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Asher Colombo (a cura di), Figli, lavoro, vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 338.D

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RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. LV, n. 3, luglio-settembre 2014 In questa rubrica vengono recensiti libri italiani e stranieri, ad eccezione di quelli i cui autori fanno parte della direzione di questa rivista.

Asher Colombo (a cura di), Figli, lavoro, vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 338.

DaviDe Donatiello Università di Torino

Figli, lavoro, vita quotidiana è il settimo volume di Stranieri in Italia, serie inaugurata più di dieci anni fa dall’Istituto Cattaneo con l’obbiettivo di promuovere la conoscenza specia-listica sull’immigrazione. Al pari delle precedenti, questa edizione propone una raccolta di saggi frutto di ricerche empiriche originali e inedite, selezionati tra le oltre settanta proposte seguite a un call for paper pubblico che era rivolto a studiosi di diverse discipline e senza vincoli tematici. I sette saggi selezionati e inclusi nel volume sono stati raccolti – un po’ a fatica – in due grandi sezioni. Tre saggi «si oc-cupano di altrettante fasi di vita dei figli degli immigrati: la gravidanza delle madri straniere, la fase perinatale, la nascita e […] la vita scolastica» (p. 12); gli altri quattro invece «ruotano attorno ai temi del lavoro e della vita quotidiana» (p. 15).

Queste sezioni sono precedute dal saggio della sociologa transalpina Michèle Tribalat, caratterizzato da un’accesa vis polemica nei confronti del dibattito pubblico e accademico attorno al tema dell’immigrazione in Francia. Il contributo non anticipa i contenuti delle parti successive, ma

assolve la sua funzione introduttiva, delineandosi come una sorta di pamphlet in cui presunte verità sul fenomeno migratorio vengono messe in discussio-ne. L’autrice dapprima si domanda se davvero negli ultimi anni in Francia non sia successo nulla di nuovo sul fronte delle migrazioni, quindi descrive una serie di trasformazioni effettivamente avvenute (il venir meno delle condizioni base del modello di assimilazione alla francese, la crescente influenza dell’UE sulle politiche migratorie, l’accentuarsi della segregazione residenziale, l’isla-mizzazione dei giovani immigrati) e critica l’incapacità delle istituzioni, in primis quella universitaria, di cogliere la portata di tali cambiamenti. Tribalat invoca un pronto riavvicinamento della ricerca a tematiche controverse come quelle dell’integrazione e l’abbandono del politicamente corretto in favore di un atteggiamento più realista e attento al carattere conflittuale dei processi sociali. Nell’idea del curatore, ragio-nare sul caso della Francia è utile a prefigurare possibili scenari per l’Italia, dove il fenomeno migratorio è sì più recente, ma richiede comunque l’ado-zione di politiche supportate da solide conoscenze empiriche e non viziate da scorciatoie ideologiche.

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L’autore, utilizzando i dati Invalsi 2009-2010 relativi ai test di italiano e matematica, mostra che, in linea con altri paesi europei, i figli degli immigrati ottengono risultati significati-vamente inferiori ai nativi. L’analisi fa emergere la rilevanza del background familiare come «forte predittore dello svantaggio» (p. 101). Non risulta invece altrettanto importante la concentrazione di immigrati nelle classi, una situazione che produce effetti trascurabili sugli italiani e, semmai, penalizza di più gli stranieri: risultato che fa apparire poco efficaci misure come il tetto del 30% di stranieri per classe introdotto dal governo italiano nel 2010.

Il contributo di Francesca Lariccia, Eleonora Mussino, Antonella Pinnelli e Sabrina Prati è uno studio delle disuguaglianze nella salute perinatale tra italiane e straniere. I dati raccolti attraverso i Certificati di assistenza al parto, riferiti al 2003, hanno permesso alle autrici di verificare che le donne immigrate ottengono esiti riproduttivi più sfavorevoli e che tale svantaggio tende a ridursi con la stabilizzazione sul territorio, l’acquisizione della residenza, la presenza di un partner italiano, nei casi di ricorso tempestivo all’assistenza sanitaria durante la gravidanza.

Il saggio di Chiara Quagliarello è centrato sulle esperienze del parto di alcune donne senegalesi residenti nell’Alta Valdelsa. Si tratta di uno studio sull’interazione tra servizi e utenza straniera, che si avvale di esperienze etnografiche condotte presso il reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Poggibonsi, in cui viene promosso «un modello della nascita diverso da quello ospedaliero standard» (p. 125). L’autrice, osservan-do l’interazione del personale con le

donne senegalesi, descrive il difficile incontro tra l’idea di parto proposta e le aspettative delle partorienti, le quali vorrebbero ricevere un’assistenza secondo i canoni occidentali e vivono la de-medicalizzazione non come «un sinonimo di maggiore naturalità ma di minore sicurezza» (p. 135), una discri-minazione subita in quanto straniere. Un fraintendimento che non sembra potersi risolvere in quanto l’assistenza continua a essere erogata in base alla rigida contrapposizione tra modello naturale e biomedico.

La terza sezione – Lavoro e vita quotidiana – si apre con lo studio qualitativo di Anna Pinna su due comunità rom di Sassari. La ricerca illustra la gestione problematica del loro insediamento e l’inefficacia di interventi basati su una percezione stereotipata e omogeneizzante dei due gruppi: la rappresentazione dei rom come ca-tegoria indifferenziata di persone in transito ha portato le istituzioni locali alla costruzione di un campo nomadi ai margini della città. In questo spazio segregato, i dassikané serbi (ortodossi) e i xoraxanè bosniaci (islamici) – separati da un muro divisorio – riproducono da anni le loro marcate differenze e mostrano gradi diversi di interazione con il contesto locale. Osservando le pratiche quotidiane, il rapporto con i servizi e l’inclusione scolastica dei bambini, l’autrice evidenzia una certa affinità di stili di vita con gli italiani per i primi e la mancanza di condizioni minime per l’integrazione socioeconomica dei secondi.

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un’analisi comparativa centrata sul confronto con gli italiani. La compo-nente straniera del lavoro autonomo è cresciuta nonostante la crisi economica e mostra alcuni tratti peculiari. Ana-lizzando i dati Istat della Rilevazione continua delle forze di lavoro, l’autrice descrive la distribuzione degli immigrati nei diversi tipi di lavoro autonomo e tra i vari settori di attività, quindi illustra i meccanismi di accesso: se per gli italiani mettersi in proprio è una strategia più frequente per chi investe meno in istruzione, tra gli stranieri le differenze legate al titolo di studio sono meno marcate (con qualche differenza tra gruppi nazionali).

Il contributo di Cristina Calvi ricostruisce le carriere morali di al-cune donne rumene che vivono in Piemonte e che durante la dittatura di Ceausescu sono state socializzate all’ideologia del «genere di regime». La ricostruzione dei loro percorsi mette in luce diverse combinazioni di condizionamenti, opportunità e strate-gie – tra cui, appunto, la migrazione – che hanno segnato il passaggio da una situazione in cui il ruolo legittimo della donna, nella doppia veste di madre e lavoratrice, era funzionale al disegno dello stato socialista a un contesto – quello di arrivo – in cui il venire meno della pressione al «dover essere» ha coinciso con sfide inedite sul piano del riconoscimento e della definizione di nuove identità sociali, tanto nello spazio pubblico quanto in quello privato.

Chiude il volume il saggio di Cinzia Osti su alcune piccole imprese gestite da donne straniere a Bologna. L’analisi delle traiettorie di queste immigrate offre un quadro piuttosto eterogeneo: se per alcune la transizione al lavoro autonomo è strumentale e rappresenta una solu-zione di ripiego, all’opposto per altre costituisce l’opportunità di realizzarsi – il lavoro come mezzo espressivo – e dare continuità al progetto cominciato con la scelta migratoria. L’autrice considera diversi aspetti che contribuiscono a differenziare le traiettorie indagando in particolare le aspirazioni, il com-binarsi di strategie individuali e fami-gliari, le difficoltà della conciliazione, il ruolo delle figure maschili – mariti e compagni – e delle reti etniche.

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Dominique Kalifa, Les bas-fonds: hi-stoire d’un imaginaire, Paris Éditions du Seuil, 2013, pp. 394.

Corinne Doria Università di Milano

Tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo nelle società occidentali emerge e si struttura un particolare immaginario sociale, quello dei bassifondi. Rac-conti, romanzi, inchieste giornalistiche, pièces di teatro e film che mettono in scena luoghi oscuri e malsani, dove vive un un’umanità miserabile e criminale, compaiono in gran numero e conoscono una diffusione su scala mondiale. Questo universo degradato, rigorosamente urbano, si presenta – a sorpresa – come estremamente struttu-rato, dotato di sue proprie gerarchie e di una sua propria organizzazione, al punto da configurarsi come il vero e proprio rovesciamento della società «normale». Come e perché il secolo del positivismo e della rivoluzione indu-striale ha prodotto questo immaginario? Tale è la questione alla quale questo recentissimo studio (apparso all’inizio del 2013 presso l’editore Le Seuil) si propone di rispondere. L’autore, storico delle marginalità sociali e del crimine nel XIX secolo (tra le sue opere, L’Encre et le sang. Récits de crimes et société à la Belle Epoque, Paris, Fayard, 1995; Crime et culture au XIXe siècle, Paris, Perrin, 2005;

Biribi. Les bagnes coloniaux de l’armée française, Paris, Perrin, 2009), si basa su un’impressionante quantità di docu-menti di varia natura (fonti letterarie, iconografiche, carte amministrative) raccolti ed analizzati nel corso di una ricerca durata più di tre anni.

L’opera alterna costantemente una modalità descrittiva ad una modalità analitica. Oltre ad individuare gli ele-menti strutturanti di questo universo, l’autore nota come la rappresentazione dei bassifondi avvenga secondo alcune modalità ricorrenti, prima fra tutte il ricorso ad inventari ed elenchi (il che risponde ad un evidente intento di controllo e normalizzazione sociale). A mettere in scena questo mondo capovolto sono gli abitanti della società rispettabile. Essi vi si avventurano, cercano il contatto con esso e questa esplorazione segue alcune «trame» precise: a volte si tratta di un singolo personaggio (un poliziotto, un filantropo o un giornalista) che si addentra nei bassifondi per esplorarli e portarvi un po’ di giustizia; a volte si tratta di un piccolo gruppo di persone che, insieme ad una guida, vi si avventura in cerca di emozioni; altre volte la discesa nei bassifondi avviene con l’intento di farvi una «fuga poetica».

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piaghe sociali, a quello dei giornalisti in cerca di uno scoop sensazionale, al bisogno di trasgressione e fuga dal quale sono attraversate le società in fase di cambiamento. La massifi-cazione dei prodotti culturali, infine, fa sì che l’immaginario dei bassifondi si standardizzi ed internazionalizzi, al punto da poter essere considerato – per riprendere le parole dell’autore – «il primo fenomeno di mondializzazione culturale» (p. 67). I motivi – altret-tanto diversificati – che portano alla dissoluzione di questo immaginario sono parimenti identificati con precisione. La comparsa dello Stato-Provvidenza, la de-criminalizzazione della povertà, le trasformazioni che si producono nell’universo criminale (in particolare la sua internazionalizzazione), le ope-re di risanamento delle zone urbane più degradate portano alla scomparsa dell’immaginario sociale dei bassifondi, dei quali rimangono solo alcune loro componenti ad un livello residuale.

Quest’opera si distingue innanzi tutto per la scelta originale del suo soggetto: si tratta infatti del primo studio che considera i bassifondi come suscettibile di una lettura d’insieme. I lavori esistenti sul tema, per lo più di provenienza anglosassone, sono infatti soprattutto studi settoriali. Si vedano ad esempio i lavori di Richard J. Evans, Tales from the German underworld: narratives of crime and punishment in nineteenth-century, Yale University Press, 1998 e di Timothy J. Gilfoyle, A pickpocket’s tale, New York, W.W. Norton, 2006. Questo studio è però particolarmente interessante – soprat-tutto per il pubblico italiano, dal momento che nel nostro panorama i lavori sugli immaginari sociali sono affatto sporadici – da un punto di

vista metodologico. Esso prova infatti che un immaginario sociale può essere considerato un oggetto storico, con buona pace di filosofi ed antropologi che, ricorrendo sovente al concetto di archetipo, ne hanno dato una di-mensione fortemente antistorica. Un immaginario sociale è una modalità specifica con cui la società rappresenta se stessa e fonda la sua identità in un dato momento della sua storia. Pur inscrivendosi nel tempo lungo, esso mantiene una dimensione storica, e non diviene, contrariamente a quanto generalmente sostenuto – ad esempio da Attilio Mangano, Che cos’è un immagi-nario sociale, 2011 – una «costellazione di simboli senza tempo».

Serafino Negrelli, Le trasformazioni del lavoro, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 162.

Maurizio Catino

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nel capitalismo contemporaneo, un capitalismo sempre più diversificato e transnazionale, informatizzato, fondato sull’economia della conoscenza e con un profondo cambiamento del capitale umano, caratterizzato da sempre più alti livelli di scolarizzazione. Se aumenta il mondo del lavoro della conoscenza, le imprese sembrano non essere preparate per questo. Alcuni anni fa, Shoshana Zuboff (2002) aveva evidenziato come si fosse venuto a creare un vero e proprio abisso tra gli individui e le organizzazioni. Nel senso che le persone erano cambiate molto più di quanto fossero effettivamente cambiate le organizzazioni nelle quali lavorano. Da un lato individui sempre più istru-iti, in cerca di maggiore autonomia professionale e di identità. Dall’altro il mondo delle imprese che continua ad adottare modelli di gestione delle persone e di organizzazione del lavoro basati sulla vecchia società di massa e, dunque, inadeguati per la nuova realtà dei lavoratori. È sempre più difficile descrivere in modo efficace questo nuo-vo mondo del lanuo-voro, e le definizioni di postfordismo e terziarizzazione non aiutano a cogliere i tratti costitutivi di questo cambiamento. Appare più adatta, osserva Negrelli, la definizione di lavoro della conoscenza, concetto che evidenzia il forte incremento dei knowledge workers, ma soprattutto la crescita dei contenuti cognitivi e di creatività, sempre più richiesti da tutti i tipi di lavoro.

Nel volume Negrelli sfata alcuni miti e luoghi comuni, come ad esempio (cap. 1) la paura per «il lavoro rubato» dalla globalizzazione e il conseguente spettro delle delocalizzazioni, quest’ulti-me auquest’ulti-mentate ulteriorquest’ulti-mente durante la crisi finanziaria. A seguito di politiche

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della migrazione, asserisce l’autore, è socialmente embedded e ricco di capitale sociale.

Di particolare interesse è il capitolo (3), dedicato al «lavoro che resta», tra ristrutturazioni e innovazioni, capitolo che beneficia anche di alcune ricerche condotte dall’autore negli ultimi anni. Le trasformazioni del lavoro stanno avvenendo, in maniera significativa, per effetto di processi di ristruttura-zione che riguardano imprese, territori, settori industriali. Gli impatti di tali ristrutturazioni sono differenti a se-conda dei modelli di governance che li caratterizzano, e i casi di maggior successo sembrano essere quelli carat-terizzati da processi di «anticipazione strategica» delle ristrutturazioni. Quan-do le imprese e i settori produttivi hanno gestito in anticipo gli effetti delle trasformazioni del lavoro, hanno potuto avvalersi di maggior tempo e spazio per poter intervenire in modo adeguato sulla struttura e sulla qualità del lavoro, in risposta ai cambiamenti globali. Gli effetti della globalizza-zione sulle trasformazioni del lavoro sono stati messi in evidenza dalla letteratura sociologica, in particolar modo i ridimensionamenti prodotti dal decentramento (dalla contrattazione nazionale a quella aziendale), dalla deregolazione (riduzione di regole a tutela del lavoro), dalla disorganizzazio-ne sociale a seguito dell’indebolimento delle capacità organizzative dei sinda-cati e delle forme di rappresentanza degli interessi. Tali processi assumono connotati differenti nei diversi modelli di capitalismo. Negrelli afferma che oltre ai due tradizionali modelli di capitalismo, inclusivo (Austria, Belgio, Danimarca, Germania, et altri) e libe-rale (Irlanda, Regno Unito, Canada,

Australia), se ne aggiungono altri due intermedi: mediterraneo (Italia, Francia, Spagna e altri), caratterizzato da una legislazione di sostegno alle tutele del lavoro, e quello dei Paesi dell’ex blocco sovietico (Bulgaria, Estonia, Ungheria, Polonia e altri). I quattro modelli di capitalismo presentano significative differenze nell’affrontare i cambiamenti del lavoro imposti dalla globalizzazione, ma più dinamici, avanzati e adeguati per il lavoro della conoscenza sono quelli inclusivo e liberale. L’Italia non è in una buona posizione.

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organizzazioni, tale dimensione è molto spesso negletta, non riconosciuta adegua-tamente, né valorizzata, da chi gestisce quelle organizzazioni. È, tuttavia, vero che la dimensione cognitiva è tuttora molto presente anche in diversi lavori manuali, come per i tecnici ad esempio.

Un ulteriore paradosso che emerge, riguarda (cap. 5) la relazione tra le trasformazioni del lavoro e il livello di soddisfazione. I cambiamenti dei contenuti del lavoro prima evidenziati, con il maggior sviluppo di conoscen-ze e di capacità innovative richieste, dovrebbero portare ad una maggiore soddisfazione nel lavoro da parte delle persone. Tuttavia, si registrano andamenti contrari alle aspettative, in parte spiegabili dalla continua erosione dello status occupazionale che riguarda alcune categorie più di altre, e alle diseguaglianze di genere e generazionali che caratterizzano il mercato del lavoro, soprattutto in Italia, con le diverse forme di segmentazione e dualismo acuite ulte-riormente dalla crisi finanziaria. Inoltre, l’insoddisfazione del lavoro è favorita dall’instabilità occupazionale, dalle sem-pre meno favorevoli condizioni in cui si svolge il lavoro - fisiche e mentali (cap. 6), dal trattamento economico, dagli orari di lavoro, dalle difficoltà di conciliazione con il tempo di vita.

In conclusione, s’interroga l’autore, se le varietà dei capitalismi è stata caratterizzata da processi convergenti di de-regolazione, decentramento e ri-dimensionamento dei regimi di welfare, e dal prevalere della dimensione del saper essere sul saper fare, come mai tali cambiamenti non sono avvenuti con la stessa intensità nei diversi modelli di capitalismo e come mai persistono livelli così differenziati di soddisfazione del lavoro? Una possibile spiegazione

è che i meccanismi istituzionali di regolazione dell’economia e del lavoro siano determinanti per l’impatto e le risposte alle sfide poste dalla globa-lizzazione. Diventa, dunque, rilevante comprendere le differenti modalità con le quali i diversi modelli considerano e gestiscono i lavoratori con più alto potenziale. È un monito per la futura ricerca su questi temi.

Il quadro delle trasformazioni del lavoro analizzate nel libro da Serafino Negrelli, oltre a costituire un’ampia e profonda analisi (micro e macro) dei cambiamenti del lavoro in relazione ai cambiamenti socio-economici, co-stituisce anche un’importante base di riflessione per l’azione, per costruire politiche pubbliche, a diversi livelli, per poter gestire in maniera proattiva, e con anticipazione strategica – direbbe l’autore, i cambiamenti in corso. Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, Lega e Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 229.

Martina avanza Università di Losanna

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Lega, ma piuttosto il fatto di non aver valorizzato meglio il materiale empirico di prima mano da loro prodotto. Il libro è infatti costruito in tre capito-li: il primo traccia la storia tortuosa della Lega (dalla fase «etnica» delle leghe regionali alla Lega di governo berlusconiana, passando dalla Lega secessionista), il secondo ne dettaglia la geografia d’insediamento (centrata sulla fascia pedemontana a partire dalla quale il partito ha conosciuto fasi di espansione o al contrario di arroccamento), il terzo tratta del per-sonale politico del partito dai militanti ai parlamentari. Solo in quest’ultimo capitolo il materiale empirico all’origine del libro viene utilizzato. Nei due primi capitoli (che riprendono tra l’altro la struttura del libro ormai classico di Ilvo Diamanti sulla Lega), la ricerca svolta dagli autori non è utilizzata. Passarelli e Tuorto sostengono che questi due capitoli permettono di rileggere in una nuova chiave le vicende del partito che fu di Bossi, ma, per chi conosca la letteratura sulla Lega, questi due capitoli, se ne sintetizzano in maniera efficace le principali conclusioni e ne attualizzano i dati, non portano risultati nuovi. In questa recensione ci si concentrerà perciò soprattutto sul terzo capitolo del libro.

Il cuore del libro, infatti, è costi-tuito da questo capitolo, il più lungo e argomentato, che analizza il partito dall’interno, soffermandosi sui diversi livelli (organizzazione, eletti, militanti, elettori) che lo compongono. Il capitolo tratta della questione del modello di partito al quale la Lega può essere associata (questione complessa a fronte del carattere camaleontico della Lega) e del modello organizzativo che ha sviluppato, in bilico tra il partito (la

cosiddetta «Lega di governo») e il movimento (la «Lega di battaglia»). Questi aspetti sono affrontati in ma-niera interessante poiché gli autori non vogliono dare una risposata univoca e quindi forzatamente riduttiva secondo la quale la Lega, secondo le ipotesi sviluppate nella letteratura specialistica, sarebbe un partito etno-regionalista, di massa, populista, oppure di estrema destra. Al contrario, la questione del modello di partito e organizzativo vie-ne analizzata in maniera storicamente situata, mostrando come la Lega abbia attraversato diverse fasi nelle quali l’accento veniva messo su un aspetto specifico della sue varie anime.

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buona base di reclutamento di quadri e candidati al Parlamento per il partito). Al contrario, gli altri partiti (di destra come di sinistra) tendono sempre più a reclutare persone dotate di un forte capitale sociale (per la loro posizione professionale soprattutto), ma senza una significativa esperienza politica, oppure senza esperienza alcuna. Quindi, se si può parlare di professionalizzazione del ceto politico leghista, questa non rimette in causa la centralità dell’orga-nizzazione partitica che è una costante della storia del partito.

Per quanto riguarda i militanti, la ricerca di Passarelli e Tuorto permette di evidenziare un profilo abbastanza distintivo: i militanti leghisti sono uomini (76% del campione sondato), più giovani della media degli elettori settentrionali e più diplomati di quello che le ricerche precedenti e gli stereotipi sul leghista grezzo e ignorante lasce-rebbero pensare (il 60% del campione sondato è diplomato, il 20% laureato, valori più elevati rispetto al dato me-dio). Vengono invece confermati altri dati già conosciuti: la base leghista è composta in maggioranza da lavoratori autonomi e da persone meno praticanti della media. Si tratta di una base dalla forte partecipazione che non si limita a prendere la carta, ma è attiva nelle sezioni, nelle associazioni del partito e nei comuni che questo amministra. Se questo profilo sociografico è interes-sante, la categorizzazione dei militanti in 4 tipi (qualunquisti, conformisti, conservatori, estremisti) basati sulle risposte a domande di opinione (che servirebbero a costruire una gradazione di «autoritarismo» e di «consapevolezza politica») ci sembra avere una portata euristica limitata. Questa tipologia sarebbe forse risultata più interessante

se gli autori l’avessero incarnata con dei ritratti di militanti intervistati, il che avrebbe anche permesso loro di valorizzare maggiormente il materiale raccolto.

Sul fronte degli elettori, gli autori riprendono la loro tesi della normalizzazione della Lega. Infatti, se l’elettorato leghista rimane a leggera prevalenza maschile, è più giovane della media, meno istruito di altri e con una significativa componente di lavoro autonomo, questo elettorato, dai dati che emergono dalle elezioni del 2008, sembra normalizzare le sue caratteristiche: il divario di genere è sempre più ridotto, l’età media sale, l’istruzione è ormai nella media e le fasce non riconducibili al lavoro au-tonomo sono ornai ben rappresentate. A questa «normalizzazione» sociologica non sembra corrispondere una «nor-malizzazione» ideologica, visto che gli elettori leghisti si situano sempre di più a destra sia per auto-percezione sia rispetto alle risposte che forniscono su alcuni temi (in primis l’immigrazione). Siamo quindi di fronte a una dinamica che è al contempo di normalizzazione e di radicalizzazione.

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leghista sarebbe migliore se i libri, così numerosi, sul partito fossero, come questo, empiricamente fondati. Ettore Recchi, Senza frontiere. La libera circolazione delle persone in Europa, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 262. GeMMa SCaliSe

Università di Firenze

L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. La libertà di movimento degli europei nel continente, oggetto di studio del volume di Ettore Recchi, può considerarsi una di quelle «realiz-zazioni concrete», a cui alludeva Robert Schuman nella sua Dichiarazione, che favoriscono la creazione dell’Europa «dal basso». Questo libro nasce da un articolato programma di ricerca internazionale che ha permesso all’A., coordinatore di tre progetti di ricerca finanziati dalla Commissione europea dal 2002 ad oggi, di studiare empiri-camente la mobilità interna in Europa. L’obiettivo principale del volume è quello di ricostruire le esperienze dei cittadini europei che hanno fatto uso in modo sistematico del diritto di libera circolazione – il 2-3% di europei che hanno deciso di vivere in un paese diverso da quello di cui sono cittadini in prima battuta – intrecciandole agli sviluppi dell’integrazione degli ultimi decenni.

Il testo, composto da sei capitoli, è strutturato in due parti principali, che costituiscono due diversi piani di analisi. Nella prima parte sono ripercorse le tappe della libera circolazione

inter-statuale in Europa, analizzate alla luce delle trasformazioni tipiche della tarda modernità e di quei processi di trans-nazionalizzazione che vanno a ridefinire le «spazialità» geografiche, politiche e culturali e che investono i valori e le relazioni sociali nelle società europee (introduzione e cap. I). All’esame delle politiche in cui la libertà di circolazione si sostanzia segue l’analisi del significato politico-culturale dell’espansione dei diritti di mobilità, tenendo conto dei ripiegamenti neo-nazionalisti e delle proposte di revisione delle regole di Schengen affiorati negli ultimi anni. Degli approfondimenti sono dedicati al programma Erasmus, al portale Eures ed al sistema Schengen, azioni chiave che facilitano la libera circolazione e che permettono di comprendere le logiche economiche e politiche alla base del sostegno dell’UE alla mobilità intraeuropea (cap. II).

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quarantotto in profondità) e di livelli di analisi macro e micro fa sì che l’A. non si limiti a uno sguardo d’insieme ma riesca a descrivere con precisione chi sono gli europei mobili, cosa fanno, quando hanno migrato, dove e perché (cap. III).

L’attenta ricostruzione di tali espe-rienze di mobilità mette in evidenza quanto queste siano mutate rispetto alle migrazioni tipiche del secondo dopoguerra e come il processo di inte-grazione, insieme al miglioramento della qualità della vita nell’Europa mediter-ranea, abbiano incentivato spostamenti in direzioni diverse dalla tradizionale migrazione da Sud al Nord Europa. Uno dei principali contributi che il volume è in grado di offrire consiste nel richiamare l’attenzione su questa «minoranza strategica» che beneficia di una condizione privilegiata rispetto alla popolazione globale dei migranti e che è centrale per comprendere i modelli di migrazione non tradizionale. Gli europei, infatti, sono protagonisti di progetti migratori innovativi, per i motivi che li muovono e per la cornice politica entro cui organizzano la loro vita e, considerando la migrazione in chiave flessibile e volta a più obiettivi, vanno a delineare modelli di mobilità meno strutturati rispetto alla migrazione «classica» conosciuta nel continente, che si prestano solo parzialmente ad essere interpretati attraverso le categorie classiche degli studi sulle migrazioni. Nonostante si abbia a che fare con una popolazione composita e non unitaria, nel libro si riesce a ricondurre tale diversità a una tipologia di europei mobili fondata su quattro profili: i la-voratori altamente qualificati; i migranti pensionati che scelgono aree climatiche più miti nell’Europa meridionale; i

pen-dolari pre-pensionamento (a metà tra le due categorie precedenti); ed i migranti tradizionali di ultima generazione, con caratteristiche simili ai migranti econo-mici tradizionali (per istruzione, occu-pazione e rapporti con i connazionali).

Un approfondito lavoro di analisi dei dati, svolto attraverso la tecnica delle corrispondenze multiple, mette in luce la frattura di motivazioni, chance di vita e percorsi di integrazione tra i cittadini mobili della vecchia (EU15) e della nuova Europa (EU27), legata principalmente a due macro-fattori: status socioeconomico e competenze interculturali (cap. IV). Per gli europei occidentali prevalgono progetti migratori non guidati da motivi economici e la dimensione affettiva determina la mag-gior parte delle esperienze di mobilità. Il carattere privilegiato in termini di livello di istruzione e background socioecono-mico fa sì che essi sfuggano alle dina-miche tipiche dell’esperienza migrante tradizionale, quali segregazione sociale e mobilità discendente. La maggior parte degli europei mobili occidentali appartiene a strati sociali medio-alti e mantiene tale posizione in seguito alla mobilità; coloro che appartengono a strati inferiori riescono a scalare la piramide sociale nel mercato del lavoro europeo più dei loro omologhi rimasti in patria. Non è così per gli europei centro-orientali, più vicini al modello migratorio del secondo dopoguerra, sia nelle condizioni di partenza che nei percorsi di integrazione. Sono lavoratori a bassa qualificazione, i cui percorsi sono caratterizzati dalla persistenza di barriere culturali ad un’integrazione di successo e che, in alcuni casi, sperimentano tipi di immigrazione «segregata».

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volume, dove l’A. riflette sui compor-tamenti politici degli europei mobili (cap. V) e sul nesso tra mobilità e identità europea (cap. VI). L’analisi dei comportamenti di voto e della partecipazione politica degli europei mobili porta a concludere che esperire la mobilità non significa consapevolezza degli entitlements politici derivanti dalla cittadinanza europea, né è presupposto per l’attivismo civico. Al contrario, la mobilità porta all’apprezzamento della cittadinanza europea in chiave identitaria e alla maturazione di un legame con l’UE più forte rispetto alla maggioranza della popolazione europea, attaccamento che si consolida con la pratica, l’esperienza e i legami sociali intessuti fuori dai confini nazionali.

Il volume fornisce un importante contributo al dibattito scientifico inter-nazionale sul tema e, in un periodo storico in cui le contraddizioni dell’uni-ficazione monetaria e la debolezza democratica dell’UE portano l’opinione pubblica a guardare all’integrazione con diffidenza, quest’opera spinge a riflettere su più ampi interrogativi legati al significato della cittadinanza europea, sollecitando ulteriori spunti di ricerca e di discussione che possono interessare non solo la comunità accademica, ma una più ampia platea di lettori. Franco Rositi, I valori e le regole. I termini della teoria sociologica, Napoli, Liguori, 2014, pp. 360.

aMbroGio SantaMbroGio Università di Perugia

Quello di Rositi è un libro «alla ricerca»: alla ricerca dei fondamenti teorici della disciplina che

profes-siamo. Non si tratta quindi di una esposizione di concetti fondamentali, presentati con un approccio che può essere più o meno completo oppure più o meno critico, quanto piuttosto di una densa, argomentata e proble-matica indagine su quali siano le basi teoriche di una scienza perennemente in crisi. Non resoconto, ma indagine quindi, che lascia naturalmente molti punti in sospeso, ma che tuttavia molto anche dice. Innanzi tutto sul metodo di indagine, che è problematico, aperto, curioso, sfrontato: un metodo che oggi sembra essere sempre più dimenticato, in nome di metodologie tecniche ed asfittiche, che al coraggio del pensiero sostituiscono la correttezza formale nei confronti di procedure e canoni stereotipati.

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ai sistemi normativi come a dei corpi testuali. La terza parte – La comuni-cazione opaca – offre una discussione dell’ideologia (capitolo ottavo) e della menzogna (capitolo nono), sofferman-dosi in particolare sui rapporti tra ideologia e conoscenza, da un lato, e tra queste ultime e democrazia, dall’altro. L’ultima parte, la quarta, – Questioni metodologiche –, contiene un importante capitolo (il decimo) sulla funzione comprendente della sociologia ed un ultimo (l’undicesimo) sul rapporto tra struttura del senso e strutture dei dati. Quest’ultima parte, significativamente, fa vedere come anche in Durkheim, ad esempio nella sua analisi del suicidio, «la connessione tra causa ed effetto è di natura concettuale piuttosto che empirica» (p. 292), al fine di sottolineare il ruolo specifico che la teoria svolge nelle discipline sociali, che studiano connessioni di senso.

Come si vede, si tratta di un testo ricco e complesso, difficilmente riassumibile, che esplora molti concetti sociologici (individuo, valore, norma, devianza, ideologia, senso, ecc.) at-traverso un confronto serrato sia con gli autori classici che con i principali filoni teorici contemporanei. Due sono però a mio avviso le chiavi di lettura fondamentali presenti in tutto il lavoro: la prima è una riflessione sul signifi-cato e sul ruolo della teoria sociale e sociologica, questione che, seppur non direttamente affrontata, attraversa praticamente ogni pagina; la seconda è il rapporto tra valori e regole, cioè tra gli aspetti diversamente normativi che caratterizzano i rapporti tra individuo e società o, più in generale, tra privato e pubblico.

Iniziamo dalla seconda chiave, pre-sente nel primo capitolo, che fornisce

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dire anche interessati, «gli attori collet-tivi» (p. 29). Una volta inseriti questi ultimi, l’analisi cambia completamente perché appare una rappresentazione di un «noi» molteplice, che sta tra individuo e società, capace di costituire enti sociali, non solo di prendere atto della loro esistenza. Così facendo, si mette in luce il carattere non neutro, non solo meramente constatabile, del macro. L’ulteriore passo analitico fatto a questo punto da Rositi porta alla distinzione tra due tipi di intenzionalità soggettiva in termini di «noi»: il «noi plurale», e cioè il noi che anima la rete di relazioni intersoggettive; e il «noi singolare», il noi che caratterizza, in particolare, le istituzioni politiche e, in primis, lo Stato. Compaiono così più nettamente rispetto a Coleman – e alla teoria della scelta razionale – la rete delle relazioni e l’idea di unità politica, intese come due situazioni autonome e tra loro in reciproco rapporto. Alle tensioni tra individuo e società si so-stituiscono, come chiave interpretativa della distinzione micro/macro, quelle tra privato e pubblico, variamente articolate a seconda di cosa si intende per «politico» e di quali funzioni si attribuiscono allo Stato.

La seconda chiave di lettura, si è detto, riguarda la nozione stessa di teoria. A questo proposito, l’indagine presente in tutto il volume articola e mette alla prova i vari significati che essa può assumere: relazione tra varia-bili, spiegazione dei motivi alla base dell’azione, processo di imputazione causale, fondamento antropologico della ricerca, ricostruzione di una sequenza storica di eventi, ecc. Attraverso l’uso di un atteggiamento critico – che si esercita, come abbiamo visto, in particolare contro l’utilitarismo e la

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terapeutica, ma innanzi tutto un gua-dagno di conoscenza» (p. 259). Ecco così definito chiaramente il compito della sociologia e, forse più in generale, di tutte le scienze sociali: «la ricerca sociale dovrebbe essenzialmente chiarire ciò che non è chiaro ai soggetti agenti e che tuttavia è interno a loro stessi, ciò che è in loro senza che da loro ne sia conosciuta la felicità o l’infelicità possibile; e riattivare in questo modo, non più solo su testi più e meno sacri, ma sulla comune viva soggettività e sulla sua viva storia, l’antico gioco dell’ermeneutica nel senso proprio di una scoperta di ciò che è comunque (in molti modi possibili) nascosto» (pp. 304-305).

Non resta quindi che consigliare a tutti, ma soprattutto ai giovani ri-cercatori, la lettura di un libro utile e profondo, capace di argomentare e scavare laddove le cose appaiono, anche colpevolmente, banali e scontate. Jonathan H. Turner, The Problem of Emotions in Societies, New York, Routledge, 2011, pp. 86.

MaSSiMo Cerulo Università di Torino

L’ultimo libro del sociologo sta-tunitense Jonathan H. Turner è una guida al ruolo delle emozioni nella società contemporanea. Pubblicata da Routledge nell’utile collana «Framing 21st Century Social Issues», il volume si pone come obiettivo di fornire una spiegazione psico-sociologica delle emo-zioni nella società, concentrando la sua analisi sul ruolo problematico che esse svolgono nel mondo contemporaneo in quanto ipotetiche generatrici di azioni

individuali e collettive marcate da forte violenza. Il testo si compone di una prefazione e di quattro capitoli: Why are Humans So Emotional?; The Dark Side of Emotions; The Stratification of Emotions; The Effects of Emotions on People and Societies.

La teoria da cui prende le mosse l’autore – già esplicitata nel precedente testo del 2007 Humans Emotions: A Sociological Theory e che ha molto il sapore della teoria sociale di Gabriel Tarde – è che le società sono create e tenute insieme, nel loro nucleo, dalle emozioni provate dai soggetti che ne fanno parte. Gli essere umani necessita-no di emozioni per dare vita a legami sociali che, a loro volta, andranno a costruire strutture sociali. Non vi è via di uscita da questa sicurezza che appare ontologica agli occhi di Turner, in quanto basata su prove biologiche e di selezione naturale. È quindi importante cercare di comprendere e maneggiare con intelligenza le emozioni provate in società al fine di non rivolgersele gli uni contro gli altri.

L’ipotesi principale del volume è che vi sia, nelle società attuali, uno squilibrio di emozioni in termini quantitativi: secondo Turner, l’artico-lata stratificazione sociale ha portato a una ineguale distribuzione di tutte le risorse, emozioni comprese. Queste ultime però, essendo fondamentali per il mantenimento della vita in comune e di rapporti pacifici tra gli individui, destano preoccupazione quando pen-dono verso il loro «lato oscuro», ossia quando si crea un forte squilibrio tra le emozioni negative e quelle positive.

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primarie universalmente riconosciute sono quattro, di cui ben tre negative – paura, rabbia, tristezza – e soltanto una positiva – felicità. È quindi facile che le prime abbiano la meglio nella vita quotidiana degli individui e che, mixandosi tra loro, diano vita a emo-zioni derivate altrettanto preoccupanti per la vita in comune: tristezza, ansia, malinconia, panico e, soprattutto, ver-gogna (shame) e rimorso (guilt). La tesi principale sostenuta da Turner è che coloro che si situano nelle classi medio e basse della stratificazione sociale saranno maggiormente portati a provare emozioni negative, a causa di condizioni e contingenze sociali e strutturali con cui dovranno fare i conti (crisi economica, gestione fami-gliare, problemi lavorativi, mancanza di capitale economico, ecc.), mentre i soggetti appartenenti alla upper class potranno godere di un surplus di energia emozionale positiva derivante dai privilegi che i ruoli ricoperti con-feriscono loro.

Per quanto Turner non approfon-disca la spiegazione su tale distinzione emozionale tra individui appartenenti a classi differenti, è molto utile il focus che egli propone sui diversi livelli di formazione dell’identità, distinguendo tra: role-identity, group-identity, social-identity, core-identity. Il livello di intensità emozionale aumenta passando dall’identità di ruolo (padre, figlio, studente) a quella nucleare (l’identità che ci rende unici in quanto perso-ne), mentre il livello di costruzione della personalità si costruisce in senso inverso.

Il punto principale che Turner sottolinea nella sua analisi è che, nel processo di costruzione dell’identità, anche le emozioni vengono costruite

dai soggetti in base a due condizioni basilari: 1) che avvenga o meno il soddisfacimento delle aspettative che ogni ruolo ricoperto porta con sé e 2) che si ricevano sanzioni positive o negative rispetto alle azioni sociali messe in atto durante il ricoprimento dei differenti ruoli (p. 23). In base a come si incastrano queste due condizioni basilari, si costruiranno e intrecceranno tipi diversi di emozioni provate e messe in comune in maniera differente in relazione ai ruoli ricoperti. Ad esempio, suggerisce Turner, se un figlio viene trattato male, umiliato, o ancora ignorato dai genitori, sarà facile che le sue emozioni principali saranno negative, quella vergogna e quel rimorso sopra citati, ossia due emozioni che il figlio costruisce sul richiamo violento dei genitori, o auto-colpevolizzandosi per non essere in grado di attirare la loro attenzione.

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a una eventuale «punizione sociale», oppure dare vita ad azioni collettive in cui le emozioni negative aumentano esponenzialmente di intensità e pos-sono mettere a rischio la basi stesse della società (rivoluzioni, guerre, atti di terrorismo, che l’autore passa in rassegna nell’ultimo capitolo).

Si tratta nel complesso di un libro chiaro, schematico e foriero di stimoli e riflessioni per chi lavora con le emozioni nell’ambito delle scienze sociali e umane. Colpisce tuttavia l’assoluta mancanza di richiami alla teoria sociale francofortese e, nello specifico, agli studi adorniani sulla personalità autoritaria che, nel discorso sulla repressione e conseguente sfogo delle emozioni negative, resta pietra miliare nel campo degli studi psico-sociologici.

Massimo Pendenza (a cura di), Clas-sical Sociology Beyond Methodological Nationalism, Leiden and Boston, Brill, 2014, pp. 258.

eManuele roSSi

Università degli Studi Roma Tre Ha scritto Carlo Mongardini, riferendosi ai classici della sociologia e ai loro studi, che «certe opere sono eterne proprio perché riescono a fornire ad ogni epoca dei frammenti di verità. È nostro compito quindi andare alla scoperta di quelle verità che queste opere ci presentano in relazione ai nostri problemi, ai nostri modelli in-terpretativi, alla nostra concezione del mondo». Ed è proprio questo lo sforzo che hanno compiuto gli autori dei contributi raccolti nel volume dal titolo Classical Sociology Beyond

Methodolo-gical Nationalism, curato da Massimo Pendenza, in cui, con grande chiarezza di analisi, si ricostruiscono le cause e si cerca di comprendere le motivazioni alla base di una crescente ostilità nei confronti della sociologia classica, considerata da più parti incapace di leggere e di interpretare le dinamiche di un mondo sempre più complesso e instabile come quello contemporaneo. Si tratta di un mondo in cui i processi di «liquefazione» – ben descritti da Bauman – ci presentano una realtà ormai priva di riferimenti stabili, dove l’idea stessa di società e delle sue grandezze costitutive, come tempo, spazio, confine, limite e distanza – per usare un’espressione di Marx – «si dissolvono nell’aria» e quelle stesse strutture che sembrano mantenere intatte le loro fattezze ad uno sguardo più attento si presen-tano come gusci vuoti, orfane delle loro funzioni e della loro vitalità. Di fronte a tali trasformazioni ad essere sotto accusa – scrive Massimo Pendenza – «è soprattutto la capacità esplicativa del pensiero classico, se e fino a che punto sia adeguato ai fini di una appropriata comprensione del mondo di oggi, caratterizzato da un alto livello di connettività globale, da una certa opacità dei confini geografici e da una condizione di vita segnata dalla sempre più alta interconnessione tra globale e locale».

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la società come un equivalente dello stato nazione, a focalizzare l’attenzione sulle strutture e sui processi interni a spese di quelli esterni e globali» e, in quanto tale, incapace di guardare oltre tali rigidi schemi interpretativi con conseguente riduzione epistemo-logica, teoretica e metodologica della realtà. Da qui la richiesta di superare il framework classico «a vantaggio di un paradigma alternativo che rinunci allo stato nazione come dominio della ricerca empirica e adotti il globale come definitivo riferimento ontologico».

Tale è la posizione di Ulrich Beck, il quale – come sottolinea Massimo Pendenza – realizza un vero e proprio strappo con l’eredità classica dei padri fondatori della sociologia, emettendo una vera e propria sentenza verso questa eredità della disciplina, dichiarando perentoriamente la sua inutilità nei con-fronti della «natura» ormai globalizzata della realtà. Secondo Beck, infatti, «i classici della moderna scienza sociale come Émile Durkheim, Max Weber e anche lo stesso Karl Marx condivi-dono una definizione territoriale della società moderna, quindi del modello di società nazional-statale, che oggi è messo in discussione dalla globalità e dalla globalizzazione». In realtà, in tale convinzione non sembra esservi nulla di nuovo; già Friedrich H. Tenbruck, in un interessante saggio dal titolo Che valore hanno, oggi, i classici, aveva sottolineato l’esistenza, nell’ambito della nostra disciplina, di una tradizionale diffidenza nei confronti dei classici e delle loro teorie a cui l’atteggiamento radicale di Beck può essere chiara-mente ricondotto. E, tuttavia, proprio a coloro che, con grande veemenza, si schieravano contro l’operato dei classici, Tenbruck consigliava di essere

cauti e di fare particolare attenzione poiché «ora, è senz’altro giusto che di fronte a noi stanno nuovi sviluppi, che i classici non conoscevano; altrettanto giusto è che non possiamo considerare nessuna teoria (nemmeno le teorie classiche) come valida una volta per tutte, dovendo sempre lasciare spazio per nuove teorie; ma non è giusto che ogni nuovo sviluppo richieda una nuova teoria. Il fatto che si debba andare oltre i classici risulta essere una scelta positiva soltanto se siamo in grado di motivare dove e come ciò sia necessario. In caso contrario nasce una irrequieta avidità di novità, nella quale la scienza perde la memoria».

Pur riconoscendo la necessità di attualizzare il compito della sociologia e di superare la struttura epistemica del nazionalismo epistemologico, secondo gli autori del volume, occorre compiere un passo ulteriore, l’unico in grado di rendere giustizia alla sociologia classi-ca, e cioè quello di operare «dentro e non al di là di questa tradizione». In altri termini, è necessario rimanere «all’interno della struttura epistemica espressa dalla teoria sociale classica e legata, ancora per intenderci, al pro-gramma di ricerca che ha condiviso l’esperienza della formazione dello stato-nazione moderno». E tutto ciò nella convinzione che sia effettivamente possibile individuare nella cassetta degli attrezzi dei classici della sociologia quelle categorie analitiche capaci, non solo di comprendere ed interpretare le complesse dinamiche di un mondo in continua trasformazione, ma anche e soprattutto di oltrepassare «lo spazio reificato dello stato-nazione».

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ripartendo proprio dai classici della sociologia, cercando nelle loro opere nuove e stimolanti dimensioni inter-pretative. Ed è proprio questo uno dei tanti meriti di questo volume che, con solide argomentazioni, cerca di smontare passo dopo passo le accuse dei critici e di dimostrare che gli studi dei classici di un secolo fa contengono «elementi di riflessione tuttora validi per comprendere il tempo presente». Per avvalorare tale tesi, Pendenza segue tre ipotesi interpretative, presentate nella sua incisiva Introduzione al testo, corrispondenti poi alle tre parti di cui si compone il volume:

La prima ipotesi interpretativa parte dalla necessità di «mostrare che la sociologia classica non ha mancato di occuparsi del mondo globale». È sufficiente far riferimento alle riflessioni di Marx, di Comte e di Weber – per il quale il senso dell’agire si dirama nell’infinito e va inevitabilmente oltre il sociale – per rendersi conto che gli autori classici, pur seguendo itinerari d’analisi diversi, avevano piena coscienza dell’esistenza di complesse relazioni tra le questioni nazionali e quelle globali. Questa consapevolezza ha permesso loro di guardare all’umanità come a una totalità universalizzata e per questo possono rientrare a pieno titolo tra gli esponenti di una vera e propria sociologia globale dell’umanità. Tale è il tentativo compiuto dai saggi conte-nuti nella prima parte del volume, in particolare quello che Vittorio Cotesta dedica al pensiero di Georg Simmel, quello di David Inglis sull’attualità di Ferdinand Tönnies e quello di Emanuela Susca sulla sociologia di Vilfredo Pareto. La seconda ipotesi interpretativa mira a dimostrare che la sociologia classica si è sempre occupata del

so-ciale piuttosto che del nazionale, dove «sociale» – scrive Massimo Pendenza – «è già evidentemente trans-nazionale». Anche qui è sufficiente il riferimento alle opere dei classici della disciplina per rendersi conto di come il campo specifico della sociologia sia sempre stato il «sociale». E così se Durkheim percepisce la potenza della società attraverso i fatti sociali, veri e propri «stampi in cui siamo costretti a versare le nostre azioni» e Max Weber riesce a leggere e interpretare le dinamiche della realtà attraverso «la relazione tra gli uomini», Georg Simmel ritiene che lo studio del sociale sia prioritario e che per comprendere il sociale stesso vi sia bisogno di una sociologia in grado di astrarre l’elemento puramente sociale dalla totalità della storia umana – cioè da ciò che accade nella società – per dedicargli particolare attenzione o, per dirla con brevità in un certo senso paradossale, ricercare ciò che nella società è la società. A tale problematica è dedicata la seconda parte del volume, in particolare i contributi di Michael Schillmeier e di Dario Verderame.

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mondiale», Pendenza scopre che la sociologia di Durkheim, a dispetto di molti suoi critici, è pervasa da un sentimento inedito che è al tempo stesso nazionale e cosmopolita e soprattutto «rispettoso dell’autonomia dell’indivi-duo e di quella delle altre comunità nazionali». Un sentimento che da solo è capace di scardinare quella sostan-ziale equivalenza tra società e nazione in cui la sociologia di Durkheim è stata per troppo tempo relegata. Una convinzione, questa, alla base anche dei contribuiti di Federico Trocini e Austin Harrington, i quali non solo cercano di recuperare l’apporto dei classici al tema della nazione e del nazionalismo, ma riescono a riscattare la dimensione storica dello stato nazionale evitando di trattare quest’ultimo come la necessaria forma socio-politica della modernità. Ed è proprio a partire da un rinnovato legame tra storia e sociologia che – secondo gli autori – è possibile riconsiderare «il nesso storico e dinamico tra individuo, relazione, nazionale e transazionale in una visione complessiva che non finisca per cristallizzare quel nesso in una traiettoria lineare o, peggio, schiacciata sul presente».

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