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CAPITOLO I LA TASSAZIONE AMBIENTALE E L’IDENTIFICAZIONE DELLA CAPACITÀ CONTRIBUTIVA NEL PRESUPPOSTO AMBIENTALE

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CAPITOLO I

LA TASSAZIONE AMBIENTALE E

L’IDENTIFICAZIONE DELLA CAPACITÀ

CONTRIBUTIVA NEL PRESUPPOSTO

AMBIENTALE

SOMMARIO –1. I tributi ambientali come strumento di tutela dell’ambiente –1.1. L’evoluzione dei tributi con funzione ambientale in tributi ambientali in senso stretto –1.1.1. La relazione causale fra il presupposto del tributo e l’unità fisica che determina il danno ambientale –2. I tributi ambientali nel sistema interno –2.1. Capacità contributiva e ambiente –2.2. Il problema della legittimazione dei tributi ambientali in senso stretto e il problema dell’individuazione della capacità contributiva nel presupposto ambientale –2.2.1. (segue) La capacità contributiva e la sua funzione solidaristica –2.2.2. (segue) Individuazione della capacità contributiva come criterio di riparto nei tributi ambientali in senso stretto ‒2.3. Il tributo ambientale in termini di imposta ambientale sui consumi

1. I tributi ambientali come strumento di tutela dell’ambiente

Gli Stati membri e le Comunità locali, al fine di conseguire la tutela dell’ambiente, possono disporre ‒ oltre che di strumenti giuridici armonizzati al panorama europeo ‒ anche di numerosi altri strumenti, come la fiscalità, nelle sue diverse forme, quale logica espressione del principio europeo “chi inquina paga”, in grado di sensibilizzare e indirizzare gli operatori economici ad assumere comportamenti compatibili con la protezione dell’ambiente. Tra le diverse forme di intervento, oltre che a un sistema variegato di incentivazioni e agevolazioni fiscali1, una significativa attenzione deve essere posta sui

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Numerose sono le agevolazioni fiscali a carattere ecologico introdotte progressivamente dal legislatore italiano. Senza alcuna pretesa di un

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tributi ambientali; tali tributi, tuttavia, se, da un lato, rispondono e sono conformi al suddetto principio di “chi inquina paga”2, dall’altro ‒

approfondimento esauriente, si può ricordare la Legge n. 388 del 23 dicembre 2000 (Finanziaria 2001, c.d. Tremonti Ambientale) art. 6, commi da 13 a 19, le detrazioni d’imposta del 20% di cui al D.L. n. 5 del 10 febbraio 2009 sull’acquisto di elettrodomestici di classe energetica pari o superiore alla A, il bonus del 55% per le ristrutturazioni e interventi edili volti all’efficientamento energetico sugli edifici pubblici e privati introdotto ‒ e poi riconfermato nelle finanziare successive ‒ con la legge finanziaria del 2007.

La detrazione spetta:

 per il 55% delle spese sostenute (e rimaste a carico) in relazione agli interventi realizzati fino alla data del 5 giugno 2013;

 per il 65% degli oneri sostenuti dal 6 giugno 2013 al 31 dicembre 2017 (la proroga fino al 31 dicembre 2017 è disposta dall’art. 1, 2° comma della Legge n. 232 dell’11 dicembre 2016).

Nell’ambito dell’imposizione indiretta merita considerazione l’estensione dell’aliquota IVA del 10% agli interventi aventi riqualificazione energetica degli edifici e di risparmio energetico.

2

L’art. 174, paragrafo 2 del Trattato di Roma, nel testo attualmente in vigore, afferma che la politica dell’Unione in materia ambientale “è fondata sui princìpi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio di chi inquina paga”. La nascita di tale principio può essere fatta risalire alla Raccomandazione OCSE C(72) 128 del 26 maggio 1972 secondo la quale l’inquinatore doveva farsi carico dei costi di prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento come definite dall’Autorità pubblica al fine di mantenere l’ambiente in una condizione accettabile. Il principio del “chi inquina paga” è stato letto da due punti di vista contrastanti:

1. da un punto di vista strettamente civilistico-giuridico: è stato evidenziato il carattere risarcitorio dei prelievi ad esso ispirati;

2. da altro punto di vista, strettamente economico e ispirato alle teorie pigouviane: è stato posto l’accento sulla funzione di internalizzazione delle diseconomie esterne dei prelievi ad esso ispirati.

Nessuna di queste due chiavi di lettura poneva l’attenzione sui riflessi che tale principio poteva avere in ambito fiscale, in quanto, trascuravano il carattere coattivo dell’obbligazione dell’inquinatore di contribuire alle spese per la protezione ambientale che emerge dalla formula imperativa utilizzata per enunciare il principio. In verità, nel corso del tempo, il principio del “chi inquina paga” è parso adatto a legittimare un’ampia gamma di interventi economici per la salvaguardia dell’ambiente e tra questi è lapalissiano considerare e comprendere l’intervento fiscale. Tale orientamento trova conferma nella recente evoluzione compiuta in seno alla Commissione europea, che ha affermato che l’imposizione ambientale, includendo i costi di rimozione degli effetti inquinanti nei prezzi dei servizi e delle merci, permette di attuare il principio “chi inquina paga” per mezzo della funzione dis/incentivante da questa esercitata. È necessario sottolineare che il principio in questione non crea una legittimazione ad inquinare né ha un carattere sanzionatorio ma vuole rappresentare un criterio preventivo di “efficienza distributiva”. A partire da questa ricostruzione il principio “ chi inquina paga” è stato ritenuto la fonte di legittimazione sia di determinati tributi volti alla tutela ambientale, sia della previsione di specifiche agevolazioni fiscalità per finalità

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da un punto di vista strettamente interno ‒ non sempre appaiono immediatamente adeguati alle consuete e classiche interpretazioni del principio di capacità contributiva.

Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (d’ora in avanti, per brevità, “OCSE”) sono da considerare strumenti economici per la salvaguardia ambientale “tutte quelle misure che incidono sulle scelte tra diverse alternative tecnologiche e di consumo, attraverso la modificazione delle convenienze in termini di costi e benefici privati”3. Stando a tale nozione, l’OCSE ha distinto almeno cinque categorie di strumenti economici volti alla protezione dell’ambiente:

1. Tasse (o imposte) e tariffe, che possono avere funzione dis/incentivante, o di gettito o entrambe;

2. Sussidi, che hanno funzione di sostegno finanziario al fine di promuovere misure e attività destinate alla riduzione dell’inquinamento;

3. Depositi cauzionali, che consistono in sovraprezzi sulle vendite dei prodotti inquinanti che possono essere restituiti in caso di raccolta e riciclaggio dei prodotti;

4. Penalità, e altre misure di deterrenza (come le fideiussioni) applicabili ai soggetti che svolgono attività inquinanti;

ambientali. A questo punto si può concludere che il principio “chi inquina paga” costituisce la legittimazione degli Stati membri ad introdurre tributi (coerenti con la politica dell’Unione e dell’ordinamento europeo) che includano nella fattispecie imponibile il fattore ambientale, ma anche “un criterio di individuazione e di determinazione di un’autonoma forza economica del contribuente che costituisca il presupposto per l’applicazione di una vera e proprio imposta ambientale: quella cioè nella quale l’ambiente (o, meglio, la sua utilizzazione a fini ambientali) costituisce indice diretto della ricchezza tassabile dell’individuo” (SELICATO P., “Imposizione fiscale e principio chi inquina paga”, in Rassegna tributaria, Wolters Kluwer Italia Professionale, Roma, 2005, II, n. 4, p. 1166).

3

OCSE, Instruments èconomiques pour la protection de l’environnement, Paris, 1989.

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5. Permessi negoziabili e altri interventi di mercato, volti a limitare le produzioni inquinanti, ovvero a favorire processi di innovazione produttiva verso procedure con minor impatto ambientale.

È necessario precisare che sono state individuate tre tipologie di tributi ambientali:

a) Imposte sulle emissioni, riferite allo spargimento di sostanze inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo e alle emissioni acustiche inerenti alla qualità e alla qualità dell’agente inquinante e ai costi per i danni provocati all’ambiente;

b) Tributi sul consumo o sull’utilizzazione di risorse, rivolti alla copertura dei conseguenti oneri amministrativi e ai costi di trattamento, raccolta e di smaltimento;

c) Tributi sulla produzione o sul consumo connesso a prodotti dannosi per l’ambiente utilizzati in processi industriali o consumati dai singoli.

Ritornando alla classificazione OCSE, i tributi ambientali sono, dunque, equiparati agli altri strumenti economici (sussidi, depositi cauzionali, permessi negoziabili) e risultano relegati a una mansione marginale come strumento per reperire risorse finanziare destinate all’ambiente (senza alcuna distinzione rispetto allo strumento tariffario). Nello schema OCSE, quindi, il tributo ambientale è considerato come “uno dei possibili strumenti utilizzabili, senza alcun carattere di maggiore o più pregnante efficacia, in quanto, allo strumento tributario non veniva riconosciuta la capacità di tutelare direttamente l’ambiente”4. Il predetto schema conferisce allo strumento tributario solamente una funzione ambientale, nella quale

4

ALFANO R., Tributi ambientali profili interni ed europei, G. Giappichelli, Torino, 2012, p. 32.

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la tutela dell’ambiente acquisisce una finalità extrafiscale, non collocandosi all’interno della fattispecie impositiva. I tributi con funzione ambientale erano, dunque, riconosciuti dalla dottrina come tributi di scopo ovvero come tributi che “rispondono nella loro costruzione giuridica solo a canoni tributari, perseguendo anche finalità extrafiscali di tutela dell’ambiente”5.

Come si può osservare, originariamente, lo strumento tributario era apprezzato in via residuale come una delle numerose misure dirette a consentire una internalizzazione delle esternalità ambientali e sostanzialmente a gravare sul costo degli inquinanti (con imposte sulla fabbricazione o sul consumo) al fine di condizionare le scelte dei consumatori verso comportamenti e decisioni maggiormente sostenibili. In questi termini si riconosce al tributo una finalità politico-sociale, ovvero, una finalità extrafiscale esterna al suo presupposto.

In base a tali classificazioni, al tributo ambientale è riconosciuta una funzione incentivante, quindi, con il fine di limitare e contenere le attività inquinanti e, una funzione redistributiva intesa, attraverso la natura coattiva del tributo, come possibilità di reperire risorse al fine di finanziare servizi ed opere di risanamento ambientale. Considerando la primigenia espressione di strumenti finanziari a tutela dell’ambiente realizzata dall’OCSE nei primi anni ‘70, si può, dunque, affermare che non esistono tributi ambientali ma solo tributi con funzione ambientale, in cui il bene ambiente rimane estraneo alla fattispecie tributaria e al presupposto del tributo, riconoscendo, perciò, al tributo ambientale una funzione politico-sociale di

5

RUSSO P., Manuale di diritto tributario. Parte Speciale, A. Giuffrè, Milano, 2007, p. 320.

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strumento di tutela ambientale, configurandosi come tributo di scopo.

1.1. L’evoluzione dei tributi con funzione ambientale in tributi ambientali in senso stretto

Con l’evoluzione compiuta in seno alla Commissione europea, in particolare con le risoluzioni del Consiglio del 1987 e del 1993 e il Libro Bianco di Delors su “crescita, competitività e occupazione” e la comunicazione del 29 gennaio 1997 relativa a “imposte, tasse e tributi ambientali” si superano le posizioni espresse dall’OSCE ed assunte dall’Unione europea.

Nel Libro Bianco su “crescita, competitività e occupazione”, realizzato dal Presidente Delors nel 1993, si introduce la possibilità di utilizzare la tassazione ambientale come strumento di promozione dell’occupazione. Il ragionamento del Presidente Delors alla base del suddetto concetto prevede che l’utilizzo di attività e tecniche orientate allo sviluppo sostenibile come riciclaggio, energie rinnovabili e biotecnologie avrebbe potuto favorire l’occupazione se contemporaneamente la pressione fiscale sul lavoro fosse stata alleggerita in proporzione al maggior prelievo fiscale sull’ambiente. “La conseguenza di tale politica redistributiva dovrebbe essere la promozione di un circolo virtuoso, in grado di raggiungere come risultato il doppio dividendo6 della protezione dell’ambiente e dell’aumento dell’occupazione”7.

Tralasciando la questione del doppio dividendo, ancora più interessante ed inerente alla mia analisi è l’elaborazione teorica della

6 DELORS J., Libro Bianco su crescita, competitività e occupazione, Pubblicazioni Ufficiali Comunità Europee, 1994.

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GALLO E. – MARCHETTI F., “I presupposti della tassazione ambientale”, in

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nozione di tributo ambientale maturata in sede europea8. In primis, la Commissione europea individua quelli che potrebbero essere gli elementi indicatori di un tributo ambientale:

a) L’imponibile: per cui la base materiale sulla quale la tassa è riscossa deve avere sull’ambiente un impatto negativo scientificamente determinabile;

b) L’azione incentivante: per cui la tassazione potrebbe agire come incentivo economico per il miglioramento ambientale;

c) Nello scopo dichiarato: per cui la volontà politica del legislatore è il miglioramento ambientale.

La Commissione arrivò alla conclusione che l’unico indicatore efficace è l’imponibile, in quanto sia l’azione incentivante che lo scopo dichiarato sono fattori esteriori e non oggettivi.

La prospettiva sui tributi ambientali, a questo punto, cambia drasticamente, e l’inversione di tendenza si ha quando la Commissione afferma che “una tassa rientra nella categoria delle tasse ambientali se l’imponibile è un’unità fisica (o un suo sostituto o derivato) di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando è usato o rilasciato”. Gli effetti negativi di cui si fa menzione richiamano il concetto di impatto ambientale9 con il quale si intende l’impatto complessivo dell’uomo sulla natura, quindi, la somma di tutti gli effetti dell’estrazione (il loro deterioramento e riduzione), dell’emissione di inquinanti, dell’impiego di energia, della distruzione di biodiversità, dell’urbanizzazione e degli altri aspetti della crescita fisica. L’unità fisica segnalatrice del deterioramento potrebbe essere l’unità di sostanza emessa, per esempio CO2, oppure una unità sostitutiva o risultante per emissioni (per esempio il

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Statistic on Environmental taxes, commissioned by Europea Commission, preparade by ATW-research, 6-7 maggio 1996.

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Sul punto, si veda: MEADOWS DONNELLA ‒ MEADOWS DENNIS ‒ RANDERS J., I

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confronto tra veicoli con determinate caratteristiche di emissioni rispetto a 1 litro di benzina consumato) oppure unità di determinate risorse naturali (ad esempio di acqua dolce). Affinché possa essere posto in essere un tributo ambientale è, dunque, indispensabile, secondo la Commissione europea, che ci sia una relazione casuale e diretta fra l’unità fisica, che provoca un determinato deterioramento o danno scientificamente confermato dell’ambiente necessariamente reversibile10 e l’imponibile del tributo.

Sulla spinta di tale nozione si è proceduto a tacciare un quadro della tassazione ambientabile, attuabile in tutti i Paesi dell’Unione, esprimendo, innanzitutto, la distinzione tra tasse (imposte) ‒ pagamenti che non sono associati al ritorno di beni o servizi, prive quindi di un legame sinallagmatico ‒ e tra tariffe ‒ pagamenti associati a un ritorno di beni o servizi in cui sussiste il requisito della sinallagmaticità rispetto a un servizio reso ‒.

In secondo luogo, poi, la Commissione ha individuato due diversi tributi in base al tipo di imponibile:

1. Tasse (tributi) ambientali sull’inquinamento, in cui l’imponibile è una unità fisica di una specifica sostanza inquinante (SO2, CO2) calcolata misurando o stimando le emissioni inquinanti;

10 Dalle analisi condotte in sede europea viene a delinearsi che il deterioramento ambientale, causato dall’unità fisica, presupposto del tributo, non deve essere assoluto ma sopportabile e necessariamente reversibile. Richiamando il principio “chi inquina paga” si può affermare che un impatto ambientale non sostenibile non rientra nella fattispecie tributaria in quanto l’unità fisica produttrice di tale impronta ecologica non può rappresentare il presupposto di un tributo. Il deterioramento irreversibile dell’ambiente, come affermano Gallo e Marchetti (GALLO F. ‒ MARCHETTI F., op. cit. supra), deve essere colpito da strumenti sanzionatori, che scoraggino l’esercizio di attività che determinano un tale effetto. Laddove venissero individuate emissioni o prodotti che provochino effetti irreversibili all’ambiente, le attività che producono tali emissioni o il depauperamento di risorse ambientali scarse, devono essere vietate. Per questo sarebbe inaccettabile assumere a presupposto di un tributo tali attività, in quanto il contrario, potrebbe comportare un’inammissibile giustificazione morale a causare danni irreversibili all’ambiente.

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2. Tasse (tributi) ambientali sui prodotti, in cui l’imponibile non è una unità di emissioni di una determinata sostanza inquinante, ma un’unità fisica di un bene, di un prodotto o di una risorsa che sia espressiva di una generica relazione con il deterioramento o danno ambientale.

1.1.1. La relazione causale fra il presupposto del tributo e l’unità fisica che determina il danno ambientale

L’evoluzione compiuta in seno alla Commissione europea nell’elaborazione della nozione di tributo ambientale, rispetto alle direttive OCSE, ha posto l’accento su due aspetti fondamentali:

1. La necessità di attribuire al bene ambientale natura di elemento essenziale e strutturale della fattispecie tributaria, collocandolo all’interno del presupposto ambientale;

2. La misurabilità scientifica del danno ambientale, che deve essere chiaramente quantificabile mediante una specifica unità fisica. La Commissione europea, quindi, non solo ha distinto fra imposte (tasse) e tariffe (prezzi) ambientali, ma nel tentativo di dare una definizione di “tributo ambientale” ha evidenziato la relazione casuale che deve sussistere fra il tributo e l’unità fisica, la quale determina un deterioramento scientificamente dimostrabile del bene ambientale. Si assiste ad un’inversione di tendenza, in quanto per la prima volta il tributo ambientale viene concepito come un tributo contraddistinto da una relazione diretta e casuale tra il suo presupposto e l’unità fisica (risorsa ambientale, prodotto, emissione inquinante) che produce o potenzialmente potrebbe causare un danno ambientale. L’innovazione sta, in primis, nell’aver posto il bene ambientale all’interno della fattispecie tributaria (relazione causale) e non più all’esterno; in secondo luogo nell’aver focalizzato il ragionamento non tanto sulla salvaguardia dell’ambiente, quanto, piuttosto, sul

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deterioramento scientificamente dimostrato dell’ambiente, ovvero sull’unità fisica che determina o può causare il danno ambientale. L’unità fisica che provoca il deterioramento ambientale non è una funzione del tributo ambientale ma è un fatto oggettivo sussumibile e materiale del presupposto del tributo. La diretta assunzione, consistente nell’aver posto come elemento di congiunzione, fra il tributo e l’ambiente proprio l’unità fisica produttrice del danno ecologico, ha reso possibile generare il concetto di “tributo ambientale in senso proprio”.

2. I tributi ambientali nel sistema interno

L’evoluzione compiuta in sede europea, tuttavia, non ha avuto altrettanto seguito nell’ordinamento italiano, dove l’unico ambito che il legislatore fiscale ha preso in considerazione è stato quello dei rifiuti e delle emissioni di anidride solforosa SO2 e di ossido d’azoto NOx, trascurando in larga parte i più significativi prodotti ed emissioni inquinanti e, il consumo dei beni ambientali (boschi, coste, acque dolci, stock ittici e risorse del sottosuolo). La scelta del nostro legislatore fiscale, per quanto riguarda i prodotti inquinanti, è stata quella di utilizzare uno strumento non fiscale ‒ i consorsi obbligatori per la raccolta, lo smaltimento ed il riciclaggio dei prodotti inquinanti ‒ rinunciando a forme di tassazione sui prodotti stessi11.

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Il panorama delle principali forme di imposizione ambientale esistenti in Italia, considerando i diversi settori di applicazione, è in sintesi riconducibile al seguente elenco:

 Emissioni Inquinanti: - Rifiuti: Tassa per la raccolta dei rifiuti solidi urbani; tariffa per la gestione di questi (artt. 58 e ss. del D.Lgs. n. 507 del 15 novembre 1993; art. 49 del D.Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997), tributo per il conferimento dei rifiuti in discarica (art. 3, commi 24 e ss. della L. n. 549 del 28 dicembre 1995), tributo provinciale per la tutela ambientale (art. 19 del D.Lgs. n. 504 del 30 dicembre 1992), canone per la raccolta e la depurazione delle acque di rifiuto (art. 13 della L. n. 36 del 5 gennaio 1994).

- Qualità dell’aria: imposta erariale sull’inquinamento prodotto dagli aeromobili (art. 10 del D.L. n. 90 del 27 aprile 1990, convertito dalla L. n. 165 del 26 giugno 1990),

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La dottrina italiana12, alla fine del XX secolo, accogliendo il modello OCSE, ha continuato a vedere la tassazione ambientale in ragione della sua funzione di tutela dell’ambiente, in particolare, nel suo ruolo dis/incentivante e di reperimento di risorse.

La prima (come precedentemente detto)13 era volta a contenere le emissioni inquinanti, o il consumo di prodotti dannosi e di risorse ambientali scarse. Allo stesso tempo, poteva essere vista nella sua funzione incentivante nella misura in cui favorisca il rinnovo di impianti industriali obsoleti in favore di nuovi impianti a basso impatto ambientale in linea con nuovi standard di emissioni.

La seconda funzione, quella di finanziamento, si può dividere in due categorie:

1. Finanziamento di servizi ambientali;

2. Finanziamento di opere di risanamento ambientale, limpida espressione del principio di “chi inquina paga”.

Dal punto di vista giuridico la funzione di finanziamento di opere di risanamento è equiparabile alla c.d. imposta di scopo “il cui gettito è in tutto o in parte destinato al finanziamento di opere di risanamento ambientale anziché alla fiscalità generale”14. Dunque, la dottrina italiana fino a pochi decenni fa riconosceva al tributo ambientale essenzialmente natura extrafiscale.

imposta sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossidi di azoto (NOx) (art. 17, commi da 29 a 33 della L. n. 449 del 27 dicembre 1997).

 Prodotti inquinanti: Imposta sui sacchetti di plastica, contributo di riciclaggio del polietilene vergine, consorzio obbligatorio per il riciclaggio del polietilene vergine (D.Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997, “Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”).

 Consumo dei beni ambientali: canone per il servizio di fornitura dell’acqua (art. 18 della L. n. 36 del 5 gennaio 1994).

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Cfr. PERRONE CAPANO C., L’imposizione e l’ambiente, in AMATUCCI A. (a cura di),

Trattato di diritto tributario, CEDAM, Padova, 2001, p. 121 e ss. e, PICCIAREDDA F. –

SELICATO P., I tributi e l’ambiente: profili ricostruttivi, A. Giuffrè, Milano, 1996, p. 2 e ss.

13 Come detto supra, Cap. I, Par. 1.. 14

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12 2.1. Capacità contributiva e ambiente

A questo punto dell’indagine è necessario porsi la domanda su quale debba essere il significato dell’espressione «capacità contributiva» e su quale possa essere la sua correlazione con il fattore ambientale. Non vuole essere questa la sede per affrontare l’ampia discussione che è emersa dal momento dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, ma si rende comunque indispensabile fare un breve cenno alla dottrina più significativa e alla giurisprudenza costituzionale oramai consolidata sul tema:

1. L’art. 53 Cost. nel richiedere al prelievo fiscale il limite della capacità contributiva richiama la capacità economica del soggetto; 2. Capacità economica e capacità contributiva sono due concetti distinti, la capacità contributiva viene ad esistere solo nel momento e nella misura in cui il contribuente è capace di attingere alla sua ricchezza per concorrere alla spesa pubblica;

3. Nell’analisi della relazione che intercorre tra capacità economica e capacità contributiva il legislatore deve avere a mente anche gli altri valori costituzionali.

Chi condivide la visione “classica” ritiene che per poter capire fino in fondo il nucleo della relazione sussistente tra presupposto del tributo e ambiente è indispensabile tener conto della dottrina che si è venuta a formare in merito alla questione di legittimità costituzionale delle agevolazioni tributarie e genericamente della funzione extrafiscale dei tributi. Secondo questa visione il prelievo è visto come mezzo per realizzare altri scopi, rispetto ai quali il prelievo, appunto, si presenta come strumentale e non solo quale mezzo per concorrere alle spese pubbliche come previsto dall’art. 53 Cost.

L’art. 53 Cost. consente di porre in essere diverse valutazioni di soggetti con la medesima capacità economica per raggiungere gli obiettivi prefissati dal potere politico. Dunque, ‒ come si legge in

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Picciaredda e Selicato ‒, “sarà possibile individuare una minore attitudine alla contribuzione in un soggetto il quale, pure in presenza di una identica misura della base imponibile, ha realizzato il presupposto del tributo con un’attività meno nociva per l’ambiente di quella svolta da altri. Per altro verso, sarà anche possibile colpire con un tributo di maggiore entità il contribuente che abbia prodotto una base imponibile di identica misura attraverso un’attività ecologicamente più dannosa”, posizione pienamente condivisa anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

Merita, però, di essere richiamata la diversa opinione espressa da Ferrara il quale afferma che “non vi possa essere una maggiorazione della capacità contributiva del soggetto che arreca un danno ambientale a parità di manifestazione di forza economica”.

Tuttavia, è pacifico affermare che chi arreca un danno ambientale sia tenuto ad una prestazione risarcitoria o indennitaria. Proprio in merito all’art. 53 Cost. molta è la dottrina e la giurisprudenza del Giudice delle leggi che si è venuta a formare.

La dottrina maggioritaria, condivisa anche dalla giurisprudenza costituzionale, interpreta il principio della capacità contributiva quale rappresentazione dell’art. 2 Cost., ma anche come proiezione dell’art. 3 Cost. Ogni cittadino, proporzionalmente alla sua forza economica, deve dare il suo contributo allo sviluppo della comunità, ovviamente, sempre nei limiti di tale forza. La solidarietà politica, economica e sociale sancita dall’art. 3 Cost. è espressione del dovere dell’intera collettività di concorrere alle spese pubbliche. La natura solidaristica del principio di capacità contributiva trae maggiore forza dall’art. 53, 2° comma Cost., in base al quale l’ordinamento tributario è informato a criteri di progressività, per cui ciascuno deve concorrere alle pubbliche spese subendo un sacrificio più che proporzionale alle proprie ricchezze. Per cui, alla luce di quanto detto, il criterio di

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progressività richiede un sacrificio patrimoniale proporzionalmente maggiore ai contribuenti più ambienti rispetto a quanto preteso dai soggetti economici più deboli. Non può, infine, essere dimenticato il legame con l’art. 41, 3° comma Cost., che disciplina il ruolo dell’intervento statale nelle attività economiche: intervento che si concretizza nell’aver predisposto una riserva legislativa con l’obiettivo di svolgere un ruolo d’indirizzo e coordinamento di tutte le attività economiche per il raggiungimento di fini aventi un interesse generale15.

2.2. Il problema della legittimazione dei tributi ambientali in senso stretto e il problema dell’individuazione della capacità contributiva nel presupposto ambientale

Il principio della capacità contributiva, in relazione al modello del tributo ambientale proprio, richiede di essere letto alla luce dello schema europeo, il quale prevede (come sopra detto)16 di porre il bene ambientale all’interno della fattispecie tributaria e non più all’esterno e, inoltre, di focalizzare l’attenzione sull’unità fisica che determina o può causare il danno ambientale. Non si riesce, infatti, a comprendere come si possono ammettere prelievi che riguardino fatti che non siano espressione di indice di ricchezza nonostante che tali fatti siano di importante interesse pubblico. Inoltre, ricordando le linee guida dell’Unione europea per individuare un tributo ambientale, esse danno vita ad una struttura della fattispecie imponibile che mal si concilia con il principio della capacità contributiva. Nel dibattito italiano tale incompatibilità viene superata attraverso il riferimento o ad argomenti giuridici di natura civilistica, che riconoscono natura sostanzialmente risarcitoria al tributo

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Si veda infra, Cap. I, Par. 2.2.1.. 16 Come detto supra, Cap. I, Par. 2.1.1..

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ambientale, o al modello economico di Pigoue che ne esaltano il ruolo di internalizzazione delle esternalità causanti diseconomie.

In specie, i tributi ambientali comprendono i costi della rimozione dell’agente inquinante nei prezzi dei prodotti che ne sono la causa, agendo sostanzialmente nella forma di imposte sulla fabbricazione o sui consumi.

Secondo la ricostruzione giuridica-civilistica il tributo ambientale è considerato come una tassa che viene corrisposta nel momento in cui viene espletato un pubblico servizio, tale tassa finisce così per avere una funzione di risarcimento o di ripristino della condizione ambientale violata e dell’ambiente in generale. Il tributo ha così solo una funzione risarcitoria del pregiudizio ambientale causato, non dando alcuna rilevanza alla funzione preventiva, pretendendo da chi inquina soltanto le spese per il risanamento.

Stante questa conclusione, si rende necessario affrontare la problematica dei limiti e dei presupposti secondo cui l’unità fisica causante il danno ambientale può avere valore di presupposto del tributo in conformità al principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost. La ricostruzione più classica del principio di capacità contributiva prevede che il presupposto del tributo indichi un’attitudine o una forza economica, per cui è opportuno domandarsi se ci siano, ed eventualmente quali siano, le unità fisiche che generano una manifestazione economica. In base alla già menzionata classificazione europea, che individua come unità fisica il consumo di prodotti, l’utilizzo di beni ambientali scarsi e le emissioni inquinanti, in relazione al consumo di prodotti è pacifico sostenere l’esistenza di coerenza tra l’attitudine o forza economica e il principio di capacità contributiva, affermazione non sostenibile con riguardo alle altre due categorie per le quali si rende difficoltosa una valutazione economica. Difficile è, dunque, individuare una unica soluzione alla questione, se

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si continua a perseguire la tesi consolidata in base alla quale il presupposto del tributo debba sempre esprimere un’attitudine o forza economica, difficoltà superabile se si ammettesse che la capacità contributiva accogliesse anche diversi criteri di legame fra il concorso alle spese pubbliche e il presupposto del tributo, come del resto già sostengono opinioni minoritarie.

Sarebbe opportuno leggere l’art. 53 Cost. non in funzione di una singola manifestazione tipizzata di capacità contributiva (reddito, patrimonio, consumo o altro) ma avendo riguardo ad un insieme di possibili tributi e, quindi, indici di capacità contributiva, finendo così per richiedere “solo per ciascun ipotesi applicative un effettivo collegamento con fatti e situazioni valutabili pur sempre economicamente e comunque concretamente espressivi di mera potenzialità economica”17.

Con riferimento al tributo ambientale questi fatti o situazioni potrebbero essere individuati in quella unità fisica che genera il danno ambientale per cui ricollegandosi alle argomentazioni giuridico-civilistiche si dovrebbe condividere una nozione di capacità contributiva da intendere come criterio di riparto del carico pubblico tra i consociati, leggendola non solo con riferimento alla sua funzione ma soprattutto al suo contenuto. Si potrebbe così abbandonare quelle visioni che costringono il legislatore a fare scelte che individuano i presupposti soltanto in quelle situazioni, beni e rapporti che hanno un valore patrimoniale. Il richiamo alla capacità contributiva richiede al soggetto politico di individuare i presupposti anche con riferimento a situazioni e condizioni, che pur non avendo caratteri patrimoniali, sono comunque espressione della capacità a concorrere alle spese pubbliche e rispondono a criteri di distribuzione

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aventi le caratteristiche di equità, coerenza e ragionevolezza. Tale interpretazione dell’art. 53 Cost. prevede, comunque, una valutabilità in termini economici del presupposto, ad esempio le emissioni inquinanti, ma anche l’utilizzo del bene ambientale scarso, non sono suscettibili di valutazione economica tipicamente intesa ma potrebbero esserlo se si ponesse attenzione agli svantaggi che vengono recati all’ambiente o se in alternativa fosse fatto un paragone con altre emissioni che sono meno o per nulla inquinanti. Come sopra accennato, è necessario fare riferimento a quella parte di dottrina, la quale, con un approccio sostanzialmente politico-economico, ricerca il collegamento fra carichi pubblici ed obbligo a contribuire nella c.d. “compensazione delle economie e diseconomie esterne”. Secondo questo modello può essere assunto a indice di capacità contributiva il vantaggio economico in capo a un determinato soggetto, il quale determina nei confronti di altri soggetti un pregiudizio e quindi la necessità dell’intervento pubblico al fine di garantire la sua eliminazione. È necessario precisare, con particolare considerazione alle emissioni inquinanti, che per avere correlazione tra diseconomie ambientali e carichi pubblici l’unità fisica, rappresentante il presupposto del tributo, deve determinare un pregiudizio all’ambiente tale da comportare danni all’uomo. In particolare, il pregiudizio economico causato dall’unità fisica presupposto del tributo deve essere pari al costo che la collettività deve sostenere per eliminare gli effetti che il danno ambientale crea sulla qualità della vita. Tale visione, tuttavia, trascura il profilo della coattività e l’assunzione di tali unità fisiche a presupposto del tributo potrebbe legittimare attività ad elevato impatto ambientale ovvero “una inaccettabile giustificazione morale a produrre danni ambientali”, connotando un aspetto sostanzialmente risarcitorio del tributo ambientale.

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2.2.1. (segue) La capacità contributiva e la sua funzione solidaristica Come sopra ricordato18, la dottrina prevalente e la giurisprudenza della Corte costituzionale esamina il principio di capacità contributiva in funzione dell’art. 2 Cost., il quale richiede a tutti gli individui della collettività “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, e in funzione dell’art. 3 Cost. che statuisce il principio di uguaglianza, in particolar modo quando richiede la rimozione degli “ostacoli, di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Secondo tale principio l’individuo deve contribuire, in relazione e nei limiti della sua forza economica generata, al mantenimento e sviluppo della comunità di cui fa parte. Dallo stesso art. 53, 2° comma Cost., quando afferma che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, emerge la funzione solidaristica del principio di capacità contributiva, infatti, come è noto per progressività si intende la maggiore incidenza percentuale del prelievo a mano a mano che aumentano le ricchezze sulla cui base il prelievo è commisurato19.

Il criterio di progressività congiuntamente al principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. assegna una funzione non solo contributiva ma anche redistributiva della ricchezza. Se si accetta la connotazione solidaristica del principio di capacità contributiva, ecco che possiamo affermare che l’imposta e non la tassa sia lo strumento per perseguire tale fine. Infatti, la funzione tipica dell’imposta è quella di attuare il concorso alla spesa pubblica, ovvero “il contribuente è tenuto al pagamento dell’imposta per il solo fatto che esiste una spesa pubblica

18

Come detto supra, Cap. I, Par. 2.1..

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da distribuire tra tutti i membri di una collettività. L’imposta è dunque una obbligazione di riparto di oneri economici pubblici e ciascun contribuente è debitore di una quota, insieme alla platea di tutti gli altri contribuenti”.

2.2.2. (segue) Individuazione della capacità contributiva come criterio di riparto nei tributi ambientali in senso stretto

Il concetto di capacità contributiva, inteso come logico criterio di riparto dei carichi pubblici, consente di superare l’impianto secondo il quale è concepibile designare come presupposto di imposizione tributaria esclusivamente condizioni, posizioni, beni suscettibili di valutazione economica-patrimoniale; è ipotizzabile, quindi, che il presupposto non debba avere necessariamente un’impronta economica-patrimoniale determinata, ma sia rivelatore dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese cercando di ottenere una serie di obiettivi sociali extrafiscali ex art. 41, 3° comma Cost.

Per riscontrare in tali condizioni, posizioni e attività fatti-indice di capacità contributiva, valutabili da un punto di vista economico, anche senza un’autentica connotazione patrimoniale del presupposto del tributo, occorre osservare le diverse presunzioni di prelievo che colpiscono comportamenti e attività che potrebbero causare un pregiudizio all’ambiente. Nel sistema interno sono rientrati nella tassazione ambientale, tributi collegati, con sistemi diversi, alla tutela dell’ambiente. In particolare mi riferisco agli eco tributi, i quali nonostante favoriscono la salvaguardia dell’ambiente “non possono essere considerati come tributi intesi specificatamente alla sua tutela, rispondenti, cioè al principio di chi inquina paghi […] giacché si inseriscono nella nozione per così dire pura di tributo proprio dell’ordinamento italiano, fondandosi sulla capacità contributiva espressa dall’attività esercitata dai loro soggetti passivi, cosicché

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l’effetto di protezione dell’ambiente ne costituisce soltanto un riflesso indiretto e accidentale”20, infatti, l’obiettivo principale che l’organo politico vuole raggiungere è quello di ottenere da ogni membro della società il concorso nelle pubbliche spese, caratteristica tipica del tributo ai sensi dell’art. 53 Cost.

La dottrina italiana agli inizi del secolo scorso, in tema di tassazione ambientale, accolse i modelli internazionali ed europei sposando le direttive OCSE, le quali evidenziavano tasse con funzione dis/incentivante, di reperimento di risorse per il finanziamento di servizi ambientali e per opere di risanamento ambientale, soddisfacendo l’originaria interpretazione del principio del “chi inquina paga”. È Il caso, ad esempio, dell’imposta sulle emissioni di ossidi di azoto (NOx) e di anidride solforosa (SO2) e della c.d. carbon

tax, introdotte dal legislatore italiano, rispettivamente, dall’art. 8 della

Legge n. 448 del 23 dicembre 1998 e dall’art. 17, commi 29-33 della Legge n. 449 del 27 dicembre 1997. Per quanto riguarda il settore dei rifiuti, altre forme di prelievo richiamano il principio “chi inquina paga”: la Tarsu (artt. 58 e ss. del D.Lgs. n. 507 del 15 novembre 1993); la Tia, ovvero la tariffa che sostituisce la Tarsu; il tributo ambientale delle provincie, il quale è una sorta di addizionale Tarsu/Tia per un massimo del 5% (art. 19 del D.Lgs. n. 504 del 30 dicembre 1992); il tributo regionale per il conferimento dei rifiuti in discarica (art. 3, commi 24 e ss. della Legge n. 549 del 28 dicembre 1995).

Nell’ottica del principio “chi inquina paga” e più in generale degli strumenti fiscali/parafiscali che tutelano l’ambiente si può ricordare i tributi con effetti di regolazione ‒ diretti o indiretti ‒ sul grado di sfruttamento delle risorse naturali, come l’imposta regionale sulle

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BATISTONI FERRARA F., “I tributi ambientali”, in Rivista di diritto tributario, A. Giuffrè, Milano, 2008, n. 12, p. 1090.

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concessioni statali, applicata sulle concessioni di miniere, concessioni demaniali ecc21.

Il problema sorto per rendere compatibili i tributi dis/incentivanti con il principio della capacità contributiva è stato affrontato attraverso un’indagine sistematica dell’art. 53 Cost. con altre norme costituzionali, come l’art. 32 Cost. che sancisce il diritto alla salute, l’art. 9 Cost. in tema di tutela del paesaggio e l’art. 41 Cost. volto a disciplinare e regolare le attività economiche. In quest’ottica gli eco tributi hanno assunto un’impronta di imposta di scopo con la quale si perseguiva una mera finalità di tutela ambientale il cui gettito era del tutto o in parte destinato al finanziamento di opere per la salvaguardia naturale. Solo agli inizi del nuovo millennio si è cercato di ricostruire una diversa definizione di tributo ambientale sulla base della evoluzione che ha avuto tale materia in seno alla Commissione europea.

Intendendo la capacità contributiva come criterio di riparto equo e ragionevole “collegato ad una manifestazione diretta di capacità contributiva” è possibile individuare il presupposto in quelle attività e comportamenti socialmente considerevoli di potenzialità economica cui associare l’unità fisica – inquinamento, sfruttamento di risorse ambientali – che crea un impatto negativo sull’ambiente. Quindi, il legislatore può sottoporre a prelievo indici non patrimoniali che manifestano posizioni economicamente valutabili e può individuare altre potenziali situazioni che non manifestano necessariamente natura patrimoniale. Tali situazioni (indici) che devono comunque rispettare gli altri princìpi e diritti costituzionalmente garantiti sono espressione della fisiologica evoluzione economico-sociale che interessa il sistema fiscale e possono sostanziarsi anche in presupposti

21

Cfr. CIPOLLINA S., “Fiscalità e tutela del paesaggio”, in Rivista di Diritto Finanziario

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non tradizionalmente riconosciuti come nel caso di molti tributi ambientali. La capacità contributiva può avere manifestazioni non proprie, quindi, è possibile determinare una serie indeterminata di situazioni e di indici di capacità contributiva che esigono una reale connessione con situazioni comunque espressive di valutazione economica.

L’acquisizione e lo sfruttamento di risorse naturali scarse e limitate dà luogo ad un’attività antropica produttrice di esternalità negative che manifestano in capo a chi le pone in essere una determinata capacità contributiva. Nel caso in cui il soggetto passivo sia un’impresa, la capacità contributiva “si sostanzia nella capacità delle stesse risorse di incidere negativamente su il livello dei costi di produzione e positivamente sul livello dei ricavi dell’attività inquinante”. Il vantaggio tratto dallo sfruttamento di risorse ambientali scarse costituisce un indice indiretto di capacità contributiva connessa a quella specifica e valutabile forza economica generata dal soggetto passivo.

Ecco che è necessario individuare un’unità fisica manifestazione del danno ambientale in termini quantitativi e qualitativi che non deve presentare caratteri di insostenibilità per l’ambiente e per l’individuo. L’originaria ricostruzione del tributo ambientale è stata individuata nell’imposta ambientale (e non tassa) in cui il consumo di prodotti cagionanti un impatto ambientale e lo sfruttamento di risorse ambientali scarse sono stati posti ad indice economico. Infatti, se si pensa al consumo ambientale, lo sfruttamento di risorse naturali scarse e non rinnovabili rappresenta il fatto-indice di capacità contributiva, precisamente quantificabile attraverso la valutazione dell’impatto che tali situazioni hanno provocato, situazioni sempre suscettibili di valutazione economica e manifestazione di una maggiore capacità contributiva rispetto ad altri contesti a basso

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impatto ambientale e maggiormente sostenibili. Dalla verifica del grado qualitativo e quantitativo di consumo ambientale possono essere acquistate informazioni confacenti per determinare la corretta attitudine alla contribuzione assegnabile all’utilizzatore di un bene ambientale in ragione della sua condotta e per evidenziare con precisione il presupposto del tributo ambientale, che viene in tal modo sottratto ai tradizionali fatti-indice diretti e indiretti di capacità contributiva, nel rispetto del limite di ragionevolezza espresso dal principio di uguaglianza, coerenza e congruità, in grado di prevalere su ogni altra regola attinente ai criteri di riparto dei carichi pubblici22. Sulla base di tale ricostruzione il presupposto e l’entità del tributo sono definiti unicamente in relazione al vantaggio proveniente dal danno provocato e non al costo sostenuto per la sua eliminazione coerentemente con una visione ecocentrica del deterioramento ambientale e non antropocentrica.

2.3. Il tributo ambientale in termini di imposta ambientale sui consumi

Sull’onda di questo approccio interpretativo, autorevole dottrina23 ha proposto una ricostruzione in cui il presupposto dell’imposta non è il consumo in sé considerato ma il consumo produttivo di inquinamento, in altre parole la valutazione economica del presupposto riguarda il consumo in base all’effetto inquinante da esso prodotto.

Perché l’imposta sul consumo, caratterizzata da una funzione ambientale extrafiscale, dunque, mera imposta di scopo, si trasformi in imposta ambientale sui consumi è necessario che tale imposta da

22

ALFANO R., op. cit. supra, p. 72. 23

Per un approfondimento di questa dottrina si veda GALLO F. ‒ MARCHETTI F., op. cit. supra.

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un lato sia portatrice di una funzione di indirizzo al consumo di prodotti a basso impatto ambientale e, dall’altro, che assuma l’effetto inquinante come criterio di commisurazione dell’imposta. Quindi, sicuramente l’imposta sui consumi acquisisce carattere ambientale quando va a colpire il consumo di prodotti inquinanti, esonerando dal tributo o comunque sottoponendo a tassazione ridotta (agevolazione) il consumo di prodotti a basso impatto inquinante, i quali sono posti sul mercato come positivamente alternativi ai primi e, quindi, da un punto di vista microeconomico equivalenti al prodotto inquinante. A questo punto dobbiamo chiederci cosa vuol dire che l’imposta ambientale sui consumi debba assumere l’effetto inquinante come parametro di commisurazione dell’imposta. L’effetto inquinante semplicemente deve essere considerato e posto come elemento legittimante dell’entità del prelievo, tale entità, al fine di perseguire una funzione ambientale di riduzione del consumo ad alto impatto ambientale, deve essere fissata in misura superiore rispetto al normale prelievo gravante su quel tipo di consumo. Il tributo, dunque, colpisce il consumo in quanto produttivo di danno ambientale, la valutazione economica non deve riguardare il consumo in sé considerato, ma il consumo per l’effetto inquinante da esso causato. La differenza sostanziale fra il tributo ambientale e una mera imposta sui consumi con finalità ambientale è che nel primo caso il tributo non può esistere senza la valutazione economica del danno ambientale, nel secondo caso il tributo esiste anche se non è considerato il possibile effetto inquinante. È proprio tale valutazione economica che giustifica il fatto che un prodotto sia soggetto a tassazione. Se per tale prodotto si fosse considerata una mera valutazione economica del consumo in termini di mercato e non anche la valutazione economica del danno ambientale prodotto dallo specifico consumo non sarebbe stato possibile colpire tale consumo con un prelievo maggiore.

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A questo punto è opportuno domandarci cosa giustifica razionalmente l’anomala maggiore entità del prelievo che grava sul consumo di un determinato prodotto valutato nei termini di consumo produttivo di inquinamento. La legittimazione è riconducibile nei princìpi di valenza costituzionale come quello dell’art. 44 Cost. riguardante i vincoli e i limiti alla proprietà privata e dell’art. 33 Cost. in tema di diritto alla salute, che rendono il tributo conforme comunque con l’art. 53 Cost. In altre parole, si può dire che finché il tributo porterà con sé tali valori costituzionali esso risponderà a criteri di razionalità presupposti dagli artt. 3 e 53 Cost. e questa lettura potrà avvenire tutte le volte in cui il prelievo, rispondente ad oggettive e in opponibili stime tecnico-scientifiche, sarà misurato all’inquinamento causato dal prodotto consumato. Il legislatore, in riferimento a questo approccio, non stabilirà l’entità del prelievo con riguardo ai suoi effetti in termini di costi di risanamento o eliminazione ma farà una valutazione sulla base di oggettive risultanze tecnico-scientifiche quantitative e qualitative del consumo ambientale, oggettivamente considerato, prodotto dall’oggetto del consumo.

Per concludere, tale approccio (come in precedenza accennato) rende l’impronta ambientale sui consumi del tutto compatibile con una visione ecocentrica e non antropocentrica dei consumi.

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CAPITOLO II

LA TASSAZIONE AMBIENTALE NEL QUADRO

DELLE COMPETENZE EUROPEE, NAZIONALI,

LOCALI E DEL FEDERALISMO FISCALE

SOMMARIO –1. I rapporti tra l’Unione europea e i singoli Stati membri in materia di imposizione ambientale: compatibilità e princìpi fiscali –1.1. Il processo di armonizzazione in materia di tributi ambientali e vincoli CE –1.1.1. Il divieto di dazi doganali e tasse equivalenti –1.1.2. Il principio di non discriminazione ed il divieto di imposizioni fiscali discriminatorie ‒1.1.3. Il divieto di aiuti di Stato ‒2. La potestà legislativa in materia di fiscalità ambientale nel nuovo Titolo V della Costituzione ‒2.1. Potestà normativa degli enti locali in materia di fiscalità ambientale ‒ 2.2. Autonomia normativa tributaria decentrata in ottica ambientale: prospettive di federalismo fiscale

1. I rapporti tra l’Unione europea e i singoli Stati membri in materia di imposizione ambientale: compatibilità e princìpi fiscali

Le Istituzione europee, intuendo le potenzialità dei tributi ambientali, ne hanno intensamente suggerito l’impiego agli Stati membri, come strumento per concretare gli obiettivi di sostenibilità e di crescita economica ‒ obiettivi da sempre seguiti dall’Unione ‒ nel rispetto dei vincoli fiscali europei fissati. In questa ottica, tuttavia, è bene ricordare che la materia ambientale prevista dal Trattato di Roma originariamente aveva assunto un carattere sostanzialmente strumentale e residuale, quasi come appendice della politica economica “filtrato dalla valutazione degli aspetti predominanti, della tutela dello sviluppo economico, del mercato e della concorrenza”24. Infatti, prima dell’Atto Unico Europeo fu varato il Programma d’azione

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per la protezione ambientale25, il quale si prefissava di affrontare in maniera organica il problema della tutela dell’ambiente. Tale programma, testualmente, prevedeva che “qualsiasi spesa connessa alla prevenzione ed alla eliminazione delle alterazioni ambientali è a carico del responsabile”. Da qui abbiamo la nascita del principio di “chi inquina paga” da cui deriva la legittimazione dei paesi ad imporre a carico dei privati prelievi coattivi rivolti a compensare i costi dell’eliminazione dell’inquinamento che altrimenti graverebbero sulla collettività. Il terzo programma d’azione per la protezione dell’ambiente estese, in seguito, all’inquinatore non solo l’onere di pagare i costi per il disinquinamento ma anche le spese sociali causate dall’inquinamento persistente. Esso promosse, così, un equo e sostenibile sviluppo con l’impegno a non degradare gli ecosistemi. Con l’Atto Unico Europeo fu acquisita la consapevolezza che lo sviluppo del mercato unico ‒ consistente in uno spazio senza frontiere, nel quale veniva assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali ‒ dovesse per forza di cose camminare di pari passo con una completa e immediata politica comunitaria in materia ambientale, per questo si dette inizio a un processo di revisione del Trattato. Ed è così che nel 1990 fu istituito un nuovo organismo comunitario: l’Agenzia europea per l’ambiente. Il ruolo ad essa riconosciuto era la promozione di uno sviluppo sostenibile nell’ottica del mercato unico attraverso l’introduzione di

25 Dal 1973, la Commissione emana programmi di azione per l’ambiente (PAA) pluriennali che definiscono le proposte legislative e gli obiettivi futuri per la politica ambientale dell’Unione. Nel 2013 il Consiglio ed il Parlamento hanno adottato il 7o PAA per il periodo fino al 2020, dal titolo “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”. Esso è basato su varie recenti iniziative strategiche e fissa nove obiettivi prioritari, tra cui: la protezione della natura; una maggiore resilienza ecologica; una crescita sostenibile, efficiente sotto il profilo delle risorse e a basse emissioni di carbonio; nonché la lotta contro le minacce alla salute legate all’ambiente. Il programma sottolinea altresì la necessità di una migliore attuazione del diritto ambientale dell’Unione, di un settore scientifico all’avanguardia, di investimenti e dell’integrazione degli aspetti ambientali nelle altre politiche.

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disposizioni organiche dirette alla prevenzione dell’inquinamento, al controllo del suo livello e al coordinamento e alla cooperazione di politiche e attività di salvaguardia ambientale. Dopo l’approvazione dell’Atto Unico Europeo, la prevenzione del danno ambientale, la protezione degli ecosistemi, la tutela del territorio si sono innalzati ad obiettivi rilevanti delle azioni di politica ambientale che gli organi della UE devono perseguire direttamente, rappresentando essi stessi vincoli cui subordinare i processi di sviluppo economico e di armonizzazione in ambito europeo26. L’Atto Unico Europeo del 1987 ha introdotto un nuovo titolo, denominato «Ambiente», che ha costituito la prima base giuridica per una politica ambientale comune finalizzata specificamente a salvaguardare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana e garantire un uso razionale e accorto delle risorse naturali, obiettivi disciplinati nell’art. 130R. Nell’ottica del generale carattere sussidiario dell’azione comunitaria, lo stesso art. 130R, 4° comma, stabilisce che la Comunità custodisce una sorte di prelazione in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi precedentemente indicati possono essere meglio realizzati a livello comunitario rispetto ai singoli Paesi. Lo stesso articolo sancisce che i singoli Stati membri possono prendere e mantenere disposizioni con una forza protettiva anche maggiore nel rispetto del Trattato. Questo permette ai singoli Stati membri di legiferare in materia ambientale autonomamente per realizzare misure di salvaguardia più efficaci di quelle stabilite in sede comunitaria, soprattutto con l’adozione di strumenti fiscali. Le successive revisioni dei trattati hanno rafforzato l’impegno della Comunità a favore della tutela ambientale e, soprattutto, il ruolo del Parlamento europeo nello sviluppo di una politica in materia.

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Il Trattato di Maastricht (1992) ha fatto dell’ambiente un settore ufficiale della politica dell’UE, introducendo la procedura di codecisione e stabilendo come regola generale il voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio. Con la riformulazione degli artt. 2 e 3 l’approvazione del Trattato di Maastricht ha permesso di trasmettere alla salvaguardia dell’ambiente una valenza giuridica pari a quella delle altre politiche comunitarie, promuovendo uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme delle Comunità, quindi, una crescita sostenibile che rispetti l’ambiente.

Il Trattato di Amsterdam (1999) ha stabilito l’obbligo di integrare la tutela ambientale in tutte le politiche settoriali dell’Unione al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. Quello di «combattere i cambiamenti climatici» è divenuto un obiettivo specifico con il trattato di Lisbona (2009), così come il perseguimento dello sviluppo sostenibile nelle relazioni con i paesi terzi.

Infine, la personalità giuridica consente ora all’UE di concludere accordi internazionali.

Senza dilungarci oltremodo in analisi di tipo retrospettivo è opportuno precisare che il TFUE, come i precedenti Trattati, non consente alle Istituzioni europee un potere tale da istituire tributi propri, fissandone gli elementi essenziali, tra cui l’accertamento e la riscossione. Il sistema di finanziamento dell’UE si regge su un sistema di fiscalità derivata27, generalmente interpretata come potenzialmente distorsiva del mercato. Per questo si parla di fiscalità

27

Le uniche risorse finanziarie di cui dispone l’UE sono riconducibili a quattro tipologie di entrate:

1. diritti di dogana;

2. prelevamenti e contribuzioni della attività agricole;

3. quote di partecipazione al gettito IVA (non superiore al 1%); 4. contributo imposto annualmente dalla UE ai singoli Stati membri.

Tali risorse non sono riconducibili ad un esercizio della potestà impositiva. Sono, infatti, ripartite tra gli Stati membri sulla base dei dati economici e del bilancio pubblico e non sulla generalità dei contribuenti.

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di secondo livello o di fiscalità negativa dell’Unione europea, dal momento che è considerata come fattore potenzialmente in grado di influenzare il sistema di mercato. Non esiste, dunque, una fiscalità propria dell’Unione, in quanto manca una competenza esclusiva rispetto al fenomeno fiscale e il ruolo assunto dall’UE è essenzialmente di coordinamento e regolazione delle politiche fiscali degli Stati membri.

Nell’ottica dell’UE la fiscalità è il mezzo che consente di perseguire l’integrazione europea e di abbattere le barriere del protezionismo dei diversi Stati membri e di arrivare ad affermare la libertà di circolazione. La fiscalità dell’Unione, in teoria, potrebbe essere valutata come un pericolo per la capacità di funzionamento del mercato, per tale motivo, essa non deve produrre alcun effetto sul mercato comune, finendo così per acquisire la definizione di «finanza neutrale». Per tali circostanze, la competenza europea, in tale ambito – fatta eccezione per il sistema doganale – è necessariamente concorrente, assumendo, quindi “una funzione di cornice entro cui sviluppare i sistemi fiscali dei singoli Stati e contribuire alla regolazione del potere tributario proprio dei diversi ordinamenti”28. Nei rapporti tra l’UE e i singoli Stati membri si pone il problema di conciliare la necessità di integrazione con l’altrettanto indispensabile rinuncia della sovranità: le Istituzioni europee, dovendo garantire il rispetto dei princìpi di libera concorrenza necessari al perseguimento del mercato unico, non possono non tener conto delle norme fiscali presenti all’interno dei diversi Paesi. All’interno dei singoli Stati si richiede di ispirarsi ai fondamentali princìpi europei, i quali, altro non sono, che manifestazione di quelli costituzionali comuni. Per il perseguimento della finanza neutrale si rende necessario garantire la

28 ALFANO R., op. cit. supra, p. 139.

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protezione dei princìpi fiscali interni ai diversi Stati. Vero questo, è altrettanto opportuno perseguire un percorso di armonizzazione e di riavvicinamento, necessari al raggiungimento di una effettiva integrazione fiscale, che garantisca le libertà economiche in un sistema di libera concorrenza e in un regime di mercato aperto. Per quanto si debba tener conto dei vincoli sovranazionali, il sistema fiscale di ciascun Paese presenta delle sue proprie peculiarità, dovendo l’interesse fiscale coincidere con quello dei cittadini, nella logica dello Stato sociale. Ferma restando la necessità di tutelare le libertà fondamentali e i diritti individuali, l’UE persegue l’obiettivo di raggiungere un reale progresso sociale ed economico, che sia ecologicamente sostenibile per la costruzione di un mercato interno caratterizzato dalla libera concorrenza. Per poter arrivare a parlare di libera circolazione si deve raggiungere uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, alla luce di rapporti sempre più stringenti tra i vari Stati. L’Unione, anche grazie alla politica fiscale, deve perseguire, per mezzo della creazione di un mercato comune e attraverso una progressiva convergenza delle diverse politiche economiche interne, uno sviluppo equilibrato e in continua espansione delle economie nazionali29. Solo perseguendo l’eliminazione di ciò che ostacola il raggiungimento del libero mercato sarà possibile la nascita di un mercato comune. Per ciò che ci interessa ai fini della presente analisi, il libero mercato è stato realizzato attraverso il divieto di dazi doganali e tasse equivalenti, il divieto di discriminazione fiscale nel territorio europeo e il divieto di aiuti di Stato.

Se il mercato unico, la libera circolazione dei capitali e i diritti dei singoli individui vengono violati da norme tributarie interne, ecco che

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Questo suggeriva il contenuto dell’art. 2 del Trattato di Roma, prima delle modifiche apportate inizialmente dall’Atto Unico Europeo del 1986 e poi dagli accordi di Maastricht.

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un ruolo centrale viene ad assumerlo la Corte di giustizia. Questo perché, la Commissione europea o coloro che sono direttamente interessati possono chiamare in causa la Corte di giustizia, la quale ha finito per assumere un ruolo da protagonista essendo aumentate le liti che riguardano l’incompatibilità delle norme fiscali interne con il Trattato. Il compito primario della Corte di giustizia è, infatti, accertare gli eventuali contrasti tra le regole interne e quelle del mercato unico.

Da un lato ci sono i singoli Stati con la loro sovranità fiscale, i quali non vogliono rinunciare alla propria autonomia nell’ambito della politica tributaria e di bilancio, ma dall’altro ci sono le esigenze europee volte al raggiungimento di un mercato unico attraverso la armonizzazione delle legislazioni interne e la loro non discriminazione. Un compromesso tra le politiche ambientali e fiscali dell’Unione potrebbe essere raggiunto con gli ecotributi. Per quanto le Istituzioni europee suggeriscono l’impiego della fiscalità ambientale da parte dei singoli Stati, la predisposizione da parte di questi ultimi di tributi ambientali non può non tener conto della necessaria osservanza di quanto disposto dal TFUE in ambito tributario. Ecco così che la Corte di giustizia è stata sempre più spesso chiamata a pronunciarsi sulla conformità degli interventi tributari posti in essere all’interno dei vari Paesi con i princìpi europei. La Corte di giustizia è potuta, così, arrivare ad affermare in maniera lapidaria che gli Stati dell’Unione hanno autonomia in materia ambientale ma nel rispetto dei princìpi europei ritenuti fondamentali per il raggiungimento del mercato unico.

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1.1. Il processo di armonizzazione in materia di tributi ambientali e vincoli CE

Alla luce di quanto appena detto, si rende necessario passare all’analisi positiva della compatibilità dei tributi ambientali con le regole di diritto europeo, avendo a mente i princìpi di armonizzazione e di riavvicinamento delle legislazioni, indispensabili per arrivare ad affermare la libertà di circolazione.

A decorrere dagli anni ‘90 del XX secolo, nei diversi Paesi membri della CE, si è iniziato sempre più ad utilizzare ‒ in particolare anche grazie alla complicità della CE ‒ lo strumento fiscale e ciò ha comportato una crescita esponenziale della previsione di imposte o tasse ecologiche. Proprio la Commissione ha sempre sostenuto la necessità di utilizzare lo strumento fiscale per raggiungere l’integrazione del mercato unico, lo sviluppo socio economico, la tutela dell’ambiente, che sono gli obiettivi comunitari. Proprio per il conseguimento di tali obiettivi, la Commissione ha da sempre affermato l’importanza di una politica di armonizzazione e di coordinamento delle norme tributarie, perché solo attraverso azioni comuni e politiche coordinate si può giungere alla creazione di un mercato interno. Per quanto l’intento della Commissione non può che essere considerato lodevole, esso è stato oggetto di numerose critiche, che sono state superate solo per mezzo di un compromesso dei diversi interessi dei Governi nazionali, che hanno sempre invocato la regola dell’unanimità in sede di Consiglio. Non essendo il contesto politico dei più sereni, la Comunità ha dovuto guardare alla materia fiscale perseguendo due diverse tecniche, da una parte l’armonizzazione e dall’altra il coordinamento.

Si rende, quindi, opportuno ricordare le definizioni di questi due distinti concetti. Famosa è la definizione di armonizzazione data da

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