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I NTRODUZIONE

1. La voce pirateria dell’Enciclopedia Treccani riporta quanto segue:

“l’azione brigantesca di percorrere il mare con proprie navi per impadronirsi di beni altrui in vista di fini esclusivamente personali”.

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La pirateria è uno dei crimini più antichi, in ogni epoca è stato un fenomeno presente e a tratti è stata una vera e propria piaga sociale.

Non è stato semplice arrivare ad una definizione giuridica omogena e univoca di pirateria e ciò è dimostrato dal fatto che a questo traguardo la Comunità Internazionale è arrivata solo nel 1958 con la Convenzione di Ginevra sul diritto del mare e consolidata nel 1982 con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay.

Nel 100 a.C. Plutarco definisce il pirata colui che attacca senza autorità legale le navi mercantili e le città costiere; da questa definizione si deduce che è possibile l’esistenza di una “pirateria legale”. La storia infatti conferma come in ogni epoca la pirateria è stata a fasi alterne combattuta duramente e nello stesso tempo utilizzata a proprio vantaggio dalle varie potenze marittime; un esempio eclatante è Sesto Pompeo, figlio di Gneo Pompeo: quest’ultimo famoso per essere stato nel 67 a.C. il debellatore della pirateria, mentre il figlio sfruttò i pirati per costituire una numerosa flotta rivolta a combattere Ottaviano. Lo storico Floro scrisse che il figlio differisce dal padre: l’uno ha sterminato i

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Enciclopedia Italiana, Voce “Pirateria”, vol. 26, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma,

1935. Voce Online: http://www.treccani.it/enciclopedia/pirateria_res-b920a4d6-993a-11dd-

a3a5-005056b3532f/.

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pirati, l’altro li ha associati ai suoi disegni.

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Tuttavia Sesto verrà sconfitto e sotto il regno di Ottaviano Augusto la pirateria rimarrà lenita e prospererà successivamente con lo sgretolamento dell’impero romano.

2. A livello giuridico vi era solo una distinzione tra pirateria lecita e autorizzata, in virtù del fatto che le potenze dell’epoca utilizzavano i predoni del mare come veri e propri mercenari.

Fu il consolato del mare nel XIV secolo a codificare delle misure antipirateria, una di queste è la navigazione di conserva (menzionata nel Consolato del Mare Capitoli 91-93) in cui le navi mercantili stipulavano un contratto con il quale si stabiliva che l’armatore di una nave costituisce una società con altri armatori per affrontare insieme il viaggio e andare in contro al rischio di attacchi pirati.

La pratica della pirateria “legalizzata” al servizio di un governo era ormai una consuetudine ma è solo a partire dal XV secolo che gli Stati cominciano a disciplinarla, determinando la nascita della corsa. Questo evento ha dato luce a una prima nozione di pirateria, secondo una definizione in negativo che la identifica negli atti compiuti in assenza di autorizzazione governativa.

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A livello sostanziale corsa e pirateria sono la stessa cosa poiché presentano le stesse finalità: depredare in mare con l’uso della forza altre imbarcazioni; a livello giuridico invece sono due fattispecie diverse. Il corsaro trae un vantaggio per sé ma ha un trattamento giuridico differente per il solo fatto che opera sotto la

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FLORO, Epitome bellorum omnium annorum DCC, Libro II, 18, 2.

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Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 64.

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bandiera di uno stato tramite l’autorizzazione della c.d. patenti di corsa, rilasciate per mezzo di decreto o atto amministrativo, tramite cui i governi legittimano dei privati a razziare imbarcazioni mercantili e militari di potenze marittime nemiche.

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La corsa viene regolamentata dagli Stati da norme di natura pubblicistica e privatistica, e un aspetto importante è la responsabilità di quest’ultimi per le azioni commesse dai propri corsari, onde evitare che per amor di lucro fossero compromesse le relazioni con gli altri Stati.

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La corsa è un fenomeno che ha avuto varie forme oltre a quella utilizzata dalle potenze marittime occidentali, una di queste è quella praticata dai regni barbareschi, ovvero i regni nordafricani dell’Algeria, Marocco, Tunisia e Tripoli che dal XIV secolo fanno della pirateria una politica estera permanente. Alla corsa barbaresca si contrappone la corsa cristiana, portata avanti dai Cavalieri di San Giovanni a Malta e dai Cavalieri di Santo Stefano di Toscana.

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La corsa barbaresca cesserà a seguito del Congresso di Vienna nel 1815, in cui le potenze europee decidono di fare fronte comune e di debellare militarmente i pirati magrebini. La marina britannica nel 1816 e Carlo X nell’agosto del 1830 assedieranno e conquisteranno Algeri; un mese dopo questa ultima notevole sconfitta i Sovrani degli altri regni magrebini firmeranno un trattato in cui dichiareranno di non servirsi più della guerra di corsa.

La corsa cristiana terminerà nel 1798 con la conquista da parte di Napoleone dell’Isola di Malta.

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Ibid., p. 33.

5

MOSCHETTI C.M., voce Pirateria (storia), Enc. Dir., XXXIII, Milano 1983, p. 889.

6

Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 44.

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Le potenze europee iniziarono a limitare il fenomeno della corsa nel 1713 con il Trattato di Utrecht, per poi abolirla nel 1856 con la Dichiarazione di Parigi sottoscritta nel 1856 a conclusione della guerra di Crimea. I Paesi firmatari (Austria, Francia, Gran Bretagna, Prussia, Regno di Sardegna, Russia, e Turchia) si impegnano a mettere fine alla guerra di corsa e di rispettare i precetti contenuti nell’accordo.

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La corsa quindi cesserà di esistere definitivamente in occasione della IV Convenzione dell’Aja del 1907 in cui verrà espresso il principio secondo cui solo le navi da guerra sono autorizzate a usare la forza in mare.

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3. Giunti alla fine della pratica della corsa, rimane ancora aperto il quesito su come definire la pirateria. Osservando appunto che in precedenza la definizione era frutto di una distinzione in negativo rispetto ad una pirateria lecita, per arrivare ad avere una definizione omogenea e chiara di pirateria, la Comunità Internazionale dovrà aspettare la Convenzione di Ginevra sull’alto mare nel 1958 e la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, visto che per molto tempo i connotati della pirateria sono rimasti incerti e indeterminati per vari e svariati motivi: ciascuno Stato aveva una propria opinio juris e in alcuni casi venivano ricompresi nel crimine di pirateria determinati illeciti in realtà differenti, con lo scopo di reprimere queste condotte criminose.

7

Cfr. G. TELLARINI, La pirateria marittima, regime di repressione e misure di contrasto, Aracne Editrice 2012, p. 61.

8

Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 43.

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Durante la Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958 emerse quanto mancasse una visione generalmente condivisa sugli elementi costitutivi del reato di pirateria.

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Un primo punto controverso è l’identità degli autori materiali dell’illecito:

una corrente sosteneva che potevano essere incluse anche le navi militari che commettevano atti di violenza e di depredazione di navi mercantili, questa tesi era sostenuta dall’Unione Sovietica e dagli Stati del blocco comunista, mentre l’altra corrente sosteneva che non potevano essere comprese imbarcazioni militari ma solo private.

In merito allo scopo ci sono state delle posizioni contrapposte, da un lato si considerava che gli atti criminosi dovevano avere il fine di saccheggiare o depredare (animus furandi), altra teoria ammetteva che potevano perseguire anche altri obbiettivi come per esempio politico-eversivi.

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Riguardo al locus commissi delicti, la tesi che prevede il reato solo commesso in alto mare si contrappone a quella che lo estende anche al mare territoriale.

Ultimo oggetto di dibattito riguarda i poteri conferiti agli Stati per reprimere la pirateria: era incerto se il diritto internazionale obbligasse gli Stati a contrastare tale crimine o invece vi fosse soltanto un generico obbligo di cooperazione.

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N. RONZITTI, voce Pirateria (diritto vigente), Enc. Dir., XXXIII, Milano 1983, pp. 911-912 ss.

10

Cfr. V. PELLA, La répression de la piraterie, Recueil des Cours de l'Académie de Droit International, 1926, tome V p. 165 ss.

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Report of International Law Commission, 327

th

meeting, 1955, Yearbook ok the International

Law Commission, 1955, p. 81.

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La Convenzione giunge ad una regolamentazione di pirateria ampiamente condivisa (Articoli 14 - 21). In particolare, l’Articolo 15 la definisce come segue:

“1. ogni atto di violenza illegittimo di detenzione e ogni predoneria commessi dall'equipaggio o dai passeggeri d'una nave o d'un aeromobile privati, a scopo personale, e a danno:

a. in alto mare, di un'altra nave, altro aeromobile, o di persone o beni a bordo di questi;

b. in luoghi non sottoposti alla giurisdizione di uno Stato, d'una nave, o di un aeromobile, o di persone o beni.

2. La partecipazione volontaria all'impiego d'una nave o d'un aeromobile, svolta con piena conoscenza dei fatti che conferiscono a detta nave o detto aeromobile l'attributo di pirata.

3. L'istigazione a commettere gli atti definiti ai numeri 1 e 2 come anche la facilitazione intenzionale degli stessi”.

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L’articolo 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Mare del 1982 avrà la stessa struttura dell’articolo 15 della convenzione di Ginevra, questo perché già nella definizione del 1958 alla fine si giunse a un testo ampliamente condiviso ed emersero con chiarezza i punti caratteristici della fattispecie.

Prima di esaminare le peculiarità del reato finalmente codificato, possiamo osservare che con questa regolamentazione si può finalmente osservare che il reato di pirateria assume ufficialmente lo status di reato internazionale, e,

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Convenzione di Ginevra sull’alto mare, Articolo 15, Ginevra 29 aprile 1958.

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definiti i contorni in maniera meticolosa, si può finalmente applicare il principio di giurisdizione universale da parte di tutti gli Stati.

Analizzando i tratti salienti si evince che in merito alla condotta materiale essa si presenta come una violenza su cose o persone, la detenzione o l’appropriazione e la depredazione. Quindi anche il solo sequestro dell’imbarcazione integra la fattispecie, non lo integra invece la condotta fraudolenta priva dell’elemento di violenza, essa va intesa nel senso ampio del termine, quindi violenza fisica e violenza morale.

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Quanto alla natura privata della condotta essa va analizzata sotto vari profili.

Per primo si considera privata rispetto agli autori materiali del reato, ovvero colui che commette il reato agisce per proprio conto e senza la direzione o controllo di alcuno Stato. In secondo luogo la natura privata si riferisce allo scopo; risulta innegabile che la pirateria marittima sia un crimine che non possa avere moventi politici e che essa trova nell’animus furandi la propria peculiarità: la pirateria è un reato contro la proprietà.

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Si può quindi parlare di dolus generalis, l’autore ha voluto mettere in atto la propria condotta, e dolus specialis, che è legato allo scopo.

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La natura privata è strettamente legata al mezzo pirata, definito all’articolo 103. Esso deve essere obbligatoriamente un mezzo privato e viene identificato come pirata in due casi: quando coloro che ne hanno il controllo la sfruttano per commettere il delitto o quando il mezzo è utilizzato per atti di pirateria fintanto

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Cfr. V. PELLA, La répression de la piraterie, Recueil des Cours de l'Académie de Droit International, 1926, tome V, p. 185ss.

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Ibid., p. 212.

15

Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 72.

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che resta sotto il controllo degli autori del reato.

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Si evince quindi che è condizione essenziale la presenza di due navi.

Altro elemento fondante del reato di pirateria è la determinazione del locus commissi delicti. Il diritto internazionale prescrive che il reato debba consumarsi in alto mare o in spazi dove non vi sia giurisdizione di alcuno Stato (s’intendono terre emerse costituenti re nullius). La seconda ipotesi è ormai un caso di scuola, essa era stata avanzata negli anni 30 e poteva avere un senso, mentre oggi tutti i territori sono soggetti a sovranità.

La determinazione di tale locus ha una sua ratio nel non imporre agli Stati di perseguire il reato di pirateria all’interno delle proprie acque territoriali, obbligandoli infatti si limiterebbe la propria sovranità statale, nello stesso tempo si permette e si legittima di perseguire il reato al di fuori della propria giurisdizione nazionale.

Un ultimo elemento importante del reato di pirateria marittima è quello della partecipazione cosciente e volontaria al compimento, all’istigazione o al favoreggiamento del reato (lettere b) e c) dell’articolo 101); poiché in questo caso la norma letta congiuntamente con l’articolo 103 può essere d’aiuto per prevenire un attacco pirata progettato ma non ancora messo in atto. È da notare infatti che non è presente nella Convenzione come fattispecie punibile il tentativo di commettere atti di pirateria, quindi il combinato dell’articolo 101 lettera b) e c) con l’articolo 103 compensa questo vuoto e consente agli Stati di poter avere giurisdizione su una nave fermata.

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Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Mare, Articolo 103, Montego Bay 1982.

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4. Il reato di pirateria ha adesso un ritratto dai contorni chiari e precisi, una codificazione completa e ampliamente condivisa dalla Comunità Internazionale, ciò non toglie che rimane comunque essenziale approfondire questa identità distinguendo il reato di pirateria da altri crimini simili.

L’ammutinamento molte volte è stato assimilato alla pirateria, non dal diritto internazionale, e anche la dottrina è sempre stata contraria a tale equiparazione, ma dal diritto interno di alcuni Stati. In questi casi si parla di pirateria relativa, o per analogia, ovvero quando alcuni fatti vengono assimilati alla pirateria pur non avendo tutti i requisiti prescritti dal diritto internazionale del delitto juris gentium, pirateria assoluta.

L’ammutinamento è sostanzialmente diverso dalla pirateria poiché manca il requisito delle due navi quindi non può rientrare nel reato codificato dalla Convenzione di Montego Bay. Va tenuto distinto il caso in cui gli ammutinati, una volta assunto il controllo del mezzo, inizino a commettere atti di pirateria a danno di altre imbarcazioni.

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Per quanto riguarda la tratta degli schiavi la somiglianza è più forte: in questo caso il soggetto che commette il reato è responsabile di violenza in alto mare nei confronti di altre persone per fini di lucro.

Una riflessione sulla distinzione tra pirateria e tratta va fatta in merito alla ratio che sta alla base delle norme di diritto internazionale che vietano tali condotte.

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Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 80-81.

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Nel caso della tratta essa è proibita in quanto si vogliono salvaguardare i diritti umani fondamentali, mentre per la pirateria, come abbiamo già ricordato prima, turba la libertà di navigazione in alto mare e gli scambi commerciali.

Oltretutto nella Convenzione di Montego Bay vi è una differenziazione tra i poteri concessi alle navi militari in caso di fermo di imbarcazione che effettua tratta di schiavi e imbarcazione che commette atti di pirateria. Possiamo brevemente osservare, per approfondire in seguito, che sono conferiti maggiori in quest’ultimo caso poiché è possibile sequestrare e obbligare a fermo la nave pirata, mentre in caso di tratta si può solo sottoporre a fermo la nave e liberare gli schiavi dandogli asilo sulla nave militare, ma non si può sequestrare l’imbarcazione poiché toccherà allo Stato bandiera intervenire.

Il motivo di questa disuguaglianza in merito ai poteri d’intervento è dovuto alle priorità che la codificazione dell’82 ha inteso manifestare e cioè concentrarsi sulla tutela della navigazione in alto mare.

La lotta alla pirateria infatti trova le sue ragioni fondanti nella salvaguardia della libertà di navigazione in alto mare e quindi la sicurezza del commercio marittimo.

Un altro crimine che viene accostato alla pirateria è il terrorismo marittimo.

Ci sono stati due esempi in passato che hanno fatto scuola: il caso della Santa Maria, nave portoghese, nel 1961 e la nave italiana Achille Lauro nel 1985.

Nella prima ipotesi la nave fu sequestrata da alcuni imbarcati e gli atti di

violenza che commisero una volta avuto il comando della nave furono per scopi

politici contro il regime portoghese di Salazar.

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La Achille Lauro invece fu dirottata da quattro guerriglieri del FLP (Fronte per la Liberazione della Palestina) a circa 50 km di Porto Said, quindi oltre le acque territoriali egiziane.

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Fu soprattutto quest’ultimo episodio che indusse alcuni membri della Comunità Internazionale a far rientrare l’episodio all’interno della fattispecie della pirateria. C’è da precisare che prima di questi due avvenimenti in tutta la storia non vi furono mai casi di terrorismo marittimo, quindi il diritto internazionale si trovò in un certo senso impreparato di fronte a questi avvenimenti.

Certo è che, nonostante l’episodio del dirottamento avvenne in alto mare, esso non poteva rientrare nei casi previsti dall’articolo 15 della Convenzione di Ginevra, né tantomeno nell’articolo 101 della Convenzione di Montego Bay, poiché mancava il requisito delle due navi e la finalità non era privata, ma politica.

Infine è da ricordare che non era applicabile l’art 105 che conferisce poteri di cattura a qualsiasi Stato, in deroga del principio di libertà di navigazione, ma che in questo caso l’intervento era legittimo solo dello Stato bandiera (l’Italia), o che l’intervento da parte di altri Stati sarebbe stato legittimo solo con previo consenso dell’Italia.

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Cfr. G. TELLARINI, La pirateria marittima, regime di repressione e misure di contrasto, Aracne Editrice 2012, p. 221.

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Cfr. N. RONZITTI, Alcuni problemi sollevati dal dirottamento dell’Achille Lauro, in Riv. Dir.

Internaz. 1985, p 586.

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5. La ricostruzione storico – giuridica del reato di pirateria marittima è il primo passaggio obbligatorio per poter affrontare la tematica della giurisdizione per questo crimine.

La pirateria è un fenomeno ormai dilagante, che è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni; il diritto ha il compito di tutelare e controllare i fenomeni sociali dell’uomo, quello internazionale ha un compito ancora più delicato, di essere avallato e riconosciuto, se non da tutti, dalla maggior parte dei membri della Comunità Internazionale e di essere funzionale al controllo dei fenomeni sociali più rilevanti per la vita del pianeta.

Nel caso della pirateria marittima i primi problemi si sono creati già nell’avviare i processi contro i colpevoli di tale reato. Questa tesi affronterà le difficoltà e le soluzioni legate alla giurisdizione per il crimine di pirateria marittima.

L’emergenza di avere una definizione univoca sulla pirateria è stato il primo passo per far sì che la Comunità Internazionale possa avere giurisdizione in merito. Senza di essa infatti il crimine internazionale non esisteva giuridicamente e di conseguenza non poteva essere puntualmente perseguito.

Il principio di competenza giurisdizionale universale, accolto dalla Convenzione di Montego Bay, ha spinto la Comunità Internazionale verso una collaborazione fruttuosa e con basi teoriche solide le quali sono l’unico inizio possibile per la soluzione del fenomeno della pirateria.

Controllare e contenere questo spaventoso fenomeno criminale è una sfida non

facile, poiché il problema è di proporzioni smisurate. È da notare che l’80% del

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commercio globale è marittimo e che nei prossimi anni tenderà ad aumentare;

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l’importanza quindi di avere un adeguato sistema di contrasto alla pirateria è uno degli obiettivi primari della Comunità Internazionale, i cui fallimenti o successi si ripercuoteranno in modo massiccio sull’economia del globo.

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Cfr. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel diritto internazionale, Editoriale

Scientifica 2010, p. 56.

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