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1 - I QCM (Quartz Crystal Microbalances)

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Academic year: 2021

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1 - I QCM (Quartz Crystal Microbalances)

1.1 Introduzione

Negli ultimi 10-15 anni [1] l’elettrochimica ha visto lo sviluppo di strumenti e tecniche sempre più sofisticati per lo studio dei fenomeni di interazione tra sostanze chimiche, in fase gassosa e liquida, e la superficie di elettrodi opportuni. Tale sviluppo è dovuto sia alla accresciuta disponibilità di strumenti sempre più potenti per lo studio delle interfacce elettrodo-gas ed elettrodo-liquido, sia all’aumento di interesse da parte della moderna elettrochimica alla caratterizzazione dettagliata di queste strutture.

Sono stati utilizzati molti metodi per lo studio delle interfacce elettrochimiche e uno di questi è basato sulla tecnologia delle microbilance con cristallo di quarzo ( Quartz Crystal Microbalance – QCM). Il QCM consiste in una sottile lamina di quarzo racchiusa tra due elettrodi metallici che, imponendo un campo elettrico alternato, costituiscono un oscillatore al quarzo con la sua frequenza di risonanza caratteristica. Questa frequenza è sensibile a variazioni di massa, o ad altri fattori, a carico del cristallo e dell’elettrodo. L’alta risoluzione raggiungibile attraverso la misura della frequenza ha reso le microbilance uno strumento diffuso nella misura di molti fenomeni fisici. I risuonatori al quarzo non sono sensibili solamente all’aumento di massa, ma, attraverso fenomeni non lineari, anche a variazioni di temperatura e di stress meccanico. Per questo, e grazie ad una elevata stabilità in frequenza per intervalli temporali adeguati alla durata della misura, le microbilance rendono possibili misure ad alta risoluzione di temperatura, viscosità, pressione, forza, vibrazione, accelerazione, spessore di film, cinetiche di reazione di alcuni processi chimici in fase gassosa e studi sulla possibilità di adsorbimento.

Il fenomeno fisico che sta alla base delle misure di forza, accelerazione, pressione è il seguente: se il mezzo (cristallo) in cui viaggia un’ onda elastica viene sottoposto ad una perturbazione meccanica statica o ad una frequenza bassa rispetto a quella dell’onda, gli sforzi e deformazioni quasi statici che si inducono nel mezzo, si accoppiano, a causa di

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non linearità elastiche, all’onda ad alta frequenza inducendo variazioni della velocità e della frequenza dell’onda stessa [2].

Una delle applicazioni più interessanti ed estreme delle QCM è quella di essere impiegate come biosensori in cui l’elettrodo viene funzionalizzato mediante ancoraggio di biomolecole sulla sua interfaccia posta a contatto con una soluzione contenente la sostanza o il composto da riconoscere e misurare, in particolare, in questo lavoro di tesi, oligonucleotidi e segmenti di mRNA con la finalità di studiare l’espressione dei geni di una cellula umana.

1.2 Analisi quantitativa dell’espressione dei geni

La cellula umana contiene circa 30000-38000 geni per la codifica delle proteine (gli studiosi stanno ancora discutendo sul numero esatto, Venter et al. 2001, Lander et al. 2001, Davison et al. 2001), ma solamente una piccola frazione di essi sono espressi in una singola cellula, forse il 15 %. Un gene è un tratto di catena di DNA che specifica una determinata proteina. Mentre il patrimonio genetico di un individuo stabilisce la sua unicità all’interno della sua specie, il profilo di espressione dei geni di una cellula stabilisce la sua unicità e diversità rispetto ad altre cellule e le permette di compiere tutte le sue funzioni fisiologiche come, ad esempio, la produzione di energia, la biosintesi di macromolecole, il mantenimento dell’architettura cellulare e la risposta a stimoli ambientali. Alcuni geni sono espressi in tutte le cellule mentre altri lo sono solamente in particolari tipi di cellule. Inoltre, quando le cellule cambiano il loro stato durante rimodellamenti fisiologici, o sono influenzate da agenti fisici, chimici e biologici, possono cambiare nel tempo il loro profilo di espressione.

Quindi lo studio dell’espressione dei geni è un punto focale in molti campi della ricerca biologica per ottenere una caratterizzazione molecolare e capire ed analizzare le differenze tra cellule. Alcuni esperimenti sono spesso ideati e condotti allo scopo di monitorare l’espressione di alcuni geni in risposta a determinati stimoli (droghe, tossine, ormoni, radiazioni) o valutare l’espressione di diverse popolazioni cellulari, come ad esempio cellule sane e cellule cancerogene o cellule a vari livelli di sviluppo.

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Molti studi hanno evidenziato che per un dato gene, la quantità di proteine prodotte è direttamente legata alla quantità di mRNA ( RNA messsaggero) che codifica tale produzione.

Ciò significa che per capire la funzione di una cellula in determinate condizioni, è necessario determinare tipi e quantità degli mRNA coinvolti nel processo.

1.3 Tecniche per l’analisi dell’espressione dei geni

L’analisi dell’espressione genica può essere condotta a due differenti livelli, uno panoramico, ovvero teso a caratterizzare il profilo di espressione di tutti i geni, utile a volte per scoprirne di nuovi, e uno focalizzato, adatto a seguire le variazioni di singoli mRNA. Il primo è un approccio molto recente ed è stato reso possibile dallo sviluppo delle tecniche analitiche negli ultimi anni 90. Tecniche come l’analisi seriale dell’espressione dei geni (SAGE) e i DNA microarrays hanno reso possibile la determinazione dell’espressione di migliaia di geni. Il secondo si fonda su tecniche ormai consolidate, ed ha lo scopo di studiare piccole popolazioni cellulari.

Le tecniche di indagine si possono dividere in due grandi categorie: • Tecniche analitiche

• Biosensori

Vediamo una breve panoramica sulle tecniche analitiche [3].

1.3.1 Tecniche analitiche

Queste tecniche rendono possibile lo studio di grandi popolazioni di cellule, ma richiedono attrezzature molto costose ed operatori esperti.

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Tecniche basate sulla ibridazione

Tecniche PCR Tecniche basate sul

sequenziamento - Northern blotting - RNase protection - In situ hybridisation - DNA microarrays - Differential Display - RT-PCR

- SAGE (serial analysis of gene expression)

Tabella 1.1 Classificazione delle tecniche analitiche.

1.3.1.1. Tecniche basate sulla ibridazione

L’ibridazione è la produzione di complessi molecolari o cellulari di diversa origine. Si può avere ibridazione di acidi nucleici facendo interagire DNA con sequenze di RNA complementari a uno dei suoi filamenti: il complesso a doppia elica che ne risulta è un ibrido composto da un filamento di DNA e uno di RNA, tenuti appaiati dalle interazioni tra basi complementari (tra G e C e tra A e U. A seguito di questa reazione di ibridazione la sequenza di DNA complementare a uno specifico DNA può venire separata da altre sequenze di DNA non ibridate. Tutte le tecniche basate sull’ibridazione hanno in comune una specifica ibridazione tra filamenti di nucleotidi complementari.

Northern blotting

E’ una tecnica fondamentale utilizzata nella identificazione e quantificazione di specifici mRNA in una certa pololazione cellulare. Originariamente questa tecnica veniva eseguita immobilizzando RNA da gel di agarosio su cellulosa deazotata. In seguito sono state sviluppate varie tecniche tese ad immobilizzare RNA su membrane di varia natura come nitrocellulosa, nylon®, etc. Il primo passo consiste nell’isolare tutto l’RNA di una cellula e purificarlo, il secondo nel farlo passare in un gel elettroforetico denaturante, per trasferirlo poi sulla membrana. La rivelazione di un particolare mRNA tra tutti gli RNA è eseguita mediante particolari sonde (probes) complementari a marcatori radioattivi. La determinazione quantitativa avviene attraverso analisi densitometriche comparative che forniscono unità densitometriche arbitrarie rendendo

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tale misura relativa e quindi possibile fonte di errori interpretativi. Questo è il limite principale di tale tecnica.

Nuclease protection assay

Questo metodo differisce dal Northern blotting per due motivi:

1. è più sensibile e quindi efficace per individuare specie rare di mRNA 2. fornisce informazioni strutturali dettagliate dell’mRNA, fornendo una

“mappa di trascrizione”

Essa utilizza sonde di DNA o RNA radioattivi a singola elica complementari a regioni dell’mRNA da analizzare. Le sonde che reagiscono con l’mRNA target diventano a doppia elica mentre le altre restano a singola elica. Le regioni che non hanno subito questa trasformazione vengono “digerite” da enzimi specifici come l’S1 nucleasi, per le sonde a DNA e l’RNasi A e T1 per sonde a RNA. Quindi le regioni che reagiscono con il target sono protette dall’azione degli enzimi, da qui il nome Nuclease Protection.

Ibridazione in situ

E’ un metodo per la localizzazione e la determinazione di specifici mRNA all’interno di porzioni di tessuti preservate morfologicamente o in opportune preparazioni cellulari che utilizza l’ibridazione di una sonda nucleotidica con la sequenza di interesse.

E’ la sola tecnica che permette la determinazione di RNA e DNA per vari scopi: • individuazione e localizzazione di infezioni virali

• mappatura dei geni nei cromosomi

• analizzare la distribuzione della trascrizione in un tessuto • seguire le variazioni della sintesi di specifici mRNA

Il principio è quello di far arrivare una sonda radioattiva fin dentro i tessuti opportunamente fissati e preparati e ottenere che questa vada a riconoscere l’RNA messaggero contenente una sequenza complementare e che vi si possa appaiare. Dopo aver liberato il preparato dalla radioattività in eccesso dovuta ad appaiamenti non corretti, lo si pone per un certo tempo a contatto con una lastra autoradiografica o lo si ricopre con una opportuna emulsione. Dopo lo sviluppo si potrà osservare la

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distribuzione del segnale, proiettato sullo sfondo di una marcatura istologica convenzionale di quel tessuto. Si avrà così un’immagine molto chiara della distribuzione degli RNA complementari alla sonda.

Le sonde possono essere marcate oltre che con isotopi radioattivi, anche con sostanze fluorescenti o nanoprticelle di oro. Queste differenze cambiano fortemente la tecnica di misura e la sensibiltà.

DNA Microarray Analysis

I microarray a DNA, noti anche come “DNA chip” o chip genici, sono uno strumento importante delle cosiddette “nanotecnologie”. Essi sono utili per lo studio dell’espressione genica e di grande interesse per i ricercatori che studiano le basi molecolari del cancro e di altre malattie complesse oltre che, in ambito farmacologico, per l’individuazione di nuovi farmaci.

Messi sul mercato nel 1996 consentono di analizzare contemporaneamente l’attività di decine di migliaia di geni . I chip sono formati da moltissime sonde di DNA depositate in una posizione nota su un supporto a formare una microgriglia (da cui il nome microarray) che consente di identificarle in modo univoco. Il supporto di solito è un vetrino da microscopio che ha le dimensioni, più o meno, di un pollice della mano. Ogni sonda è costituita da un segmento di DNA a singola elica di un gene e, nel loro insieme, tutte le sonde di un DNA chip rappresentano tutti, o la maggior parte, dei geni di un organismo. I chip sfruttano una proprietà importante del DNA, ossia l’appaiamento tra basi complementari (la T si appaia con la A e la G con la C) nella sua struttura. Come esempio di applicazione dei microarray consideriamo l’identificazione dei geni peculiarmente espressi o non espressi in un tessuto tumorale rispetto al relativo tessuto normale.

Quando i geni sono attivamente espressi, cioè sono attivamente trascritti, nelle cellule di questo tessuto sarà presente un numero elevato di molecole di mRNA corrispondente ai geni espressi rispetto al tessuto sano. Si estrae pertanto l’RNA dai due tipi di tessuti (sano e tumorale), si converte l’mRNA nella copia più stabile a DNA (cDNA) e vi si lega un marcatore fluorescente: ad esempio verde per il cDNA ottenuto da cellule tumorali e rosso per quello ottenuto da cellule sane. Si applicano poi i cDNA marcati al chip. Quando il cDNA trova la sua sequenza di basi complementare tra le decine di

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migliaia di sonde depositiate sul chip, vi si appaia. In quel punto del microarray si ha emissione di fluorescenza, indice dell’espressione di quel determinato gene. I chip vengono quindi analizzati con uno scanner, strumento che valuta il quadro di fluorescenza e i risultati sono elaborati da un computer. Si ottiene come risposta una mappa a colori: segnale rosso se un gene è espresso solo nel tessuto sano, verde se un gene è espresso solo nel tessuto tumorale e diverse gradazioni di giallo (rosso + verde) se un gene è espresso in entrambi i tessuti a livelli diversi. In altre parole si ottiene quello che viene definito un profilo di espressione, che consente di confrontare i quadri di espressione genica in tessuti diversi o nello stesso tessuto in differenti condizioni oppure in una cellula a diversi stadi di sviluppo.

Nella figura 1.1 sono rappresentate le fasi principali di questa tecnica.

Figura 1.1 Rappresentazione schematica della tecnica di analisi dell’espressione genica mediante i DNA microarray.

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1.3.1.2 Tecniche PCR

La PCR (Polymerase Chain Reaction), inventata dal Dr. Kary Mullis nel 1983 (Nobel 1993), è un metodo attraverso cui una sequenza di acido nucleico può essere amplificata esponenzialmente in vitro. È necessario che le estremità della sequenza da amplificare siano conosciute con sufficiente precisione per poter sintetizzare degli oligonucleotidi che saranno ibridizzati ad esse, e che una piccola quantità della sequenza sia disponibile per dare inizio alla reazione. Non è necessario che la sequenza da sintetizzare enzimaticamente sia inizialmente presente in forma pura; essa può anche essere una frazione minoritaria di una miscela complessa, come un segmento di un gene a singola copia nel DNA totale umano. La sequenza da sintetizzare può essere presente inizialmente come una molecola discreta oppure può essere parte di una molecola più grande. In entrambi i casi, il prodotto della reazione sarà una molecola discreta di dsDNA con estremità corrispondenti a quelle 5’ degli oligomeri utilizzati.

Un tipico ciclo di PCR è:

1. Denaturazione di DNA che deve essere copiato mediante calore (94 - 99 °C). 2. Appaiamento (annealing) di oligonucleotidi complementari (30 - 65 °C). 3. Estensione dei nucleotidi con DNA polimerasi termoresistente (65-72 °C).

La scelta delle condizioni operative del ciclo (tempo e temperatura) è compito dell’operatore, è una scelta empirica e non prefissata.

Durante il primo ed ogni successivo ciclo di reazione, l’estensione di ogni oligonucleotide sullo stampo originale produrrà una nuova molecola di ssDNA (single stranded) di lunghezza indefinita. Questi prodotti “allungati” accumuleranno in maniera lineare, cioè la loro quantità dopo un numero qualsiasi di cicli sarà linearmente proporzionale allo stesso numero di cicli. I “prodotti lunghi” originati in questo modo fungeranno da stampi per l’uno o l’altro degli oligonucleotidi durante i cicli succcessivi, e l’estensione di questi oligonucleotidi dalla polimerasi produrrà catene di una lunghezza definita, corrispondente a quella della molecola di interesse. Queste molecole fungeranno anch’esse come stampi per l’uno o per l’altro oligonucleotide producendo

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altre molecole di grandezza definita. In questo modo si svilupperà una reazione a catena che porterà all’accumulo di uno specifico dsDNA (double stranded) in maniera esponenziale rispetto al numero di cicli di reazione. Il grado di amplificazione finale è dato da 2^(n-2) dato che i primi due cicli sono nulli. Esistono due tecniche di analisi principali che fanno uso della PCR, e che si differenziano per le modalità di estensione dei nucleotidi, e sono il Differential Display e la RT-PCR che comunque non verranno qui analizzate. L’mRNA è convertito nel corrispondente cDNA e questo è amplificato mediante PCR per un quantitativo maggiore e quantificabile.

Oltre a venire impiegata in biologia molecolare per lo studio dell’espressione genica, questa tecnica è molto utile in applicazioni in campo clinico come ad esempio la diagnosi di traslocazioni cromosomiche associate ad insorgenza di forme tumorali. La PCR è comoda perché, grazie al suo alto potere amplificatorio, ci permette di individuare il male anche nella fase precoce della neoplasia, pensiamo ad un tumore in fase liquida (sangue).

1.3.1.3 Tecniche basate sul sequenziamento

Queste tecniche sviluppate recentemente includono una serie di metodi che impiegano in modo massiccio la sequenziazione del DNA, per questo possono essere impiegati solamente in grandi laboratori dedicati specificatamente a questo tipo di studi.

Analisi Seriale dell’Espressione Genica (SAGE)

Sviluppata nei laboratori dei Dr. Bert Volgelstein e Ken Kinzler presso l’Università statunitense “John Hopkins”, SAGE ™ è una tecnica attraverso la quale è possibile avere una precisa informazione sulla composizione degli mRNA presenti nel tessuto in un preciso intervallo di tempo. Si possono quindi ottenere andamenti temporali dei profili di espressione genica cambiando le condizioni del tessuto e quindi della cellula (trattamenti farmacologici, etc). I passi di questa tecnica sono i seguenti:

1. Da una prima estrazione di mRNA dal tessuto se ne produce il DNA complementare (cDNA).

2. Con opportuni enzimi, si taglia la sequenza iniziale di ognuno di questi frammenti.

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3. Successivamente si legano tra loro i vari frammenti producendo delle lunghe catene. Poiché ogni frammento (tag) è riconducibile ad uno specifico mRNA, è possibile valutare se e quanto è espresso un certo gene.

Con questa tecnica è stato studiato il profilo di espressione dei geni del lievito, riportato da alcuni autori col nome di “trascrittoma” (Velculescu e altri 1997), in cui l’analisi di 60633 RNA trascritti ha rivelato 4665 geni con un livello di espressione compreso tra 0.3 e 200 trascritti per cellula. Questo per dare un esempio della potenza di tale tecnica, capace non solo di identificare molti geni alla volta, ma anche di darne una misura quantitativa.

Questo breve sommario delle tecniche analitiche impiegate per l’analisi dell’espressione dei geni, mette in luce la varietà, la complessità e lo sforzo di molti laboratori di ricerca teso a migliorare e sviluppare tali strumenti. Questo tipo di studi ha conquistato una grande rilevanza in campi come la farmacologia, l’oncologia, la tossicologia e la ricerca di base nella biologia cellulare.

Inoltre sono stati evidenziati i principali svantaggi di queste tecniche: • Alti costi.

• Attrezzature molto ingombranti. • Necessità di laboratori specializzati.

• Necessità di personale altamente qualificato.

Allo scopo di eliminare questi svantaggi, e di sviluppare tecniche che richiedono meno abilità e conoscenze specifiche, nonché minore manipolazione dei campioni, sono in corso di studio tecniche che prevedono l’utilizzo di biosensori di affinità.

1.3.2 Biosensori: un nuovo strumento di analisi

Lo sviluppo di biosensori è una interessante sfida per cercare di ottenere un semplice sistema analitico in grado di fare misure quantitative su un certo insieme di geni.

Il termine biosensore viene applicato sia a dispositivi che compiono un monitoraggio di sistemi viventi, sia che incorporano elementi biologici.

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Per convenzione, attualmente, il termine è riferito a sensori che incorporano un elemento biologico costituito, ad esempio, da enzimi, anticorpi, acidi nucleici, microorganismi o cellulle. Una estensione della definizione di biosensore comporta l’utilizzo di elementi biomimetici, ovvero, acidi nucleici modificati, anticorpi ricombinanti e frammenti di proteine. In accordo alla definizione di Turner, un biosensore è “ un dispositivo analitico compatto che incorpora un elemento sensibile di natura biologica integrato ad un trasduttore fisico-chimico. Lo scopo principale di tale dispositivo è quello di fornire un segnale elettrico, analogico o digitale, proporzionale alla concentrazione di un singolo analita o un gruppo di analiti” (Turner e altri 1987).

Figura 1.2 Rappresentazione schematica di un biosensore. Il trasduttore rileva l’interazione tra l’analita ed il biorecettore e genera un segnale elettrico misurabile

Un biosensore è costituito da due componenti: il biorecettore e il trasduttore.

Il biorecettore è una biomolecola che riconosce l’analita, cioè il target, mentre il trasduttore produce, in conseguenza a questo legame, chimico o fisico, un segnale misurabile. I segnali prodotti dal trasduttore sono tipicamente: corrente elettrica, potenziale elettrico, intensità e fase di radiazione elettromagnetica (luce visibile), massa, impedenza elettrica, temperatura, viscosità, etc.. La particolarità dei biosensori è che il biorecettore e il trasduttore sono integrati in un unico sensore. Questa soluzione permette di misurare l’analita in modo diretto, cioè senza l’utilizzo di reagenti.

Le tecniche analitiche invece prevedono vari passaggi di trataamento del campione, ognuno dei quali richiede l’uso di opportuni reagenti. La semplicità d’uso e la velocità di misura sono i principali vantaggi dei biosensori, insieme al basso costo e alla non necessità di particolari conoscenze tecniche dell’operatore, requisito fondamentale delle tecniche analitiche.

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La semplificazione del metodo di misura e la minore necessità di manipolazione dei campioni diminuiscono il rischio di introduzione e propagazione di errori e quindi una più alta ripetibilità della misura. Grazie alla semplicità, sensibilità, selettività, portabilità, possibilità di effettuare misure in tempo reale, i biosensori sono stati utilizzati in vari campi, come, ad esempio, processi industriali, indagini cliniche, studi di processi biologici, monitoraggio ambientale e altro.

I biosensori vengono classificati in base a due aspetti (Thevenot e altri 1999):

1. il meccanismo con cui il biorecettore riconosce l’analita,

2. il meccanismo con cui il trasduttore genera il segnale misurabile.

1.3.2.1 Classificazione sulla base del meccaniscmo di bioriconoscimento

Gli eventi biologici alla base del riconoscimento possono essere: reazione catalitiche (biocatalitiche) o affinità verso l’analita.

Principio Effetto valutato Biorecettore specifico

Enzimi Cellule Ricoscimento per

reazione biocatalitica

Consumo di substrato, aumento dei prodotti di reazione, stato dei

co-fattori. Tessuti

Anticorpi Recettori Riconoscimento per

bioaffinità Formazione di biocomplessi

Acidi nucleici

Tabella 1.2 Classificazione dei biosensori in base al meccanismo di riconoscimento del biorecettore

I biosensori basati sulla biocatalisi, sono i più utilizzati e studiati, fin dai lavori pionieristici di Clark e Lions (1962), che descrissero per primi il biosensore come

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elettrodo ad enzima, utilizzato per la determinazione di glucosio mediante un elettrodo di platino reso sensibile, mediante una apposita membrana, alla reazione di ossido-riduzione a carico del glucosio [4].

Sono utilizzati tre tipi di biorecettori specifici:

1. Enzimi (mono o multi-enzimi): il sistema più comune e conosciuto.

2. Cellule intere (microorganismi come batteri, funghi, cellule eucariote) o organuli cellulari (mitocondri, membrane cellulari).

3. Tessuti (porzioni di tessuto animale o vegetale).

Esistono quattro strategie per il monitoraggio del consumo di analita da parte delle reazioni catalitiche:

1. Rilevazione del consumo del co-substrato – ad esempio l’O2 consumato

dall’enzima ossidasi, nelle reazioni redox.

2. Riciclo di uno dei prodotti di reazione – perossido d’idrogeno, CO2, NH3,

prodotti dagli enzimi ossidoriduttasi, idrolasi, liasi.

3. Rilevazione dello stato del centro attivo del catalizzatore, del cofattore o dell’andamento dei gruppi prostetici, mediante l’immobilizzazione di un mediatore che reagisca facilmente con l’enzima e che sia rilevato dal biorecettore.

4. Trasferimento diretto di elettroni dal sito di reazione al trasduttore.

Se il meccanismo di riconoscimento è la bioaffinità, l’operazione che compie il biorecettore è basata sull’interazione dell’analita con una macromolecola o con sistemi organizzati di macromolecole, che possono essere stati prelevati dall’ambiente biologico originale, oppure, ingegnerizzati (Rogers 2000).

Un tipo di biosensore basato su questo tipo di meccanismo è l’immunosensore, che sfrutta la reazione di affinità tra antigene e anticorpo.

Negli ultimi dieci anni è stato sviluppato un grande numero di biosensori basati su acidi nucleici (Wang 2000), e tutt’oggi questo è uno dei campi di maggiore interesse.

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Questo tipo di sensori incorpora sequenze di acidi nucleici naturali o modificati (Wang 1998) e sono in via di sviluppo allo scopo di fornire strumenti poco costosi per l’individuazione di infezioni, alterazioni genetiche (Zhai J. e altri 1998) e danni al DNA (Palecek et al. 1998). A differenza degli enzimi e degli anticorpi, gli acidi nucleici possono essere velocemente sintetizzati, e i biorecettori possono essere rigenerati per un nuovo uso.

1.3.2.2 Classificazione sulla base dei meccanismi di trasduzione del segnale L’elemento artificiale del biosensore, il trasduttore, dovrebbe essere in grado di convertire il riconoscimento di un evento, in un segnale prelevabile e misurabile da un sistema a valle, tipicamente un sistema di misura elettronico.

Nella seguente tabella, è schematizzata una classificazione in base al tipo di trasduttore e quindi in base al principio di generazione del segnale e al tipo di grandezza fisica misurata.

Dispositivo Grandezza di uscita Esempi

Elettronico

amperometrico corrente immunosensore

potenziometrico tensione (ion-selective field effect transistors) ISFET

capacità/impedenza impedenza conduttimetri

Ottico/Fotometrico

assorbimento di luce o scattering; indice di rifrazione

intensità della luce, colore, emissione

ellissometria, riflettometria interna,

fluorescenza, luminescenza, estinsione o assorbimento della luce

Fluorescenza o

chemiluminescenza surface plasmon resonance (SPR), guide d’onda a fibre ottiche, Total Internal

Acustico/Meccanico e Acustico Elettrico

acustico ampiezza, fase, frequenza di

onde acustiche Surface Acoustic Wave Devices (SAW)

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piezoelettrico tensione Dispositivi microgravimetrici, QCM o QMB (Quartz Micro

Calorimetrico

termistore temperatura sensori di enzimi

Tabella 1.3 Classificazione dei trasduttori

1.3.3 Biosensori di affinità basati sugli Acidi Nucleici

I sensori di bioaffinità comprendono un gruppo di biosensori caratterizzati da una alta versatilità, in grado di fornire informazioni in tempo reale sui legami tra antigene-anticorpo, cellule recettrici e i loro target e frammenti di DNA e RNA e le sequenze complementari (Ziegler e altri 1998, Rogers 2000). Per circa trent’anni, i biosensori sono stati dispositivi basati sulle proteine, infatti i biorecettori utilizzati erano enzimi e anticorpi. Nei primi anni 90 lo studio dei biosensori al DNA era relativamente raro (Pollard-Knight e altri 1990). L’utilizzo di acidi nucleici come elemento di riconoscimento, ha fornito una nuova classe di biosensori impiegati in vari campi come: applicazioni cliniche, ambientali, di sicurezza dei cibi, di medicina legale (Wang e altri 1997).

La capacità del DNA di riconosere e legarsi a sequenze complementari, in accordo all’accoppiamento tra basi scoperto da Watson e Creek, ha rappresentato una caratteristica molto interessante per il suo utilizzo come biorecettore nei biosensori. Negli anni più recenti, gli sviluppi della biologia molecolare, e in particolare della sintesi di sonde biologiche al DNA, hanno reso possibile il suo impiego nei biosensori. In questo tipo di biosensori, il biorecettore è costituito da una singola catena di DNA (probe) immobilizzata sul trasduttore e una reazione di ibridazione con il target, costituito da una sequenza di basi complementari al probe, genera, in accordo al tipo di trasduttore, un segnale misurabile.

L’uso di sonde di acidi nucleici invece che di proteine, offre grandi vantaggi sia in termini di stabilità che di efficienza di immobilizzazione.

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Inoltre, è in via di sviluppo lo studio della sintesi di sonde semi-sintetiche che abbiano il medesimo comportamento degli originali biologici, offrendo però una minore fragilità ed una maggiore disponibilità ad un minor costo.

In relazione all’applicazione cui è destinato il biosensore, è di fondamentale importanza la scelta del tipo di trasduttore. Come regola generale, si può dire che ogni tipo di trasduttore è stato impiegato nell’analisi del DNA.

A testimonianza di ciò, di seguito viene riportata una tabella che riporta alcuni esempi corredati di riferimenti alla letteratura.

Principio di Misura Trasduttore Esempi

campo evanescente grating coupler

Bier et al. (1997) Sensors and Actuators B, 38-39 spettroscopia a interferenza riflettometrica, RIfS strato di interferenza con spettrometro

Saueret al. (1999) Anal. Chem. 71

campo evanescente, rivelazione di fluorescenza

fibra ottica

Kleinjunget al. (1997) Anal. Chim. Acta 350

ottico

SPR (surface

plasmon resonance) BIAcore

Nilsson et al. (1999) BioTechniques 26 Burgener M. et al. (2000) Bioconjug Chem. 11(6):749-54. amperometria carbon screen-printed electrodes

Ozkan et al. (2002) Bioelectrochemistry. 58(1):119-26.

Dequaire et al. (2002) Anal Chem. 1;74(17):4370-7

Marrazza et al. (1999) Biosens. Bioelectron. 14 elettrochimico amperometria array di microelettrodi Livache et al. (1998) Biosens.Bioelectron. 13

piezoelettrico variazione di massa cristalli di quarzo

Wang et al. (1998) J. Am. Chem.Soc. 120.

Davis et al. (2001) Methods Enzymol. 340:22-51. Mannelli et al. (2003) Biosens Bioelectron. (18):129-40 Tabella 1.4 Esempi di biosensori

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1.4 Le bilance microgravimetriche

Le bilance microgravimetriche sono essenzialmente dei sensori di massa, costituite da sottili dischi di cristallo di quarzo, in grado di misurare piccole variazioni di massa in tempo reale; la loro sensibilità è dell’ordine di 1 ng. L’alta sensibilità e la possibilità di eseguire misure in tempo reale, rende le bilance microgravimetriche uno strumento molto interessante in un ampio ventaglio di applicazioni. In particolare, il loro utilizzo a contatto con liquidi e/o strati visco-elastici, ha attirato l’interesse di biologi e biochimici. Uno dei maggiori vantaggi del loro utilizzo in fase liquida è la rilevazione qualitativa e quantitativa di molecole senza l’impiego di meccanismi di marcatura (paragrafo 1.3). Di seguito è riportata una lista, non esaustiva, delle possibili applicazioni [5]:

• Monitoraggio della deposizione di film sottili

• Studio dell’elettrochimica dei processi di interfaccia sulla superficie di elettrodi • Biotecnologie:

o Interazione di RNA e DNA con strutture complementari

o Riconoscimento specifico di proteine e reazioni immunologiche o Rilevazione di virus, batteri e cellule di mammiferi

o Adesione di cellule, liposomi e proteine o Biocompatibilità di interfacce

• Superfici funzionalizzate:

o Creazione di superfici selettive o Membrane lipidiche

o Strati polimerici o Sensori di gas • Formazione di film sottili:

o Monostrati auto-assemblanti o Adsorbimento di polielettroliti o Formazione di doppi strati

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• Ricerca sugli agenti chimici surfactanti: o Interazione tra surfactanti e superfici o Efficienza dei surfactanti

• Ricerca farmacologica:

o Interazione farmaco-molecola

o Risposta cellulare a sostanze farmacologiche • Monitoraggio in situ di lubrificanti e derivati del petrolio

Nel capitolo 2, sono descritte le proprietà e le caratteristiche delle bilance microgravimetriche.

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Bibliografia Capitolo 1

[1] Daniel A. Buttry, Michael D. Ward, “Measurement of Interfacial Processes at Electrode Surfaces with the Electrochemical Quartz Crystal Microbalance”, Chem. Rev., 1992, pp. 1355-1379

[2] Fred L. Walls, Jean Jacques Gragnepain, Precision Frequency Control, Vol. 2, Cap. 5, Oscillators and Standards, ISBN 0-12-280602-6

[3] Lorena Tedeschi, “Design and development of a biosensor for quantitative analysis of RNA transcripts”, Ph. D. Thesis, 2003, Istituto di Fisiolofia Clinica, CNR, Pisa.

[4] www.drexel.edu/academics/coe/ce/web_books/EngBio/Hidden/sensr/ch1/1_4.htm

Figura

Tabella 1.1 Classificazione delle tecniche analitiche.
Figura 1.1  Rappresentazione schematica della tecnica di analisi dell’espressione genica  mediante i DNA microarray
Figura 1.2  Rappresentazione schematica di un biosensore. Il trasduttore rileva  l’interazione tra l’analita ed il biorecettore e genera un segnale elettrico misurabile
Tabella 1.2  Classificazione dei biosensori in base al meccanismo di riconoscimento del  biorecettore
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