensamento e rimodellamento.

Di qui, il convincimento – potremmo dire – che l’ontologia della materia pena- le stia tutta in una condizione di delicati equilibri tra storicità e naturalismo, da un lato, e normativismo, dall’altro, vale a dire su antagonismi fattici e ideali cui sarebbe tuttavia erroneo – sostiene con ferma consapevolezza Francesco Palazzo – ricollega- re, rispettivamente, l’asimmetria concettuale stabilità/dinamicità.

A suo avviso, i fattori che hanno movimentato il diritto penale italiano sono di tre tipi: culturale, politico-istituzionale e storico/sociologico.

Sul piano culturale, egli osserva che la scomparsa delle ideologie ha proiettato il pensiero e la pratica penale in una “sorta di pragmatismo sociale orientato” a scopi di utilità sociale, mentre su quello politico-istituzionale, la Costituzione repubblica ha introdotto una netta discontinuità col disegno politico-criminale del codice Rocco che il Nostro – rifuggendo da ogni retorica giustificazionista – considera espressione di un autoritarismo penale “nemmeno tanto nobilitato (...) da quel presunto rigore o addirittura da quella perfezione tecnica che tanto furono esaltati” .

Sul tema dei rapporti tra Costituzione e diritto penale, la conversazione regala pagine di rara densità e raffinatezza discorsiva.

Francesco Viganò introduce l’argomento con una provocazione. Dopo aver ri- cordato i modesti esiti prodotti dalla lettura costituzionale dell’offensività, avanza il dubbio che i penalisti italiani abbiano sovrainterpretato la Costituzione, sia dedu- cendo vincoli di legittimazione negativa del potere di punire – in realtà inesistenti;

sia obliterando altri, più espliciti e meglio argomentabili, limiti sostanziali.

La risposta di Palazzo è tutta interna ad una dotta e sapiente difesa della nor- matività penale della nostra Legge fondamentale. Riconosce che il lato debole del co- stituzionalismo penale risiede nel fallimento della sua capacità di imbrigliare la di- screzionalità politica sul campo delle scelte punitive, ma reputa che questo sia frutto del (per molti versi comprensibile) self restraint del giudice costituzionale, piuttosto che riscontro del precario fondamento del principio di offensività, al quale anzi il

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Nostro riconosce il merito di aver conquistato una circolazione diffusa nel diritto vi- vente. E pur se in quest’ultimo ambito è prevalsa la dimensione ‘debole’ della sua at- titudine performativa, circoscritta alla selezione ermeneutica dei fatti concreti, resta indubitabile come anche entro questo pur limitato registro, esso resti tributario della dottrina del reato ‘nel senso della Costituzione’.

A latere, Palazzo dedica importanti considerazioni all’interpretazione costitu- zionale. Dice che si tratta di un tema “immenso” poiché in quel campo le relazioni tra comprensione, testo e voluntas sono ancor più fitte di condizionamenti ed impli- cazioni di quanto non sia dato rinvenire nell’ordinario gioco ermeneutico. Dalla co- statazione che la Costituzione è una “valvola che mette in costante comunicazione il mondo del diritto positivo con le radici sostanziali dei valori normativi di una comu- nità”, deduce che rispetto ad essa la ricerca ermeneutica ha necessità di varcare i confini del testo e il suo orizzonte cognitivo, dovendo tendere allo “sforzo di trovare il senso profondo della storia e della civiltà del diritto”.

Tra gli esiti del rinnovamento culturale indotto dalla svolta costituzionale, Pa- lazzo ascrive senza dubbio la trasformazione subita dalla mappa delle incriminazioni, avvenuta sia per mano della Consulta che ha reciso molti rami devitalizzati dalla fi- losofia personalistica della Carta, sia attraverso la riscrittura legislativa di interi com- parti della parte speciale (lato sensu) quali il diritto penale sessuale, quello ambienta- le e la regolazione dell’aborto.

Particolarmente interessante è l’analisi che il Maestro fiorentino dedica ai ca- ratteri che, con maggiore profondità, hanno inciso sull’odierna fisionomia del diritto penale, considerato nella dimensione statica di tavola di regole normative.

Il suo è uno sguardo d’insieme sui contenuti dei molti interventi legislativi, ma anche sulla complessiva trasfigurazione topografica che ha ridefinito il volto della materia.

Riguardo ai primi, l’attenzione cade sulle novelle ed interpolazioni dell’emergenza e sulle discipline che hanno tentato una riduzione della complessità quantitativa della penalità generata da politiche criminali bulimiche.

Le une – delle quali l’insigne giurista ha cura di differenziare i paradigmi di riferimento, distinguendo le ‘emergenze’ connesse al carattere micidiale di feno- meni criminosi pervasivi e di radicamento tradizionale e quelle incarnate da nuove tipologie offensive, connesse ai progressi tecnologici ed alle mutate condizioni di vita – lasciano affiorare una linea di indiscutibile rarefazione della dimensione og- gettivistica e frammentaria delle forme ‘classiche’ dell’illecito penale, dando luogo

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alla incriminazione di fenomeni piuttosto che di specifiche modalità di offesa con conseguenziale arretramento della punibilità e pericolosa soggettivizzazione eticiz- zante del relativo fondamento.

Gli altri evidenziano, invece, pratiche di virtuosa gestione politico-criminali delle risorse sanzionatorie dell’ordinamento, come attesta la c.d. codificazione del di- ritto amministrativo penale.

L’effetto sull’architettura del sistema consiste in una sorta di sua polverizzazio- ne, riflessa in sottosistemi disciplinari connotati dal carattere derogatorio di molti profili di disciplina, in taluni casi collocati in prossimità delle norme incriminatrici, altre volte disseminati in luoghi sparsi. Il giudizio di Francesco Palazzo è che anche questi ‘inestetismi’ sono spie di indirizzi e scelte politico-criminali, in quanto deno- tano “una visione del diritto penale molto pragmatica e strumentale a contingenti e settoriali obiettivi di prevenzione generale”.

Il giudizio si fa però grave rispetto al ripiegamento del diritto penale su obietti- vi di prevenzione. Qui la consueta fiducia nella ragione della storia, vero e proprio filo rosso delle letture palazziane del diritto, sembra cedere il passo ad un sussulto di pessimismo. Scrive il Nostro di avere “l’impressione che la tendenza sia lontana dall’essere esaurita” con l’effetto di generare “una confusione incoerente tra stru- menti e obiettivi, assai pericolosa per la tenuta dei principi e delle garanzie”.

Il sopravanzare di una teleologia di segno preventivo ha seguito, secondo Pa- lazzo, due strade.

Nella prima, l’obiettivo della prevenzione si scherma dietro scelte formalmente penali. Il riferimento corre alla disciplina in tema di immigrazione, dove il legislato- re impiega il reato e la pena per legittimare un circuito di emarginazione di soggetti reputati pericolosi.

Nella seconda, la logica preventiva è apertamente dichiarata e si manifesta nella stessa nomenclatura impiegata: è il sistema delle misure di prevenzione. Su questo terreno il Maestro fiorentino non fa sconti; salva dalla scure di una impieto- sa valutazione di illiberalità le sole misure applicate agli indiziati di associazione mafiosa, per ragioni legate alla gravità del fenomeno criminale e alle difficoltà di accertamento probatorio. Eppure è costretto a registrare che gli ultimi decenni stanno marcando una linea di progressiva e purtroppo inarrestabile ampliamento dell’intervento ante delictum. Sebbene, ‘nobilitate’ dalla riconduzione a taluni aspetti della dimensione penalistica – quali la giurisdizionalità dell’applicazione e l’ancoraggio a tipologie indiziarie di reità – le misure di prevenzione restano in

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tensione irriducibile con il significato ‘vero’ delle garanzie penali, perché “depriva- te del connotato più qualificante del sistema penale repressivo e cioè dell’accertamento di un fatto conforme alla fattispecie incriminatrice”.

La seconda parte del lavoro è inaugurata da una discussione sul rapporto tra le- gislatore e giudice. In sostanza, sul tema che si presta a riassumere iconograficamente il travaglio del diritto penale contemporaneo.

Anche qui il quadro tratteggiato dalle riflessioni di Palazzo riflette un sapiente equilibrio nel promuovere la difesa delle pietre angolari del liberalismo penale di ci- vil law innanzi alla ‘forza della realtà’ e nell’impatto coi significati epistemologici di- svelati dalle acquisizioni delle correnti ermeneutiche.

Nella prospettiva delineata dal Maestro, il disegno politico-criminale della Mo- dernità intramato dai principi di riserva di legge, precisione/determinatezza e divieto di analogia sfavorevole – ad onta degli attacchi demitizzanti cui sono stati sottoposti negli ultimi decenni con implacabile spietatezza – costituisce ancora un patrimonio da salvaguardare, seppur nella cornice degli adattamenti e delle integrazioni imposte, da un canto, dalle esigenze di costruire normative complesse, che esigono bilancia- menti e mediazioni difficilmente compatibili con “il ‘clima’ dell’aula parlamentare”;

dall’altro, dalla naturale polisemia del linguaggio e, dunque, dalla inevitabile colloca- zione delle scelte interpretative nell’area non assiomatica e formalizzata della capaci- tà comunicativa e semantica del linguaggio (legislativo).

A questo contesto appartengono le ben ponderate soluzioni sia al problema dei rapporti tra legge formale, decreto legislativo e decreto-legge sia alla questione delle relazioni tra norma primaria e fonti secondarie. In controtendenza rispetto alla so- verchiante prassi legislativa e alla stessa giurisprudenza costituzionale – a cui pure non si manca di riconoscere il merito di aver rafforzato il controllo sui contenuti normativi della decretazione di urgenza – l’insigne giurista nega al decreto-legge ogni legittimazione quale fonte di diritto penale. Lo fa sia sulla base di ragioni che intendono sottrarre questo strumento al rischio di strumentalizzazioni emotive natu- ralmente connesso al governo dei requisiti di ‘necessità’ e ‘urgenza’, sia per ribadire il collegamento genetico profondo tra la disciplina dell’habeas corpus e la matrice par- lamentare del suo an e del suo quomodo.

Anche la posizione di differente segno espressa riguardo alla legittimazione del decreto legislativo e quella ‘intermedia’ sulla praticabilità delle integrazioni della norma primaria da parte degli atti sub-legislativi matura dalla sensibilità di Palazzo a collaudare i principi di garanzia sul banco della ragion pratica; in particolare, nasce

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dalla considerazione dei vantaggi che l’apertura a quelle fonti da parte di talune normative produce sul piano della razionalità rispetto allo scopo.

Riguardo alla delegazione legislativa, si fa rilevare che “il deficit di democrati- cità in essa insito è compensato da altri vantaggi politicamente e garantisticamente nient’affatto insignificanti”. L’ingresso delle fonti secondarie nell’economia descritti- va della fattispecie viene invece legato al processo di penalizzazione di ampi compar- ti di attività rischiose ma socialmente utili, ad elevata complessità tecnologica.

Più delicato è il discorso che coinvolge il rapporto tra determinatezza legislati- va e interpretazione giudiziale, vale a dire il tema “dell’esorbitanza del giudice e, dunque, della rottura dell’equilibrio tra legge e giudice”.

Dalle considerazioni di Palazzo affiora come sia proprio questo il punto di esplosione del malessere generato dalla “crisi della legge”, poiché il fascio delle que- stioni problematiche che vi fanno capo corrisponde alla disarticolazione dei cardini della impalcatura costituzionale, quali l’uguaglianza e la separazione dei poteri.

Col consueto senso della complessità storica (del contesto di appartenenza) della quaestio, il Maestro inserisce nella discussione opportuni elementi di dinamismo. Os- serva che la legge non è in difficoltà solo per ragioni declinabili sul piano nobile della speculazione teorica, ma anche perché è divenuta terreno di scontro tra magistratura ed avvocatura. A questi ultimi, Palazzo attribuisce un peso politico di condizionamen- to nella vita istituzionale. A suo avviso, quei soggetti, nel contendersi uno spazio di protagonismo su compiti e portata della legalità – la magistratura incline a modellarne i confini in funzione delle esigenze sociali di tutela, l’avvocatura impegnata a difen- derne lo storico statuto di Magna Charta – hanno finito per inasprire le tensioni del problematico rapporto tra norma e sua applicazione, aggiungendovi i contrasti nascen- ti dai “problemi di ruolo sociale degli “attori” dell’esperienza giuridica”.

Palazzo spinge l’analisi fin nelle pieghe di questo antagonismo, restituendo ad essa un profilo di originalità sconosciuto all’osservazione comune del fenomeno. Av- viene, allora, che egli non nasconda una certa perplessità sul conservatorismo legali- stico dell’avvocatura, sottilmente rimproverata di non considerare che

“l’accrescimento degli spazi interpretativi a discapito della rigidità legalistica do- vrebbe recare con sé un potenziamento del ruolo anche dell’avvocato, chiamato a fornire il suo contributo argomentativo non solo sulla quaestio facti ma anche nella soluzione delle sempre più numerose e ardue quaestiones iuris”. Ciò non gli impedi- sce di individuare in taluni “arroccamenti autoreferenziali della magistratura”

l’origine di “questo ripiegamento dell’avvocatura su una concezionale davvero tradi-

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zionale e immobile della legalità” e del consequenziale convincimento che la difesa strenua della funzione semantico-letterale del testo sia in fondo l’unico baluardo op- ponibile alla “esorbitanza di un ‘potere’ generalmente ispirato a istanze repressive quando non salvifiche ed eticizzanti”.

Sul piano teorico-scientifico, la posizione di Francesco Palazzo sui temi irrelati della interpretazione e della funzione del giudice in un sistema legicentrico si lascia caratterizzare, per un verso, dall’ontologica struttura circolare del processo interpre- tativo; per l’altro, dall’irrinunciabilità del divieto di analogia in malam partem.

L’adesione agli esiti degli studi di ermeneutica non si risolve, dunque, nel so- stegno a forme di nichilismo epistemologico, ma si accompagna al riconoscimento della funzione comunicativa del linguaggio ed al suo compito di costruire aree se- mantiche, cui spetta la funzione di limite estremo della manovra di senso propria della pratica interpretativa.

Nella ricostruzione palazziana, la struttura analogica del processo interpretati- vo – oltre a delineare la dimensione ontologica della modalità di acquisizione della conoscenza – è destinata a riflettersi nello specchio della coscienza epistemica del giudice, operando quale ‘appello’ sui pericoli di derive soggettivistiche e irrazionali- smi potestativi insiti in una gestione del governo applicativo della legge che si mostri inconsapevole delle dinamiche profonde che ne condizionano i risultati.

Sul vincolo che promana da questa coscienza ermeneutica, Palazzo costruisce l’obbligo del giudice di “esplicitare con rigore e correttezza le sue ‘scelte’”; fonda, cioè, un dovere di giustificazione argomentativa della decisione che non avrebbe ra- gion d’essere nel contesto di una concezione che, postulando l’autoevidenza seman- tica del testo, rischia di schermare gli scivolamenti arbitrari in cui possono degenera- re irriflesse opzioni interpretative.

Una riprova dell’equilibrio che orienta la soluzione del Maestro nel bilico tra valore (ideologico e pratico) dell’enunciato normativo e conformatività ermeneutica del suo governo giudiziario è offerta dalla proposta di ‘salvataggio’ dell’art. 12 delle preleggi – vale a dire dal riflesso più diretto e immediato del giuspositivismo legali- stico, non a caso considerato un fossile da archiviare dagli anacoreti dell’ortodossia ermeneutica. Ad avviso di Francesco Palazzo, quella disposizione va attualizzata “nel senso dell’impossibilità di rinunciare al significato comunicativo del linguaggio, sen- za però credere che il linguaggio parli ‘da solo’”.

In definitiva, anche nel ‘diritto penale che cambia’ le funzioni di garanzia della legge presidiano profili identitari della disciplina, essendo esse consustanziali

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al suo Beruf: che consiste nel proteggere, attraverso una fonte di matrice democra- tica, i diritti di libertà nei confronti della voracità repressiva delle esigenze di tute- la ex parte societatis.

Con coerente consequenzialità topografico/espositiva, la conversazione volge lo sguardo sull’accademia, vale a dire sul ceto professionale che, per tradizione, si è fat- to carico di rappresentare anche sul piano della divulgazione formativa gli assi por- tanti della materia, perpetuandone gli assetti di fondo – anche in ragione di questa funzione pedagogico/didascalica.

Il pensiero di Palazzo è netto: il giurista di estrazione accademica è investito di un ruolo di importanza fondamentale nella determinazione dei livelli di professiona- lità di avvocati e magistrati, meno sul terreno della progettazione normativa, dove il suo intervento avviene per lo più a cose fatte.

Naturalmente, il contesto al quale guarda il Nostro è quello di una Kulturwis- senschaft in cui la teoria non si risolve nella elaborazione di una dogmatica astratta- mente concettualistica e la prassi non chiude gli occhi su tutto ciò che sta fuori e prima della relazione tra fattispecie e fatto.

In questo ambito, sia l’insegnamento, sia la formazione dei ceti professionali possono incidere proficuamente sulla pratica del diritto, per un verso, incidendo su- gli standard di saperi e competenze dei suoi attori; per l’altro, mettendo a punto pro- tocolli di formalizzazione decisoria calibrati sull’adeguatezza teleologica e strumen- tale rispetto alle esigenze di giusta soluzione dei casi.

Alla dommatica e alle sue trasfigurazioni il Maestro dedica particolare atten- zione perché li ritiene spie significative delle metamorfosi che hanno interessato il diritto penale.

Non a caso, Egli colloca la crisi dei dogmi tramandati dalla tradizione specula- tiva maturata nel clima del classicismo ottocentesco a cavallo del processo di ri- orientamento costituzionale del diritto penale, esploso negli anni settanta; in una stagione – osserva Palazzo – vissuta dalla sua generazione come passaggio “dall’epoca dei dogmi” a “quella della loro liquefazione, demitizzazione o addirittura contesta- zione”. Dolo, bene giuridico, causalità, unitarietà della fattispecie concorsuale e, da ultimo, legalità sono stati da allora attraversati da pervasive dinamiche di erosione della rispettiva portata, nel progredire di istanze proiettate a sbilanciare gli assetti penalistici verso l’ampliamento degli oggetti della tutela e delle sue tecniche e forme a detrimento delle funzioni liberali e garantistiche. E tuttavia, Palazzo non accetta di etichettare come ‘postmoderna’ la dogmatica che si è venuta delineando all’esito del-

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la sua rivisitazione contemporanea. Piuttosto, egli riconosce al discorso teorico di aver saputo interpretare il proprio tradizionale compito nell’impatto con una dimen- sione sociale e politico/istituzionale tumultuosa. Da un lato, declinando, sulle pre- messe della lezione roxiniana, la costruzione dogmatica in chiave politico-criminale;

dall’altro, rafforzando taluni ‘punti fermi’ nel governo penalistico delle componenti di complessità della realtà sociale. Insomma, una dottrina che ha accettato la sfida del rinnovamento dei suoi stili di ricerca, inserendo nei dogmi segmenti di vita e, perciò, favorendo una più spiccata loro capacità di funzionalizzare il diritto dato alle esigenze di adeguatezza allo scopo.

Oltremodo significative sono, in questa prospettiva, le acquisizioni teoriche e sistematico/classificatorie in tema di causalità, colpa e condotta omissiva.

La dogmatica della causalità ha ricalibrato la propria offerta teorica sotto l’incalzare delle esigenze epistemiche di fenomeni complessi aprendosi allo scienti- smo delle leggi causali e, quindi, spostando sul problema della spiegazione dell’evento quella centralità problematica che nel dibattito tradizionale era stata fa- gocitata dal tema dei fattori eccezionali. Si è trattata di una prima grande svolta che ha avuto il merito di traghettare la verifica causale dalle paludi dell’intuizionismo del giudice ai lidi di una (tendenziale) certezza dell’accertamento. La seconda sterzata ha registrato il riaffacciarsi di criteri selettivi di tipo valutativo destinati a supplire ai limiti dello scientismo causale.

Dopo aver sottolineato che gli esiti dommatici più maturi in tema di causalità si sono venuti producendo in esito ad una virtuosa vicenda di osmosi dialettica tra dot- trina e giurisprudenza, Francesco Palazzo rileva anche come essi abbiano finito per fa- vorire un nuovo protagonismo del giudice nel suo rapporto col sapere scientifico. Na- turalmente, non nel senso che egli si sia emancipato dal ruolo di mero fruitore delle leggi scientifiche, ma nel senso che tra i suoi compiti rientra quello, niente affatto lie- ve e marginale, di stabilire – specie in contesti segnati da plurime e discordanti spiega- zioni scientifiche – l’attendibilità della legge scientifica, sotto i profili della correttezza metodologica della formulazione, dell’autorevolezza ed indipendenza della sede di elaborazione e del grado di condivisione nella comunità scientifica.

Di grande densità sono le pagine dedicate alla speculazione teorica in materia di colpa, ove la particolare profondità e ricchezza del pensiero riflettono il fascinoso e

‘conturbante’ coinvolgimento che ha esercitato sul Nostro sin dagli inizi dei suoi studi.

Anche in rapporto a questo concetto, il Maestro riconosce che la ricostruzione dogmatica ha subito un mutamento significativo. In particolare, è stata interessata da

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una trasformazione legata all’ingresso delle regole cautelari e ad una tendenziale maggiore oggettività dei criteri di concretizzazione di questa forma di responsabilità, favorendo così una de-eticizzazione del rimprovero per via della sua sottrazione a paradigmi di imputazione orientati all’autore e al complessivo disvalore di personali- tà. Nel contempo, la valorizzazione delle regole cautelari, da un canto, ha istituzio- nalizzato un canale di comunicazione tra “pericolosità dell’azione e sua utilità socia- le, attraverso l’idea del “rischio consentito” come formalizzato e “tipizzato”

dall’ordinamento”, dall’altro, è apparso volto a contrastare il rischio dell’“oggettivismo estremo di una responsabilità per la mera produzione dell’evento”.

E tuttavia, la prevalente attenzione posta sulla misura oggettiva della colpa ha, per Palazzo, accresciuto “quella componente di responsabilità oggettiva che serpeggia comunque nell’imputazione di un evento non voluto”, anche per una sorta di ineso- rabile marginalizzazione della componente soggettiva di concreta esigibilità dell’azione doverosa e, quindi, di rimproverabilità personale dell’inosservanza.

Se, però, la dimensione normativa della colpa ne ha promosso una più spiccata afferrabilità concettuale, innalzandone gli standards di legalità e riconoscibilità so- ciale, essa non è tuttavia valsa a “neutralizzare efficacemente tutta l’incertezza, l’elasticità e la problematicità applicativa” della nozione.

Sul limitrofo tema del principio di precauzione, la posizione di Palazzo si se- gnala per essere improntata – come sempre – ad un approccio di pacata consapevo- lezza della complicatezza delle relative intersezioni.

Esclusa l’imputazione causale dell’evento in nome del mero principio di precau- zione ed ammessa, sia pure in uno spazio di difficile raccordo col canone dell’offensività, la incriminabilità della mera inosservanza delle regole precauzionali, l’autorevole penalista si domanda se possa addebitarsi a titolo di responsabilità colposa la produzione di un evento per violazione di regole precauzionali, qualora, ben vero, il sapere scientifico esistente al tempo del giudizio ne attesti la rilevanza causale.

La porta aperta che Francesco Palazzo sembra lasciare alla soluzione affermati- va viene comunque subordinata al verificarsi della duplice condizione che si tratti di colpa specifica e che si rinunci alla “concreta prevedibilità dell’evento da parte dell’agente che versi in colpa specifica”. Si tratta di una prospettiva alla quale l’insigne giurista si rivolge con sguardo pensoso e animo inquieto: estromettere dallo spettro dei criteri ascrittivi del rimprovero colposo la prevedibilità concreta dell’evento gli appare uno strappo all’imputazione personale e un ampliamento di forme mascherate di responsabilità oggettiva. D’altra parte, una verifica sorvegliata

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dei requisiti di perfezionamento della colpa specifica potrebbe rappresentare una equilibrata conciliazione tra esigenze di tutela precauzionale e legalità/conoscibilità delle regole cautelari.

Un altro esempio di vistosa trasformazione indotta dalle dinamiche postmo- derne della penalità agita è incarnato dalla categoria dell’omissione, analizzata nella versione c.d. impropria.

Pure qui l’attenzione dei conversanti si concentra sulle violazioni che l’esperienza applicativa della responsabilità per omesso impedimento continua a con- sumare sul versante della legalità, ove la funzione liberale e la ratio democratica del principio vivono una condizione di forte sofferenza sui rispettivi terreni dell’individuazione dell’azione doverosa e delle fonti costitutive dell’obbligo di agire.

Le considerazioni che Palazzo sviluppa in ordine al primo aspetto sono intrise di amarezza, trasmessa dalla costatazione che le letture garantiste del dispositivo di cui all’art. 40, cpv., c.p. sono naufragate nel mare di pratiche giurisprudenziali che, soprattutto nei settori del diritto penale del lavoro e dell’economia, hanno polveriz- zato la componente normativa dell’obbligo di impedimento, abbattendo il limite ti- pizzante in grado di contenere la vocazione espansiva del congegno di incriminazio- ne. La categoria dei reati omissivi ripropone uno dei tratti della narrazione postmo- derna del diritto penale, che nel certificare la perdita di selettività garantistica della penalità e l’eclissi della sua funzione di limite, sublima l’interventismo giudiziario at- traverso una trasfigurazione della tipicità e dei suoi compiti: non più baluardo invali- cabile della politica criminale, bensì clausola di estensione punitiva giustificata dalle esigenze di tutelare beni di significativo rilievo.

Quanto alle fonti di legittimazione degli obblighi, Palazzo, opportunamente sollecitato da Francesco Viganò, si sofferma sul tema della ‘autonormazione’ penali- stica, di cui sono espressione le compliances in tema di sicurezza e salute dei lavora- tori, responsabilità amministrativa da reato e prevenzione della corruzione. A ragio- ne, il Nostro lo indica come paradigmatico di una linea di tendenza destinata a radi- carsi in termini direttamente proporzionali alla parallela espansione delle organizza- zioni complesse, favorita anche da una certa sua capacità di lasciarsi accettare dal si- stema, coordinandosi con talune sue qualità di fondo. Se è vero, infatti, che essa svuota sul piano formale la riserva di legge, altrettanto indiscutibilmente ne condivi- de un tratto della sua connotazione democratica, in quanto si risolve in una discipli- na che proviene “dal basso della comunità degli operatori nei vari rami di attività”.

Riguardo agli aspetti di funzionalità, Palazzo riconosce all’istituto il pregio di legare

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la tutela penale alle virtù dell’autoregolazione normativa, in campi nei quali la com- plessità scientifico/tecnologica delle conoscenze utili a prevenire eventi dannosi si accompagna al loro rapido evolversi e manifesta, così, una certa refrattarietà a disci- pline di stampo pubblicistico. Individua, tuttavia, nel rischio che la valutazione di idoneità prevenzionistica della auto-normazione rimessa allo schema euristico del giudizio ex post possa lasciarsi sopraffare dalla logica del post hoc, propter hoc, an- nullando i vantaggi del fenomeno.

Ad avviso del Maestro fiorentino, il successo dell’integrazione tra disposizione primaria e normativa privata dipenderà sia dalla qualità delle regole prevenzionisti- che – anche sotto il profilo della loro effettiva esigibilità – sia dalla prudenza alla quale la giurisprudenza saprà uniformare gli standards decisori, “evitando di sanzio- nare l’inesigibile”.

Sullo sfondo di questa progressiva, e a tratti marcata, Wendung delle categorie dogmatiche si stagliano i nuovi registri della politica criminale della contemporaneità.

Anche qui le parole di Palazzo appaiono di grande utilità nel ricomporre entro un quadro di ordine e chiarezza concettuale, oltre che sistematica, le correnti di poli- tica del diritto che stanno ridefinendo su basi nuove il diritto penale.

La premessa è che i due architravi dell’edificio penalistico costruito dall’Illuminismo e dalla rivoluzione liberale, vale a dire la secolarizzazione e la ra- zionalità utilitaristico-sociale, sono sopravvissuti nonostante discontinuità, deroghe e parziali affievolimenti, indotti dalle stagioni dello scientismo positivista, dell’autoritarismo fascista e del solidarismo costituzionale e, più in generale, della

“ragion di Stato”. Soprattutto hanno retto quelle che sul piano della narrazione ideo- logica sono le loro più dirette proiezioni, vale a dire la legalità e la concezione del reato come forma di offesa a beni giuridici.

L’odierna, buona salute di questo paradigma – osserva Francesco Palazzo – sembra però affidata alla rappresentazione che ne fa la manualistica, piuttosto che ri- specchiarsi nell’uso reale della strumentazione legislativa. Qui, infatti, si va facendo strada una concezione ideocratica del ricorso alla pena. La caratteristica di questo pa- radigma sta nell’aver sostituito la razionalità rispetto allo scopo del diritto penale nello svolgere funzioni di contenimento delle offese ai beni giuridici – sulla base di prognosi di efficacia e di plausibilità strumentale – con un modello giustificativo fondato sul “sentimentalismo sociale”, inteso quale prevalenza della sfera emotiva su quella intellettiva. Avviene, così, che nuovi presidi penalistici vengano pensati per soddisfare esigenze di intuitiva giustizia o di malcelata vendetta, di esorcizzazione di

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un rischio e di moralità verso impieghi disinvolti e spregiudicati di relazioni di pote- re. Con forte senso dell’osservazione dell’esperienza penalistica integrata, Palazzo coglie i riflessi di questo processo sia nella qualità comunicativa del linguaggio legi- slativo – ove la funzione denotativa cede il passo ad “espressioni dall’indecifrabile contenuto normativo e dall’evidente funzione di richiamo emotivo” – sia nelle moti- vazioni delle pronunce dei giudici “in cui descrizioni sociologizzanti dei fenomeni criminosi si accompagnano all’enunciazione di giudizi moralistici sulle persone”. A giudizio di Palazzo, l’aspetto di maggiore rilevanza è che questa corrente di senti- mentalismo ideocratico sfocia nell’irrigidimento – a tratti con venature di fondamen- talismo – della valutazione politico-criminale sottostante le scelte di punibilità, ove i tradizionali bilanciamenti implicati dall’idea liberale dello scopo vengono soppianta- ti dalla tendenziale anelasticità delle convinzioni.

Nel panorama dei cambiamenti in atto un posto particolare merita il discorso sulla pena, ove il Maestro affida all’innovativo sintagma della poliedricità della pena, il compito di ridefinire l’attuale realtà normativa dell’istituto. Con tale espressione, Palazzo allude al fatto che – in seguito ai molti interventi legislativi che ne hanno in- teressato le vicende – la sanzione penale non si presenta oggi esclusivamente sotto le vesti della sanzione punitiva, bensì esibisce una fisionomia variegata, dal momento che articola al proprio interno dispositivi appartenenti ad altri generi sanzionatori, quali quelli ripristinatori e compensativi e riparatori.

Espressione di questa contaminazione di generi è la stessa confisca, che proprio in ragione del polimorfismo delle sue applicazioni “è al centro della politica sanzio- natoria italiana ed europea e di un dibattito anche costituzionale che non era nem- meno immaginabile in questi termini”.

Il discorso sulla pena assurge a filo conduttore di una riflessione che porta Fran- cesco Viganò ad interrogarsi sulla compatibilità della responsabilità dell’ente col prin- cipio della responsabilità individuale. Segnatamente, a chiedersi se tale sistema confi- guri un nuovo paradigma di pena e di responsabilità penale, avente una portata di- struttiva della civiltà del diritto filtrata dal costituzionalismo novecentesco che proprio intorno alla garanzia della personalità della responsabilità penale aveva inteso costrui- re l’irreversibile barriera nei confronti delle tragiche barbarie di quel secolo.

La risposta di Palazzo risente della complessità del tema della responsabilità ul- traindividuale, che – viene opportunamente fatto rilevare – va ben al di là delle for- me di imputazione espressamente riferite all’ente sociale in quanto autore dell’illecito.

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Con la consueta e straordinaria capacità di leggere le vicende giuridiche oltre l’apparenza, sondandone la profondità delle radici e le ramificazioni delle connessio- ni nascoste, egli osserva che tracce e distorsioni “dovute all’incombere della dimen- sione ultraindividuale sui tradizionali schemi di imputazione della responsabilità in- dividuale” si rinvengono nelle esperienze giurisprudenziali della “responsabilità del capo di una consorteria criminosa per i delitti commessi da altri nell’esecuzione del programma associativo” e del “concorso esterno”. In entrambe, il gruppo associativo proietta l’onda lunga della propria rilevanza nella definizione, rispettivamente, pro- batoria e dogmatico/concettuale degli schemi integrativi della responsabilità. Si po- trebbe dire, in pratica, che nei detti ambiti il paradigma ultraindividuale gioca un ruolo di condizionamento indiretto e veste i panni del convitato di pietra.

Esso è invece un formale modello di imputazione della responsabilità nel dirit- to penale dell’economia e trova la propria sublimazione nella disciplina apprestata dal d.lgs. n. 231/01. Una disciplina che, se nell’immediato aveva trovato origine negli impegni di fonte sovranazionale, costituiva a ben vedere l’approdo normativo di fermenti, suggestioni, inquietudini e sensibilità affiorati nello spazio della discussio- ne scientifica a partire dagli anni settanta del secolo passato. In particolare, grazie al- le curiosità di Franco Bricola e dello stesso Maestro fiorentino che al tema degli “ille- citi delle associazioni” aveva dedicato un contributo cruciale per l’importanza e l’utilità della messa a fuoco del problema e dal quale avrebbero tratto spunto e ali- mento gli sviluppi successivi.

L’argomento della responsabilità (penale) della persona giuridica serve a Palaz- zo per riaffermare un topos del suo magistero, per il quale anche principi identitari – quelli che vengono definiti sacri allo scopo di sancirne la sottrazione ai comuni de- stini della decisione politica storicamente condizionata – entrano nella temperie del- le trasformazioni sociali e sono, perciò, esposti agli adattamenti che queste ultime re- clamano. In tale prospettiva, egli rileva come il superamento del regime monistico della responsabilità individuale sia stata conseguenza delle dimensioni assunte dalle organizzazioni complesse nella vita economica contemporanea e delle disfunzioni correlate al societas delinquere non potest; disfunzioni apprezzabili sul piano gene- ralpreventivo quale effetto dell’indebolimento sofferto dall’azione di tutela dei beni giuridici, ma anche rispetto all’ingiustificato favor di cui finiva per godere l’impresa collettiva ed al conseguente pregiudizio arrecato alle regole della concorrenza. Le va- lutazioni espresse da Palazzo sui termini coi quali il nuovo paradigma si è insediato nella legislazione italiana – superando felicemente gli ardui problemi di armonizza-

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zione sistematica originati dalla natura antropocentrica del modello di diritto penale tramandato dalla tradizione ed accolto dalla Carta repubblicana – sono improntate a meditato equilibrio e solido buon senso e spalancano il varco ad una positiva consi- derazione della disciplina. Ad avviso del Nostro, le scelte legislative fra gli alternativi modelli in campo riguardanti la natura giuridica, il carattere sussidiario o autonomo e la portata generale o speciale del nuovo dispositivo di responsabilità hanno avuto il merito di attutirne il radicalismo dilemmatico, consegnandoci una disciplina che, nella sua compattezza d’insieme, riflette ragionevoli contemperamenti tra l’esigenza di prevenire la pericolosità dell’ente e il bisogno di collegarla alla commissione di un reato nonché a coefficienti di colpa di organizzazione.

In quest’ottica, Palazzo affronta il tema della compatibilità della responsabilità dell’ente col principio personalistico di cui all’art. 27, primo comma, Cost. Pur esclu- dendo qualsiasi contrasto, egli non fa mistero che la colpa di organizzazione – vero ponte di collegamento tra le due realtà in comparazione – corra il rischio di trasfor- marsi in una formula vuota, spargendo “semi di potenziale incoerenza in quello che era il tradizionale e solido edificio del diritto penale individuale”. Il pericolo sta nel fatto che coincidendo la colpa di organizzazione con la colpa per il modo di essere della società, “consustanziale alla commissione del reato individuale”, il suo sdoga- namento costituzionale possa favorire la definitiva legittimazione di un trend, già in atto nel diritto penale dell’economia, verso una certa volatilizzazione della colpevo- lezza personalistica, sempre più ripiegata nel ruolo di criterio di ascrizione della me- ra pericolosità della condotta e sempre meno espressione del giudizio di rimprovera- bilità della causazione dell’evento offensivo.

Parte significativa del colloquio viene poi dedicata all’esame della realtà penali- stica del nostro ordinamento, osservata nell’ottica del principio di effettività e della

“questione carceraria”.

Il tema fornisce a Palazzo l’occasione per ribadire l’ostracismo alla “scienza delle pure norme”. Il suo carattere non scientifico sarebbe la conseguenza paradossale del tentativo che essa intese sperimentare di voler rappresentare una vera scienza rifu- giandosi “nello studio della pura logica delle norme, prescindendo quasi dai loro con- tenuti assiologici e concentrando invece l’attenzione sull’elaborazione delle fonti nor- mative e sui rapporti logici derivanti dalla struttura concettuale degli istituti giuridici”.

Un consapevole sapere scientifico nel campo del diritto penale non può, invece, prescindere dallo studio delle condizioni di efficacia delle norme, stante l’inscindibile correlazione tra quelle condizioni – nei suoi aspetti di razionalità rispetto ai valori e

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rispetto allo scopo – e la legittimazione delle disposizioni penali in quanto contenenti pretese normative orientate a modificare la realtà dei comportamenti umani.

In questa prospettiva agisce l’effettività, ricostruita sia quale “dato empirico da verificare nella sua reale consistenza e misura”, sia quale criterio di legittimazione

“di una politica criminale che sia non solo razionale ma anche costituzionalmente fondata”. E tuttavia, una scienza del diritto penale che con coerenza voglia secolariz- zare utilità ha bisogno di competenze lato sensu criminologiche che, pur inserite nei suoi programmi teorico/speculativi, la dottrina italiana ha mostrato di non aver sapu- to acquisire col necessario impegno, ‘distratta’ dalle questioni di rifondazione siste- matica e di affinamento ricostruttivo del diritto sollecitate, rispettivamente, dal co- stituzionalismo e dallo sviluppo legislativo.

Quanto alla capacità della vigente legislazione penale di perseguire i propri com- piti di tutela, Palazzo prende realisticamente atto che qui si registra un clamoroso fal- limento del primo, e forse più importante, obiettivo coltivato dal principio di effettivi- tà, vale a dire la motivabilità secondo norme delle condotte individuali. La dismisura quantitativa incide negativamente sull’attitudine del ‘messaggio comunicativo’ ad in- fluenzare le libere scelte di azione dei suoi destinatari; certo, secondo curve e anda- menti correlati al carattere artificiale o naturale dei reati, ma pur sempre risolvendosi in un ostacolo alla funzione di indirizzo pragmatico dell’agire sociale. L’ipertrofia gioca poi un ruolo anche nella determinazione della cifra oscura, vale a dire quel fenomeno che concorre a determinare la selettività funzionale del nostro sistema – almeno al primo stadio di implementazione delle pretese formalizzate di tutela.

Un ambito nel quale Palazzo individua un ulteriore momento di selettività – che lo induce a condividere la definizione del diritto penale italiano quale “tigre di carta” suggerita da Francesco Viganò che a sua volta l’aveva ripresa da Emilio Dolcini – riguarda il settore della ‘non punibilità’, additato come “il terreno sul quale si gio- cano le partite più importanti della politica penale italiana, non solo perché lì si de- cidono le sorti dell’effettività del sistema e di principi “sacri” quali sono quelli dell’obbligatorietà dell’azione penale, di legalità, del nullum crimen sine poena. Ma anche perché la selezione degli illeciti cui estendere gli istituti di non punibilità esprime in fondo le gerarchie di valore fatte proprie dal legislatore”.

Le pagine riservate alla questione carceraria sono una proiezione della intrinse- ca problematicità del tema, che spingono il Maestro ad affermare che “il carcere è af- fetto da una sorta di mistificazione o contraddizione assiologica”: per un verso, se ne predica la discutibile e, in ogni caso, modesta razionalità strumentale rispetto alla

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diminuzione dei tassi di criminalità; per l’altro, si manifesta irresistibile l’evocazione soggiogante della sua necessità proveniente dal popolo delle vittime.

Ma il carcere è anche il luogo del funzionamento diseguale e irrazionale del si- stema, per superare il quale Palazzo propone di intervenire su un duplice e comple- mentare fronte, “quello nel quale il carcere alimenta sé stesso e quello in cui il carce- re produce fuga da sé stesso”. Occorrerebbe, dunque, abbandonare la tradizionale e, tuttora, vitale impostazione carcerocentrica dell’apparato punitivo, da un lato desti- nando al carcere i soli autori bisognosi di un’offerta rieducativa intramuraria, dall’altro riservando ad un autonomo circuito sanzionatorio – che non dovrebbe ave- re alcun punto di contatto con il primo – soggetti ai quali applicare misure “da sot- trarre in larga misura a benefici di stampo clemenziale o deflattivo”: pene alternati- ve, di natura interdittiva, prescrizionale e variamente limitative di diritti e libertà, ovvero il più impegnativo paradigma della giustizia riparativa.

Sennonché, questo nitore progettuale resta offuscato nel discorso svolto dal ve- lo della pessimistica considerazione dello Zeitgeist. “La nostra politica sanzionatoria insiste tutt’oggi – è costretto a rilevare amaramente il Maestro, anche sulla scorta delle personali esperienze vissute quale presidente di commissioni ministeriali – nel battere la via dell’inasprimento esponenziale della pena detentiva, cui fa da pendant la dilatazione dell’ambito applicativo delle misure alternative dell’ordinamento peni- tenziario: la ricetta ideale per mantenere il paradosso della carcerazione che alimenta sé stessa e che fugge da sé”.

A questo riguardo, Palazzo pronuncia parole che definiscono senza fraintendi- menti una posizione che vuole essere di netta discontinuità con le politiche degli ul- timi decenni. Pur celebrando “gli enormi meriti storici e ideologici dell’idea rieduca- tiva e delle misure alternative che ne sono espressione”, egli non ha alcuna esitazio- ne a scoprirne una destinazione di indiretta legittimazione del carcere e dei suoi or- rori. Carcere e misure alternative rappresentano poli di una medesima realtà che, condizionandosi reciprocamente entro una spirale autoreferenziale, danno l’illusione – come in un gioco di specchi – dell’avvenuta soluzione del problema, laddove, al contrario, ne perpetuano l’esistenza.

Nella parte finale della conversazione, Francesco Viganò domanda al suo auto- revole interlocutore se in futuro potrà ancora avere senso parlare di un diritto penale particolare – legato alle decisioni dello Stato e valido entro i suoi confini geografici – piuttosto che coltivare la prospettiva di un diritto penale universale, ove si conside- rino, da un lato, le dimensioni globalizzate delle forme di criminalità, dall’altro, che

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“gli stili di vita e gli stessi valori che il diritto penale vorrebbe proteggere sono ogget- to di un processo continuo di uniformizzazione su scala internazionale”.

Crediamo di non errare se interpretiamo la posizione di Palazzo come quella di chi non reputa che in un prossimo futuro vi possa essere spazio per sostituire il mo- dello di diritto penale nazionale con un omologo paradigma universale, diverso e ul- teriore rispetto a quello affatto peculiare che oggi è affidato alle previsioni dello sta- tuto istitutivo della Corte penale internazionale.

Ciò non impedisce alla visione palazziana di confrontarsi col vento dell’universalismo. Anzi, essa rileva come da tempo siano presenti elementi di uni- versalismo nelle discipline storicamente condizionate dei sistemi penali di marca sta- tale e, dunque, espressione di una logica particolaristica. Lo dimostrerebbero “la ca- tegoria della ‘punitività’ col suo grande e intramontabile principio di colpevolez- za/responsabilità”, che attraversa le legislazioni penali dell’Europa occidentale, la vi- cenda del multiculturalismo e, più in generale, la penetrazione dei diritti umani qua- li oggetto di protezione dal diritto penale e attraverso il diritto penale.

Percorsa da tensione problematica e da realismo storico è il pensiero di France- sco Palazzo sulle prospettive di riforma del codice. Nella sua ottica, il problema ha due facce: in una prima, più immediata, il codice viene in evidenza come oggetto di una riforma mancata, pur se lungamente coltivata e più volte tentata; in una secon- da, esso sta al centro di un processo di riforma continua, affidata al profluvio degli interventi novellistici che hanno affollato l’esperienza normativa degli ultimi decen- ni. Il risultato è stato la stratificazione incoerente di materiali normativi che hanno sfigurato il volto del codice e lasciato emergere, nel contempo, una cifra di debolezza democratica. E pur riconoscendo che “allo stato non sussistono in Italia le condizioni per mettere mano a una riforma organica del codice”, il primo Presidente dell’associazione dei professori di diritto penale avverte nondimeno la necessità di avviare un’opera indirizzata a ricollocare la legislazione penale entro un contesto di ordine e coordinamento quanto meno estrinseco, “al fine di evitare che la situazione finisca per sfuggire completamente di mano al legislatore, il quale non è più in grado di conoscere anticipatamente i risultati normativi dei suoi interventi, al giudice e all’avvocato, costretti a muoversi in una vera e propria giungla normativa”.

Lo sguardo rivolto al futuro fa pensare a Palazzo che il diritto penale potrà avere una struttura tripolare “con un apparato di garanzie differenziato e crescente:

il polo o circuito degli illeciti punitivi amministrativi; quello degli illeciti puniti con pene non carcerarie e quello degli illeciti puniti col carcere”.

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Sullo sfondo campeggia imperiosa l’esigenza di una forte riduzione dell’area, oggi sterminata, delle figure di reato, una riduzione che tuttavia Palazzo non si augu- ra che venga effettuata all’insegna del diritto penale minimo, sia per un qualche anti- storicismo utopico di ascendenza illuministica che evoca tale formula; sia per il ri- schio di dare vita a forme di penalità classiste e soverchiamente selettive.

In ogni caso, nella conformazione tripolare di un diritto penale dell’avvenire Francesco Palazzo da l’ostracismo a qualsiasi forma di diritto penale del nemico. La difesa della nostra sicurezza dagli attacchi del terrorismo internazionale affidata al diritto penale non potrà consistere nell’abiura dei tratti distintivi della civiltà del di- ritto consegnataci dalla Modernità, pena la dissoluzione dello stesso Occidente.

Sicché, la rimodulazione delle garanzie sul versante del contrasto nei confronti della criminalità terroristica – purtroppo già patrimonio della legislazione penale va- rata negli ultimi anni – non potrebbe in alcun modo spingersi fino al punto da giusti- ficare “per noi il ripristino della pena di morte, l’utilizzazione di pene detentive in- determinate, il ricorso alla tortura”.

Dunque, apertura alle urgenze della storia, ma irrinunciabilità dei valori che costituiscono il nomos dell’umanesimo penale.

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