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I.1. Un proclama in favore della conservazione del patrimonio monumentale, archeologico e artistico e della promozione delle arti contemporanee S ( 1809- 1810) C L’ . L C I

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CAPITOLO I

L’

INSEDIAMENTO DELLE AUTORITÀ NAPOLEONICHE

.

L

A POLITICA PER LE ANTICHITÀ E LE ARTI DELLA

C

ONSULTA STRAORDINARIA PER GLI

S

TATI ROMANI

(

GIUGNO

1809-

DICEMBRE

1810)

I.1. Un proclama in favore della conservazione del patrimonio monumentale,

archeologico e artistico e della promozione delle arti contemporanee

Fu il 10 giugno del 1809 che i cittadini romani vennero informati dell’avvenuta annessione degli Stati del papa all’impero francese.

Con un decreto emanato il 17 maggio dal campo di Vienna - affisso alle prime luci dell’alba nelle piazze capitoline e pubblicato sulla Gazzetta Romana - Napoleone sanciva il nuovo status della «prima sede del Cristianesimo», dichiarandola «Città Imperiale e Libera», sciolta dal giogo ecclesiastico1. La simbolica rimozione del vessillo pontificio da Castel Sant’Angelo e l’arresto del papa - di lì a qualche settimana2 - avrebbero completato il rovesciamento del regime politico e aperto un quinquennio di radicale rinnovamento, tanto sul piano amministrativo, giuridico ed economico quanto su quello sociale e culturale.

I provvedimenti varati a Schönbrunn seguivano quattordici mesi di occupazione militare francese (dal 2 febbraio 1808) durante i quali il popolo romano era stato bersagliato dai proclami del successore di Pietro, serrato nell’austera residenza del Quirinale (Fig. 1), e da quelli, contrapposti, del generale François-Sextius Miollis, insediato nel mondano palazzo Doria al Corso e al comando di circa seimila uomini distribuiti sul territorio (Fig. 2). Le nuove disposizioni chiudevano la lunga stagione del conflitto tra papato e impero inaugurata, nel 1805, dal duplice rifiuto di Pio VII di aderire al “blocco continentale” contro l’Inghilterra e di concedere l’investitura canonica ai vescovi nominati da Napoleone3.

1 “Gazzetta Romana”, 92, 10 giugno 1809, p. 409. La Gazzetta, quadrisettimanale, fu fondata il 5 aprile del 1808 dal generale François-Sextius Miollis e svolse il ruolo di giornale ufficiale dell’autorità francese fino al 30 giugno dell’anno successivo. Cfr. O. Majolo Molinari, La

stampa periodica romana dell’Ottocento, I, Roma 1963, pp. 425-426. Sui fogli periodici

pubblicati a Roma in età napoleonica si veda pure: Eadem, I giornali politici romani del

periodo napoleonico, in “Palatino”, VIII, 9-12, 1964, pp. 221-228.

2 Il 6 luglio Pio VII fu arrestato negli appartamenti del Quirinale insieme al suo pro-segretario di Stato, cardinale Bartolomeo Pacca, e ad altri membri della corte.

3 Tra i contributi più validi sulla Roma napoleonica si segnalano: C. Nardi, Napoleone e Roma.

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Strumento della liberazione degli Stati romani dal «governo dei preti» - cioè della sua normalizzazione, laicizzazione, francesizzazione4 - fu una Consulta straordinaria

istituita contestualmente all’annessione con il fine di introdurre, nel modo più graduale possibile, la legislazione vigente nel resto dell’impero. «La Consulta Straordinaria - si legge nell’articolo 7 del decreto del 17 maggio - è incaricata di prendere possesso delli Stati del Papa in nostro nome, e di fare le operazioni preparatorie per l’amministrazione del paese, in modo che il passaggio dall’ordine attuale al governo costituzionale succeda senza inconvenienti, e venga provveduto a tutti i diversi interessi»5. Composta in origine di sei membri - il presidente, generale Miollis; il ministro di Polizia del regno di Napoli e rappresentante di Gioacchino Murat a Roma, Christophe Saliceti; tre ministri referendari presso il Consiglio di Stato, Laurent-Marie Janet (Fig. 3), Ferdinando Dal Pozzo, Joseph-Marie de Gérando (Fig. 4); il segretario, conte Cesare Balbo - la Consulta individuò come principio ispiratore della sua azione politica l’accesso degli ex sudditi del papa alla cittadinanza, al diritto e alle leggi nate dalla Rivoluzione francese e fondanti il primato dell’impero6. Una chiarezza di

orizzonte che è già nel primo proclama al popolo romano, documento programmatico della Roma napoleonica: «Romani! […] Infelici come Nazione, non lo eravate meno come Cittadini. Lo squallore delle vostre città e delle vostre campagne spopolate e insalubri attestavano da lungo tempo all’Europa e a voi stessi che i Vostri Sovrani divisi tra cure non opposte, è vero, ma tra loro troppo diverse, si trovavano nell’impossibilità di procurarvi quella felicità che avete tutti i mezzi di conseguire. Romani! Non conquistati ma riuniti, Concittadini e non Servi, non solamente divien

1989; Ph. Boutry, La Roma napoleonica fra tradizione e modernità (1809-1814), in Storia

d’Italia, Annali 16, Roma, la città del papa, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino 2000, pp.

935-973; Roma negli anni di influenza e di dominio francese 1798-1814, atti del convegno (Roma, 1994), a cura di Ph. Boutry - F. Pitocco - C.M. Travaglini, Napoli 2000; C. Brice, La

Roma dei “francesi”: una modernizzazione imposta, in Roma moderna, a cura di G. Ciucci,

Bari 2002, pp. 349-370; L’impero e l’organizzazione del consenso. Religione, cultura e diritto

al servizio del potere napoleonico: gli Stati Romani, atti del convegno (Roma, 2005), a cura di

M. Caffiero, in corso di stampa. Deludente il recente: C. Nardi, Napoleone e Roma. Dalla

Consulta romana al ritorno di Pio VII 1811-1814, Roma 2005. Ancora fondamentali gli studi

pionieristici di L. Madelin, La Rome de Napoléon. La domination française à Rome de 1809 à

1814, Paris 1906 e di E. Driault, Rome et Napoléon, in “Revue des etudes napoléoniennes”, I,

1918, pp. 5-43.

4 Come leggo in: Boutry, 2000, p. 950.

5 “Gazzetta Romana”, 92, p. 409; “Giornale del Campidoglio”, 1, 1 luglio 1809, p. 5; Nardi, 1989, p. 12.

6 Il campo giuridico venne trasformato da cima a fondo con l’introduzione di nuovi codici (civile, penale e del commercio); fu stabilita l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e alle imposte, furono aboliti i privilegi e i diritti feudali, fu favorita la libera circolazione dei beni, in direzione contraria ai principi dell’economia assistita e diretta. Cfr. Boutry, 2000, pp. 953-954.

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vostra la forza dell’Impero, ma vostre egualmente divengono quelle Leggi che han fatto la Francia tranquilla e felice al di dentro, come rispettata e temuta al di fuori»7.

Nell’impresa della trasformazione della città e della sua assimilazione all’assetto statuale di tradizione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, la salvaguardia del patrimonio monumentale venne eretta a primario dovere della pubblica autorità. In continuità con la legislazione francese maturata ai tempi della nazionalizzazione dei beni della Chiesa (novembre 1789) e della Corona (agosto 1792)8, il decreto promulgato a Vienna stabiliva così la custodia e il mantenimento a spese del Tesoro francese dei «monumenti della grandezza Romana» (art. 3)9. Un assunto ribadito nell’appena citato proclama della Consulta, e anzi integrato dalla promessa del sostegno alle arti e agli artisti contemporanei: «Un ugual cura conserverà nei monumenti il patrimonio della vostra [dei Romani] antica gloria e della vostra moderna grandezza, e le arti figlie del Genio, sotto il Regno del Grande, ricche di domestici esempi, non saranno più costrette di cercare altrove né l’occasione, né il premio alle loro aspirazioni divine»10.

Il proposito di dotare Roma di rinnovate strutture politiche, amministrative e sociali si univa dunque all’intento di salvaguardare tanto la memoria del passato repubblicano e imperiale quanto la centralità culturale dell’età moderna, messe a dura prova dalla debolezza dei cessati governi. La consapevolezza che «il maggior ornamento di questa libera Città Imperiale sono l’Antiquaria, e le Belle Arti»11 avrebbe indotto alla

conservazione e all’accrescimento delle tracce della storia antica e, insieme, al ripristino dell’identità cosmopolita della Roma settecentesca, capitale del Grand Tour

7 Il proclama, sottoscritto il 10 giugno del 1809 da Miollis, Janet e Saliceti, fu pubblicato in: “Giornale del Campidoglio”, 1, p. 6. Il Giornale del Campidoglio, trisettimanale, accompagnò e sostenne l’attività dell’amministrazione d’oltralpe quando la Gazzetta Romana cessò di esistere. Le sue uscite coprirono l’intervallo compreso tra il primo luglio del 1809 e il 30 dicembre del 1811, il periodo di massimo fulgore della stella napoleonica e quello che vide, con la fine dei lavori della Consulta, il passaggio delle responsabilità direttive al prefetto Camille de Tournon. Cfr. Majolo Molinari, 1963, pp. 444-445.

8 Sulla nascita della nozione di patrimonio culturale nella Francia rivoluzionaria: É. Pommier,

L’art de la liberté. Doctrines et débats de la Révolution française, Paris 1991, pp. 93-166; D.

Poulot, Musée nation patrimoine 1789-1815, Paris 1997, pp. 115-191. Una sintesi in: V. Curzi,

Bene culturale e pubblica utilità. Politiche di tutela a Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Bologna 2004, pp. 61-68.

9 “Gazzetta Romana”, 92, p. 409; “Giornale del Campidoglio”, 1, p. 5. 10 “Giornale del Campidoglio”, 1, p. 6.

11 Come si legge nell’articolo di apertura del primo numero del Giornale Romano, bisettimanale voluto da Miollis per dare spazio alla cronaca cittadina, all’informazione ordinaria e alle notizie riguardanti le lettere, le arti, il teatro e la moda. Le sue uscite coprirono il periodo compreso tra il 2 agosto del 1809 e il 24 marzo del 1810. Cfr. Majolo Molinari, 1963, pp. 466-467.

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e della cultura figurativa neoclassica. Si trattava di un progetto globale e ambizioso nel quale forma urbana e amministrazione erano chiamate a procedere parallelamente e a specchiarsi l’una nell’altra, nello spirito ereditato dall’illuminismo e poi rilanciato dalla Rivoluzione francese.

I.2. Lo stato di decadenza della città: la crisi del sistema romano delle arti

Che il sistema delle arti capitolino non godesse di buona salute si desume non soltanto dal doppio proposito della Consulta straordinaria - incline a intenti propagandistici - di assicurare la tutela del patrimonio monumentale e di risollevare le arti contemporanee, ma da innumerevoli altre testimonianze del tempo. I diari e la corrispondenza privata dei grand tourists, le biografie degli artisti, le notazioni contenute all’interno delle riviste periodiche offrono molteplici indizi della carenza di committenze e dell’indebolimento della scena culturale.

La fine violenta della lunga stagione di pace che aveva caratterizzato il XVIII secolo, l’insediamento, nel 1798, del governo rivoluzionario (deposto l’anno successivo, ma prima responsabile della cacciata di Pio VI), il processo di secolarizzazione degli stati nazionali europei (ormai refrattari a finanziare i sogni di gloria dei pontefici) apparvero ai più illuminati membri della società capitolina e agli osservatori internazionali le ragioni della débacle d’inizio secolo. Nonostante la vera e propria

damnatio memoriae a cui fu sottoposta la repubblica romana, al fine di cancellarne il

significato storico e simbolico, la rottura dell’ordine d’ancien régime da essa prodotta si prolungò irreversibilmente fino all’alba del XIX secolo12. Lo scontro che si scatenò

nella corte papale tra il partito dei riformisti, capeggiato dal cardinale Ercole Consalvi, e quello dei conservatori, guidato dai cardinali Bartolomeo Pacca e Leonardo Antonelli, fece della Roma della prima Restaurazione un luogo incerto, eminentemente contraddittorio, percorso da opposte tensioni tra rivoluzione e reazione, tradizione e modernità, resistenze e innovazioni13.

12 Sulla repubblica giacobina e gli incisivi mutamenti che essa introdusse sul piano simbolico e culturale il recente: M. Caffiero, La Repubblica nella città del papa. Roma 1798, Roma 2005. 13 Nella sottolineatura di tale compresenza di opposti si muovono gli studi storici contemporanei, che insistono sulla sopravvivenza, nella Roma restaurata, delle tracce dell’esperienza rivoluzionaria. Cfr. Boutry, 2000; Roma negli anni di influenza e di dominio

francese, 2000; L’impero e l’organizzazione del consenso, in corso di stampa (si rimanda in

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Il ridimensionamento delle ambizioni temporali dei pontefici, privati di una parte del patrimonio immobiliare, il declino economico della nobiltà, accelerato dall’abolizione delle sacche di privilegio e dall’entrata in vigore di un sistema fiscale penalizzante, insieme all’interruzione del traffico di uomini e di merci causata dallo stato di guerra, vanno annoverate tra le cause determinanti la crisi del mercato artistico romano. Privata dei massimi capolavori della statuaria antica e della pittura moderna, trasferiti a Parigi con la firma del trattato di Tolentino, la città del papa si spopolò, sullo scorcio del Settecento, di artisti e di viaggiatori, per rimanere abitata da un clero e da un’aristocrazia impoveriti e schiacciati dalla portata delle trasformazioni politiche e sociali in corso.

La condizione di conclamata incertezza politica ed economica dei territori pontifici, decurtati dei porti di Ancona e Civitavecchia a partire dal 1806 e dell’Umbria e delle Marche a partire dall’anno successivo, fu precocemente chiamata a giustificare la contrazione delle committenze. In riferimento a quegli anni Melchior Missirini, in linea con il pensiero di Johann Joachim Winckelmann, dichiarò, per esempio, che «le Arti sono inevitabilmente soggette alle circostanze; e se hassi notato che le crisi politiche riscaldano e ritemprano il genio, bisogna pur riconoscere che le sue produzioni non sono considerate, e non vengono perfette che nella pace, che ripromette giorni puri agli artisti, e permette loro d’abbandonarsi allo studio, e pone in grado la pubblica e privata fortuna di ricompensar degnamente le altrui fatiche»14.

Ha scritto in tempi più recenti Renzo De Felice, autore di un esemplare studio sulla vita economica di Roma all’alba della contemporaneità, che «con la crisi di fine Settecento - primi Ottocento dello Stato della Chiesa e soprattutto con la caduta del potere temporale e quindi con l’allontanamento da Roma della corte papale, con la soppressione di decine e decine di conventi e istituti religiosi, con la diminuzione delle manifestazioni e delle cerimonie del culto i settori produttivi del “lusso” si trovarono in crisi, spesso in una crisi drammatica, tale da costringere coloro che li praticavano a chiudere bottega»15.

Come ha già evidenziato Valter Curzi, le difficoltà finanziarie e l’urgenza di restituire all’Urbe la centralità culturale guadagnata nel corso del Settecento - primaria fonte di reddito per la popolazione nel suo complesso - indussero Pio VII a privilegiare il recupero e la valorizzazione delle antichità sul potenziamento della produzione

14 M. Missirini, Vita di Antonio Canova, Prato 1824; ed. cons. a cura di F. Leone, Bassano del Grappa 2004, p. 150.

15 R. De Felice, Aspetti e momenti della vita economica di Roma e del Lazio nei secoli XVIII e

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contemporanea16. L’unica rilevante iniziativa in favore di un artista vivente fu l’acquisto, nel 1802, dei due pugilatori Creugante e Damosseno (Città del Vaticano, Musei Vaticani) e del Perseo di Antonio Canova, destinato a sostituire, nel cortile del Belvedere, il celebre Apollo trasferito nelle sale del Musée Central des Arts17. Per il

resto, le risorse economiche furono impiegate a risarcire le lacune dei musei archeologici e a intraprendere gli scavi nel Campo Vaccino e nell’area del Colosseo, nel tentativo di riparare ai danni causati dai commissari direttoriali e dalle autorità repubblicane. Come noto, l’editto Doria-Pamphilj (1802) stanziò la somma annuale di 10.000 piastre per l’acquisto «delle cose interessanti in aumento nei Nostri musei; sicuri che la spesa diretta al fine di promuovere le Belle Arti, è largamente compensata dagl’immensi vantaggi, che ne ritraggono i sudditi, e lo stato, la di cui causa non può essere da quella dell’erario disgiunta»18. Per la gran parte dei viaggiatori continuavano

ad essere infatti le vestigia classiche, e non le opere contemporanee, la principale attrazione dell’Urbe.

Anche a voler negare il valore di documento storico alle memorie di François-Auguste-René de Chateaubriand - che, giunto a Roma nel giugno del 1803 come segretario di legazione, si era rivolto a descrivere l’immobilità e il silenzio, la solitudine e l’abbandono dei palazzi vaticani, delle strade e delle piazze del Campo Marzio, un tempo popolate da papi che «passavano con tutta la loro pompa», da «artisti immortali», da «regine e re»19 - l’analisi delle fonti letterarie e documentarie

rivela tanto l’affermarsi dell’immagine antimoderna della capitale pontificia20, quanto

16 Curzi, 2004, pp. 81-82.

17 Cfr. A. Pinelli, La sfida rispettosa di Antonio Canova. Genesi e peripezie del “Perseo

trionfante”, in “Ricerche di storia dell’arte”, 13-14, 1981, pp. 41-56.

18 L’editto è riportato integralmente in: Curzi, 2004, pp. 159-166.

19 F.-A.-R. de Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe, 1848-1850; ed. cons. a cura di V. Brancati, Milano 1983, p. 129. «Percorrendo il Vaticano mi soffermavo ad ammirare quegli scaloni sui quali si potrebbe salire a dorso di mulo, quelle gallerie ascendenti ripiegate le une sulle altre, ornate di capolavori, lungo le quali i papi d’altre epoche passavano con tutta la loro pompa, quelle Logge che tanti artisti immortali hanno decorato, e ammirato tanti uomini illustri, Petrarca, Tasso, Ariosto, Montaigne, Milton, Montesquieu, e poi regine e re, potenti o caduti, infine un popolo di pellegrini venuto dai quattro lati del mondo (e tutto questo è ora immobile e silenzioso: teatro i cui gradini abbandonati, aperti davanti alla solitudine, sono appena visitati da un raggio di sole). Mi avevano raccomandato di passeggiare al lume di luna: dall’alto di Trinità dei Monti, gli edifici lontani somigliavano agli abbozzi di un pittore e alle coste nebbiose viste dal mare, a bordo di un vascello. L’astro della notte, questo globo che si crede un mondo finito, faceva scivolare i suoi pallidi deserti al di sopra dei deserti di Roma, rischiarando vie disabitate, recinti, piazze, giardini in cui non passava nessuno, monasteri in cui non s’ode più la voce dei cenobiti, chiostri muti e spopolati come i portici del Colosseo». 20 Analizzata approfonditamente in: Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia.

Universale ed eterna. Capitale delle arti, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di S.

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il diffondersi di un sentimento di apprensione per il suo destino economico, e dunque artistico e culturale.

Le note stese da madame de Staël nel corso del soggiorno capitolino del 1805, per esempio, raccontano di una città abitata da un’aristocrazia noiosa, vacua e miserabile21, da un clero appena più avveduto e da un ceto intellettuale modesto, nobilitato dalla sola presenza di Alessandro Verri e di Giovanni Gherardo De Rossi. Le parole della scrittrice - iniziatrici del mito romantico di Roma, poco più tardi celebrato nel fortunato romanzo Corinne ou l’Italie22 - conferiscono alla città il

carattere di “luogo della morte”, in grado di placare i turbamenti dell’anima grazie alla presenza soverchiante dei monumenti antichi, supreme testimonianze della fragilità e inadeguatezza delle aspettative umane. «A Roma mi sento presa da una profonda tristezza. Tanta grandiosità nelle memorie del passato e tanta piccolezza in ciò che resta! […] e più sono commossa per la grandiosità dei monumenti, più mi rattristo per gli uomini che errano intorno a quelle rovine» scrive il 5 febbraio, a due giorni dall’arrivo, precisando il proprio stato d’animo qualche giorno dopo: «Tutto è bello qui, di ricordo, di maestà, di malinconia. Amo soprattutto la luna e la notte a Roma: tutto ciò che separa dall’antico è in quel momento assopito, e le rovine si rivelano»23.

Lontano dalla riflessione etica ed estetica sulla città, il drammaturgo tedesco August Kotzebue sottolineò la calma e la solitudine regnanti per le strade (in contrasto con il clamore e la vivacità dei vicoli napoletani), bollando la nobiltà capitolina di noiosità e fatuità24. Mentre il grecista britannico Joseph Forsyth, in visita nel 1802, pur tracciando un ritratto dell’Urbe complessivamente benevolo, non sfuggì alla sottolineatura della povertà della scena culturale, citando, tra gli eruditi «non all’altezza di Visconti», Carlo Fea, che «scrive su ogni soggetto», Seroux d’Agincourt, Georg Zoëga, Gaetano Marini e il citato De Rossi (gli ultimi quattro legati da una

- J. Garms, Mito e realtà di Roma nella cultura europea. Viaggio e idea, immagine e

immaginazione, in Storia d’Italia, Annali 5, Il paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino 1982,

pp. 563-662 (in part. pp. 624-662).

21 Si vedano le lettere a Vincenzo Monti (7 febbraio), a Charles-Victor de Bonstetten (15 febbraio) e a Claude Hochet (30 aprile). A.-L.-G. Necker, Madame de Staël, Correspondance

generale, V. 2, Le Léman e l’Italie, 19 mai 1804-9 novembre 1805, texte établi et présenté par

B.W. Jasinski, Paris 1985, pp. 493-495, 504-505, 545-546.

22 A.-L.-G. Necker, Madame de Staël, Corinne ou l’Italie, 1807; ed. cons. a cura di S. Balayé, Paris 1985.

23 Lettere alla contessa Massimiliana Cislago-Cicognara e a Vincenzo Monti (5 e 7 febbraio). Necker, 1985, pp. 487-489, 493-495.

24 A. Kotzebue, Souvenirs d’un voyage en Livonie, à Rome et à Naples, faisant suite aux

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profonda e antica amicizia)25. A parte De Rossi - che, in contatto epistolare con Ennio Quirino Visconti, ammetteva in quei giorni: «se la pace con l’Inghilterra non si fa le arti in Roma son perdute»26 - tutti uomini impegnati in ricerche storiografiche rivolte alla conoscenza della cultura letteraria e figurativa pre-moderna: piuttosto estranei dunque al dibattito artistico contemporaneo27.

Più severamente si sarebbe espressa un decennio dopo la contessa di Boigne, intima amica di madame Récamier. Nello sconsigliare alla gentildonna il viaggio a Roma, ella avrebbe infatti asserito che «la società e la conversazione sono nulle» e che «l’arte, pur in un paese così bello, non sarebbe riuscita a soddisfare l’immaginazione e il cuore di una donna infelice»28.

Nel 1802, ben prima dell’annessione degli Stati romani all’impero, Antonio Canova, il maggiore artista della città (Fig. 5), in visita ufficiale a Parigi per la realizzazione del ritratto dell’allora primo console, dipinse «a vivi colori la miseria di Roma e delle arti belle»29. Conversando con Bonaparte, egli - che era stato appena nominato da Pio VII ispettore generale delle Belle Arti - insistette sulla rovina degli antichi monumenti e sullo stato di abbandono dei palazzi vaticani, spogliati colpevolmente, al tempo della Repubblica romana, di pregevoli arredi, mai reintegrati a causa delle disastrose condizioni delle casse pontificie. Nel denunciare le requisizioni del biennio 1797-1798

25 J. Forsyth, Remarks on antiquities, arts, and letters, during an excursion in Italy, in the year

1802 and 1803, London 1812; ed. cons. London 1835, p. 242.

26 Citazione in: M.P. Donato, Accademie Romane. Una storia sociale (1671-1824), Roma - Napoli 2000, p. 194, nota 92. Nella stessa lettera De Rossi aggiunge: «Io vegeto, non vivo in Roma, dove son guardato da molti con occhio torbido».

27 Su Fea: M. Jonsson, La cura dei monumenti alle origini. Restauro e scavo di monumenti

antichi a Roma 1800-1830, numero monografico di “Acta Instituti Romani Regni Sueciae”,

XIV, Stockholm 1986; R. Ridley, The Pops Archaeologist. The life and times of Carlo Fea, Roma 2000. Su Seroux d’Agincourt: I. Miarelli Mariani, Seroux d’Agincourt e l’Histoire de

l’art par les monuments. Riscoperta del Medioevo, dibattito storiografico e produzione artistica tra fine XVIII e inizio XIX secolo, Roma 2005. Su De Rossi: L. Barroero, Giovanni Gherardo De Rossi biografo. Un esempio: la “Vita” di Gaetano Lapis, in “Roma moderna e

contemporanea”, IV, 3, 1996, pp. 677-90; F. Conti, La figura dell’intellettuale nella Roma a

cavallo tra Sette e Ottocento: alcune note su Giovanni Gherardo De Rossi, in Intellettuali ed eruditi tra Roma e Firenze alla fine del Settecento, a cura di L. Barroero - O. Rossi Pinelli,

numero monografico di “Ricerche di storia dell’arte”, 84, 2004, pp. 35-40. Su Marini: A. Coppo, Notizie sulla vita e sulle opere di mons. Gaetano Marini primo custode della Biblioteca

Vaticana, Roma 1816; G. Gasperoni, Nella Roma del Settecento: Gaetano Marini filologo e archeologo, Roma 1942. Su Zoëga: A. Thiebaut de Berneaud, Notice sur la vie et les écrits de Georges Zoega, Paris 1809; K. Ascani,, Georg Zoëga, il suo epistolario e il cardinale Stefano Borgia, in Stefano Borgia e i Danesi a Roma, a cura di R. Langella, s.l., s.d. [2000], pp. 19-22.

28 Citazione in: É. Herriot, Madame Récamier et ses amis, 2 voll., Paris 1905; ed. cons.

Madame Récamier, I, London 1906, p. 285.

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e nel tentativo di dissuadere Napoleone dal proposito di ulteriori prelievi, egli ottenne la promessa di un intervento in favore della città30.

Sei anni dopo, stando a quanto riportato nelle pagine della Gazzetta Romana, la vitalità della scena artistica era però quasi nulla; il periodico non poté che puntare sulla celebrazione del mito della Roma classica e delle sue sopravvivenze per accordare gli animi dei cittadini capitolini a quelli degli occupanti. Se una rubrica di antiquaria comparve pressoché in ogni numero, l’unica manifestazione artistica recensita fu l’esposizione delle opere dei borsisti dell’Accademia di Francia31.

In quel tempo l’antiquario Giuseppe Antonio Guattani, intimo di Canova, interruppe addirittura la pubblicazione delle Memorie enciclopediche romane sulle Belle Arti,

Antichità, a ragione della penuria di opere da recensire e della proliferazione in altri

centri italiani ed europei di un mercato antiquario e artistico molto più vivace di quello romano32. Con queste parole, scritte in apertura del penultimo numero della rivista, il

futuro segretario dell’Accademia di San Luca si congedò dal ristretto pubblico dei suoi lettori: «Intanto si fa chiaro che, se per le passate circostanze vostre [delle Arti] io era forse poco allora, or certamente sono di troppo. È accaduto questa volta che la stridula voce d’un corvo solo ha fatto uscire dalle acque i soavi cigni del Tevere. Quando appunto le commissioni e le opere più non abbondano come prima, quando per una

30 Missirini, 1824, pp. 167-171; A.-C. Quatremère de Quincy, Canova et ses ouvrages ou

Mémoires historiques sur la vie et les travaux de ce célèbre artiste, Paris 1834, pp. 122-123; A.

D’Este, Memorie di Antonio Canova, Firenze 1864; ed. cons. a cura di P. Mariuz, Bassano del Grappa 1999, p. 127: «E proseguendo cotal metodo franco ed ingenuo, non tacque al primo console, che i palazzi pontificj erano stati spogliati da’ nemici dell’ordine, che gli antichi monumenti erano abbandonati alla ruina, e tutto presagiva un avvenire funesto, se al pontefice fossero mancati i modi per ripararvi. Io ristorerò Roma, rispondeva il primo console […]. Nel tempo della sua dimora ebbe luogo di parlare di più cose: si dolse amaramente dello spoglio fatto a Roma dei monumenti delle arti greche e romane; lamento che era ormai fatto comune a tutti gli Italiani, ed alla sana parte dei Francesi, e gli accennò l’opuscolo di Quatremère de Quincy, toccante l’istesso soggetto».

31 “Gazzetta Romana”, 108, 12 ottobre 1808, p. 272. Sul ruolo svolto dai periodici napoleonici nella promozione delle arti contemporanee si rimanda a: I. Sgarbozza, “Per tutto regna

un’attività che sembrava non ordinaria per Roma”. La stampa periodica e la promozione delle arti contemporanee, in L’impero e l’organizzazione del consenso, in corso di stampa.

32 Il mensile vide la luce nel 1806 per volontà di Pio VII con lo scopo di divulgare le scoperte archeologiche e la produzione artistica contemporanea. Cfr. Maestà di Roma, 2003 (a), pp. 511-512. Guattani individuò in Milano e in Parigi le nuove capitali del mercato dell’arte, scrivendo in particolare: «un solo non vi ha distinto talento a Parigi, che impiegato non sia, sì nell’edificare, che nell’adornare i monumenti utili, che per ogni dove si erigono» (“Memorie enciclopediche romane sulle Belle Arti, Antichità, ecc.”, IV, 1809, p. 70). Per un profilo biografico di Guattani: P.P. Racioppi, “Per bene inventare e schermirsi dalle altrui censure”:

Giuseppe Antonio Guattani e l’insegnamento di Storia, mitologia e costumi all’Accademia di San Luca (1812-1830), in Le “scuole mute” e le “scuole parlanti”. Studi e documenti sull’Accademia di San Luca nell’Ottocento, a cura di P. Picardi e P.P. Racioppi, Roma 2002,

pp. 79-98 (in part. pp. 82-84). Si veda inoltre la voce del Dizionario biografico degli Italiani a firma dello stesso Racioppi (2003).

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tale scarsezza è difficile di cumularne un numero, capace di rendere il nostro scritto degno del costo, altri fogli sono sorti a farsi delle produzioni vostre zelanti annotatori […]. Fra tanti a cantare comprendete da voi medesime, Arti sagacissime, esser giusto e prudenziale che il corvo taccia e nella sua antica buca si rintani»33.

Le povertà della domanda culturale avrebbe d’altronde pregiudicato, negli anni della seconda occupazione francese, la pubblicazione di testate specializzate in arte, in lettere e in scienze. Quando all’inizio del 1810 - per citare solo un caso - la Consulta straordinaria interrogò i proprietari del Giornale del Campidoglio sull’opportunità di concedere una maggiore visibilità alle rubriche di carattere non politico, essi opposero un netto rifiuto, sottolineando che «sotto questo riguardo non debba Roma considerarsi come Parigi. Qui la popolazione è ristrettissima, e pochissimo il gusto della lettura. Tutti i giornali di arti, di scienze e di lettere nati in Roma in questi ultimi tempi sono morti quasi prima di nascere […]. Se dunque il Giornale del Campidoglio volesse occuparsi troppo di arti, di scienze e di lettere rischierebbe forse di perdere gli associati attuali»34.

A riprova della fondatezza di tali considerazioni, ebbe vita breve il Giornale Romano, bisettimanale voluto da Miollis per dare spazio alla cronaca cittadina e alle notizie riguardanti il mondo della cultura e dello spettacolo35. E pure il rilancio delle Memorie

enciclopediche, iniziativa congiunta di Guattani e del ministro de Gérando, si tradusse

in un sostanziale fallimento36.

A leggere il rapporto sugli ex Stati pontifici scritto nella primavera del 1810 dal giovane partigiano di Napoleone Amédée-David de Pastoret37, lo scoraggiato quadro

33 “Memorie enciclopediche”, IV, 1809, p. 98.

34 Lettera al direttore generale di Polizia, Étienne Radet, 19 febbraio 1810; citata in M.I. Palazzolo, I provvedimenti sull’editoria nel periodo napoleonico. Tra immobilismo e segnali di

rinnovamento, in Roma tra fine Settecento e inizi Ottocento, a cura di Ph. Boutry - M.

Travaglini, numero monografico di “Roma moderna e contemporanea”, II, 1, gennaio-aprile 1994, p. 171.

35 Fu in vita dal 2 agosto del 1809 al 24 marzo del 1810. Sul primo numero un articolo di Radet esortò gli eruditi capitolini a dare notizia delle loro ricerche e gli artisti a presentare «i loro progetti se Architetti, le descrizioni delle loro opere se Pittori, Scultori, Incisori, Mosaicisti»: “Giornale Romano”, 1, 2 agosto 1809, p. 2. Cfr. Majolo Molinari, 1963, pp. 466-467.

36 Uscì un unico volume nel 1811, il quinto della serie.

37 Memoire sur la situation des Etats Romains au moment de leur reunion à la France en juin

1809; conservato in ANP, Secrétairerie d’État Imperiale,AF IV 1715, dossier 2, n. 4. È stato oggetto di un intervento di Veronica Granata al convegno L’impero e l’organizzazione del

consenso, i cui atti sono in corso di stampa. Nato a Parigi nel 1791, Pastoret fu nominato

uditore al Consiglio di Stato nel dicembre del 1809. La missione a Roma fu uno dei suoi primi incarichi ufficiali. Successivamente ricoprì ruoli di primo piano nell’amministrazione imperiale e non mancò di riconciliarsi con i Borbone alla caduta di Napoleone. Per un profilo biografico: H. Martineau, Petit-dictionnaire stendhalien, Paris 1948, pp. 366-368.

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sulla situazione delle scienze e delle arti trova conferma. Il giovane uditore al Consiglio di Stato e amico di Stendhal, inviato in Italia nel ruolo di osservatore, pur notando nella popolazione romana un diffuso interesse per le varie forme del sapere, si dichiarò sorpreso dello stato della letteratura e della poesia, sprovviste di contenuti originali e piegate esclusivamente all’encomio dei sovrani, e denunciò come «vergognoso» quello delle scienze naturali e morali. «Ariosto, Tasso, Metastasio, Goldoni non hanno più allievi» scrisse, aggiungendo che «appena qualche professore del Collegio Romano e della Sapienza può occuparsi di fisica, di chimica e di astronomia». Nel fare i nomi di De Rossi e di Seroux d’Agincourt, egli riconobbe all’antiquaria e alle arti una condizione più onorevole, lodando, oltre ai talenti di Canova, quelli di Vincenzo Camuccini e di Gaspare Landi, nei quali «la maniera di Mengs e di Batoni si unisce a quella di Giulio Romano». Quanto agli architetti, Pastoret ne rilevò l’impossibilità, causata dalla mancanza di commissioni, di «impiegare gli studi nella costruzione di grandi edifici» e l’impegno pressoché esclusivo nell’attività di restauro e consolidamento delle antichità. Insistette inoltre sul declino delle accademie cittadine - quelle di San Luca, dell’Arcadia e dei Lincei - «senza fondi, senza concorsi e senza emulazione», e dunque bisognose di una rigenerazione completa.

Pochi mesi dopo l’insediamento delle autorità francesi, fu comunque ancora Canova a farsi portavoce, presso Napoleone, del grido d’allarme degli artisti romani. Convocato nell’ottobre del 1810 a Parigi per eseguire il ritratto dell’imperatrice, e accolto affabilmente, lo scultore - che era stato appena eletto principe dell’Accademia di San Luca - «prese occasione di parlare liberamente di Roma; gli espose [a Bonaparte] la desolazione di questa capitale, la quale non potea risorgere senza potenti aiuti; aggiunse che dopo la perdita del papa, partiti tutti i ministri, i cardinali, i prelati e tanti ecclesiastici, era stata grande l’emigrazione, da cui erano venuti danni incalcolabili; onde senza la sua protezione Roma non sarebbe mai più risorta»38. La partenza della corte dalla città, spiegava dunque Canova, aveva prodotto il definitivo crollo della già debole economia cittadina, sostenuta in buona parte dai consumi e dai lussi dell’entourage papale; responsabile di tale situazione, l’imperatore aveva ora il dovere di provvedere ad un risarcimento. Fu così che, cogliendo la ragionevolezza dell’analisi, Napoleone stanziò per l’Accademia di San Luca l’eccezionale dotazione annua di centomila franchi, destinata per un quarto alle attività didattiche e per il resto

38 D’Este, 1864, pp. 166-168. Ma si vedano anche Missirini, 1824, pp. 243-261; Malamani, 1911, pp. 141-154.

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al restauro delle antichità39. Non si lasciò sfuggire inoltre l’occasione di far confessare a Canova la modestia dei fondi destinati da Pio VII alle arti contemporanee - una modestia alla quale, lo si ricordi, il maestro aveva cercato personalmente di supplire, commissionando ad un gruppo di giovani scultori i busti di Michelangelo, Correggio, Tiziano e Palladio destinati al Pantheon40.

Già un anno prima Gioacchino Murat, in visita a Roma nelle vesti di ispettore dell’imperatore, aveva peraltro trasmesso a Parigi un preoccupato rapporto sulla situazione, in buona parte sovrapponibile alle riflessioni canoviane. Il re di Napoli aveva chiesto, nello specifico, a Bonaparte la nomina di un governatore dotato di ampie disponibilità finanziarie e capace di risollevare le sorti di una città «perduta», nella quale «la metà degli abitanti vive a spese del papa, e dunque al momento muore di fame, la guerra e le circostanze hanno allontanato gli stranieri, gli artisti non lavorano più e la nobiltà decade»41.

E che, all’inizio del secolo, la crisi del mercato dei beni di lusso minacciasse la tranquillità dell’intera comunità artistica ci tenne a sottolinearlo finanche Carlo Falconieri, nella sua monografia dedicata a Vincenzo Camuccini: «A Roma le arti ramingavan perdute: ed in tanta estrema calamità quell’angelo di Canova con mano soccorrevole assisteva molti artefici che per mancanza di lavoro si vedevan languire»42.

Quanto agli atelier in difficoltà, due “censimenti” stilati al momento dell’annessione di Roma all’impero permettono di quantificarli. Su una popolazione oscillante tra i 130.000 e i 140.000 abitanti43, De Rossi44 e de Gérando45 stimarono rispettivamente a

39 Cfr. infra (I.9).

40 Missirini, 1824, pp. 224-225: «fin dal gennaio dell’anno 1809 ebbe lo scultore avanzato all’eccellentissimo monsignor Maggiordomo di N.S. la domanda, di poter onorare la memoria di quattro Artefici sommi, Bonarroti, Coreggio, Tiziano, e Palladio con farne eseguire a sue spese i busti in marmo per collocarli nella Rotonda prima, che il posto ad essi dovuto venisse rapito da soggetti men degni». In termini simili si esprime D’Este, 1864, pp. 252-253. Sui busti del Pantheon: G. Hubert, La sculpture dans l’Italie napoléoniènne, Paris 1964, p. 129; S. Pasquali, Roma, 1520 -1820: dal Pantheon degli artisti al Pantheon degli uomini illustri, in

Topos e progetto: l’attesa, a cura di M. Manieri Elia, 2003, pp. 29-46.

41 Del rapporto si parla in: Nardi, 1989, pp. 31-32 (lettera di Murat a Napoleone del 16 novembre 1809). La relazione è conservata in: ANP, Secrétairerie d’État Imperiale, AF IV 1715, dossier 2, n. 104.

42 C. Falconieri, Vita di Vincenzo Camuccini e pochi studi sulla pittura contemporanea, Roma 1875, p. 105.

43 Madelin, 1906, p. 92; Nardi, 1989, p. 47. Boutry parla di 144.000 residenti nella Pasqua del 1808 e di 129.000 nella Pasqua dell’anno successivo: Boutry, 2000, p. 959.

44 Elenco degli artisti attualmente dimoranti in Roma, in “Memorie enciclopediche”, IV, 1809, pp. 140-163. Per l’attribuzione a De Rossi di questo elenco, tradizionalmente ascritto a Guattani, si veda: S. Rolfi, Roma 1793: Gli studi degli artisti nel Giornale di viaggio di Sofia

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440 e a 435 i pittori, scultori, architetti, mosaicisti, incisori, intagliatori e medaglisti residenti nell’Urbe. Il ministro degli Interni, in particolare, rilevandone il ruolo centrale nel sistema produttivo cittadino, ne comunicò la pressoché totale inattività con il seguente, lapidario, appunto: «Se si considera che la maggior parte degli artisti lavorava o per gli stranieri, il cui afflusso è divenuto molto ridotto, o per le chiese, molte delle quali sono state soppresse, o per i cardinali e i prelati romani, si intenderà fino a che punto essi abbiano bisogno in questo momento della generosa protezione del più augusto dei monarchi. Pressoché tutti gli artisti si trovano in questo momento senza commesse, e qualcuno nella più spaventosa miseria».

A contare soltanto gli scultori - circa 100 secondo le stime dell’antiquario romano, 178 secondo quelle del funzionario napoleonico (che vi incluse gli intagliatori e i bronzisti) - e a confrontarne il numero con quello dei colleghi attivi nella più popolosa Parigi - circa ottanta46 - si evince l’assoluta rilevanza della categoria nell’economia cittadina.

Cresciuti di numero nella seconda metà del Settecento, quando la proliferazione del mercato antiquario ne aveva indotti molti a dedicarsi all’attività di scavo e di restauro, essi furono messi in ginocchio dapprima dall’interruzione del traffico dei viaggiatori e poi dall’emanazione del proibizionistico editto Doria-Pamphilj. L’assoluto divieto di esportazione dalla città degli oggetti d’arte antica - per quanto talvolta disatteso - decretò infatti la fine di una stagione che aveva affidato ai restauratori-mercanti il compito della distribuzione internazionale delle sopravvivenze classiche47.

Quanto all’aristocrazia, recenti studi hanno chiarito la centralità degli anni compresi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nella dispersione di numerose raccolte d’arte. Indeboliti, come si è detto, dalla pressione fiscale imposta all’epoca della repubblica giacobina, i principi romani sfruttarono l’abolizione dell’istituto del

Albertina di Svezia, in La città degli artisti nell’età di Pio VI, a cura di L Barroero - S. Susinno,

numero monografico di “Roma moderna e contemporanea”, X, 1-2, 2002, p. 51.

45 Rapporto sullo stato attuale delle arti a Roma, in ASR, Consulta Straordinaria per gli Stati

Romani. 1809-1810, registro 18, pp. 90-94. Datato 5 novembre 1810, fu riprodotto in vari

esemplari, uno dei quali, privo delle considerazioni finali, si trova in: ANP, Secrétairerie

d’État Imperiale, AF IV 1715, dossier 2, n. 136. Molto simili sono le osservazioni che Camille

de Tournon inserisce in un paragrafo dei suoi Etudes statistiques sur Rome et la partie

occidentale des états Romains, Paris, 1831 (II, pp. 17-22).

46 Hubert, 1964, p. 113, nota 2.

47 Celeberrimi i casi di Bartolomeo Cavaceppi, Vincenzo Pacetti, Giovanni Pierantoni, Francesco Antonio e Giuseppe Franzoni. Emersa di recente l’attività di Antonio D’Este e del socio Ferdinando Lisandroni. Cfr. S. Zizzi, Antonio D’Este (1754-1837). Antiquario,

restauratore e primo direttore dei Musei Vaticani, in “Antologia di Belle Arti” (Studi sul

Settecento III), 63-66, 2003, pp. 161-174 (in part. pp. 161-163). Sull’industria dell’antico nella Roma del Settecento una sintesi nel recente: Il Settecento a Roma, catalogo della mostra (Roma, 2005-2006), a cura di A. Lo Bianco e A. Negro, Cinisello Balsamo 2005, pp. 287-301.

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fidecommesso - che aveva impedito per secoli la disgregazione delle collezioni48 - per procedere al trasferimento all’estero dei patrimoni familiari. «Romae omnia venalia esse» avrebbe scritto, citando Sallustio, il tedesco Michaelis in relazione alla vendita di alcune delle maggiori collezioni seicentesche negli anni della prima Restaurazione49, periodo «forse il più sfavorevole che mai fosse per riguardo al prezzo delle cose d’antichità e di belle arti»50. Una considerazione che trova conferma nella

documentazione archivistica e nelle memorie di mercanti e intermediari, impegnati a comprare quadri e antichità a poco prezzo per rivenderli, maggiorati, sulla piazza inglese, francese, tedesca o russa51. È il caso, per esempio, dello scultore-restauratore-antiquario Vincenzo Pacetti, attivo fino al 1803 e acquirente, per conto di Giovanni Torlonia, di pezzi provenienti dalle collezioni Mattei, Colonna, Aldobrandini, Barberini; del pittore Giorgio Wallis legato ai compratori d’oltremanica; dell’incisore Pietro Maria Vitali, responsabile tra il 1802 e il 1809 di una serie di acquisti presso il principe Altieri, il duca Bonelli e il principe Ruspoli; di Pietro Camuccini e del pittore Alexander Day, fautori della vendita all’estero di dipinti di proprietà Colonna e Borghese (1802)52. Ed è ugualmente esemplare al riguardo la vicenda della dispersione della collezione Giustiniani, esportata per volontà del marchese Vincenzo in Francia tra il 1803 e il 1808, anche grazie alla complicità del fratello cardinale, presidente delle Dogane e della Grascia pontificia, in totale spregio del chirografo

48 L’istituto del fidecommesso, abolito nel 1798, riacquistò validità il 6 luglio 1816 con motu

proprio di Pio VII. Cfr. P.P. Racioppi, La Repubblica romana e le Belle Arti (1798-1799). Dispersione e conservazione del patrimonio artistico, in Roma repubblicana. 1798-99, 1849, a

cura di M. Caffiero, numero monografico di “Roma moderna e contemporanea”, IX, 1-3, 2001, pp. 193-215 (in part. pp. 200-201).

49 Citato in: G. Capitelli, La collezione Giustiniani tra Settecento e Ottocento: fortuna e

dispersione, in Caravaggio e i Giustiniani: toccar con mano una collezione del Seicento,

catalogo della mostra (Roma, 2001), a cura di S. Danesi Squarzina, Milano 2001, p. 119. 50 Secondo un’affermazione di Pietro Ercole Visconti del 1808, citata in: A. Campitelli, La

vendita delle sculture gabine, in Villa Borghese. I principi, le arti, la città dal Settecento all’Ottocento, catalogo della mostra (Roma, 2003-2004), a cura di A. Campitelli,

Ginevra-Milano 2003, p. 154.

51 Francis Haskell ha dedicato pagine incisive all’argomento in: Rediscoveries in Art, London 1976; trad. it. Riscoperte nell’arte, Milano 1990, pp. 57-94.

52 Cfr. O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non, delle

prime battaglie per la tutela delle “Belle Arti”, in “Ricerche di storia dell’arte”, 8, 1978-1979,

pp. 27-41; R. Carloni, Per una ricostruzione della collezione dei dipinti di Luciano: acquisti,

vendite e qualche nota sul mercato antiquario romano del primo Ottocento, in Luciano Bonaparte, le sue collezioni d’arte, le sue residenze a Roma, nel Lazio, in Italia (1804-1840), a

cura di M. Natoli, Roma 1995, pp. 5-39 (in part. pp. 5-10); R. Vodret, Alcune testimonianze

romane al tempo della dispersione della collezione Mattei, in Caravaggio e la collezione Mattei, catalogo della mostra (Roma, 1995), a cura di R. Vodret, Milano 1995, pp. 65-72. Sulle

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Doria-Pamphilj53. La debolezza di Pio VII e del suo commissario delle Antichità Fea si palesò d’altra parte non meno in occasione della clamorosa vendita a Bonaparte delle sculture di casa Borghese, trasportate tra il 1807 e il 1809 al Musée Napoléon. Se è vero, come si è detto, che negli stessi anni una serrata campagna di acquisti presso gli antiquari venne promossa dal papa allo scopo di reintegrare le lacune dei musei pubblici non si può negare all’emorragia di opere di proprietà privata il valore della testimonianza di un’età di declino economico e di crisi sociale. Una condizione che i viaggiatori in sosta a Roma colsero precocemente, descrivendo in termini di fatiscenza e di trascuratezza alcune delle gallerie e delle sale espositive appartenenti all’aristocrazia cittadina54.

I.3. Mito e realtà di Roma. Napoleone, alcuni osservatori e le soluzioni per una

“rinascita” della città

«Napoleone fu un romano sin nel midollo, ne ebbe il sangue, ne ebbe il profilo. Del romano antico ha il gusto della grandezza, la passione del dominio, l’immaginazione smisurata, talvolta unita al più impietoso realismo. Ha iscritta nella mente la legge romana, e nelle sue decisioni, nel suo stile, nel suo modo di governare, ha la maniera romana […]. È la Roma imperiale che principalmente lo stimola […]. Di tutti i tempi il suo pittore prediletto è David, il suo scultore Canova, il suo attore Talma, la sua lettura Plutarco»55. Con queste parole Louis Madelin, il primo storico della Roma

53 Capitelli, 2001, pp. 115-128 (in part. pp. 121-124) e, nello stesso volume, R. Vodret, Le

vicende ottocentesche della collezione Giustiniani: Vincenzo Giustiniani e Giovanni Torlonia,

pp. 131-138.

54 L’interno di Palazzo Giustiniani apparve, per esempio, a Charles de Brosses, in visita a Roma tra il 1739 e il 1740, simile a un magazzino o a un deposito, misero e sporco, abbandonato a se stesso, senza ordine e senza ornamenti (C. de Brosses, Lettres familières.

Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740, 1858; ed. cons. a cura di G. Cafasso;

introduzione, note e bibliografia di L. Norci Ciagiano de Azevedo; prefazione di G. Macchia, Naples 1991, pp. 752-753). Bergeret de Grancourt, finanziere e mecenate, in Italia con Fragonard tra il 1773 e il 1774, annotò della stessa residenza: «ha l’aria della miseria piuttosto che di un Palazzo, con i tesori ammucchiati in disordine e in pessimo stato» (L. Norci Cagiano de Azevedo, Un mecenate alla vigilia ella Rivoluzione. Originalità e luoghi comuni nel diario

italiano di Bergeret de Grancourt, inLo specchio del viaggiatore. Scenari italiani tra Barocco e Romanticismo, Roma 1992, p. 97). Mary Berry infine, nell’Urbe tra il 1783 e il 1784,

appuntò nel diario: «Palazzo Giustiniani: gli appartamenti che si possono visitare non sono tenuti meglio di una locanda. Bei dipinti, tutti impolverati e senza cornici, appesi su pareti spoglie, e busti di buona fattura posti in nicchie piccolissime sui davanzali delle finestre, dove non si possono vedere o sparsi sul pavimento senza alcun ordine» (Mary Berry un’inglese in

Italia. Diari e corrispondenza dal 1783 al 1823. Arte, personaggi, società, a cura di B. Riccio,

Roma 2000, p. 60).

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napoleonica, insiste sul ruolo rivestito dall’antichità capitolina nel bagaglio valoriale dell’imperatore, «soldato venuto dal nulla, discepolo dei philosophes»56, educato ai

classici negli anni dell’adolescenza57.

Per Bonaparte, come per molti degli uomini che aderirono alle sue idee, Roma, prima d’essere una città occupata e annessa, fu una città sognata, un luogo trasfigurato nel mito del suo glorioso passato. «Per noi, che per anni interi abbiamo tradotto brani di Tito Livio e di Floro, il loro ricordo precede ogni esperienza» avrebbe scritto Stendhal nelle sue Promenades dans Rome58, interpretando mirabilmente il sentimento della

gran parte degli ufficiali e degli amministratori francesi, protagonisti della stagione rivoluzionaria. Non è dunque possibile comprendere il sogno romano di Napoleone se non all’interno della cultura scolastica del XVIII secolo, pervasa del mito immaginifico dei grandi condottieri e dominatori del mondo e dei precetti illuministici sul primato della società greco-romana. Fu l’immagine della città dei Cesari e degli Augusti che l’imperatore volle promuovere, misconoscendone il volto contemporaneo, frutto di secoli di governo dei papi. Un’idea permeata di un giudizio falsato sul popolo capitolino, chiamato - sull’onda emotiva suscitata dalla pittura di Jacques-Louis David - a testimoniare, nel lacerato presente, le virtù eroiche dei fondatori del più potente degli imperi. «Signori, il mio spirito è pieno del ricordo dei vostri avi» disse Napoleone ai senatori romani ricevuti al palazzo delle Tuileries il 16 novembre del 1809, convinto che essi conservassero il carattere e la propensione alla grandezza di Tito e di Traiano59. Quale scarto con il ritratto - severo e benevolo al tempo stesso - steso dall’osservatore Pellenc nel corso del suo soggiorno capitolino del 1811: «Il popolo romano è rammollito, corrotto, educato ad ogni servitù, è facile da governare, si piega al volere dei capi; ma è allo stesso tempo spirituale, inventivo, adatto a tutti i

56 G. Lefebvre, Napoléon, Paris 1953; trad. it. 1999, p. 74.

57 Secondo il racconto di Bourienne, che fu compagno di Bonaparte alla scuola militare di Brienne, tra gli undici e i sedici anni il giovane avrebbe letto avidamente Polibio e Plutarco, per proseguire successivamente con le traduzioni in francese di Platone, Cicerone, Cornelio Nepote, Tito Livio e Tacito. Cfr. Boutry, 2000, p. 938. Sul ruolo che il culto della romanità giocò nella vicenda napoleonica: L. Mascilli Migliorini, Epifanie dell’antico, in Roma negli

anni di influenza, 2000, pp. 431-439. Sul mito di Roma in età napoleonica: A. Giardina - A.

Vouchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma - Bari 2000, pp. 147-159. 58 Stendhal [H. Beyle], Promenades dans Rome, 2 voll., Paris 1829; ed. cons. Passeggiate

romane, introduzione di L. Binni, prefazione e traduzione di M. Colesanti, Milano 2004, p. 29.

59 Boutry, 2000, p. 956. L’incontro è raccontato dettagliatamente sul Giornale del Campidoglio del 27 novembre 1809 (pp. 263-266).

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generi d’industria, alle arti e alle scienze, mostra una capacità superiore agli altri italiani, e da ciò gli viene una parte della sua vanità»60.

Ai suoi emissari Bonaparte affidò dunque il compito di oscurare il volto della Roma moderna, cattolica e organizzata tra il Vaticano e il Campo Marzio, a vantaggio di quella antica, concentrata intorno al Campidoglio; delegò inoltre l’incarico di risvegliare negli abitanti l’orgoglio della “cittadinanza”61.

Sul piano culturale restaurare la grandezza antica significò in primis spazzare via la miseria del presente e, senza rinnegare la legittimità delle requisizioni, rimuovere il ricordo degli abusi del biennio giacobino. Significò - lo si vedrà - riabilitare uomini e teorie avversate nel passato, in un’ottica revisionistica. Il progetto di una Roma capitale delle arti e culla della classicità s’inserì inoltre nel proposito - concretizzatosi il 17 febbraio del 1810 - di conferirle il titolo di “seconda città dell’Impero”, destinata al principe ereditario62.

Oltre ai funzionari di primo rango (dei quali si dirà), contribuirono alla definizione dei nuovi orientamenti consulenti e membri di secondo piano della burocrazia. A leggere tre rapporti conservati presso gli archivi nazionali di Francia - a firma rispettivamente del senatore Martini e dei citati Pastoret e Pellenc - emerge con chiarezza che il ristabilimento di Roma a centro delle arti e del turismo internazionale fosse un obiettivo condiviso. Per raggiungere la prosperità, scrisse alla vigilia dell’occupazione il conte Martini, «altro mezzo non v’è che la protezione singolare, che il Governo deve accordare alle belle arti, e la cura che deve avere di rendere il soggiorno piacevole a tutte le classi di uomini. Roma continui ad essere il centro delle arti liberali, ogni facilità s’accordi ai forestieri che vi arrivano, o per studio, o per genio, aperte ne siano le mura all’individuo di qualunque Nazione, qualunque siano i rapporti politici delle

60 Pellenc, Lettres sur Rome, in ANP, Secrétairerie d’État Imperiale, AF IV 1715, dossier 4, n. 5. Pellenc - del quale non ho rintracciato notizie biografiche - fu a Roma nel 1811 e scrisse sei rapporti in forma di lettera, tutti conservati nello stesso fondo d’archivio (nn. 2-7).

61 I fogli periodici furono il principale strumento della propaganda di regime; abbondano dunque di inviti alla popolazione a rimpadronirsi dei luoghi della Roma pre-cristiana, scelti come teatro delle principali manifestazioni pubbliche. In occasione dei festeggiamenti per la nascita del re di Roma, per esempio, il Colosseo, il Foro e il Campidoglio furono illuminati a giorno, e piazza Navona, l’antico circo agonale, ospitò le corse dei cavalli («che ci trasporteranno ai tempi in cui il popolo romano prendeva tanto interesse per quello o quell’altro partito»). Cfr. “Giornale del Campidoglio”, 69, 10 giugno 1811, pp. 277-278; 70, 12 giugno 1811, p. 291; 71, 15 giugno 1811, p. 295. Ma si veda anche: Il Settecento e l’Ottocento, a cura di M. Fagiolo (Corpus delle Feste a Roma/2), Roma 1997, pp. 259, 277-278.

62 Un senato-consulto stabilì in via definitiva l’annessione degli Stati romani all’impero e ne sancì la divisione in due dipartimenti (del Tevere e del Trasimeno); attribuì inoltre la potestà di Roma al figlio di Napoleone e di Maria Luisa d’Asburgo. Cfr. Madelin, 1906, pp. 276-287; Nardi, 1989, p. 161.

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medesime»63. La “naturale” vocazione cosmopolita della città, precisatasi negli anni del Grand Tour, e la sua eccezionalità di museo a cielo aperto, esemplarmente celebrata nelle Lettres à Miranda, sembrarono dunque le risorse alle quali pescare per risollevare le sorti dell’economia cittadina64; e non paia strano che tali convincimenti

fossero già stati espressi da Carlo Fea, autore, nel 1797, di un opuscolo sui vantaggi apportati all’intera cittadinanza dalla gestione intelligente e programmata del patrimonio artistico e dal sostegno pubblico alla produzione dei beni di lusso65.

Mantenimento a spese del Tesoro francese dei palazzi vaticani; uso degli edifici conventuali soppressi in funzione della conservazione delle testimonianze della storia sacra; protezione e riforma dell’Accademia di San Luca; stabilimento di premi e borse di studio per giovani talenti; stanziamento di una «ragguardevole somma da impiegarsi all’acquisto di opere di artisti viventi»; commissione di qualche monumento pubblico, «che potrebbe impiegare per molti anni, molti artisti, e di genere diverso cioè architetti, statuari, scultori di ornati, e tutta la serie delle arti secondarie che servono a costoro»; istituzione di feste periodiche: questo il variegato programma di iniziative che i collaboratori di Bonaparte ritennero utile a sbloccare la situazione di stallo del sistema delle arti capitolino.

Per far dimenticare «l’irruzione spoliatrice e rivoluzionaria del 1798»66, e per celebrare l’inizio di una nuova stagione di prosperità, l’imperatore inviò nell’Urbe un generale galantuomo e due funzionari cattolici, scelti per l’assoluta probità e la profonda conoscenza della cultura classica. Si trattava di Sextius-François Miollis, di Joseph-Marie de Gérando e di Camille de Tournon.

63 Osservazioni su Roma presentate a Napoleone dal conte Martini, ANP, Secrétairerie d’État

Imperiale, AF IV 1715, dossier 2, nn. 137-138 (aprile 1809), p. 4.

64 Anche al tempo della repubblica alcuni anonimi cittadini romani avevano inviato alle autorità francesi sollecitazioni in favore della conservazione delle antichità e della promozione delle arti contemporanee. Cfr. P.P. Racioppi, Roma, le arti e la Rivoluzione. Il patrimonio

storico-artistico al tempo della Repubblica Romana (1798-1799), tesi di dottorato in Storia e

conservazione dell’oggetto d’arte e d’architettura, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2004-2005, p. 188 ss.

65 C. Fea, Discorso intorno alle Belle Arti in Roma recitato nell’adunanza degli Arcadi il dì

XIV settembre, Roma 1797; Per una interpretazione del testo: O. Rossi Pinelli, Tutela e vantaggio generale: Carlo Fea o dei benefici economici garantiti dalla salvaguardia del patrimonio artistico, in Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti. Due pontefici cesenati nel bicentenario della Campagna d’Italia, atti del convegno (Cesena, 1997), a cura di A. Emiliani

- L. Pepe - B. Dradi Maraldi, Bologna 1998, pp. 155-163.

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I.4. Sextius-François Miollis, Joseph-Marie de Gérando e Camille de Tournon:

breve ritratto dei principali esponenti del governo napoleonico

«Il conte Miollis non aveva ancora cinquant’anni quando occupò Roma nel 1808. Nato in Aix, aveva preso parte alla guerra d’America, aveva difeso più tardi la Francia sul Reno, poi aveva combattuto in Italia in tutte le campagne di Bonaparte; a metà diplomatico e letterato, e a metà soldato, essendo governatore di Mantova, fece elevare un monumento a Virgilio; con un fratello vescovo, con l’amicizia del Consalvi e la fiducia dell’Imperatore, era uomo capace di governar Roma. Non aveva la ruvidezza soldatesca, né la doppiezza degli uomini deboli; sentiva rettamente, operava francamente, amava il fasto, la ricchezza, la musica e le donne, ma non abusava del potere, né scendeva a bassezze; bell’uomo, abile ed elegante cavaliere, fu rispettato, riverito e temuto»67. A circa settant’anni dalla fine del regime napoleonico, lo storico David Silvagni descrive la personalità del generale che tenne le redini di Roma, esaltandone le virtù umane e le doti diplomatiche, lo spirito mondano e la raffinatezza intellettuale. Il giudizio ricalca quelli espressi qualche tempo prima dal cardinale Ercole Consalvi e, sul fronte opposto, dal diplomatico Pellenc e dal senatore

Gabriel-Marie-Théodore

d’Hédouville68, privilegiati testimoni della stagione “italiana” che vide Miollis pure governatore di Mantova (1797 e 1805), di Genova (1800) e di Livorno (1807)69.

67 D. Silvagni, La corte pontificia e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Roma 1883-1885; ed. cons. a cura di L. Felici, III, Roma 1971, p. 111.

68 E. Consalvi, Mémoires, Paris 1864, II, p. 155 (citato in R. Ridley, The eagle and the spade.

Archaeology in Roma during the Napoleonic era, Cambridge 1992, p. 254); Pellenc, Lettres sur Rome; G.-M.-T. d’Hédouville, Notes sur le departement de Rome (6 marzo 1813), in ANP, Secrétairerie d’État Imperiale, AF IV 1715, dossier 6, nn. 2-3. Quest’ultimo, dopo una

brillante carriera militare e diplomatica, fu membro della Legione d’onore (1803) e del Senato (1805), nonché cavaliere d’onore dell’imperatrice (1805) e ciambellano di Girolamo Bonaparte (1807). Nel 1810 ricevette infine il titolo onorifico di senatore di Roma. Cfr. Dictionnaire

Napoléon, sous la direction de J. Tulard, Paris 1989, pp. 867-868.

69 Per una ricostruzione degli anni romani di Miollis si veda: H. Auréas, Un général de

Napoléon: Miollis, Strasbourg 1961, pp. 137-175. Un giudizio complessivamente critico

sull’operato del generale compare nella corrispondenza privata di Camille de Tournon, che gli rimprovera una condotta molle e troppo dipendente dai dettami parigini: «C’era bisogno dell’assenso dell’Imperatore - scrive il prefetto - per fargli intraprendere una qualunque iniziativa, ma, se quell’assenso gli era rifiutato, non sapeva come fare e il suo spirito era incapace di una decisione spontanea. Allora arrivavano i consiglieri, la sua amante, il suo aiuto di campo, l’ufficiale inferiore. Privo di ogni chiarezza e ordine d’idee, passava il suo tempo a rimuginare di piccole cose e non arrivava mai a comprendere le grandi. Molto geloso del suo potere, molto diffidente, non era però cattivo e aveva la naturale propensione a servire, a condizione che fosse senza compromettersi» (Lettres inédites du comte Camille de Tournon

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Residente a Roma dal 2 febbraio del 1808 al 10 marzo del 1814, Miollis, conte dell’impero con una rendita annua di ventimila franchi, rivestì prima il ruolo di comandante delle truppe occupanti, poi quello di presidente della Consulta straordinaria e, infine, quello di luogotenente del governatore generale70.

Insediato nel palazzo Doria al Corso, inaugurò il suo mandato con l’occupazione forzata delle tipografie, preludio al controllo della stampa e all’accentramento delle responsabilità direttive in materia editoriale. Pose sotto stretta sorveglianza il Diario

ordinario (il cosiddetto Cracas) - organo ufficiale del governo pontificio - e lo

trasformò in Diario di Roma (giugno 1808); poco prima fondò, lo si è visto, la

Gazzetta Romana (aprile 1808). A margine di tali iniziative promosse, nel corso del

1808, un ricco ciclo di eventi mondani - pranzi, balli, serate teatrali e musicali - orientati a diffondere lo spirito laico della Parigi contemporanea. Non estranei allo scopo di conquistare il favore della nobiltà cittadina, gli incontri mirarono a cancellare il ricordo delle inconciliabilità e contrapposizioni maturate nei giorni della repubblica romana71.

Uomo di non eccelsa cultura ma buon conoscitore della lingua latina e amante di Virgilio (in omaggio al quale aveva fondato a Mantova un’accademia), Miollis si lasciò da subito sedurre dalla Roma classica e dalle sue sopravvivenze, e per questo istituì sulla Gazzetta Romana una rubrica di antiquaria contenente informazioni sugli scavi in corso e sulle novità editoriali. I suoi primi interventi in favore della valorizzazione del patrimonio archeologico furono il parziale restauro del tempio della Sibilla a Tivoli, meta privilegiata del turismo internazionale, e la costruzione di un camminamento di congiunzione tra il rudere e la sottostante grotta di Nettuno, cavità naturale creata dalle acque dell’Aniene, per raggiungere la quale i visitatori si erano dovuti servire, fino a quel momento, di una corda72.

esprime Madelin (1906, p. 216). Sul rapporto contrastato tra Tournon e Miollis si veda: Auréas, 1961.

70 Con decreto imperiale del 19 febbraio 1811 Miollis fu nominato secondo al governatore generale dei dipartimenti di Roma e del Trasimeno, Joseph Fouché, già ministro di Polizia, il quale non giunse però mai a Roma. Cfr. Auréas, 1961, pp. 160-161.

71 Dall’aprile al dicembre del 1808 si contano due balli al mese e lauti pranzi in occasione delle celebrazioni napoleoniche (anniversario della nascita dell’imperatore e festa di san Napoleone, il 15 agosto; ricorrenza dell’incoronazione e della battaglia di Austerlitz, il 2 dicembre). Gli incontri diminuiscono a partire dal 1809, dopo l’annessione degli Stati romani all’impero. 72 Auréas, 1961, p. 166. Il camminamento venne riprodotto in un’incisione, recensita da Guattani sulle Memorie enciclopediche: «Una stampa si è data in luce in questi giorni della così detta Grotta di Nettuno in Tivoli […]. Uno dei suoi gran pregi è quello di ricordare le riparazioni, e la nuova strada fattavi costruire da S.E. il Sign. Generale e Governatore Conte Miollis a comodo d viaggiatori che ogni dì vi concorrono ad osservare quel bizzarro e decantato Spettacolo della capricciosa Natura» (1811, p. 64). Lungo il camminamento

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Sul fronte delle arti contemporanee egli fu tra i promotori, nel novembre del 1809, di una grandiosa mostra di pittura e scultura, ospitata nelle sale del palazzo Senatorio in Campidoglio73. In quei giorni fu eletto all’unanimità membro d’onore dell’Accademia di San Luca74, privilegio condiviso con il ministro de Gérando e ricambiato, il 10

dicembre successivo, con una visita ufficiale nei locali dell’istituzione. Alla presenza, tra gli altri, di Bertel Thorvaldsen, di Jean-Baptiste Wicar e di Raffaele Stern, il presidente della Consulta «ammirò e gustò i pregi» delle opere conservate nelle sale espositive, fermandosi inoltre «a tener proposito sull’incremento delle Belle Arti e sui mezzi di procurarlo, onde dopo il trattenimento di circa un’ora lasciò gli Accademici pieni di fondate speranze di continuare a godere la considerazione del Governo, ed i suoi aiuti»75.

Interprete delle disposizioni imperiali tese a restituire a Roma il ruolo di capitale della cultura, Miollis promosse alleanze anche con altri istituti di antica fondazione. Accolto all’Accademia dei Lincei come socio onorario, si adoperò affinché la Consulta stanziasse un fondo annuo per le attività ordinarie (2.500 franchi), da tempo interrotte76; fu inoltre firmatario del decreto (22 luglio 1809) che stabilì il restauro e la riapertura del Bosco Parrasio, il luogo delle adunanze dell’Arcadia romana, fondato nel 1725 grazie ad una donazione del re di Portogallo Giovanni V. Il provvedimento, volto ad arrestare la progressiva involuzione dell’accademia e a ricondurla ai fasti dell’origine, fu il primo di una serie che mirò a conferire alla società letteraria la responsabilità della difesa e della salvaguardia della lingua italiana e dei suoi più autorevoli rappresentanti77.

La benevolenza del generale nei confronti del ceto intellettuale e artistico non si limitò peraltro alla sfera pubblica. Anche il ritratto del Miollis privato corrisponde infatti a quello di un cultore delle arti, di un poeta dilettante e di un melomane, che «riunisce

sopravvive ancora oggi la seguente iscrizione: Sextius Miollis/bonarum artium/commoditati/viam faciumdam/curavit/anno MDCCCIX.

73 Cfr. infra (I.11).

74 ASL, Registro delle congregazioni, vol. 56. Seduta del 12 novembre 1809.

75 ASL, Registro delle congregazioni, vol. 58. Seduta del 10 dicembre 1809; verbale redatto da Virginio Bracci in qualità di segretario dell’accademia.

76 M. Pavan, 1987, Le istituzioni culturali nella Roma napoleonica, in “Rivista di Studi napoleonici”, XXIV, 1, 1987, p. 127. Sull’Accademia dei Lincei all’inizio dell’’Ottocento: Donato, 2000, pp. 195-205; Eadem, Scienziati al servizio dell’Impero o viceversa?

L’Accademia ei Lincei, in L’impero e l’organizzazione del consenso, in corso di stampa.

77 M.I. Palazzolo, L’Arcadia Romana nel periodo napoleonico (1809-1814), in Dalla

collezione privata al museo pubblico, numero monografico di “Roma moderna e

contemporanea”, I, 3, settembre-dicembre 1993, pp. 175-188; Donato, 2000, pp. 215-216. Miollis fu accolto in Arcadia con il nome di Amarilli Etrusca.

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spesso a casa sua, insieme ai principali funzionari, viaggiatori stranieri e le più distinte famiglie romane»78.

Acquirente, nell’aprile del 1811, della villa del principe Francesco Borghese Aldobrandini al largo Magnanapoli79, vi fondò la Societé hellénique des sciences et

des beaux arts, «un consesso di nobili spiriti, amanti della bellezza»80, nel desiderio di far rivivere in una cornice classica il mito letterario della cultura greco-romana. Frequentata ogni venerdì sera da arcadi e scienziati, l’abitazione divenne il luogo d’incontro dei pensionnaires di villa Medici e degli artisti gravitanti intorno alle accademie di San Luca e del Regno italico, impegnati nella decorazione del vicino palazzo del Quirinale. Una rara incisione del San Sebastiano martire già attribuito a Guercino, realizzata da Giovanni Folo su disegno di Agostino Tofanelli, ne celebra il ruolo di promotore delle arti e protettore degli artisti non meno che di protagonista della scena militare e politica (Fig. 6)81. «La sua casa ha un tenore di vita dei più

splendidi e certamente più sontuoso di quanto comporti il suo appannaggio. Colazioni frequenti e numerose riunioni, concerti, balli, pranzi, egli non trascura alcun mezzo di rappresentanza. Incoraggia e sostiene una folla di artisti, li impiega a restaurare sculture e dipinti che egli acquista a tale scopo. Commissiona cinque o sei quadri per volta e benché la sua famiglia sia numerosa e povera e lui stesso non abbia un gran patrimonio, considera tutte queste spese come somme da spendere per il servizio di Sua Maestà e dalle quali non è possibile stornare nulla» fu scritto in un rapporto del tempo a proposito della condotta di vita del generale, convinto assertore dei doveri dei pubblici funzionari in materia di mecenatismo artistico82.

L’immagine di una casa-museo, circondata da un giardino archeologico simile a quello di villa Albani, è quella che traspare peraltro nell’Indicazione delle sculture e

della galleria di quadri esistenti nella Villa Miollis al Quirinale, catalogo dei tesori di

78 d’Hédouville, Notes sur le departement de Rome. L’affermazione è ascritta erroneamente a Pellenc in: Il palazzo del Quirinale. Il mondo artistico a Roma nel periodo napoleonico, a cura di M. Natoli - M.A. Scarpati, I, Roma 1989, p. 222, nota 5.

79 Auréas, 1961, p. 167; C. Benocci, Villa Aldobrandini a Roma, Roma 1992, p. 93; Miarelli Mariani, 2005, p. 69. L’annuncio dell’acquisto della villa apparve sulle pagine del Giornale

politico del dipartimento di Roma solo il 27 febbraio 1813 (p. 4).

80 Madelin, 1906, p. 528.

81 Il San Sebastiano martire (Hartford, Conn., The Wardsworth Atheneum), oggi attribuito a Lorenzo Gennari, si trovava all’inizio dell’Ottocento in casa del marchese Curti Lepri, come indica la didascalia dell’incisione. Accenno all’opera in: L. Salerno, I dipinti del Guercino, Roma 1988, p. 427.

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