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3.1 Preoperatorie e postoperatorie

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Academic year: 2021

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3.1 Preoperatorie e postoperatorie

Le strategie preoperatorie e postoperatorie vengono raggruppate in una stesso capitolo in quanto alcune di esse possono essere attuate prima o dopo l’intervento chirurgico (corretto utilizzo dei FANS), mentre altre hanno un fase di preparazione preoperatoria, ma il loro eventuale utilizzo è chiaramente postoperatorio (predonazione di sangue autologo). Le strategie preoperatorie e postoperatorie sono le seguenti:

- Correzione dell’anemia preoperatoria (terapia marziale ed eritropoietina

ricombinante umana)

- Protocolli trasfusionali del sangue omologo

- Strategie per l’utilizzo del sangue autologo (predonazione di sangue autologo, emodiluizione normovolemica acuta preoperatoria, recupero di sangue intra- e postoperatorio)

- Utilizzo di FANS inibitori selettivi della COX-2/Terapia antalgica

- Timing della profilassi antitromboembolica

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Correzione dell’anemia preoperatoria

Una condizione che chiaramente determina un’ elevata probabilità di ricorrere alla trasfusione è l’anemia preoperatoria: è infatti logico che, partendo con un valore di emoglobina già basso, perdite di sangue perioperatorie, anche contenute, esporranno il paziente al suddetto rischio. E’ importante sottolineare che la percentuale di pazienti anziani che si sottopongono ad interventi di chirurgia ortopedica maggiore è progressivamente in aumento; inoltre, un’alta prevalenza di anemia (43%) è stata osservata in uno studio retrospettivo per coorti su 57636 veterani di 65 anni o più, che si erano sottoposti ad interventi di chirurgia ortopedica maggiore elettiva e non1[18]. La

carenza di ferro e le infiammazioni croniche sono la cause più comuni di anemia

preoperatoria, sebbene la carenza di ferro, acido folico e/o vitamina B12 in assenza di

anemia siano altrettanto frequenti, specialmente nella popolazione anziana e nelle donne di mezza età1. Saleh et al.1[19], in un altro studio, hanno riportato che, dei 1142 pazienti in

attesa di intervento di protesi d’anca o di ginocchio, 210 erano anemici se comparati ai valori normali di emoglobina. Inoltre, in una recente analisi, che prendeva in esame 345 pazienti da sottoporre a chirurgia ortopedica maggiore d’elezione, il 18% risultavano anemici, ma è interessante notare che, tra i pazienti con valori di emoglobina nella norma,

il 18% presentava carenza di ferro, il 21% carenza di vitamina B12 e il 7% carenza di

folati1[20]. L’ emoglobina è, ovviamente, il valore di riferimento per definire l’ anemia e

abbiamo già sottolineato quanto la sua conoscenza prima dell’ intervento (30 giorni o al massimo 3 settimane prima) sia importante; inoltre rappresenta il principale fattore predittivo per il ricorso alle trasfusioni di sangue perioperatorie in chirurgia ortopedica1[21-23].

A conferma di tale concetto si può citare uno studio europeo, che includeva più di 4000 pazienti e che ha mostrato una relazione inversamente proporzionale tra i livelli di Hb

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prima dell’operazione e la probabilità di ricevere trasfusioni di sangue1[7].

La chirurgia ortopedica maggiore, come sappiamo, è spesso legata a significanti perdite ematiche, che in più del 90% dei casi portano il paziente a sviluppare un’anemia postoperatoria, la quale pùò essere aggravata da una ridotta eritropoiesi indotta dall’infiammazione, specialmente attraverso la riduzione della disponibilità di ferro1[25].

Chiaramente, per correggere un’anemia postoperatoria spesso si ricorre alle trasfusioni di sangue allogenico. Pertanto, i pazienti candidati alla chirurgia ortopedica, a rischio per lo sviluppo di una grave anemia postoperatoria, dovrebbero essere individuati sulla base dei valori della massa eritrocitaria (ottenibile dai livelli di concentrazione dell’Hb nel giorno in cui vengono effettuate tutte le valutazioni preoperatorie), del livello di Hb che il paziente può tollerare (trigger di trasfusione) e su quella che è la perdita ematica prevista per il tipo d’intervento (algoritmo di Mercuriali).

E’ sicuramente opportuno, come è stato più volte rimarcato, testare (preferibilmente 30 giorni al massimo tre settimane prima dell’intervento) i valori di Hb, ma anche, sempre 30 giorni prima dell’operazione, la concentrazione di ferro e i suoi depositi: sideremia, percentuale di saturazione della transferrina e ferritina sierica. Inoltre nei pazienti che hanno più di 60 anni è consigliabile misurare i livelli di vitamina B12 e di acido folico. L’anemia preoperatoria e ogni carenza, da cui essa può dipendere, deve essere corretta prima dell’ intervento, per poter ridurre al minimo la probabilità di ricorrere alle trasfusioni di sangue1[26].

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Terapia marziale

La somministrazione di ferro per os prima dell’ intervento, associata ad un approccio più restrittivo trasfusionale, riduce il ricorso a trasfusioni postoperatorie in pazienti sottoposti ad artroplastica del ginocchio1[27]. Allo stesso modo, negli interventi di sostituzione di

protesi del ginocchio ed anche in quelli di riduzione di frattura d’anca, la richiesta di trasfusioni viene abbassata somministrando ferro e.v. sempre nell’ambito di un regime

trasfusionale restrittivo (si può eventualmente associare anche una dose di rHuEPO)1[28-32].

Negli interventi di chirurgia ortopedica la somministrazione di ferro sembra quindi essere piuttosto utile nel correggere uno stato carenziale e pertanto prevenire il rischio di anemia postoperatoria; tuttavia nel caso quest’ultima si presenti, la somministrazione di ferro per os dopo l’intervento per correggerla appare inutile1[33,34]. Invece, la somministrazione

perioperatoria di ferro con saccarosio e.v. si è dimostrata efficace nel riequilibrare i livelli di Hb, ad esempio negli interventi sul rachide1[35], soprattutto nei bambini, e negli interventi di

artroplastica dell’anca1[36]. Va poi aggiunto che la somministrazione di ferro e.v.

perioperatoria riduce i tempi di ricovero, nel caso si sviluppi un’anemia postoperatoria, e

preserva i depositi di ferro del paziente1[38]. E’ quindi raccomandata nei pazienti sottoposti

a chirurgia ortopedica elettiva e non, che sono a rischio di sviluppare una grave anemia postoperatoria, sebbene siano necessari studi clinici più ampi1[26].

L’ utilizzo del ferro sembra non essere associato a reazioni avverse che mettono a rischio la vita del paziente o ad un aumento della percentuale di infezioni postoperatorie, tuttavia gli studi effettuati a riguardo, per via di un basso numero di pazienti inclusi in essi, non hanno permesso di giungere a conclusioni definitive. In generale, la somministrazione di ferro dovrebbe essere evitata nei pazienti con livelli di ferritina superiori a 500 ng/ml prima del trattamento o che presentino batteremia1[26].

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Eritropoietina ricombinante umana

Abbiamo parlato prima di un eventuale utilizzo dell’ rHuEpo (eritropoietina ricombinante umana): l’eritropoieitina (Procrit, Amgen Inc, Thousand Oaks, Calif) è in grado di ridurre il fabbisogno trasfusionale incrementando la massa eritrocitaria circolante. Tale aumento si verifica in breve tempo (1g/dl di Hb per settimana di trattamento) e di conseguenza aumenta anche il volume di sangue che il paziente può tollerare di perdere, consentendo di non ricorrere alla trasfusione allogenica o al predeposito di sangue autologo e alla sua conseguente gestione e somministrazione, eliminando così quei rischi che nemmeno la trasfusione autologa riesce ad evitare e cioè la contaminazione batterica, una non corretta conservazione o l’errore trasfusionale. Va inoltre aggiunto che l’ rHuEPO è importante per ottimizzare gli stessi programmi di autodonazione, riducendo il tempo di ricostituzione degli eritrociti prelevati e garantendo l’efficacia stessa della metodica altrimenti limitata ad una blanda emodiluizione incapace di consentire guadagni significativi in termini del fabbisogno trasfusionale del paziente candidato a interventi di chirurgia ortopedica maggiore6.

La somministrazione di rHuEPO è indicata in pazienti da sottoporre a chirurgia ortopedica maggiore, nei quali la perdita ematica che ci aspettiamo sia moderata-alta e cioè quando i loro valori di Hb, precedenti all’intervento, sono compresi tra a 10 g/dl e 13 g/dl1,2,4.

Generalmente lo schema terapeutico utilizzato nella chirurgia ortopedica maggiore d’elezione è il seguente: dosi da 600UI/Kg tramite iniezione sottocutanea, una volta a settimana nelle tre settimane precedenti all’ intervento ( 21, 14 e 7 giorni prima dell’

operazione) ed un ultima somministrazione 24 ore prima dell’intervento2,4[3]. Perché l’effetto

sia ottimale, è importante che i livelli dei depositi del ferro siano adeguati e, per tale ragione, la somministrazione di rHuEPO può essere associata ad una supplementazione di ferro per os2[25-26]. La risposta a tale trattamento non dipende tanto dall’ età o dal sesso

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del paziente, quanto dalla dose di rHuEPO somministrata e dalla disponibilità di nutrienti essenziali, quali ferro (l’utilizzo di ferro e.v. può anche comportare una riduzione della dose

di rHuEPO da somministrare), folati o vitamina B121[41]. Due studi clinici prospettici (896

pazienti) e uno caso-controllo (770 pazienti) dimostrano che l’ utilizzo di rHuEPO riduce significativamente la quota di trasfusioni di sangue allogenico1[42-44].

La presenza di infiammazione non sembra essere un fattore limitante, così come, in

pazienti con o senza artrite reumatoide2[32], gli effetti benefici del trattamento sembrano

essere gli stessi1[45]. Si ritiene, inoltre, che la somministrazione di rHuEPO presenti ben

pochi effetti avversi, in quanto si tratta di un trattamento a breve termine ed è controindicato in quei pazienti con condizioni di comorbidità che predispongono, giustappunto, a reazioni avverse : ipertensione arteriosa non controllata, pregresso infarto miocardico acuto, pregresso ictus, angina instabile e grave stenosi carotidea.

Tuttavia, i risultati preliminari di uno studio (681 pazienti) randomizzato e multicentrico sull’ rHuEPO (4 x 40000 UI), rispetto agli standard di cura normali in chirurgia ortopedica, hanno mostrato che la possibilità di sviluppare una trombosi venosa profonda con tale trattamento è raddoppiata, allertando la Food and Drug Administration (16 Novembre

2006, aggiornato al 16 Febbraio 2007 e al 9 Marzo 2007)1. Inoltre, è stato recentemente

scoperto l’ impatto negativo che la rHuEPO ha sulla sopravvivenza dei pazienti con tumore renale: l’ EMEA (European Medicine Agency) è stata allarmata in seguito ai

risultati ottenuti da recenti trials clinici

(http://www.emea.europa.eu/pdfs/human/press/pus/49618807en.pdf), che hanno mostrato un consistente e inspiegabile aumento della mortalità in pazienti con anemia associata al cancro, trattati con eritropoietina; in più, i risultati di due studi e di una meta-analisi, recentemente pubblicati, hanno messo in evidenza che il trattamento con rHuEPO, in pazienti con patologie renali croniche, volto a raggiungere livelli di Hb relativamente

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Tutto ciò ha sollevato dubbi riguardo all’utilizzo di tale farmaco come trattamento di prima linea nell’anemia perioperatoria. Pertanto prima di ricorrere all’utilizzo di rHuEPO è importante soppesare attentamente rischi e benefici, calcolare il corretto dosaggio da somministrare, soprattutto in relazione al tipo di intervento di chirurgia ortopedica, ed escludere quei pazienti che presentano le suddette comorbidità.

Un ultimo aspetto, certamente da non sottovalutare, è quello dei costi relativamente elevati del farmaco2,3.

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Protocolli trasfusionali sangue omologo

Quando si verifica una diminuzione della massa eritrocitaria circolante l’ossigenazione dei tessuti è mantenuta da una serie di interazioni complesse come l’aumento della gittata cardiaca, l’aumentata estrazione di ossigeno, lo spostamento a destra della curva di dissociazione dell’ ossigeno e l’aumento della volemia; in condizioni di anemia cronica i pazienti sono in grado di tollerare valori di emoglobina di 7-8 g/dl o anche inferiori, ad esempio in pazienti che rifiutano la trasfusione come i testimoni di Geova. La gittata cardiaca in questi casi non aumenta fino a che non si raggiungano valori di emoglobina pari a 7g/dl. Bisogna pertanto domandarsi a che livello di emoglobina è necessaria la trasfusione in seguito ad un intervento chirurgico. In passato un atteggiamento troppo liberale nelle trasfusioni di sangue allogenico senza precisi valori a cui trasfondere era diffuso nella maggior parte dei presìdi ospedalieri. Studi effettuati dall’ Orthopaedic Surgery Trasfusion Haemoglobin European Overview ( OSTHEO ) hanno messo in risalto una significante variabilità dei valori di emoglobina e delle condizioni cliniche ai quali si ricorre all’ uso di trasfusioni1[7]. Per ridurre tale variabilità nella pratica trasfusionale e allo

stesso tempo i rischi legati al sangue allogenico, sono state sviluppate raccomandazioni e linee guida il cui obiettivo finale è un approccio più razionale e restrittivo all’utilizzo delle trasfusioni di sangue allogenico e che si basano sulla sopportazione da parte del paziente dell’ anemia normovolemica1[10-12]. Nell’ambito della chirurgia ortopedica, sono stati

effettuati due studi clinici randomizzati controllati. Il più recente studio clinico, randomizzato controllato e multicentrico (Grover et al.)1[14], prendeva in esame 260

pazienti(età media 70 anni) sottoposti a intervento di protesi d’anca o di ginocchio, suddivisi in due gruppi, uno con triggers di trasfusione restrittivi (8g/dl), l’altro con triggers liberali (10g/dl). Lo studio ha sottolineato che con triggers trasfusionali restrittivi è possibile ottenere una significativa riduzione delle trasfusioni di sangue allogenico.

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In pazienti che hanno meno di 60 anni, senza comorbidità, il trasfusion trigger dovrebbe essere basso (7 g/dl); invece in pazienti con età superiore ai 60 anni il trigger deve essere aumentato (8g/dl), e ancor di più se sussistono condizioni cliniche generali e segni vitali alterati (pressione diastolica < a 60 mm/Hg, riduzione della pressione sistolica > a 30 mm/Hg, tachicardia, oligo-anuria, alterazioni dello stato di coscienza), oppure nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari, polmonari o da altra disfunzione d’organo (9,7-10

g/dl)1,2,4. Una cosa dovrebbe essere sempre tenuta a mente: un basso livello di Hb non

sempre giustifica la trasfusione e i vari segni clinici, assieme ai parametri emodinamici, dovrebbero essere valutati caso per caso2[22-23].

Per quanto riguarda la sicurezza di tale strategia, in un ampio studio, basato sull’osservazione dei dati (n = 8787), non sono emerse differenze sostanziali nella percentuale di morte, tra i pazienti, sottoposti ad intervento di riduzione di frattura d’anca, che venivano trasfusi a livelli di Hb alti o bassi (10g/dl o 8g/dl)1[15]. Similmente, in un altro

studio clinico randomizzato e controllato (Carson et al.), non sono state sottolineate differenze riguardanti la mortalità e la morbilità dei pazienti sottoposti a protocolli

trasfusionali differenti1[13]. Comunque, molti autori hanno sottolineato che dovrebbe essere

preso in considerazione un campione di 13000 pazienti, per avere una sufficiente capacità di individuare l’impatto di queste due differenti strategie cliniche sulla mortalità, morbilità e stato funzionale1[13]. In un altro studio (Grover et al.), su pazienti sottoposti ad intervento di

artroplastica a livello dell’arto inferiore, sembrerebbe che, sfortunatamente, un regime trasfusionale restrittivo possa essere associato ad un aumento dell’incidenza di ischemia

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Strategie per l’utilizzo del sangue autologo

Dati i ben noti rischi, rimarcati nella nostra introduzione, connessi con le trasfusioni allogenico, primo tra tutti la trasmissione di agenti infettivi quali HIV ed i virus dell’epatite, nel corso degli anni sono state sviluppate tecniche alternative fra le quali emodiluizione normovolemica acuta preoperatoria, il recupero intra- e postoperatorio e la predonazione di sangue autologo7. Il recupero intraoperatorio è, chiaramente, una strategia

intraoperatoria ma viene trattata in questo capitolo assieme al recupero postoperatorio per la sostanziale uguaglianza del principio che sta alla base delle due tecniche, differenziate principalmente dalla tempistica.

Predonazione di sangue autologo

La predonazione di sangue autologo implica che, prima dell’intervento chirurgico, sia prelevato e conservato il sangue del paziente da sottoporre all’operazione e che questo

venga somministrato, se necessario, nel periodo postoperatorio1,2,3.

Questa è l’unica modalità di autotrasfusione regolamentata in Europa: può associarsi o meno all’utilizzo di eritropoietina e può essere utilizzata in modo sicuro nei bambini e nella

popolazione anziana1.

In una meta-analisi di tre trias clinici (950 pazienti), l’utilizzo di questa tecnica è stato accompagnato da una significativa riduzione delle trasfusioni di sangue autologo; tale

riduzione è stata osservata anche in 18 studi controllati osservazionali (19239 pazienti)1[65];

risultati simili sono stati riportati in studi dell’ OSTHEO (3996 pazienti)1[7]. Uno studio

prospettico randomizzato ha, inoltre, dimostrato che l’utilizzo di questo protocollo trasfusionale associato alla somministrazione di rHuEPO, riduce in maniera più efficace la

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quota di trasfusioni allogeniche rispetto a quanto fanno le due strategie singolarmente1[66].

Altri autori ritengono invece che gli studi riportati in letteratura, riguardo l’utilizzo del predeposito in chirurgia ortopedica, siano pochi e che molte domande sulla reale efficacia di questa strategia siano ancora senza risposta2[37-39].

L’autotrasfusione mediante predeposito è una metodica ormai standardizzata in pazienti pediatrici ed adulti che devono essere sottoposti ad intervento chirurgico elettivo con richiesta trasfusionale. Se per quanto riguarda i pazienti giovani le problematiche sono minori, l’implementazione di una strategia trasfusionale autologa in pazienti anziani va valutata considerando due fattori limitanti quali la coesistenza di patologie cardiovascolari e l’anemia. Va infatti ricordato che uno dei più comuni interventi di chirurgia elettiva, l’artroprotesi dell’anca, pur essendo stato esteso negli ultimi anni a fasce di età sempre più giovani, è tuttora un tipo di chirurgia che in più dell’80% dei casi viene effettuata in soggetti di età superiore a 60 anni.

Nel corso della valutazione di un eventuale candidato ad un protocollo di autodonazione, anemia ed età sono strettamente correlate in quanto con l’invecchiamento si ha una progressiva riduzione della cellularità midollare. Tale fenomeno, anche se non è in grado di provocare anemia in condizioni fisiologiche, potrebbe tuttavia causare una minore capacità di recupero midollare in condizioni di aumentata richiesta, quale si verifica durante un programma di predeposito. Tale evento, causato da un’errata selezione iniziale, potrebbe portare all’interruzione di un eventuale programma di predeposito, con conseguente incapacità di depositare una quantità sufficiente di sangue. Per questo motivo uno dei punti critici per l’attuazione di una strategia trasfusionale è dato proprio dalla valutazione dei pazienti candidati ad eventuale programma di predeposito: essi infatti oltre al previsto consenso informato alla procedura, debbono sottoporsi a vista medica di idoneità, che associata alla valutazione di parametri quali l’ematocrito non inferiore al 33% ed Hb maggiore di 11 g/dl, deve escludere pregresse infezioni batteriche in atto,

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cardiopatia ischemica (angina instabile, infarto miocardio non antecedente a 6 mesi), cardiopatia valvolare (grave stenosi aortica), cardiopatia aritmica, eventuale anamnesi positiva per episodi di convulsioni non dominabili e diabete mal compensato.

Nel caso di pazienti anziani è importante associare una terapia supplementare con ferro per via orale (210 mg/die di ferro elementare), a partire dall’inizio della procedura di predeposito. Prima di effettuare la procedura di deposito, è necessario valutare oltre all’emocromo, la sideremia, la percentuale di saturazione della transferrina e la ferritina sierica. Nel caso di pazienti con valori di Hb tra 11 e 12, 5g/dl è inoltre opportuno somministrare rHuEPO (300UI / kg / settimana in due somministrazioni sottocute) e ferro [per os/e.v. 200 mg / die fin dai primi accertamenti (sospendere i giorni dei salassi)]. In soggetti con valori normali di Hb ( compresi tra 13 e 16g/dl) e depositi marziali adeguati, si somministrano 0,5mg di ferro e.v. per ml di sangue prelevato, oppure ferro per os in quantità proporzionale all’assorbimento stimato.

Per quanto riguarda la quantità di sangue prelevato per ogni sacca, essa è di 350 ml nei soggetti di peso superiore ai 50 Kg, mentre di 6 ml/kg se il peso è inferiore a 50 Kg.

Tutte le unità di sangue vanno raccolte in sacche contenenti CPD-A1 (citrato-fosfato-destroso-adenina, anticoagulante e conservante che permette il mantenimento del sangue fino a 35 giorni) e conservate a + 4°C; oltre alla consueta determinazione del gruppo AB0 e del fattore Rh debbono essere controllate, per quanto riguarda lo screening virologico, sia per l’HIV che per i virus dell’epatite. Il numero di unità prelevate va, generalmente, da 1 a 4 e dipende dal tipo di intervento e dalla perdita ematica prevista. Il prelievo può essere effettuato ogni 3-4 giorni: è importante sottolineare che l’ultimo prelievo può essere, al massimo, fatto 3 giorni prima dell’intervento, in modo da consentire un recupero dei valori dell’Hb, e che è necessario conoscere in maniera piuttosto sicura la data dell’intervento, poiché le singole unità di sangue possono essere conservate per non più di 30-35 giorni. Da quanto detto si evince, però, che questa tecnica risente di alcune limitazioni: la

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necessità di programmare l’intervento; il breve periodo di conservabilità delle unità di sangue; le condizioni cliniche ed ematologiche del paziente.

A ciò si aggiungono poi alcuni rischi, dei quali la metodica non è scevra: la possibilità di sviluppare reazioni vasovagali, soprattutto nei pazienti giovani, alla prima esperienza di

donazione e di basso peso corporeo3[2]; reazioni emolitiche acute, secondarie a errori da

parte del personale medico, o reazioni allergiche, in pazienti con una storia di allergie a materiali plastici o al lattice, presenti nelle sacche dove è conservato il sangue3[4]. E pure i

rischi di una trasmissione batterica tramite sangue autologo, sebbene bassissimi, non possono essere del tutto esclusi: si può verificare una contaminazione delle unità

conservate, che può causare sepsi o morte del paziente5[8-17].

Tuttavia le complicanze più importanti sono sicuramente lo sviluppo di un’anemia preoperatoria o postoperatoria. La prima porta ad interruzione del programma di predeposito e ad una maggior probabilità di ricorso a trasfusioni allogeniche dopo

l’intervento7. La prevalenza dell’anemia postoperatoria è aumentata dalla predonazione di

sangue (vecchi studi riportano valori inferiori a 9g/dl di Hb dopo l’intervento)5; diversi studi

recenti hanno sottolineato che, sebbene la quota di trasfusioni allogeniche sia maggiore nei pazienti che non hanno perdonato il sangue, il ricorso complessivo alla trasfusione è

più frequente nei pazienti sottoposti a predeposito3[6-7]. Questo, probabilmente, si spiega

con un valore preoperatorio di ematocrito più più basso, nei pazienti che abbiano effettuato il predeposito, e potrebbe portare ad un regime trasfusionale più libero, quando si ricorre al sangue autologo. In generale, sebbene in una piccola percentuale di casi possano presentarsi alcune complicanze, il predeposito di sangue non è associato all’aumento della morbilità e della mortalità del paziente, ma è bene tener presente che può accrescere il rischio di esposizione ad altri tipi di trasfusione1[65].

Da non sottovalutare sono i costi, che in molti casi possono risultare elevati, soprattutto se la metodica non è correttamente applicata e vengono raccolte unità autologhe in eccesso

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che poi restano inutilizzate6. I costi, più che alla produzione delle singole unità di sangue

autologo, sono legati alla raccolta (programmazione delle donazioni, visite ed esami più approfonditi nei pazienti con una storia clinica complicata), ad una particolare classificazione e alle condizioni di conservazione; vanno poi aggiunti i costi di eliminazione delle unità non utilizzate, le quali sono più della metà di quelle raccolte3.

Occorre segnalare che il British Committee for Standards in Hematology non raccomanda tale pratica trasfusionale, a meno che le condizioni cliniche non siano eccezionali: pazienti con un gruppo sanguigno per il quale è difficile reperire idonee unità allogeniche, bambini

con scoliosi, pazienti che che rifiutano la trasfusione allogenica ma non quella autologa1[69].

Emodiluizione normovolemica acuta preoperatoria

L’emodiluizione acuta preoperatoria e’ una tecnica autotrasfusionale che prevede la rac-colta di sangue del paziente il giorno stesso dell’intervento chirurgico, infondendo simulta-neamente soluzioni colloidi o cristalloidi per il mantenimento di un normale volume intrava-scolare. Il sangue raccolto verra’ reinfuso al paziente al termine dell’intervento. Questa metodica è attuata in casi particolari dove le perdite ematiche previste siano almeno pari a 1000 ml e l’ematocrito del paziente sia uguale o superiore al 40%, sempre che le condizio-ni del paziente non controindichino la metodica. L’emodiluizione acuta preoperatoria e’ eseguita direttamente in sala operatoria dall’anestesista, che garantisce la monitorizzazio-ne delle funzioni vitali. Fu introdotta come metodica atta ad incrementare l’utilizzo di san-gue autologo e, di consesan-guenza, il risparmio di sansan-gue allogenico. Poiché l’emodiluizione comporta un abbassamento dell’ematocrito (Hct), ciò determina una minore perdita di massa eritrocitaria in caso di emorragia intra o postoperatoria. Inoltre permette, in caso di

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necessità, di avere immediatamente a disposizione sangue autologo e lo stesso sangue può essere reinfuso senza violare alcun credo religioso. L’emodiluizione è considerata mo-derata per valori di Hct compresi tra il 28% e il 30%, profonda quando l’Hct è pari al 15%, ed strema quando i valori di Hct raggiungono il 10%. Il grado di emodiluizione raggiunta varia in accordo con le condizioni del paziente, la superficie corporea e la durata dell’inter-vento. L’utilizzo di questa tecnica è permesso dall’esistenza di meccanismi fisiologici di compensazione, che l’organismo mette in atto in risposta alla diminuzione acuta dei livelli di Hct: a valori compresi tra il 40% e il 30% si ha l’aumento della gittata cardiaca e della perfusione tissutale, dovute alla diminuita viscosità del sangue, che comporta anche una diminuzione delle resistenze alla circolazione dei liquidi a basso peso molecolare utilizzati per l’emodiluizione; i meccanismi compensatori, quando l’Hct raggiunge il 20%,

compren-dono anche un’aumentata estrazione tissutale di O2 e una sua ridotta affinità per l’Hb, la

cui curva di dissociazione viene spostata verso destra. Qualora il paziente rimanga ben ossigenato, l’aumento della gittata cardiaca riesce a compensare la diminuzione dei livelli di Hb. Di fondamentale importanza affinché i meccanismi di compensazione fisiologica mangano operanti e i tessuti ossigenati, è il mantenimento della normovolemia. Anche ri-duzioni estreme dei livelli di Hct (inferiori al 15%) possono essere tollerati se l’ipovolemia viene rigorosamente evitata. L’estrema emodiluizione è meglio tollerata in pazienti giovani che abbiano la capacità di mantenere costante la volemia. Controindicazioni assolute sono le coronaropatie, l’anemia significativa, le malattie renali, le epatopatie gravi, l’enfisema e le patologie ostruttive polmonari. Alcuni autori3 ritengono questa tecnica, che tra l’altro

per-mette di preservare i vari componenti del sangue, conveniente ed economica: essa infatti permette di ridurre la quota trasfusionale allogenica, evitando inoltre i costi legati alla

con-servazione delle unità di sangue autologo in caso di predonazione. Tuttavia altri autori10

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espo-ne il paziente non solo a rischio ischemico, ma anche emorragico per la deplezioespo-ne dei fat-tori della coagulazione.

Recupero del sangue intraoperatorio e postoperatorio

Consiste nella raccolta e nella infusione di sangue perso durante o immediatamente dopo l’intervento chirurgico. Il sangue può essere lavato (WASH) prima di essere trasfuso

oppu-re esseoppu-re semplicemente filtrato (NO WASH)2. E’ una metodica ad alto costo ed elevata

specializzazione del personale addetto. Durante tale procedura vengono utilizzate appa-recchiature ad elevata tecnologia, quali le macchine del recupero sangue, che monta-no materiale sterile e momonta-nouso. I macchinari di ultima generazione somonta-no di facile impiego e completamente automatizzati, inoltre, il programma fornito dal software consente una co-stante informazione sulla fase di lavorazione, vari livelli di controllo ed allarmi in corso di procedura. Il sangue aspirato direttamente dal campo operatorio viene raccolto in un re-servoir sterile (capacità max 3000 ml), al quale è collegata una sacca contenente una so-luzione anticoagulante; solo se la quantità è tale da giustificarne l’uso trasfusionale si pas-sa alle successive fasi di centrifugazione e lavaggio. Dopo separazione per centrifugazio-ne gli eritrociti vengono quindi mescolati ad una quantità stabilita di soluziocentrifugazio-ne salina allo 0,9%, che può variare a seconda della contingenza, ed eventualmente concentrati per poi essere trasfusi direttamente in sala operatoria oppure al termine dell’intervento. Il sangue raccolto intraoperatoriamente, infatti, può essere conservato fino a 6 ore a tempe-ratura ambiente, al fine di evitare reazioni febbrili e contaminazioni batteriche2[62]. Inoltre,

la sospensione di globuli rossi ottenuta viene purificata dagli eventuali detriti del campo

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me-diante il filtro micropore del reservoir e successivamente attraverso la procedura di lavag-gio in modo tale da ottenere un concentrato eritrocitario puro. Il recupero di sangue posto-peratorio rappresenta, infine, la prosecuzione della raccolta del sangue dai drenaggi nel decorso postoperatorio, protraendosi fino a 6 ore dopo l’intervento. Questa metodica è ac-cettata da molti culti religiosi come i testimoni di Geova che, come noto, rifiutano categori-camente la trasfusione di sangue omologo con evidenti implicazioni deontologiche e legali. Il volume di sangue recuperato rappresenta mediamente il 50% o più di quello perso, ridu-cendo in tal modo il fabbisogno trasfusionale, ma non eliminando completamente l’uso del sangue omologo; per tale motivo frequentemente il recupero di sangue viene associato alle altre tecniche autotrasfusionali. In generale il recupero intraoperatorio è indicato in cardiochirurgia e chirurgia vascolare, chirurgia ortopedica e anche in altre procedure sele-zionate, ad esempio trapianti di fegato, mentre il recupero postoperaratorio è principal-mente utilizzato in chirurgia ortopedica. Il sangue può essere sempliceprincipal-mente filtrato e tra-sfuso direttamente dopo la raccolta, ma il lavaggio consente di ridurre l’infusione di emo-globina libera, di sostanze procoagulanti e dell’eparina, quando è usata come anticoagu-lante nella procedura di recupero del sangue. E’ comunque opportuno non trasfondere quantità di sangue recuperato non lavato superiori ai 1000 ml. Il tasso di sopravvivenza post-trasfusionale degli eritrociti recuperati, nonostante alcune alterazioni strutturali, è comparabile a quello del sangue allogenico e di quello delle emazie ottenute col predepo-sito, poiché i livelli di 2,3-DPG eritrocitario non appaiono alterati. I leucociti risultano in lar-ga parte danneggiati (>75%) così come le poche piastrine superstiti, in prevalenza non funzionanti a causa del danno prodotto dalla soluzione salina utilizzata durante la fase di lavaggio. Il fibrinogeno così come gli altri fattori della coagulazione (specialmente il V, VIII e X) vengono quasi totalmente eliminati durante il lavaggio. Gli elettroliti plasmatici pre-sentano una concentrazione ridotta del 50% con l’eccezione del Na e del Cl (presenti nelle soluzioni di lavaggio) e del K (variabile tra 1 e 3 mmol/l) in dipendenza del grado di

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emoli-si, mentre l’albumina e le proteine totali vengono rimosse per il 95%. I pazienti che mag-giormente possono beneficiare del recupero intraoperatorio e/o postoperatorio sono quelli in cui il predeposito è impossibile o inadeguato alle necessità. L’utilizzo della metodica è controindicato in caso di contaminazione batterica del campo operatorio per il rischio di setticemia; l’utilizzo in chirurgia oncologica deve sempre essere associato a procedure atte alla inattivazione o rimozione delle cellule neoplastiche presenti nel recuperato (Han-sen et al. hanno mostrato che l’ irradiazione con raggi gamma è efficace nell’inattivare le

cellule tumorali presenti nel sangue recuperato3[22]), in quanto esse possono essere

aspira-te dal sito operatorio e dopo la reinfusione, entrare in circolo con il rischio poaspira-tenziale di una disseminazione della malattia12. Coagulopatie preesistenti possono essere

aggravate dall’assenza di piastrine e fattori della coagulazione nel sangue reinfuso. Pato-logie renali possono essere aggravate, in caso di non corretto lavaggio del sangue, per la presenza di emazia danneggiate ed Hb libera. L’utilizzo di questa tecnica si è dimostrato efficace nel ridurre il ricorso alla trasfusione allogenica ed i suoi rischi, legati alla trasmis-sione di agenti infettivi e alla conservazione delle sacche3[19]. Il beneficio maggiore si

ottie-ne ottie-negli interventi dove le perdite stimate sono mediamente superiori a 1000 ml10[115-117]:

precisamente, il recupero intraoperatorio dovrebbe essere indicato negli interventi dove la perdita stimata è superiore a 1500 ml, nei quali deve essere preventivato un recupero di 1,2-2 unità di sangue; il recupero postoperatorio dovrebbe essere ristretto alle procedure chirurgiche ortopediche d’elezione, dove le perdite calcolate siano comprese tra 750ml e

1500 ml, contando nel recupero di almeno 1 unità di sangue1. In uno studio controllato

ran-domizzato (Moonen et al.2[60]) i pazienti sottoposti ad intervento di artroplastica d’anca o di

ginocchio, in cui veniva utilizzato il recupero postoperatorio, necessitavano di una quota di trasfusioni di sangue allogenico significativamente inferiore rispetto al gruppo di controllo. Una meta-analisi comprendente 11 trials randomizzati (900 pazienti) ha messo in eviden-za che l’utilizzo del sistema di recupero postoperatorio con solo filtraggio del sangue (NO

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WASH) riduce significativamente il ricorso alle trasfusioni di sangue allogenico1[65];

simil-mente, i risultati di 8 trials randomizzati (655 pazienti), in cui si valutava l’efficacia dei siste-mi di recupero intraoperatorio e postoperatorio con lavaggio del sangue (WASH), hanno

mostrato una riduzione della percentuale di trasfusioni di sangue allogenico1[65-70]. Tuttavia

va sottolineato che il contributo del recupero perioperatorio nella riduzione della percen-tuale di trasfusioni allogeniche decresce, allorquando ci si attenga al protocollo trasfusio-nale. Il recupero postoperatorio con solo filtraggio del sangue è la tecnica comunemente più utilizzata in seguito ad interventi di sostituzione di protesi di ginocchio, riducendo in

maniera significativa la quota trasfusionale allogenica1[72]. Il sangue reinfuso dopo semplice

filtraggio ha un basso Hct e presenta un’elevata concentrazione di mediatori dell’infiamma-zione, di fattori della coaguladell’infiamma-zione, prodotti della rottura cellulare e di Hb libera10[121];

mal-grado ciò, il recupero di sangue dai drenaggi e la sua trasfusione dopo solo filtraggio sem-bra essere una tecnica sicura, libera da reazioni avverse clinicamente gravi, a patto che la quota infusa non sia superiore a 1000 ml e non venga raccolta oltre 6 ore dopo l’interven-to10[122].Davies et al. hanno evidenziato che le tecniche di recupero del sangue hanno

co-sti leggermente inferiori rispetto alle altre strategie trasfusionali alternative, eccetto l’emo-diluizione normovolemica acuta, e in chirurgia ortopedica l’utilizzo della tecnica di recupero

postoperatorio no wash è risultata più economica rispetto al recupero intraoperatorio10[119].

Tuttavia non sempre il recupero postoperatorio risulta essere economico, dal momento che non è possibile prevedere quanto volume di sangue sarà ottenuto. Il recupero medio è tra i 360 ml e gli 880 ml, condizionato dalla tecnica chirurgica usata, dal tipo di drenaggio

e dal paziente stesso10[123]. Il recupero di sangue perioperatorio non viene considerato

eco-nomico negli interventi primari di artroplastica, se altre misure efficaci per ridurre le perdite

di sangue sono già state attuate10. In generale questa tecnica ha rapporto costo/efficacia

favorevole negli interventi in cui la perdita di sangue è elevata6,10[115-117].Per quanto riguarda

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ad un aumento della morbilità e della mortalità, né ad una maggiore ospedalizzazione del paziente, sebbene siano riportati casi isolati di gravi reazioni avverse1[65-77].

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Utilizzo di FANS inibitori selettivi della COX-2 / Terapia antalgica

I FANS agiscono come inibitori della produzione delle prostaglandine e dei trombossani, bloccando in particolar modo l’attività delle ciclo-ossigenasi (COX), che costitusccono appunto gli enzimi centrali in tali processi.

L’utilizzo dei FANS è associato all’aumento delle perdite ematiche, tanto che i pazienti che ne fanno uso dovrebbero sospendere il loro consumo almeno una settimana prima dell’intervento, a meno che ciò non comporti gravi rischi cardiovascolari10[46],21. In uno

studio si sottolinea come il pretrattamento con Ibuprofene in pazienti sottoposti ad intervento di protesi d’anca, sia associato ad un significativo aumento delle perdite ematiche perioperatorie, consigliando la pronta sospensione dei FANS non selettivi20.

Infatti i FANS selettivi per la COX-2 (Celecoxib, Etodolac, Meloxicam, Rofecoxib) non hanno, in teoria, gli effetti indesiderati associati all’inibizione della COX-1 e non compromettono l’aggregazione piastrinica e il tempo di sanguinamento2, poiché non

alterano la produzione dei trombossani.

In un altro studio si nota che, comparando l’uso preoperatorio dell’Indometacina con quello del Meloxicam in pazienti sottoposti ad intervento d’artroplastica totale d’anca, la perdita

ematica perioperatoria è minore utilizzando il FANS selettivo per la COX-2 21.

I FANS sono largamente utilizzati in chirurgia ortopedica per ottenere un’adeguata

analgesia perioperatoria2. Il Ketorolac (Toradol, Lixidol) è un FANS che possiede un effetto

analgesico prevalente su quello antinfiammatorio e non determina depressione respiratoria o altri effetti collaterali caratteristici degli oppiacei: tali caratteristiche spiegano il suo successo nella terapia antalgica in chirurgia ortopedica. Tuttavia anch’esso è un FANS non selettivo e come tale può favorire un aumento delle perdite ematiche nel periodo postoperatorio.

Va tuttavia aggiunto che il profilo potenzialmente protettivo dei FANS COX-2 selettivi ed i loro reali benefici sono ancora in discussione2.

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Timing della profilassi antitromboebolica

La profilassi farmacologica per la prevenzione della trombosi venosa profonda con eparina a basso peso molecolare è un presidio fondamentale ed irrinunciabile in chirurgia ortopedica maggiore, poiché il tipo di chirurgia stessa e la conseguente immobilizzazione del paziente sono fattori che favoriscono lo sviluppo del processo trombotico. Possiamo suddividere in base al timing di somministrazione tre tipi di regimi: una profilassi preoperatoria, la più diffusa in Europa, dove il paziente assume il farmaco 12 ore prima dell’intervento, una postoperatoria effettuata tra le 12 e le 48 ore dopo l’intervento, ed una perioperatoria in cui la somministrazione avviene tra le 12 ore prima e le 12 dopo l’intervento.

In una review24 è stato valutato come il timing della profilassi modifichi l’incidenza non solo

della tvp, ma anche delle perdite ematiche postoperatorie: in letteratura non risultano significative differenze che riguardano l’efficacia e la sicurezza tra la profilassi preoperatoria e quella postoperatoria. Per quanto riguarda la profilassi perioperatoria potrebbe ridurre l’incidenza di tvp, ma l’effetto positivo è purtroppo controbilancianto dall’aumento delle perdite ematiche postoperatorie.

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Drenaggio postoperatorio

L’utilizzo di drenaggi post-operatori rappresenta una prassi largamente diffusa in ambito ortopedico e traumatologico, soprattutto per quanto concerne la chirurgia protesica maggiore dell'anca e del ginocchio 1,22. Questo per evitare la formazione di raccolte

ematiche in grado di determinare ritardi di cicatrizzazione, infezioni, ossificazioni eterotopiche ed emartri. Pur essendo già presenti numerosi studi scientifici che hanno evidenziato la non sicura efficacia dei drenaggi, pochi sono gli studi prospettici che comparano l'utilizzo o meno dei drenaggi in chirurgia protesica dell'anca e del ginocchio10[82]. In una recente meta-analisi, Parker et al.22 hanno concluso che non

esistono sufficienti prove per giustificare l’utilizzo routinario del drenaggio postoperatorio in chirurgia ortopedica. Gli autori non riportano significative differenze tra le ferite drenate e quelle non drenate sia in termini di complicanze (ematomi, infezioni....) sia in termini di tempi di cicatrizzazione; mentre l'utilizzo del drenaggio si associa ad un maggior numero

di emotrasfusioni, in assenza del drenaggio si ha una maggiore incidenza di ecchimosi22.

In un altro studio, Walmsley et al.23 hanno evidenziato come l'utilizzo del drenaggio non si

associ ad una riduzione del numero di infezioni della ferita chirurgica e dell’incidenza degli ematomi; gli autori concludono che l’utilizzo del drenaggio non fornisce chiari vantaggi negli interventi di artroplastica totale d’anca mentre sicuramente rappresenta un costo aggiuntivo ed espone il paziente ad un elevato rischio trasfusionale. Alcuni autori riportano che vi è una riduzione delle perdite ematiche e della domanda trasfusionale quando si fa a

meno del drenaggio, mentre altri non riportano differenze tra ferite drenate e non22. Infatti,

sebbene le perdite ematiche verso l’esterno siano ridotte, non è detto che non vi sano perdite occulte, le quali possono anche aumentare, in special modo dopo gli interventi di protesi totale di ginocchio10[84].

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studio di confronto per valutare l'efficacia dei drenaggi in chirurgia ortopedica maggiore. Sono stati sottoposti ad intervento chirugico di protesi d'anca 37 pazienti, 25 dei quali senza impiego di drenaggio e 12 con impiego di drenaggio; allo stesso modo sono stati trattati 37 pazienti sottoposti ad intervento di sostituzione protesica di ginocchio. Gli autori hanno concluso che dall'analisi di diversi parametri quali la comparsa di ematomi ed emartri, il dolore, le perdite ematiche, la necessità di ricorrere ad emotrasfusioni autologhe od omologhe, la guarigione delle ferite e la ripresa funzionale, l'utilizzo routinario del drenaggio, in interventi di chirurgia protesica di primo impianto, non risulta giustificato. Inoltre nei casi in cui non era stato utilizzato il drenaggio, è stata evidenziata una riduzione delle perdite ematiche e della quota trasfusionale.

Riteniamo quindi che l'utilizzo del drenagggi post-operatori in chirugia ortopedica maggiore rappresenti ancora un argomento dibattuto per la mancanza di chiarezza circa la sua reale efficacia. Sottilineamo inoltre che un altro fattore che contribusce in maniera significativa alla riduzione del sanguinamento perioperatorio è rappresentato dall'utilizzo di bendaggi imbottiti che esericitino un'adeguata compressione della ferita.10[85].

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