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ATLANTE NOMADE 1

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Academic year: 2021

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ATLANTE

NOMADE

CAPITOLO

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30 | C APIT OLO 1

CAPITOLO 1

ATLANTE NOMADE

DISPOSITIVI

NOMADI

Il capitolo presenta un primo excursus di come la cellula abitativa si sia modificata spazialmente e concettualmente nel tempo, andando a tocca-re tutte le caratteristiche e peculiarità delle diverse epoche o dei momenti storici particolari.

In una seconda fase si affronta, sotto forma di schede grafico-analitiche, il tema del vivere nomadico contemporaneo attraverso progetti non legati al concetto di abitazione tradizionale, contestualizzati all’interno della cit-tà, tra aree interstiziali, arredi urbani e spazi pubblici, e associati al corpo dell’utente, che ne è il soggetto primario. Nello specifico, si parla di di-spositivi nomadi, intesi come quegli elementi che variano da abiti ad unità abitative, atti a rispondere con efficienza alle esigenze primarie del vivere; sono configurazioni flessibili, adattabili e autonome che alterano l’organiz-zazione dell’ambiente, influenzando il rapporto tra questo, i suoi abitanti e i modi d’uso. Sono stati inclusi sotto questa voce tutte quegli elementi definiti come: cellula abitativa autosufficiente, modulo trasportabile, unità abitativa, abitazione mobile, etc. che hanno come funzione primaria quel-la di accogliere, avvolgere, proteggere e coprire l’utente.

Nella terza parte del capitolo vengono esplorati gli spazi iconici in cui questi dispositivi nomadi si trovano: dalle Mobile Homes ai Recreational Vehicles. Si osservano le variazioni e gli aspetti tecnologici, le motivazioni del fenomeno e le implicazioni ambientali, economiche sociologiche e formali della “seconda casa” dell'americano medio degli anni ‘60. Si arriva alle forme di nomadismo più contemporaneo, degli alberghi diffusi e le applicazioni mobile, come meta e media del nomade metropolitano2.

E anche il nomadismo dei non luoghi, il turista in attesa dell’ennesimo volo o il pendolare distrutto da una giornata di lavoro ai quali non serve uscire dall’aeroporto, dalla stazione del treno, dal centro commerciale: basta recarsi negli hotel interni dove una casetta (Sleepbox) può essere affittata anche per poche ore. Una micro-stanza di tre metri quadri in cui riposarsi o lavorare in totale privacy.

<< Perché non privilegiare la dispersione? Invece di vivere in un luogo unico, cercando invano di concentrarsi, non si potrebbero avere, sparse dentro Parigi, cinque

o sei stanze? Andrei a dormire a Denfert, scriverei a Place Voltaire, ascolterei musica a Place Clichy, farei l’amore alla Poterne des Peupliers, mangerei in Rue de la

Tombe-Issoire, leggerei vicino al Parc Monceau, eccetera.1>>

L’uomo si è sempre spostato per andare verso luoghi nuovi in cerca di una “fortuna migliore”. Sin dalle primordiali costruzioni ha avuto

biso-LA CELLUbiso-LA ABITATIVA COME PRIMORDIALE COSTRUZIONE NOMADE

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gno di un riparo, trasportabile “altrove”, leggero3 e facilmente

monta-bile. La tenda, nella sua concezione asiatica, Yurta, indiana, tipi, araba, tenda nera, ecc., si è caratterizzata in relazione alle abitudini della po-polazione che l’abitava e al tempo stimato di permanenza nella stessa. Ha rappresentato la prima cellula abitativa mobile4, il mezzo dentro cui

sopravvivere per un tempo indefinito, e terminato il fine veniva dismes-sa per essere spostata in un luogo maggiormente redditizio o sicuro. Sia le iniziative belliche prima che il contributo circense poi diedero un forte impulso alla ricerca di nuove unità abitative mobili, capaci di soddisfare esigenze sempre più complesse e contingenti.

Con il 1900 iniziarono alcuni successi economici legati all’applicazione dell’unità abitativa mobile anche in ambito civile5.

Tra coloro che avevano intuito le potenzialità tecnologiche della cellu-la abitativa autosufficiente deve essere ricordato Richard Buckminster Fuller, il quale, attraverso la ricerca Dymaxion, prima, e sui blocchi-servizio poi, si muove dentro logiche assai vicine a quelle che hanno permesso di portare avanti il concetto di abitazione mobile.

Le architetture di Fuller sono state progettate “per essere mobili”, per essere “trasportate ovunque”6: egli porta all’estremo il pensiero

lecorbusiano di machine à habiter proponendo di vivere dentro una macchina.

Questi propositi furono concretizzati nel 1928 con il progetto della 4D House, che seguì il manoscritto 4D Timelock. Presentata al ristorante Petit Gourmet di Chicago, consisteva in un modellino composto da due esagoni portanti sospesi in modo piuttosto libero a un pilone cen-trale a treppiede.

Nel 1929, invece, Fuller preparò assieme a degli studenti di Chicago un secondo modellino di carta, nel quale mostrava le varie funzioni delle diverse parti della casa esagonale a un solo piano, compresi gli spazi abitativi, i serbatoi e i parcheggi al di sotto della casa, e un picco-lo aereo che poteva accostarsi alla casa grazie ad un ascensore trian-golare inserito nella colonna centrale.

Accessoriata di tutte le nuove tecnologie, i pavimenti le porte e i letti erano pneumatici e non vi erano partizioni nel suo interno. Basata sul prezzo allora corrente dell’industria automobilistica, egli stimò che una casa tale, completamente accessoriata, poteva essere prodotta in mas-sa ad un prezzo di 4800 dollari, trasportata in via aerea, questa camas-sa garantiva una notevole dinamicità e comodità di installazione.

Tutti gli arredi dovevano essere predisposti per evitare le collisioni e i materiali usati ultra innovativi: casein (un involucro traslucido opaco ot-tenuto da rifiuti vegetali) per pareti, soffitti, finestre e stanze da bagno; seta da paracadute color argento per le porte gonfiabili; duralumin per le coperture esterne; gomma gonfiabile per i pavimenti.

Per quanto riguarda il mobilio, Fuller immaginava un sistema di ap-parecchiature integrate costituito da scrivania, casellario, macchina da scrivere, calcolatrice, telefono, ricevitore radio e televisivo, dittafono, fonografo e cassaforte. Quanto alla illuminazione e al riscaldamento, la casa doveva essere riscaldata e illuminata da un motore a nafta, "gra-zie a un sistema di specchi attraverso le pareti traslucide”. Nel pilastro centrale erano sistemate lenti per concentrare il calore e la luce del sole da rifrangere ove necessario.

Waldo Warren, il pubblicitario che aveva inventato la parola “radio”, mentre preparava il lancio dell’iniziativa, dopo aver avuto con Fuller una lunga conversazione, colse nel monologo del suo interlocutore le parole chiave dynamic, maximum e tension, e così nacque la parola

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Dymoxion, in virtù della loro attitudine alla dinamicità e alla trasporta-bilità, una fusione di abitazione e veicolo.

Nel 1940 Fuller disegnò anche Mechanical Wing, una casa mobile for-nita di tutte le componenti meccaniche essenziali per la contempora-nea vita americana, soggetta a numerosi spostamenti. Essenzialmente era composta da tre unità: il bagno Dymaxion, provvisto di un appara-to di scarico chimico; un’unità energetica, contenente un compressore ad aria, un generatore elettrico, un riscaldatore per l’acqua; un’unità cucina con tutti gli elettrodomestici7.

Tuttavia la gran parte dei suoi progetti non furono realizzati, o rimasero dei prototipi, non trovando degli sbocchi nel mercato industriale. In tal senso possiamo considerare Fuller un filosofo del costruire, an-ziché un architetto: “si preoccupava di dare dimostrazioni della verità attraverso la performance e la costruzione di modelli, piuttosto che di dedicarsi alle incombenze quotidiane dell’edilizia”8. Egli d'altronde si

voleva far chiamare “inventore”9 più che costruttore, e a tal proposito

si assicurò in tutto venticinque brevetti negli Stati Uniti. Il suo obiettivo era quello di cambiare il concetto stesso di abitazione e pensava che trasformando l’ambiente, anche le persone avrebbero potuto cambia-re il loro modo di vivecambia-re. Ma l’ironia della sorte volle che le sue inno-vazioni vennero usate solo per usi extradomestici, come padiglioni per fiere o alloggiamenti radar.

Sempre concepito come un modulo trasportabile era il progetto di J. Prouvè, che nel 1938 produrrà per gli architetti Beaudouin e Lods, una cellula di 10m2 metallica smontabile per il fine settimana, destinata ai nuovi beneficiari dei “permessi pagati” per “liberare dalla dipendenza dall’hotel”10. Più simile ad una casa che a un mezzo di trasporto, questa

poteva essere trasportata e montata nei luoghi di villeggiatura. Prouvè poté esprimere il suo ideale di casa monofamiliare leggera e dinamica, fabbricata serialmente, rispondente a esigenze di comodità, smontabilità e trasportabilità, quando l’Abbé Pierre propose la rea-lizzazione di ricoveri di emergenza per centinaia di famiglie senza ri-sorse. A differenza degli episodi precedenti, le condizioni sembrarono ottimali per iniziare una produzione industriale della Maison des Jours Meilleus.

Concepita con un Blocco autoportante centrale attrezzato che con-tiene il bagno e la cucina, in tutto il resto della casa (52mq) non sono presenti pareti divisorie, tranne un mobile armadio utilizzato sia per stivare gli indumenti che per organizzare lo spazio tra zona giorno e zona notte.

Sempre sull’idea di blocco autoportante è il bagno Dymaxion di B. Fuller realizzato nel 1937, prefabbricato e ricavato da una matrice a stampo. Formato da una struttura monoblocco di un metro e mezzo di lato, determinato dall'unione di due gusci metallici realizzati in quattro sezioni stampate e sovrapposte l'una all'altra.

La cellula abitativa comincia a essere pensata come un insieme di parti da comporre quando più se ne ha bisogno. Un esempio sono gli stu-di stu-di Fuller, che portano alla realizzazione stu-di Standard Living Package (1947 – 1952), che consisteva in soluzioni a base di moduli rettangolari montati su ruote, complete di doccia, cucina e wc. Nella loro versio-ne definitiva, i moduli consistevano in vere e proprie case contaiversio-ner trasportabili, di m 7,3 x 1,8 x 1,8, equipaggiate al loro interno di tutto l’arredo e il necessario per sei abitanti.

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Sempre nell’idea di realizzare nuove immagini urbane in cui l’abitazio-ne ha sempre più un carattere provvisorio, ma in l’abitazio-netto contrasto con l’impostazione di Fuller e Prouvé, legata al mito della macchina e delle tecnologie all’avanguardia, all’inizio degli anni Sessanta prende corpo una nuova tendenza che si basa essenzialmente sull’utilizzo di materiali e tecnologie estremamente povere.

Si formano, così, gruppi composti da giovani intellettuali che hanno come intento quello di sfidare la visione tradizionale dell’architettura, sperimentando nuovi concetti, forme e materiali al fine di realizzare situazioni non convenzionali. Vere e proprie controculture nate come reazione contro il consumismo dilagante, le tensioni della guerra fred-da e la monotonia dei nuovi sviluppi urbani.

Si va affermando una idea del tessuto urbano e dell’architettura in ge-nerale che si genera e rigenera continuamente, come fosse un orga-nismo vivente costituito da unità abitative concepite come cellule fun-zionali ad obsolescenza programmata serialmente ed industrialmente prodotte.

Lavorando proprio sul tema della micro unità abitativa, il gruppo au-striaco Coop Himmelblau nel 1968 progettò Villa Rosa, uno spazio che consente variazioni di volume, organico come una nuvola grazie all’u-tilizzo dell'aria come materiale per la costruzione. Il prototipo prevede tre spazi: uno spazio con letto girevole, proiezioni, suoni e fragran-ze che vengono soffiate attraverso un sistema di ventilazione e che accompagnano il programma audiovisivo; uno spazio trasformabile composto da otto palloncini gonfiabili che variano la dimensione dello spazio; uno spazio trasportabile come una valigia, a forma di elmetto che una volta gonfiato crea un ambiente dotato anche di letto.

Oppure una sorta di baccello tecnologico come il lavoro che elabora David Greene nel 1966 chiamato Living Pod, composto da due mem-brane in resina di fibra vetrosa armata incollata ad una struttura tiran-tata ed in grado di muoversi grazie ad un sistema di arti meccanizzati idraulici.

Coerentemente con i principi del nuovo nomadismo, si tratta di un “modulo abitativo biomorfo” che, “svincolandosi dalla staticità della firmitas vitruviana”, abbraccia la nuova concezione del vivere quotidia-no, fatta di “nomadismo e transitorietà” piuttosto che di “territorialità, insediamento”11 e stabilità.

Come una tenda beduina del XX secolo, il Living Pod è pensato in stretta relazione con dei punti nodali di relazione, una sorta di moder-ne oasi, moder-nelle quali le singole capsule possano comporsi ed aggregarsi temporaneamente.

La medesima filosofia anima il Cushicle di Michael Webb del 1966, una abitazione gonfiabile nomade, completa e perfettamente equi-paggiata, in grado di essere trasportata sulle spalle dell’individuo che la utilizza. Questo progetto segna il passaggio della casa da bene im-mobile a protesi tecnologica, una sorta di abito da indossare, su mi-sura, prodotto in serie come qualsiasi altro articolo da pret-à-porter. Pur predicando lo sradicamento dal territorio, tutti questi progetti non precludono possibili aggregazioni tra più unità abitative, non è un caso infatti se R. Banham descrive in questo modo in un suo saggio, una certa architettura anglosassone di quell’epoca:

DAGLI ANNI ’60 NASCONO FORME ALTERNATIVE DI INFINITEZZA O INDETERMINATEZZA DI SPAZI ABITATIVI

<<[…] all'interno dell'architettura britannica stava germinando, quasi inconsciamente, un tipo di progettazione edilizia che non era solo infinita, indeterminata e aformale, ma

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in cui tutti i dettagli erano di uguale valore e intercambiabili. In un certo senso, questo si può dire di un edificio in mattoni: un mattone vale un altro ed è intercambiabile;

solo che gli inglesi cominciavano ad avere in mente un mattone piuttosto grande, grande abbastanza da poterci vivere dentro. La svolta verso un’architettura infinita di forme indeterminate sarebbe avvenuta grazie a unità d'abitazione molto precisamente

determinate, agganciate l’una all’altra.12>>

<<[…] Tutti gli ambienti avrebbero dovuto prendere luce da un patio ovale al centro della casa, e la sola apertura nelle mura esterne sarebbe stata la porta, in una delle pareti lunghe. Disponendo di tre pareti cieche, le abitazioni avrebbero potuto essere

accorpate in schiere infinite, larghe quanto due abitazioni poste retro contro retro; questa proposta urbanistica era parte integrante del progetto sin dall’inizio. ln questo la House of the Future degli Smithson si differenziava dalle altre macchine per l’abitare come la Dymaxion House di Fuller o la Maison Plastique di Schein, pressoché impossibili

da assemblare in entità più ampie, ma al pari di esse - era un’unità di abitazione dotata di tutti i servizi, completa e autonoma.14>>

Quando afferma questo, Banham, si riferisce non soltanto al gruppo Archigram, ma anche a quegli “innovatori poliedrici”13 dell’architettura

inglese che furono Alison e Peter Smithson che produssero il progetto per una House of the Future in plastica.

Concepita “come un'unità indipendente, colma di gadget e di elettro-domestici futuribili, il progetto prevedeva comunque una forma alter-nativa di infinitezza o indeterminatezza.

Tutti questi prototipi e i gli approcci progettuali, testimoniano l’affer-marsi di un nuovo modo di abitare. Manifesto di questo nuovo stile di vita è l’articolo A home is not a house, scritto sempre da Banham15 e

comparso nell’aprile del 1965 su Art in America. Approdato in suolo americano, egli constata che le abitazioni non sono più simboli di ar-chitettura, ma insiemi di tubazioni, cavi e tecnologie. Questi sono gli elementi che sostengono una casa, l’intelaiatura, così ricca di servizi, si regge da sé. L’edificio perde d’importanza, non è più necessario per poter definire un’abitazione. Ciò che determin\a l’abitazione sono le tecnologie presenti in essa, le quali sono trasportabili ovunque. Da qui il grandissimo numero di americani che negli anni ’50 e ‘60 si sono serviti di abitazioni mobili, le quali pur avendo la possibilità di spostarsi, venivano fissate al terreno, evitando i costi più elevati di un’abitazione usuale, ritenuta non necessaria.

Tutto questo incarna il nuovo stile di vita americano che sta sviluppan-dosi in quell’epoca, alimentato dall’ottimismo, dal benessere crescen-te e da un bisogno di innovazione profondo, portatore di istanze di libertà, autodeterminazione, mobilità, che rilancerà la tradizione no-madica americana.

Tra gli esempi più contemporanei di moduli abitativi che si rifanno al con-cetto di nomadismo americano, diretta emanazione del mito legato alla conquista del West, che affonda le proprie radici concettuali nelle ope-re di Walt Whitman, si possono citaope-re: gli studi di Vito Acconci con il suo Mobile Linear City del 1991 e il Bais ò Dròme dell’Atelier van Lieshout del 1995, entrambi esempi di modulo abitativo in grado di espandersi

attra-DAGLI ANNI ’80 AI MODELLI CONTEMPORANEI PER LA SOPRAVVIVENZA, LA PROTEZIONE, LA FUNZIONALITÀ E IL RICICLO

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<<Più che abiti erano estremi rifugi: strumenti adatti a fronteggiare la giungla urbana e i rischi ad essa connessi. Compreso quello di perdere la casa e essere costretti ad

abitare nei propri vestiti.17>>

<<Spostando di molto la direzione delle precedenti sperimentazioni sulla casa minima (existenzminimum) dei maestri della modernità. Allora il corpo (il Modulor di Le

Corbusier) costituiva la misura delle cose, oggi è entità sensibile da proteggere. Con armature urbane.18>>

<<oggetti che sembrano architetture temporanee in movimento capaci all’occorrenza di trasformarsi in poetici pezzi di abbigliamento, sacchi a pelo, unità di primo soccorso.

[…] A ben vedere si tratta di architetture da indossare e vestiti in cui abitare.19>>

verso parti telescopiche e componibili a formare un sistema complesso. Circa due anni prima del progetto di Acconci, Toyo Ito realizza Pao I e Pao II (1985 e 1989), due progetti basati su uno scenario in cui la maggior parte delle funzioni domestiche si dissolvono nella metropoli mentre l'unità abitativa diventa un'entità ridotta fornendo solo un mi-nimo riparo, una possibilità di riposo e l'accesso alla rete informativa. L'architettura è leggera ed effimera, una tenda che si dissolve nel ron-zio della metropoli, identificabile con una serie di arredi simbolo che diventano il tema principale attraverso l’architettura.

Il tema di questa ricerca è il nomade urbano e la città di Tokyo negli anni Ottanta: uno dei luoghi tecnologicamente più avanzati al mondo in quel momento e anche una delle città più dense con un aumento del prezzo per metro quadrato in rapida ascesa. La ricerca evidenzia come la città sottragga dall’abitazione le funzioni; i servizi forniti da queste metropoli sono più che sufficienti per provvedere ai bisogni di una persona indipendentemente dalla propria casa, tranne che per il riparo e il riposo.

La donna nomade di Ito, connessa così alla città, farà uso dei suoi ser-vizi, eliminando vani che un tempo appartenevano all’abitazione come la cucina o la sala da pranzo; userà luoghi ludici e non avrà la necessità di un salotto.

Questo progetto è una delle prime manifestazioni dell'impegno espli-cito di Toyo Ito del concetto di architettura come abbigliamento che circonda il corpo umano.

Il Pao diventa una sorta di “macchina da guerra” che preparava il suo utente per il combattimento con la vita urbana di Tokyo.

Non stupisce dunque che circa dieci anni dopo, in occasione della Biennale di Architettura del 2000, l’ideatore della linea di abbigliamen-to Final Home16 abbia esposto nel padiglione giapponese abiti ispirati

ai concetti di sopravvivenza, protezione, funzionalità e riciclo. Esplici-tando nuove forme di disagio.

Abiti, che si adattano alle situazioni di emergenza. Uniformi da città che come capanne contemporanee, offrono riparo e ricovero.

È quello che esprimono le creazioni di Lucy Orta,

Anche per Attali “l’uomo nomade” deve pur sempre “proteggersi dai rigori del clima” o da “un ambiente ostile”, deve “preservare la sua

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intimità all’interno del gruppo”20. L’individuo che abita uno spazio

de-termina tuttavia le relazioni all’interno di questo stesso spazio, come afferma Gottfried Semper21. Egli crea dunque oggetti architettonici

in città generiche22, che non presentano un’identità particolare; città

colpite da amnesia, che si espandono inesorabilmente. L’abitazione diventa così luogo di passaggio tra molti stazionamenti, mentre le tec-nologie ci permettono di portarci dietro “estensioni” della nostra casa, di dimorare ovunque dentro piccoli o grandi gusci, che permettono il continuo appropriarsi degli spazi in cui si agisce, per abitarli in via più o meno transitoria23; dispositivi nomadi, combinazioni tra analogico e

digitale, interconnessi, agili, sempre portatili, adattabili, indossabili e polifunzionali.

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12 | Cfr. Banham, R. Architettura della

Seconda Età della Mac-china: Scritti 1955-1988. a cura di Biraghi M. Electa. 2004 13 | Ibidem 18 | Ibidem 14 | Ibidem 19 | Ibidem 15 | Banham, R. A Home is not a house. In

Art in America. Aprile

1965

20 | Attali, J. L’homme

nomade. Paris. 2003

16 | Final Home è un marchio giapponese che propone modelli di abbigliamento. Il loro prodotto di punta riguarda la giacca in nylon dalle numerose tasche che Kosuke Tsumura, designer e fondatore di Final Home, descrive come, un capo che può essere customizzato a seconda delle necessità: le tasche possono essere riempite da diversi og-getti o da piumino per ripararsi da un grande freddo oppure possono diventare mezzo di trasporto per “kit di emergenza”.

22 | Koolhaas, R. Mau, B. S, M, L, XL. The Mo-nacelli Press. 1997 23 | Basso Peressut, L.

Parole d’interni. In Let-ture d’interni, a cura di

Lanz, F. Franco Angeli edizioni. 2013

8 | Cfr. Gorman, M.J.

Buckminster Fuller. Ar-chitettura in Movimento.

Op. cit

17 | Valenti, A. Case

disperatamente contem-poranee. Op. cit.

9 | Ibidem

10 | Cfr. Clayssen, D.

Jean Prouvé, l’idee con-structive. Parigi. 1981

11 | Cfr. Baiocco, G. Ricerca per lo sviluppo

di un modulo abita-tivo di emergenza sostenibile a carattere provvisorio. Archivio di

Ateneo Università degli studi Roma Tre. 2010 1 | Cfr. Perec, G.

Specie di spazi. Trad.

di Delbono R. Bollati Boringhieri 2008 2 | Cfr. La Cecla, F.

Surrogati di presenza. Media e vita quotidia-na. Bèbert. 2015

3 | “Io voglio portare via con me una tenda così leggera che un solo uomo può portarla nel palmo della sua mano e ancora così lar-ga che può raccogliere la mia corte, il mio esercito e il mio accam-pamento.” (Burkhardt, 1975)

4 | Cfr. Marcenaro, R. Mobile city. Franco Angeli. 2011

5 | Si cita il successo di un venditore statuni-tense, Sears Roebuck and Co. Che tra il 1908 e il 1940 vendette oltre 100.000 case mobili via catalogo.

6 | Gorman, M.J.

Buckminster Fuller. Ar-chitettura in Movimento.

Skira. Milano. 2005 7 | Cetica, P. A. Richard

Buckminster Fuller. Uno spazio per la tecnologia.

Cedam. Padova. 1979

NOTE

21 | Semper, G.

Ornement et mouve-ment, la science et les arts dans la théorie de l’ornement. In Herzog

& de Meuron. Histoire

naturelle. Lars Müller

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38 | C APIT OLO 1 R. B. Ful ler , Dymaxion House. R. B. Ful ler , model lo del la Dymaxion House. 1930.

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R. B. Ful

ler

, Dymaxion House – interno.

R. B. Ful ler , Dymaxion House. R. B. Ful ler , Dymaxion House – pr ospet to.

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Pagina a lato: J. Pr

ouvè, Maison des Jours Meil

leus -esterno - interno -

posizionamento blocco cucina - planimetria

R. B. Ful ler , Dymaxion bat hr oom. R. B. Ful ler , Standar d of Living Package. R. B. Ful ler , Mechanical W ing.

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APIT OLO 1 Coop Himmel blau, V illa Rosa - d isegni -1968. David Gr

eene, Livin Pod- 1966.

Coop Himmel

blau, V

illa Rosa.

Micheal W

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Al

ison e Peter Smit

hson, House

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he Futur

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Pagina a lato: T

oyo Ito, Pao I.

Atel

ier van Lieshout, Bais ò Dr

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Kosuke T

sumura, Final Home – Mot

her

.

Lucy Orta, Refuge W

ear

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Note al lettore

L’atlante raccoglie tutti i dispositivi che variano da unità abitative a oggetti d’uso dell’ultimo ventennio costruiti o in produzione; questi apparati sono una sorta di micro-architetture che fanno sfumare i con-fini tra abitazione, rifugio, abito ed equipaggiamento, mutando la loro natura, tra un riparo da indossare e un vestito da abitare.

Questi dispositivi non solo possono cambiare posizione, forma, strut-tura o funzione, ma possono anche alterare l’organizzazione dell’am-biente, influenzando il rapporto tra quell’ambiente e i suoi abitanti. Questi dispositivi non solo possono cambiare posizione, forma, strut-tura o funzione, ma possono anche alterare l’organizzazione dell’am-biente, influenzando il rapporto tra quell’ambiente e i suoi abitanti. Nel produrre l’atlante si opera una scelta nell’eterogeneo panorama contemporaneo, organizzando secondo tre aggettivi che caratterizza-no i dispositivi nella loro relazione con il corpo dell’utente -indossabili-trasportabili-abitabili- differenti tipi di contaminazioni che trasformano elementi fissi in elementi mobili, dispositivi di natura e scala differente. Le tre categorie sono state impiegate come possibile griglia per orga-nizzare la struttura complessa dell’abitare nomadico e come chiave di lettura per capire quali possono essere le relazioni tra l’abitare noma-dico e quello stanziale.

Aggettivi come indossabile, trasportabile e abitabile possono essere visti come atti attributi primari capaci di inventare nuove forme d’u-so impreviste, ma d’u-sono anche presa d’atto delle nuove esigenze del progetto, nel suo tentativo di adattamento continuo ai problemi e alle aspirazioni di un mondo sempre più complesso e dinamico.

Indossabili*, Trasportabili**, Abitabili***: ogni progetto costituisce

una scheda dove viene indicato: il nome della struttura; l’architetto, il designer, l’artista o l’artigiano che l’ha creata; il paese d’origine o il luo-go nel quale si trova; l’anno nel quale il progetto è stato completato; i principali materiali con cui è stato realizzato il progetto.

Per ogni progetto, nella parte bassa delle schede, vengono indicate le seguenti informazioni aggiuntive: il numero di persone che può acco-gliere, le tipologie dei mezzi di trasporto con cui può essere trasporta-ta la struttura (a piedi, a mano, su ruotrasporta-ta, su pattini, su acqua).

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INDOSSABILI

*

TRASPORTABILI

**

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ICONE SCHEDE - SIMBOLI DI MOBILITÀ

Simboli di mobilità

imbarcazione

piedi

mani

automobile

camion

bicicletta

cavallo/asino

ruota

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[indossàbile]

agg. [der. di indossare]. – 1. Che può essere indossato. 2. Di microcal-colatore talmente piccolo che può essere portato addosso al corpo senza creare alcun fastidio.

in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

Sono dispositivi che come veri e propri abiti si indossano, sono a di-mensione d’uomo, a volte avvolgono tutto il corpo a volte solo una parte. Dalla forma compatta, semplice, si trasformano però in elementi più complessi senza l’utilizzo di strumenti e con il minimo sforzo.

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APIT OLO 1 W al ter Pichler Salot to portat ile

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Il testo che segue descrive i dispositivi indossabili che come veri e pro-pri abiti si indossano, sono a dimensione d’uomo, a volte avvolgono tutto il corpo, a volte solo una parte. Dalla forma compatta, semplice, si trasformano però in elementi più complessi senza l’utilizzo di stru-menti e con il minimo sforzo, creando un rifugio per il corpo.

Se la città, come accennato nel paragrafo precedente, è diventata un ambiente ostile da cui proteggersi o più semplicemente in cui è ormai difficile ritrovare la propria intimità, l’abito deve essere qualcosa di più che un riparo dagli agenti atmosferici: deve essere una corazza, un estremo rifugio in grado di proteggere corpi sempre più deboli1.

I dispositivi sono dunque attrezzature contemporanee che rispondo-no a necessità primarie, quali il difendersi dai pericoli esterni o dalle avversità climatiche; sono architetture intese come riparo, come ter-za pelle, che si adattano all’ambiente circostante senter-za modificarlo in modo violento; esprimono la loro ragione di esistere attraverso un linguaggio simbolico profondamente legato ad una identità culturale. L’inizio del terzo millennio si è manifestato con una serie di eventi che non a caso hanno portato in primo piano la parola emergenza: l'attac-co terroristil'attac-co alle Twin Towers a Manhattan (2001), lo tsunami dell'o-ceano indiano che devasta le coste dell'Asia (2004), l'uragano Katrina che colpisce New Orleans (2005), il terremoto che rade al suolo la pro-vincia cinese dello Sichuan (2008), la scossa che mette in ginocchio l'A-quila (2009) e quella che fa tremare il Cile (2010), la nube del vulcano islandese che blocca gli aeroporti di mezzo mondo (2010).

Non stupiscono dunque le creazioni di Lucy Orta, inglese che vive a Parigi che con il suo studio dai primi anni novanta si occupa di realizza-re “architetturealizza-re corporali in cui l’abito diventa architettura ridotta alla più semplice espressione spaziale”2. Il tutto mescolando architettura,

moda, body art, attivismo politico. Si tratta di architetture da indossa-re; vestiti in cui abitare.

Refuge Wear, per esempio, è un meccanismo pensato per garantire ospitalità a persone senza fissa dimora. Per certi aspetti è un vestito, per altri, grazie a zip e strisce di velcro, può diventare facilmente una tenda intesa come estensione del corpo. Modular Architecture spin-ge in avanti la ricerca iniziata con Refuspin-ge Wear e sposta la questione dell’abitazione di emergenza dal singolo individuo al gruppo, creando modelli di aggregazione delle singole unità di abbigliamento. È come il passaggio dalla casa individuale alle case in serie. Il sistema permette a ciascun individuo di viaggiare e muoversi indipendentemente e di poter, al momento del bisogno, costituirsi in gruppo.

Il riferimento al mondo militare e all’uniforme è piuttosto evidente: indumenti prodotti in serie, per taglie (S, M, L, XL) che rispondono a requisiti di praticità, vestibilità e qualità, che hanno nello specifico della ricerca tecnologica applicata ai tessuti il proprio punto di forza. Anche Banham fa un parallelo tra il mondo nomade e quello militare, affermando che l’impatto dello “chic militare” sullo “chic nomade” è visibilissimo nel design delle valigie:

<< Le moderne valigie soft per abiti hanno, a quel che sembra, la loro origine negli zaini e nei contenitori originariamente progettati per le truppe paracadutate; il bagaglio hard, high-tech con interno imbottito è stato in larga misura influenzato dai fotografi itineranti e dalle fotomodelle ed ha le sue origini nei contenitori protettivi appositamente studiati per materiale militare delicato, vuoi che si trattasse di strumentazione per l’artiglieria,

vuoi di delicati meccanismi fusibili; com’è per il bagaglio a mano Mandarina Duck, strutturalmente morbido, ma reso massiccio dalle ampie zone di pesante gomma

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APIT

OLO 1

<<Oggi il viaggio non è più semplicemente una condizione di guerra: è divenuto un beneficio collaterale, persino un incentivo. A partire dalla prima guerra mondiale,

il fascino del viaggio è stato direttamente integrato nel linguaggio seducente del reclutamento militare. Le campagne pubblicitarie delle forze armate reclamizzano la leva militare come un modo di “vedere il mondo” un’opportunità altrimenti possibile soltanto

alle classi agiate.4 >>

nervata, che ha lo scopo presunto di proteggere il contenuto da urti e colpi esterni, ma che spesso è situata in punti dove può fare ben poco per svolgere questa funzione

difensiva.3>>

Per Banham quindi l’equipaggiamento che il nomade moderno porta con sé è puramente simbolico; Diller e Scofidio, associano invece all’equipaggiamento del turista, e quindi del viaggiatore, un equipag-giamento militare per far fronte alle vicissitudini del viaggio contem-poraneo grazie ad attrezzature da viaggio ad alta tecnologia, itinerari da non perdere, reggimenti della salute, e manuali di addestramento a difesa. Affermano che

La raccolta di casi studio che segue vuole essere una ricognizione delle attività teoriche e produttive che si traducono in un’ibridazione continua, da un riparo da indossare o un vestito in cui abitare.

Scritti 1955-1988. a cura

di Biraghi, M. Milano. Op. cit.

3 | Banham, R.

Archi-tettura della Seconda Età della Macchina:

4 | Diller, E. Scofidio, R. Tourism and war.

In The Atlantikwall as Military Archaeological Landscape. A cura di

Bassanelli, M. Postiglio-ne, G. Lettera Ventidue. Siracusa. 2011 1 | Cfr. Valenti, A. Case disperatamente contemporanee. Op. cit. 2 | Cfr. Purtois, C. Architettura e noma-dismo. Enciclopedia

Treccani, 2010. Op. cit.

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56 | C

APIT

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APIT OLO 1 Dil ler E, Scofid io,R. Back to t he Fr ont: T ourism of W ar – 1995.

Pagina a lato: Lucy Orta, Nexus Ar

chitectur

e – 2001.

Lucy Orta, Refuge W

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58 | C APIT OLO 1 Dil ler E, Scofid io,R. Back to t he Fr ont: T ourism of W ar – 1995.

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APIT

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APIT

OLO 1

Walking Shelter

Progettista: Sibling Paese d’origine: Australia Anno: 2008

Materiali: poliestere, cordini, chiusure di plastica

Questo progetto nascosto in due reti di nylon applicate ai talloni delle scarpe, è una tenda chiamata “riparo che cammina” dedicata a chi è sempre in movimento. I sacchetti contengono due mantelle colorate che, una volta spiegate, si uniscono a diventare un impermeabile. A dare forma al capo è la persona stessa che lo indossa; non vi sono ausili dei classici paletti o corde. L’unica cosa che rimanda a una tenda tradizionale è l’apertura incernierata, mentre il rivestimento argentato garantisce un minimo di isolamento termico.

Habitent

Progettista: Lucy Orta Paese d’origine: UK Anno: 1992

Materiali: poliamide rivestito di alluminio, pile, pali telescopi-ci di alluminio, fischietto, lanterna, bussola

Tra arte, architettura e denuncia sociale, questa tenda abitabile trasfor-ma i corpi in “case”. Avvolta in un rivestimento argentato di alluminio sottile simile a una coperta isotermica, Habitent è una soluzione intelli-gente per i nomadi moderni. Lucy Orta affronta l’emergenza dei senza-tetto e dei rifugiati creando un semplice mantello con cappuccio, che, dotato di di struttura telescopica, si trasforma da impermeabile a tenda monoposto: diventa così uno spazio intimo per il riposo. Utilizzato dai senzatetto di Parigi e di Monaco di Baviera, il progetto è stato definito come un elemento dall’”estetica funzionale”, un pratico rifugio per il riposo che ha la forza espressiva di un’opera d’arte.

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Walking Shelter

Progettista: Sibling Paese d’origine: Australia Anno: 2008

Materiali: poliestere, cordini, chiusure di plastica

Questo progetto nascosto in due reti di nylon applicate ai talloni delle scarpe, è una tenda chiamata “riparo che cammina” dedicata a chi è sempre in movimento. I sacchetti contengono due mantelle colorate che, una volta spiegate, si uniscono a diventare un impermeabile. A dare forma al capo è la persona stessa che lo indossa; non vi sono ausili dei classici paletti o corde. L’unica cosa che rimanda a una tenda tradizionale è l’apertura incernierata, mentre il rivestimento argentato garantisce un minimo di isolamento termico.

Habitent

Progettista: Lucy Orta Paese d’origine: UK Anno: 1992

Materiali: poliamide rivestito di alluminio, pile, pali telescopi-ci di alluminio, fischietto, lanterna, bussola

Tra arte, architettura e denuncia sociale, questa tenda abitabile trasfor-ma i corpi in “case”. Avvolta in un rivestimento argentato di alluminio sottile simile a una coperta isotermica, Habitent è una soluzione intelli-gente per i nomadi moderni. Lucy Orta affronta l’emergenza dei senza-tetto e dei rifugiati creando un semplice mantello con cappuccio, che, dotato di di struttura telescopica, si trasforma da impermeabile a tenda monoposto: diventa così uno spazio intimo per il riposo. Utilizzato dai senzatetto di Parigi e di Monaco di Baviera, il progetto è stato definito come un elemento dall’”estetica funzionale”, un pratico rifugio per il riposo che ha la forza espressiva di un’opera d’arte.

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62 | C

APIT

OLO 1

Melina

Progettista: David Shatz Paese d’origine: Israele Anno: 2016

Materiali: cornici di acciaio, cordino di nylon, tela, tessuto denim

Il progetto è tenda-zaino pensata per dare un riparo sicuro negli ambi-enti urbani. Accessorio dalla forma a fisarmonica, è allungabile e costruito con un involucro in tessuto sorretto da dieci telai di acciaio. Stabile da aperta e molto compatta da chiusa, Melina crea uno spazio sufficiente per potersi distendere e per diventare rifugio protetto anche in strada. Molto leggera, può essere trasportata in spalla ed è riparo ideale per un viaggiatore affaticato. Con questo progetto Shatz rivendi-ca lo spazio pubblico e crea un ambiente rassicurante dove fare una pausa e riposarsi.

Tent 2

Progettista: Angela Luna Paese d’origine: USA Anno: 2016

Materiali: telo di poliestere, nylon, plastica, cerniera, materiale catarifrangente

Tent 2 è il secondo elemento della serie con cui Angela Luna ha esordi-to nel progetesordi-to “Crossing the Boundary”, la moda applicata a scopi umanitari. Unendo praticità e gusto estetico, ha creato una giacca e di uno zaino che si trasformano in una tenda biposto, arrivando soddis-fare i bisogni e i problemi di un rifugiato: la ricerca di un riparo, calore e visibilità. Il capo è unisex, realizzato in tessuto high-tech resistente all’acqua e forma un rifugio con due funzioni.

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APIT

OLO 1

Melina

Progettista: David Shatz Paese d’origine: Israele Anno: 2016

Materiali: cornici di acciaio, cordino di nylon, tela, tessuto denim

Il progetto è tenda-zaino pensata per dare un riparo sicuro negli ambi-enti urbani. Accessorio dalla forma a fisarmonica, è allungabile e costruito con un involucro in tessuto sorretto da dieci telai di acciaio. Stabile da aperta e molto compatta da chiusa, Melina crea uno spazio sufficiente per potersi distendere e per diventare rifugio protetto anche in strada. Molto leggera, può essere trasportata in spalla ed è riparo ideale per un viaggiatore affaticato. Con questo progetto Shatz rivendi-ca lo spazio pubblico e crea un ambiente rassicurante dove fare una pausa e riposarsi.

Tent 2

Progettista: Angela Luna Paese d’origine: USA Anno: 2016

Materiali: telo di poliestere, nylon, plastica, cerniera, materiale catarifrangente

Tent 2 è il secondo elemento della serie con cui Angela Luna ha esordi-to nel progetesordi-to “Crossing the Boundary”, la moda applicata a scopi umanitari. Unendo praticità e gusto estetico, ha creato una giacca e di uno zaino che si trasformano in una tenda biposto, arrivando soddis-fare i bisogni e i problemi di un rifugiato: la ricerca di un riparo, calore e visibilità. Il capo è unisex, realizzato in tessuto high-tech resistente all’acqua e forma un rifugio con due funzioni.

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Basic House

Progettista: Martín Azúa Paese d’origine: Spagna Anno: 1999

Materiali: Poliestere metallizzato

Attivata dal calore corporeo o prodotto dal sole, la Basic House è una casa ripiegabile e gonfiabile: da un quadratino dorato diviene una sorta di cuscinetto gonfiabile leggerissimo e quasi impalpabile. È composta da sottile poliestere metallizzato e si gonfia fino a formare un rifugio per due persone e si sgonfia al punto da poter stare in tasca. È reversibile, protegge sia dal caldo che dal freddo, occupa pochissimo spazio ma offre alte prestazioni.

Wearable Habitation

Progettista: Royal College of Art

Paese d’origine: UK Anno: 2016

Materiali: Tyvek, Mylar

Da impermeabile a tenda: questo progetto a più mani è nato per rispon-dere alla crisi dei rifugiati siriani nel 2016 ed è stato sviluppato secondo le linee guida dettate dall’esperienza dei migranti. Wearable Habitation da capo d’abbigliamento si trasforma in sacco a pelo o in tenda; è stata progettata per una migrazione lunga fino a cinque settimane e include un cappuccio e tasche interne per piccoli oggetti. Realizzata in Tyvek, un materiale sintetico resistente, è isolata con uno strato di Mylar e sigillata con una cerniera. è adattabile a diverse situazioni grazie alle cuciture che permettono di trasformare il mantello in un ricovero monoposto.

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Basic House

Progettista: Martín Azúa Paese d’origine: Spagna Anno: 1999

Materiali: Poliestere metallizzato

Attivata dal calore corporeo o prodotto dal sole, la Basic House è una casa ripiegabile e gonfiabile: da un quadratino dorato diviene una sorta di cuscinetto gonfiabile leggerissimo e quasi impalpabile. È composta da sottile poliestere metallizzato e si gonfia fino a formare un rifugio per due persone e si sgonfia al punto da poter stare in tasca. È reversibile, protegge sia dal caldo che dal freddo, occupa pochissimo spazio ma offre alte prestazioni.

Wearable Habitation

Progettista: Royal College of Art

Paese d’origine: UK Anno: 2016

Materiali: Tyvek, Mylar

Da impermeabile a tenda: questo progetto a più mani è nato per rispon-dere alla crisi dei rifugiati siriani nel 2016 ed è stato sviluppato secondo le linee guida dettate dall’esperienza dei migranti. Wearable Habitation da capo d’abbigliamento si trasforma in sacco a pelo o in tenda; è stata progettata per una migrazione lunga fino a cinque settimane e include un cappuccio e tasche interne per piccoli oggetti. Realizzata in Tyvek, un materiale sintetico resistente, è isolata con uno strato di Mylar e sigillata con una cerniera. è adattabile a diverse situazioni grazie alle cuciture che permettono di trasformare il mantello in un ricovero monoposto.

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Sleeping Bag Dress

Progettista: Ana Rewakowicz Paese d’origine: Canada Anno: 2003

Materiali: telo di poliestere, nylon, plastica, batteria, ventola, pannello solare.

Il prototipo di SleepingBagDress è un kimono-vestito multiuso che, una volta gonfiato, si trasforma in uno spazio cilindrico abitabile da una o due persone, cambiando e adattandosi alle diverse situazioni.

Lo si indossa come un vestito durante il giorno e lo si gonfia per creare una cellula abitativa nel momento del bisogno.

Il concetto espresso dall'artista parte dall'idea di abbigliamento come architettura portatile in grado di soddisfare le necessità primarie, durante l’esperienza di “sopravvivenza” quotidiana.

Funziona grazie a una piccola ventola del computer alimentata da una batteria ricaricabile da un pannello solare incorporato nell'abito stesso.

The Nomad

Progettisti: Angela Runge, Russell Andrews, Josh Newby Paese d’origine: USA Anno: 2013

Materiali: telo di poliestere, picchetti, cerniere, moschet-toni, corde

The Nomad è il progetto di una tenda-zaino sostenibile, leggera e senza pali per il campeggio spontaneo e l'esplorazione di nuovi luoghi. Sostenibile, per i progettisti, non significa utilizzare materiali "ecologici", ma un design che promuova comportamenti umani che consentano alle generazioni future e all'ecosistema di sopravvivere.

The Nomad, per fornire la struttura della tenda, sfrutta la tensione di una fune attaccata ad un albero e picchettata al suolo, eliminando così la necessità di trasportare il peso extra dei pali della tenda e rendendo il montaggio una procedura semplice e veloce.

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Sleeping Bag Dress

Progettista: Ana Rewakowicz Paese d’origine: Canada Anno: 2003

Materiali: telo di poliestere, nylon, plastica, batteria, ventola, pannello solare.

Il prototipo di SleepingBagDress è un kimono-vestito multiuso che, una volta gonfiato, si trasforma in uno spazio cilindrico abitabile da una o due persone, cambiando e adattandosi alle diverse situazioni.

Lo si indossa come un vestito durante il giorno e lo si gonfia per creare una cellula abitativa nel momento del bisogno.

Il concetto espresso dall'artista parte dall'idea di abbigliamento come architettura portatile in grado di soddisfare le necessità primarie, durante l’esperienza di “sopravvivenza” quotidiana.

Funziona grazie a una piccola ventola del computer alimentata da una batteria ricaricabile da un pannello solare incorporato nell'abito stesso.

The Nomad

Progettisti: Angela Runge, Russell Andrews, Josh Newby Paese d’origine: USA Anno: 2013

Materiali: telo di poliestere, picchetti, cerniere, moschet-toni, corde

The Nomad è il progetto di una tenda-zaino sostenibile, leggera e senza pali per il campeggio spontaneo e l'esplorazione di nuovi luoghi. Sostenibile, per i progettisti, non significa utilizzare materiali "ecologici", ma un design che promuova comportamenti umani che consentano alle generazioni future e all'ecosistema di sopravvivere.

The Nomad, per fornire la struttura della tenda, sfrutta la tensione di una fune attaccata ad un albero e picchettata al suolo, eliminando così la necessità di trasportare il peso extra dei pali della tenda e rendendo il montaggio una procedura semplice e veloce.

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Border Crossings

Progettista: Marta Monge Paese d’origine: UK-Italia Anno: 2015

Materiali: sacchi di riso, sacche trasparenti, reti da pesca, fibbie, sacchetti della spesa, materiale termico

Per il suo progetto di tesi alla Saint Martins, Marta Monge parte dal punto di vista del migrante e immagina gli oggetti che un clandestino potrebbe progettare per attraversare le frontiere europee. Border Crossings esplora il fenomeno dell’immigrazione clandestina, concentrandosi sui migranti e sui pericolosi viaggi che devono affrontare. Il risultato è una serie di ingegnosi strumenti da viaggio per migranti clandestini, che esplorano le potenzialità di soluzioni progettuali ad hoc per superare gli ostacoli del viaggio: “Bakshees Bag”, una borsa-seduta realizzata con sacchi di riso, per gli oggetti personali da offrire come tangente o merce di scambio per ottenere permes-si per proseguire il viaggio; “Nassa Float”, realizzata con una rete da pesca e un sacchetto di plastica trasparente, è un dispositivo di galleggiamento per affrontare la mancanza di giubbotti di salvataggio; “Stowaway Luggage Set”, normali sacchetti per la spesa modificati per i viaggi sui camion.

Refugee Only

Progettista: Mella Jaarsma Paese d’origine: USA Anno: 2003

Materiali: pelle di mucca, metallo, stoffa

Refugee Only consiste in due costumi di cui la forma ricorda più un rifugio che un indumento. Uno è fatto di tessuti per la gente comune, mentre quello in pelle con fibbie fantasia è fatto per l'élite. Questi rifugi si riferiscono all'attuale realtà globale della migrazione in cui ognuno deve essere pronto a diventare un rifugiato.

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Border Crossings

Progettista: Marta Monge Paese d’origine: UK-Italia Anno: 2015

Materiali: sacchi di riso, sacche trasparenti, reti da pesca, fibbie, sacchetti della spesa, materiale termico

Per il suo progetto di tesi alla Saint Martins, Marta Monge parte dal punto di vista del migrante e immagina gli oggetti che un clandestino potrebbe progettare per attraversare le frontiere europee. Border Crossings esplora il fenomeno dell’immigrazione clandestina, concentrandosi sui migranti e sui pericolosi viaggi che devono affrontare. Il risultato è una serie di ingegnosi strumenti da viaggio per migranti clandestini, che esplorano le potenzialità di soluzioni progettuali ad hoc per superare gli ostacoli del viaggio: “Bakshees Bag”, una borsa-seduta realizzata con sacchi di riso, per gli oggetti personali da offrire come tangente o merce di scambio per ottenere permes-si per proseguire il viaggio; “Nassa Float”, realizzata con una rete da pesca e un sacchetto di plastica trasparente, è un dispositivo di galleggiamento per affrontare la mancanza di giubbotti di salvataggio; “Stowaway Luggage Set”, normali sacchetti per la spesa modificati per i viaggi sui camion.

Refugee Only

Progettista: Mella Jaarsma Paese d’origine: USA Anno: 2003

Materiali: pelle di mucca, metallo, stoffa

Refugee Only consiste in due costumi di cui la forma ricorda più un rifugio che un indumento. Uno è fatto di tessuti per la gente comune, mentre quello in pelle con fibbie fantasia è fatto per l'élite. Questi rifugi si riferiscono all'attuale realtà globale della migrazione in cui ognuno deve essere pronto a diventare un rifugiato.

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70 | C

APIT

OLO 1

[trasportàbile]

agg. [der. di trasportare]. – Che si può trasportare con facilità o senza danno, riferito a cose e persone.

in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

Sono dispositivi che possono essere concepiti come un kit da assem-blare quando serve, possono avere ruote o maniglie. Sono elementi che ci rendono consci di come muoviamo i nostri averi e noi stessi. Normalmente sono leggeri e caratterizzati da un’alta tecnologia co-struttiva. Sono dispositivi che vanno dalla piccola alla grande dimen-sione, si posso trasportare da soli, con l’ausilio di mezzi o altre persone.

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APIT

OLO 1

kamp

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72 | C

APIT

OLO 1

Questa parte espone i numerosi dispositivi concepiti come kit da as-semblare quando serve, forniti di ruote o maniglie, normalmente leg-geri e caratterizzati da un’alta tecnologia costruttiva.

I dispositivi trasportabili, nell’intento di mantenere la flessibilità di un ambiente, sia esso interno o esterno, assicurano un’ottima funzionalità, lasciando allo stesso tempo spazio ad eventuali cambiamenti; vanno dalla piccola alla grande dimensione, si posso trasportare da soli, con l’ausilio di mezzi o altre persone. Sono elementi che ci rendono consci di come muoviamo i nostri averi e noi stessi.

<<I filosofi dell'illuminismo avevano promesso che la scienza e il progresso avrebbero portato tanti benefici alla popolazione: benessere, salute, mobilità. Dall'inizio del secolo, la macchina automobile evoca il mito del centauro, che è il mito della fusione

fra intelligenza umana e forza animale. Conosciamo bene i risultati di tali esperienze: grandi raduni di airstream nelle riserve naturali americane, lunghe file di caravan sulle strade estive, campeggi stracolmi, mobile homes che non si spostano mai... dalla Citroën

alla maison citrohan di Le Corbusier, fino ai progetti di Fuller, la questione della mobilità della casa sembra aver lasciato il campo ad una tanto imperante quanto deludente

tecnologia applicata. Ora è possibile riconsiderare la questione della mobilità da un punto di vista architettonico?>> John Hejduk concepisce l’intera abitazione come un qualcosa di mobile, da progettare “sia per la femmina sola che per il maschio solo appartenenti a una fascia d’età compresa fra i 12 e gli 80 anni. L’individuo che desidera rimanere solo; che desidera abitare uno spazio che sia tutto suo, ovvero: vivere solo; non necessariamente condurre un’esistenza da reclusi, ma vivere, solo, in una città, in una metropoli”.5

L’abitazione che l’architetto propone in occasione della mostra alla Triennale di Milano dal titolo Progetto Domestico, del 1986, si compone di due unità, poste su ruote, che possono essere sposta-te anche da un semplice furgone. Le unità mobili possono essere disposte in modi diversi anche collegate fra di loro. Esse sono sia un veicolo che una struttura fissa. Nell’idea di Hejduk queste unità mobili venivano assegnate (con un sistema di estrazione) a quelle persone che non possedevano un’automobile o a quelle persone che non desideravano possederne una.

Non sono state progettate per essere collocate in speciali aree attrez-zate, ma per far parte del tessuto urbano: “esse devono poter arrivare da qualunque parte, in qualsiasi momento e trovare posto ovunque”. Sempre mobile e su ruote ma concepito per vivere in gruppo è il progetto di Vito Acconci del 1991.

Mobile Linear City è una casa telescopica, facilmente trasportabile, composta da sei unità abitative incastrate in una che si possono aprire sino a raggiungere la lunghezza di cinquanta metri, un semirimorchio che viaggia come un normale autocarro. Quando l’autocarro è par-cheggiato, l’abitazione può essere tirata fuori: ciascuna unità scivola su un binario fino ad ancorarsi alla successiva unità più grande. Le unità sono foderate di lamiera d’acciaio ondulato; il rivestimento è ta-gliato in sezioni, provvisto di cardini così che si possono piegare all’in-terno e al di fuori. Ciascuna unità funziona come una casa individuale in una città; l’ultima unità, che è quella più piccola, funziona come un centro servizi per la comunità. Si pone come un elemento parassitario rispetto allo spazio urbano, in uno strano gioco di ruoli. Il suo aspetto cosi poco familiare è in sintonia con la sua assoluta adattabilità,

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poi-APIT

OLO 1

ché indipendente dagli stili locali.

Sullo stesso concetto è il progetto del collettivo N55, Spaceframe, configurato come un tetraedro tronco con un'area di circa 20 m2 che in base alle esigenze e all'economia dell’utente è possibile modifi-care, dimensionalmente e spazialmente, includendo piani e stanze supplementari. L'intera unità è costituita da piccoli componenti leggeri che possono essere gestiti senza l'uso di gru o altri macchinari pesanti. Tutte le parti sono materialmente ridotte al minimo, con un basso grado di produzione e di facile realizzazione e, quando sono impilate, occupano pochissimo spazio. La costruzione è assemblata a mano e può essere eretta direttamente sul terreno, dal momento che non è necessaria alcuna fondazione. La struttura può essere smantel-lata e ricostruita più volte senza danneggiarsi, può essere spostata completamente montata o parzialmente smantellata.

Con il progetto Snail Shell System, invece, lo stesso collettivo offre al nomade urbano una forma altamente simbolica e ricca di caratteristi-che positive per vivere in diversi ambienti: un serbatoio cilindrico di polietilene avvolto da cingoli realizzati con zerbini di gomma crea un guscio che può essere fatto rotolare o galleggiare. I cingoli servono per sterzare e ammortizzare le vibrazioni, mentre un oblò laterale per-mette di entrare in questa capsula abbastanza leggera da poter es-sere spostata da una sola persona. Accanto all’oblò sono state poste una pompa di sentina, una pagaia e una presa d’aria che consentono di navigare su laghi, fiumi o in mare con una perfetta ventilazione. Altro loro progetto è Small Truck, un veicolo leggero, a basso costo, a movimento umano che consente di spostare carichi fino a circa 300 kg a basse velocità, offre protezione dal vento e dalla pioggia e può essere equipaggiato con vari sistemi - piattaforme e rimorchi - in grado di supportare diverse iniziative, come ad esempio trasporti, un piccolo negozio, un ristorante, un cinema o un ufficio, una biblioteca pubblica ed infine una casa mobile.

Inerente sempre al campo del trasportabile senza però essere prov-vista di ruote, ma anch’essa concepita per essere un’abitazione del tutto autosufficiente e trasportata in elicottero, è la casa per vacanze di Collins+Turner. L’idea dell’edificio è molto semplice: due imma-gini per una sola costruzione. Il risultato, all’esterno, è una forma architettonica dinamica che comprende due schermi, uno aperto a nord, l’altro a sud. Questi due spazi sono collegati internamente da un nucleo centrale. Lo spazio che dà a nord è dedicato al soggiorno, mentre le camere da letto, più intime, guardano sul tranquillo pano-rama del fianco della collina. Costruita come ritiro per il proprietario di una tenuta nelle remote pianure di Monaro, nella parte meridionale del Nuovo Galles del Sud, in Australia, la casa è stata progettata a Londra, mentre il committente si trovava a casa propria a New York, e il luogo adatto per il posizionamento è stato scelto tramite internet: “è piombata come un ufo, come una casa di un altro pianeta”6.

Sempre autosufficiente e posizionabile dove si vuole abitare, andan-do ad occupare per esempio gli spazi sempre più contenuti e le risor-se limitate nelle aree urbane, è l’installazione prerisor-sentata al Salone del Mobile di Milano del 2017 di Mini Living -Breathe, progettata dagli architetti newyorkesi di SO-IL: questa espone il concetto di un abitare sostenibile e consapevole delle risorse, con un impatto ambientale minimo all’interno di uno spazio fisico contenuto, mettendo in discus-sione lo stile di vita convenzionale e dimostrando come l’architettura possa rispondere in modo creativo alle sfide future, come per esem-pio gli spazi sempre più piccoli e le risorse limitate nelle aree urbane.

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74 | C

APIT

OLO 1

L’installazione crea un’area living che ospita fino a tre persone in 50 m2 su tre livelli, i quali offrono ambienti accoglienti e utili sia per rilas-sarsi sia per lavorare. Il rivestimento esterno, flessibile e trasparente, filtra e neutralizza l’aria, inondando di luce naturale gli interni, men-tre il giardino pensile contribuisce a migliorare l’aria e il microclima urbano.

A metà strada tra il caravan e le costruzioni prefabbricate, i dispositivi trasportabili sono la risposta a una delle tendenze degli ultimi anni: quella di mantenere l’identità della propria abitazione nonostante l’e-sigenza (o il desiderio) di spostarsi. Sono la conseguenza di una serie di fattori: personali, economici, sociali – ma si rivelano anche terreno di sperimentazione per temi attuali come la sostenibilità, il conte-nimento dei costi e la velocità di costruzione. Sono degli «oggetti compatti, scultorei, che richiedono soluzioni intelligenti per soddisfa-re tutte le esigenze dell’abitasoddisfa-re in un piccolo spazio»7.

5 | AA.VV. Il progetto

domestico. La casa dell’uomo: archetipi e prototipi. Milano. 1986.

6 | Golowin, S. Il

futu-ro dei nuovi nomadi. In Domus n. 814, 1999

7 | Kramer, S.

Noma-dic Living. Salenstein.

2017

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APIT

OLO 1

izione nomad

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76 | C

APIT

OLO 1

V

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APIT OLO 1 l System. l T ruck. N55, Spaceframe.

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78 | C APIT OLO 1 Col lins + T urner

, Bombala Farmhouse, interni

Col

lins + T

urner

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APIT

OLO 1

eat

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Mikasi Tipi

Progettisti:

Sascha Akkermann, Flo Florian

Paese d’origine: Germania Anno: 2014

Materiali: struttura in legno di frassino, Tyvek, cuscini

Il progetto è una rivisitazione in chiave moderna di un’icona senza tempo: è stata creata una casetta dei giochi per bambini, ma anche un poetico rifugio per adulti. Il telaio a forbice in legno di frassino è regola-bile in larghezza e ampiezza; il grande spazio interno è avvolto da un rivestimento traslucido in Tyvek, una fibra in poliestilene, che si fissa con facilità alla cima del supporto. La base esagonale, imbottita e leggermente rialzata, la rende fruibile per l’utilizzo sia in spazi chiusi sia in spazi all’aperto. Costruita da solo tre elementi, la tenda è ripiegabile, compatta e ultraleggera; si può arrotolare e portare sottobraccio.

paraSITE

Progettista: Michael Rakowitz

Paese d’origine: USA Anno: 1998

Materiali: sacchetti di plastica, tubi di polietilene, ganci di metallo, nastro adesivo

Il paraSITE è una soluzione abitativa per i senzatetto, temporanea e trasportabile, dignitosa e provocatoria insieme. Come suggerisce il nome, si tratta di una “struttura-parassita”: il doppio strato di polietilene di cui è fatta, per gonfiarsi e riscaldarsi, si collega ai condotti esterni di riscaldamento e aria condizionata di una abitazione ospitante. L’effime-ro pL’effime-rogetto richiama l’attenzione su un tema tutt’altL’effime-ro che risolto. Queste case da “guerriglieri urbani” ci rimanda a quelli che sono gli elementi percettivi dell’abitare: il sentirsi protetti dal calore domestico e il percepire una separazione rispetto allo spazio esterno.

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Mikasi Tipi

Progettisti:

Sascha Akkermann, Flo Florian

Paese d’origine: Germania Anno: 2014

Materiali: struttura in legno di frassino, Tyvek, cuscini

Il progetto è una rivisitazione in chiave moderna di un’icona senza tempo: è stata creata una casetta dei giochi per bambini, ma anche un poetico rifugio per adulti. Il telaio a forbice in legno di frassino è regola-bile in larghezza e ampiezza; il grande spazio interno è avvolto da un rivestimento traslucido in Tyvek, una fibra in poliestilene, che si fissa con facilità alla cima del supporto. La base esagonale, imbottita e leggermente rialzata, la rende fruibile per l’utilizzo sia in spazi chiusi sia in spazi all’aperto. Costruita da solo tre elementi, la tenda è ripiegabile, compatta e ultraleggera; si può arrotolare e portare sottobraccio.

paraSITE

Progettista: Michael Rakowitz

Paese d’origine: USA Anno: 1998

Materiali: sacchetti di plastica, tubi di polietilene, ganci di metallo, nastro adesivo

Il paraSITE è una soluzione abitativa per i senzatetto, temporanea e trasportabile, dignitosa e provocatoria insieme. Come suggerisce il nome, si tratta di una “struttura-parassita”: il doppio strato di polietilene di cui è fatta, per gonfiarsi e riscaldarsi, si collega ai condotti esterni di riscaldamento e aria condizionata di una abitazione ospitante. L’effime-ro pL’effime-rogetto richiama l’attenzione su un tema tutt’altL’effime-ro che risolto. Queste case da “guerriglieri urbani” ci rimanda a quelli che sono gli elementi percettivi dell’abitare: il sentirsi protetti dal calore domestico e il percepire una separazione rispetto allo spazio esterno.

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82 | C

APIT

OLO 1

Wheelly

Progettista: ZO-loft Paese d’origine: Italia Anno: 2009

Materiali: ruota di metallo, binari di gomma, tende in poliestere

Usa soluzione smart per un rifugio urbano in grado di rotolare. Ideata per risolvere il problema dei senzatetto, Wheelly è una grande ruota di alluminio che si muove poggiando su guaine di gomma; leggera, si può spingere con un manico. Quando la ruota è ferma, il manico funge da cavalletto d’appoggio, conferendo stabilità alle due tende tubolari in poliestere integrate tra loro e apribili alle due estremità. L’abitacolo è lungo 3 metri e largo abbastanza per potersi stendere al suo interno. Dotata di un grande sacco per trasportare gli oggetti, è frutto di un approccio razionale e un design intelligente.

Compact Shelter

Progettista: Alastair Pryor Paese d’origine: Australia Anno: 2014

Materiali: polipropilene stabilizzato ai raggi UV

Il prototipo di questo rifugio pop-up, ideato per dare una migliore siste-mazione agli homeless, ha catturato l’attenzione di alcuni investitori e organizzazioni umanitarie, tanto che ora lo utilizzano in aree soggette a calamità. L’involucro in propilene stabilizzato ai raggi UV è resistente, a tenuta d’acqua e termoisolante. Di semplice forma cubica da aperto, si ripiega su se stesso fino a diventare un rettangolo piatto maneggevole facile da trasportare. Munito di valvole d’aria regolabili manualmente, è progettato per resistere in diverse condizioni ambientali. Ogni modulo ospita comodamente due adulti e due bambini, mentre, se unito ad altre unità, può formare più ambienti.

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APIT

OLO 1

Wheelly

Progettista: ZO-loft Paese d’origine: Italia Anno: 2009

Materiali: ruota di metallo, binari di gomma, tende in poliestere

Usa soluzione smart per un rifugio urbano in grado di rotolare. Ideata per risolvere il problema dei senzatetto, Wheelly è una grande ruota di alluminio che si muove poggiando su guaine di gomma; leggera, si può spingere con un manico. Quando la ruota è ferma, il manico funge da cavalletto d’appoggio, conferendo stabilità alle due tende tubolari in poliestere integrate tra loro e apribili alle due estremità. L’abitacolo è lungo 3 metri e largo abbastanza per potersi stendere al suo interno. Dotata di un grande sacco per trasportare gli oggetti, è frutto di un approccio razionale e un design intelligente.

Compact Shelter

Progettista: Alastair Pryor Paese d’origine: Australia Anno: 2014

Materiali: polipropilene stabilizzato ai raggi UV

Il prototipo di questo rifugio pop-up, ideato per dare una migliore siste-mazione agli homeless, ha catturato l’attenzione di alcuni investitori e organizzazioni umanitarie, tanto che ora lo utilizzano in aree soggette a calamità. L’involucro in propilene stabilizzato ai raggi UV è resistente, a tenuta d’acqua e termoisolante. Di semplice forma cubica da aperto, si ripiega su se stesso fino a diventare un rettangolo piatto maneggevole facile da trasportare. Munito di valvole d’aria regolabili manualmente, è progettato per resistere in diverse condizioni ambientali. Ogni modulo ospita comodamente due adulti e due bambini, mentre, se unito ad altre unità, può formare più ambienti.

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Portable Housing Space

Progettista: Winfried Baumann

Paese d’origine: Italia Anno: 2009

Materiali: rete di acciaio galvanizzato, compensato, sacchi a pelo

Spinto dal numero sempre crescente di senzatetto, l’artista tedesco Baumann ha creato “Building Life System”, una serie di soluzioni abita-tive per chi non dispone di una casa, a cui lavora dal 2001. Portable Housing Space è formato da gabbie di rete metallica equipaggiate con borse di nylon e sacchi a pelo. Le gabbie, delle dimensioni di un letto singolo, garantiscono un minimo di privacy e di sicurezza. Questa spartana soluzione ricorda progetti simili che si possono trovare in città sovraffollate come Hong Kong.

To many places

Progettista: Emmy Polkamp Paese d’origine: Paesi Bassi Anno: 2015

Materiali: compensato, telo

To many places di Emmy Polkamp è un progetto di hotel nomade pensato per allestire un pop-up hotel in luoghi abbandonati o ex-indus-triali, dando loro nuova vita. Ideate come soluzioni mobili e riutilizzabili, le camere-tende diventano tende di design hanno un letto e dei vani portaoggetti, e possono ospitare una o due persone. Allestite in occasi-one di eventi speciali temporanei per ospitare i nomadi urbani, ogni tenda è identificata da un grande numero ed è realizzata con telai di legno e teloni di colore chiaro, che possono essere riposti in scatole che formano la base del letto. Il progetto prevede cucine comuni e program-mi sociali nell’ottica di mettere a disposizione edifici in disuso per campeggiatori e residenti.

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