• Non ci sono risultati.

I I I G l i an n i d e l l a s v o l t a ( 1 8 7 1 - 1 8 7 8)

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "I I I G l i an n i d e l l a s v o l t a ( 1 8 7 1 - 1 8 7 8)"

Copied!
70
0
0

Testo completo

(1)

169

III

Gli anni della svolta

(1871-1878)

1. Un biennio cruciale: il 1871-1872

1.1. Il flop delle Poesie

Uscite le Poesie, Carducci ne invia subito una copia agli amici più cari, ai quali chiede di fargli sapere al più presto le loro impressioni1. Ne spedisce una copia anche

a Garibaldi: nella lettera di accompagnamento raccomanda al generale la lettura dei componimenti politici, nei quali ha cercato, da poeta devoto alla causa garibaldina, di «tener dritto nel campo dell’arte la bandiera di Roma e di Marsala, di Aspromonte e Mentana»2.

Carducci nutre grandi aspettative sulle Poesie, che ha concepito come la summa della storia e della poesia della sua giovinezza, culminata, con i Decennali, nell’autoinvestitura a «vate dell’avvenire». Le reazioni della critica sono, però, scarse. Escono recensioni favorevoli, tra le quali quella di Panzacchi sulla «Civiltà italiana» di Bologna e quella di Tribolati sulla «Provincia» di Pisa, ma le stroncature sono altrettante: alcune hanno ragioni politiche; altre, invece, entrano nel merito della raccolta, ne biasimano l’eterogeneità e la definiscono un guazzabuglio di materiali e stili incoerenti3.

A maggio esce sulla «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia» un articolo feroce, al quale ribatte da Palermo il giovane Gabriele Buccola4, che pubblica sulla «Gazzetta»

1 Ossia, a Chiarini, Nencioni, Teza, Del Lungo e Panzacchi, ma anche a De Gubernatis e a Mamiani. A Mamiani spiega di non averlo menzionato nel libro perché le Poesie – ma, più che all’intero volume, come afferma Carducci, si deve pensare ai Decennali – sono cosa «troppo aliena» dalla sensibilità dell’illustre amico, che oltretutto è stato rimproverato già molte volte di aver affidato la cattedra universitaria a Carducci, lettera del 3 maggio a Mamiani, in CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 4-5.

2 È Carducci a parlare di «reverenza» e «devozione alla […] grande anima» di Garibaldi; si rimanda alla lettera dei primi di maggio del 1871 a Giuseppe Garibaldi, ivi, p. 4.

3 FELICE TRIBOLATI, «Poesie di G.C.», «La Provincia di Pisa», 4, 7, 11 e 14 maggio 1871; un elenco delle recensioni si legge in FRANCESCO LEONETTI, Carducci e i suoi contemporanei.Cronaca bibliografica della critica (1855-1907), Firenze, Sansoni Antiquario, 1955, p. 64, e in BIAGINI, Il poeta della Terza Italia, cit., p. 220.

4 Gabriele Buccola è un pioniere della psicologia italiana, ma anche un grande appassionato di letteratura e, in particolare, della poesia carducciana. Nato a Mezzojuso, in provincia di Palermo, nel 1854,dopo aver conseguito la laurea in medicina nel 1879, si specializza in psichiatria presso l’Istituto freniatrico di Reggio Emilia. Nel 1881 passa all’Università di Torino; a Torino muore nel 1885. La sua opera più importante è La legge del tempo nei fenomeni del pensiero: saggio di psicologia sperimentale, Milano, Fratelli Dumolard,1883. Per un suo profilo biografico, si rimanda a La psicologia in Italia: i protagonisti e i

problemi scientifici, filosofici e istituzionali (1870-1945), a c. di Guido Cimino e Nino Dazzi, Milano, LED,

(2)

170

cittadina una lunga apologia delle Poesie5. A Buccola, Carducci scrive una lettera di

ringraziamento, nella quale ammette di avere dei dubbi sulla qualità e la durevolezza dei risultati conseguiti:

mi arrampico su per il monte dietro certi bagliori che probabilmente son meteore e fuochi fatui; mi sento rotolar dietro gli anni della gioventù […]; il mio verso ha del gemito e del sospiro affannato di chi affatica e forte dispera. […] Chi si ricorderà di me?6.

L’insuccesso delle Poesie inizia a indebolire la caparbietà e l’entusiasmo che negli ultimi anni hanno accompagnato la scrittura degli epodi: se questi funzionano a livello locale – soprattutto a Bologna, dove la fama di Enotrio Romano da tempo «giganteggia»7 –, non riescono, invece, a riscuotere un riconoscimento nazionale.

Carducci capisce che il percorso intrapreso con il realismo giambico non può fruttargli un’approvazione unanime, proprio per le caratteristiche costitutive della poesia militante: il fatto che sia legata a occasioni particolari e che veicoli contenuti di parte che solo alcuni destinatari possono recepire favorevolmente la espone a un forte rischio di caducità. Essa suscita giudizi eclatanti e contrastanti, può far discutere e diventare patrimonio di chi condivide le opinioni del poeta, ma non riesce a raggiungere l’intera comunità dei lettori e rischia di non resistere al trascorrere del tempo. In questo senso, è molto significativo ciò che scrive a Tribolati, che recensendo le Poesie aveva elogiato soprattutto i nuovi sonetti di Levia gravia:

tengo molto a questa lode, e […] credo di meritarla più di altre. Le altre cose mie passeranno: qualche sonetto, in cui in un momento solo ho fuso la imagine dell’anima mia, chi sa che non resti?8.

Ciò non significa che Carducci rinneghi o rifiuti la poesia impegnata, anzi: continua a scriverne, a ritenerla necessaria, a difenderla. Tuttavia, oltre a dover constatare che non incide come lui vorrebbe sulla politica e sulla società nazionali (e già lo aveva fatto nella prefazione alle Poesie; ma si pensi anche alla frustrazione e allo scoramento espressi in Idillio maremmano o successivamente in Avanti! Avanti!9), deve

5 Buccola pubblica una risposta a puntate sulla «Gazzetta di Palermo» (ogni giorno dal 1° al 12 giugno 1871). L’articolo, intitolato Delle poesie di Giosuè Carducci al critico della «Gazzetta d’Italia», si può leggere in GABRIELE BUCCOLA, Scritti, a c. di Francesco Guardione, Palermo, Arti grafiche G. Castiglia, 1936. Su Carducci e Buccola si può vedere anche ANTONIO CARBONE, Carducci e la Sicilia: gli

incontri storico-letterari, Roma, Armando, 2002.

6 Lettera del 7 giugno 1871 a Gabriele Buccola, ivi, p. 27.

7 E già da tempo, per motivi politici e per motivi poetici; lettera del 28 agosto 1869 (con la precisazione «anniv. d’Aspromonte») a Giuseppe Chiarini, in CARDUCCI, Lettere, VI, p. 96.

8 Lettera del 14 maggio 1871 a Felice Tribolati, in CARDUCCI, Lettere, VII, p. 11 e p. 17.

9 Dell’inutilità della poesia aveva già scritto nella prefazione Al lettore alle Poesie; cfr. cap. II, § 3.2.4. Lo stesso tema torna nell’Idillio maremmano; a proposito dell’Idillio maremmano e della sua costitutiva dicotomia tra tematica amorosa-memoriale e tematica politica, oltre che al suo petrarchismo, si rimanda alla recente lettura di ROBERTO FEDI, Le chiome di Maria. Nota su Rime Nuove LXVIII, «Per leggere», n. 13, a. 2007, pp. 99-107. Per un’analisi di Avanti! Avanti!, vedi § 1.7.1.

(3)

171

prendere atto che la poesia epodica, nonostante lo sperimentalismo formale e stilistico che la contraddistingue e la rilevanza dei suoi contenuti, non si impone a livello nazionale: può consacrarlo come il poeta di una parte, ma non può farne il poeta di tutta la nazione. In lui si fa sempre più forte il pensiero che altri siano i suoi risultati migliori, che altri, cioè, fra tutti i suoi componimenti, siano quelli destinati a durare.

1.2. Epodi, e oltre

Per Carducci il 1870 era stato un anno di sofferenza e di riflessioni esistenziali: la morte della madre e quella del figlio lo avevano ferito profondamente, riducendolo in uno stato di inerzia e depressione. Allora la poesia si era concentra sul dolore e sulle memorie personali (Funere mersit acerbo e Notte d’inverno, più tardi Pianto antico). Alle vicende politiche italiane di quei mesi aveva assistito da lontano, con distacco e stanchezza; neanche la breccia di Porta Pia e le modalità con cui si era risolta la questione romana lo avevano scandalizzato al punto da indurlo subito a scriverne. Di più lo aveva interessato la guerra franco-prussiana. La sconfitta della Francia, la sua nazione-faro, lo aveva fortemente colpito. Così, nell’autunno, aveva messo in versi la sua rabbia per la catastrofe a cui Napoleone III l’aveva condotta nell’epodo Per il

LXXVIII anniversario dalla proclamazione della Repubblica francese10.

Ora, nel 1871, il disappunto per come Roma era stata annessa al Regno d’Italia – non con la rivoluzione di popolo, ma con scelte politiche all’insegna della prudenza e solo dopo la caduta del Secondo Impero11 – si riversa nella poesia. A maggio scrive

l’ode Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in Santa Croce: qui, dopo aver impiegato uno stile neoclassico e misurato in linea con il tema, chiude con un riferimento satirico – che bene sarebbe stato in un epodo – alla conquista di Roma:

Alte parole, e lenti

umili fatti! Ahi, ahi; mal con le impronte de le catene a i polsi e più nel core, mal con la mente da l’ignavia doma, mal si risale il Campidoglio e Roma! (vv. 76-80)12.

10 L’epodo è composto da diciannove strofe tetrastiche di endecasillabi piani e tronchi alternati (AbtAbt). Esce sull’«Amico del Popolo» di Bologna il 22 gennaio 1871, poi nelle Nuove poesie di Enotrio

Romano (Giosuè Carducci), Imola, Tip. D’Ignazio Galeati e figlio, 1873, XII; edizione definitiva in Giambi

ed epodi, II, XVII.

11 Ossia, «ginocchioni, colla fune al collo, facendo delle braccia croce a destra e a sinistra e gridando mercé»; così avrebbe scritto con persistente sarcasmo all’inizio degli anni Ottanta, nella

Prefazione a Giambi ed epodi di Giosuè Carducci (1867-1872), nuovamente raccolti e corretti, con

prefazione, Bologna, Nicola Zanichelli, 1882; si cita da CARDUCCI, Opere, XXIV, p. 153.

12 L’ode è composta da undici strofe ottastiche di settenari ed endecasillabi (aBCaBCDD). La stesura del testo, commissionatogli dal sindaco di Firenze Ubaldino Peruzzi, inizia il 17 maggio del 1871 ed è conclusa a dicembre. È pubblicato in opuscolo presso la tipografia Ricci di Firenze, poi edito in volume in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., XVI; edizione definitiva in Levia gravia, II, XXIX, ultimo componimento della raccolta.

(4)

172

Sull’argomento ritorna anche a luglio con gli epodi Io triumphe e Feste e oblii, occasionati dall’ingresso ufficiale nella nuova capitale di Vittorio Emanuele II e del governo (1-2 luglio 1871)13.

È questo un periodo particolarmente felice per la scrittura epodica. A fine settembre, per la ricorrenza dell’ottantanovesimo anniversario della Repubblica francese, scrive Versaglia: della nuova «ira di Dio»14, che scaglia contro il connubio tra

monarchia e papato e che si traduce, nelle ultime strofe, in un inno a Kant e a Robespierre, che hanno reso possibile la sconfitta delle due facce dell’assolutismo:

E il giorno venne: e ignoti, in un desio di veritade, con opposta fé,

decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio, Massimiliano Robespierre, il re. (vv. 49-52)15

Un paio di settimane più tardi inizia la stesura del Canto dell’Italia che va in Campidoglio, dove torna a fare del sarcasmo sulla conquista di Roma16. L’intero

componimento si regge sulla voce della prosopopea dell’Italia, che cerca goffamente di zittire le oche del Campidoglio, che, sentendola entrare di notte in città, hanno iniziato a starnazzare come già avevano fatto nel 390 a. C., al sopraggiungere dei Galli:

Zitte, zitte! Che è questo frastuono al lume de la luna?

Oche del Campidoglio, zitte! Io sono L’Italia grande e una.

(vv. 1-4)

Rappresentare l’Italia «grande e una» mentre parla a dei «paperi» (v. 21), per quanto questi possano vantare progenitori illustri, è una trovata comica di grande effetto, che si arricchisce, nel prosieguo dell’epodo, di continui riferimenti beffardi a personaggi di primo piano della politica e della letteratura italiane: i più sono chiamati per nome e/o cognome (il primo ministro Giovanni Lanza, il ministro delle finanze Gioacchino Sella, il cardinale Antonelli, Edmondo De Amicis17); gli altri, con

13 In tetrastiche di settenari doppi (A[a]BtC[c]Bt) Feste e oblii e in strofe tetrastiche di endecasillabi e settenari alternati (AbAb) Io triumphe!, sono entrambi scritti a inizio luglio, tra il 2 e il 6, e pubblicati rispettivamente in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., XVIII e XIX. Edizione definitiva in Giambi ed

epodi, II, XIX e XX.

14 CARDUCCI, Lettere, VII, p. 50.

15 Strofe tetrastiche di endecasillabi piani e tronchi alternati (ABtABt), come il precedente epodo francese, Per il LXXVIII anniversario dalla proclamazione della repubblica francese; è pubblicato su «La Plebe» di Lodi il 2 novembre 1871; in volume in Nuove poesie (1873), cit., XXIV. Edizione definitiva in Giambi

ed epodi, II, XXI.

16 L’epodo è composto da venti strofe tetrastiche di endecasillabi e settenari alternati e a rima alterna (AbAb). La stesura dell’epodo inizia il 12 novembre del 1871, ma Carducci lo riprenderà ad agosto e a dicembre dell’anno successivo. Esce sull’«Alleanza» di Bologna del 13 febbraio 1872, poi in volume in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., XXXIX. Edizione definitiva in Giambi ed epodi, II, XXII.

17 Il «dottor Lanza», v. 5, che manda l’Italia a liberare di notte Roma perché teme i colpi di sole è Giovanni Lanza, primo ministro del Regno, nonché medico, accusato di un eccesso di diplomazia e

(5)

173

nomignoli facilmente decifrabili («il frate Bertoldino / o Bernardino», vv. 18-19, è il poeta Bernardino Zendrini18). Grottesco il discorso dell’Italia: ella si proclama serva

prima dei francesi, poi dei prussiani, «in ginocchione / sempre» (vv. 29-30); chiede alle oche di lasciarla passare perché è pronta a prendere Roma: a fare, cioè, di Pio IX (qui chiamato «padre / Cristoforo», vv. 47-48, a ribadire la saldatura tra ideologia manzoniana e cattolicesimo) un cittadino italiano; a sopportare la burocrazia, le ingerenze del Vaticano, i parvenus della nuova capitale e le bassezze del «Fanfulla»19; è

pronta a farsi del tutto manzoniana e a tirare avanti con l’appoggio dei moderati, siano essi di centro-destra o di centro-sinistra. Così potrà durare fino a quando Sella non avrà svenduto tutti i beni dello Stato, ossia la sua «augusta […] carcassa» (v. 80), i ruderi di una nazione già morta.

Il Canto dell’Italia che va in Campidoglio contiene molte stoccate contro Manzoni, i manzoniani e, in generale, contro i letterati italiani d’orientamento moderato e filogovernativo. Questo tema ritorna nell’epodo A certi censori, scritto a poche settimane di distanza20. Nei primi due terzi del testo Carducci ricorre a immagini e

parole triviali per aggredire i lettori, i poeti e i critici d’area moderata, impersonati da tre personaggi: Fulvia, rappresentante delle borghesi salottiere, che dice di odiare «la triste poesia / che rinnega lo spirto» (vv. 19-20); Mena, ruffiano e crapulone, che apprezza il «soprannaturale» e «l’azzurro» (v. 28 e v. 30); Pomponio, imprenditore letterario che ama, nell’arte, «l’ideale» e disprezza le «Muse della barricata, / le Grazie petroliere» (vv. 59-60). Segue a ruota il contrattacco di Carducci, che alle «belle», ai «vati» e ai «savi» (v. 61) che gli negano ogni riconoscimento ribatte di non aver alcuna pretesa di gloria (il tono è fortemente colloquiale: «Deh via, chi ve l’ha chiesto?», v.

moderazione; l’«Antonelli», v. 12, che le oche non devono svegliare è il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Pio IX; il «Sella», v. 77, che vuole risanare il bilancio statale vendendo «a un lord archeologo inglese / l’augusta mia [dell’Italia] carcassa», vv. 79-80, è Quintino Sella, ministro delle finanze. L’«Edmondo» dei v. 15 e v. 64 è Edmondo De Amicis.

18 Bernardino Zendrini nasce a Bergamo nel 1839. Le sue prime versioni da Heine risalgono al 1863; tre anni più tardi dà alle stampe la traduzione dell’intero Canzoniere; segue la ristampa del 1867 e la terza, nel 1879, in gran parte rivista e corretta e dedicata a Massarani, uno tra i primi ad aver scritto in Italia di Heine. È autore anche di un volume di versi, Prime poesie. Muore nel 1879. In merito a questo passo, si rimanda alle considerazioni di Carducci sulle Piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino: «Bertoldino torna a casa e vede l’oca che sta in un cesto grande a covare l’ova, e la fece levar su, e esso entrò nel detto cesto in atto di covare […]. Ecco perché possono ritenersi per fratelli delle oche così Bertoldino come certi poeti [Iginio Tarchetti ed Emilio Praga] i quali sonosi messi a covar l’ova della poesia popolare con effetti non diversi da quelli della covatura bertoldiniana», in CARDUCCI, Opere, III, p. 147.

19 Fondato nel giugno del 1870 a Firenze, «Il Fanfulla» è un bersaglio polemico frequente di Carducci. Nel 1871, in seguito allo spostamento della capitale, trasferisce la propria redazione a Roma. Le pubblicazioni del «Fanfulla» cessano nel 1899; quelle, invece, del supplemento letterario «Il Fanfulla della Domenica», al quale Carducci invierà spesso i suoi contributi soprattutto negli anni della direzione di Ferdinando Martini (1879-1882; è peraltro Martini a fondare il supplemento nel ’79), cesseranno nel 1919.

20 Anche questo epodo è formato da strofe tetrastiche di endecasillabi e settenari alternati e a rima alterna (AbAb). È pubblicato il 1° gennaio 1872 sull’«Alleanza» di Bologna, poi in volume in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., I. Edizione definitiva in Giambi ed epodi, II, XVI (è il primo componimento del secondo libro).

(6)

174

64). A lui bastano le sue poesie, che descrive con immagini grandiose: come «falchi» esse si levano in volo «intorno a la sua fronte» (vv. 65-68); poi, si precipitano verso i lettori scalpitando furiosamente come «indomite cavalle» (v. 71); infine, come «aerëe fanciulle» armate di «spada», annunciandosi con squilli di «tromba», sbaragliano «mostri» e «giganti», risvegliano i morti, le cui ossa, al loro passaggio, «fremon» sottoterra, e commuovono i giovani, spingendoli a lottare per la libertà (vv. 73-84). A queste poesie di battaglia affida il compito di difendere la memoria e i valori di quegli eroi che per l’Italia avevano dato la vita:

Avanti, avanti, o messaggere armate di fede e di valore!

Su l’ali vostre a più felice etate lancio il mio vivo cuore.

A voi la vita mia: me ignota fossa accolga innanzi gli anni:

pugnate voi contro ogni iniqua possa, contro tutti i tiranni!

(vv. 85-92)

Nel 1871 la poesia epodica dà ancora molti risultati, diversi tra loro per tono e forma; eppure, proprio in questi mesi, inizia a impensierire Carducci: il timore di ripetersi, di scadere nel manierismo e di annichilire ogni altra sua sensibilità inizia a farsi sentire. Ciò è evidente nella lettera che il 20 dicembre 1871 spedisce a Chiarini, al quale aveva inviato qualche giorno prima la parte iniziale del Canto dell’Italia che va in Campidoglio:

del mio nuovo epodo ho caro che ti sia piaciuto il principio: sentirai, prima o poi la fine. Ma ora voglio davvero farla finita con cotesta poesia, se non vengano ragioni esterne: voglio tornare all’arte pura, che di per se stessa è morale più d’ogni altra. Ti manderò Memorie di scuola, idillio in versi sciolti brevissimo. Ora ti copio qui dietro un’ode di disegno greco, ispirata da due versi di Alceo 21.

È una dichiarazione d’intenti ancora sfumata: la precisazione «se non vengano ragioni esterne» ne riduce la perentorietà; tuttavia già qui si afferma che la poesia epodica sta correndo su un binario morto. Del resto, la lettera ritrae un Carducci impegnato su più fronti poetici e animato soprattutto dal desiderio di restituirsi all’«arte pura», divisa tra poesia elegiaca d’ispirazione autobiografica (Memorie di scuola22) e poesia neoellenica (l’«ode di disegno greco», ossia la prima delle Primavere

elleniche).

21 CARDUCCI, Lettere, VII, p. 71.

22 A un anno dalla morte del figlioletto Dante (9 novembre 1870), Carducci inizia la stesura di questo idillio, composto nella sua versione definitiva da cinquantuno endecasillabi sciolti; una prima redazione – senza titolo, datata «10 novembre 1871» e inviata all’amico Antonio Resta – si legge in CARDUCCI, Opere, XXX, pp. 346-7; ne termina la scrittura nella primavera del 1872. A Chiarini, nella lettera del 9 aprile 1872 scrive: «L’Elvira, il 1° marzo, partorì una bambina, a cui misi nome Libertà. E io in questi mesi ho partorito qualcosa di novo: un idillio, Memorie di fanciullezza [Rimembranze di scuola]:

(7)

175

A dicembre la virata verso «l’arte pura» è già iniziata, e da diversi mesi. Un primo indizio ne era stato lo stile neoclassico di Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in Santa Croce, explicit giambico escluso. Una spia assai più evidente era stata la scrittura, a metà di agosto, della saffica rimata Ad Alessandro D’Ancona, che, premessa a un frammento della traduzione foscoliana del IX libro dell’Iliade, era stata offerta come dono di nozze da Chiarini e Carducci a D’Ancona23. Nell’ode si contrappone il

Medioevo, la «dannosa etade» (v. 25) in cui gli uomini sono in balia dell’ignoranza e oppressi dalla religione, all’antica Grecia, mondo sano e benefico, in cui è possibile vivere a pieno la vita, come Achille, eroe guerriero di giorno e poeta di notte («Ma ei pugnava i giorni, e, a la romita / notte citareggiando in su l’egea / riva, a Dite a le Muse ed a la vita / breve indulgea», vv. 45-48). La Grecia è l’emblema di quella sanità fisica e morale che dissipa i fantasmi del fanatismo medievale e il sistema teocentrico che li ha generati:

Pigri terror de l’evo medio, prole negra de la barbarie e del mistero, torme pallide, via! Si leva il sole, e canta Omero.

(vv. 49-52)

Questa esaltazione del mondo greco è il preludio24 all’«ode di disegno greco» che

Carducci scrive l’8 dicembre – negli stessi giorni in cui lavora al Canto dell’Italia che va in Campidoglio – e che il 21 invia a Chiarini.

1.3. «Di disegno greco»: Eolia

Lina, brumaio torbido inclina, ne l’aër gelido monta la sera:

una poesia storica, interamente storica, in metro nuovo [Su i campi di Marengo]. E ho le doglie di altre cosette», in CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 126-7. L’idillio esce con il titolo Rimembranza di scuola in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., XXVI; con il titolo definitivo Rimembranze di scuola in Rime nuove, V,

LXVI. Nella poesia l’autore si ricorda fanciullo, a scuola, in un bellissimo giorno di giugno: mentre il «nero prete / con voce chioccia bestemmiava Io amo» (vv. 7-8) e spiega le coniugazioni, lui guarda il paesaggio dalla finestra, attratto dal tripudio di colori e vita della natura (vv. 9-34); d’improvviso, però, «il pensier della morte» gli entra nel cuore (vv. 36-37): si vede sottoterra, «freddo, immobile, muto» (v. 42); mentre fuori il mondo continuava a vivere e tutti «i viventi / [a] ricrearsi nel sol caldo irrigati / de la divina luce» (vv. 44-46), lui capisce che cosa è la morte, e ne rimane sbigottito, sconvolto. Conserva ancora oggi l’immaginazione della morte e quel sentimento: «Anch’oggi / quel fanciullesco imaginar risale / ne la memoria mia; quindi, sì come / gitto di gelid’acqua, al cor mi piomba» (vv. 48-51).

23 La saffica è formata da tredici strofe tetrastiche composte da tre endecasillabi e un quinario a rime alterne (ABAb). Composta tra il 16 e il 17 agosto 1871 a Livorno, a casa di Giuseppe Chiarini, dove Carducci era ospite, esce con il titolo Ad Aless. D’Ancona e preceduta dalla dedica «Ad Alessandro D’Ancona nel giorno delle sue nozze con Adele Nissim mandano G. Carducci e G. Chiarini» nell’opuscolo Dalla rapsodia IX dell’Iliade. La risposta di Achille nella versione inedita di Ugo Foscolo, Livorno, Vigo, [27 agosto] 1871. Il 21 novembre 1871 Carducci ne invia l’autografo originale a D’Ancona per l’albo della sposa (CARDUCCI, Lettere, VII, p. 61). Prima edizione in volume in Nuove

poesie (1873), cit., XXIII; edizione definitiva in Rime nuove, IV, LXI, dove apre il quarto libro e precede le tre Primavere elleniche, LXII-LXIV.

24 Già Croce aveva definito Ad Alessandro D’Ancona la «prefazione» alle Primavere elleniche, in BENEDETTO CROCE, Giosue Carducci, Roma-Bari, Laterza, 19535, cit., p. 93.

(8)

176

e a me ne l’anima fiorisce, o Lina, la primavera.

(vv. 1-4)

L’ode si apre con un’allocuzione rivolta a una donna, Lina, alla quale il poeta confessa che in quella sera di fine autunno, quando fuori inizia a fare buio e freddo, sente rifiorire nel suo animo la primavera. A rinascere, in lui, è il senso della poesia greca, simboleggiata nei versi successivi dalla vetta del monte Parnaso illuminata da una calda luce rosata («sorge e sfavilla», v. 6) e dalla fonte Castalia, sacra ad Apollo e alle Muse, le cui acque scorrono e rilucono («[…] l’onda vocale / mormora e brilla», vv. 7-8).

Inizia con questa descrizione paesaggistica una lunga fantasia ambientata nei luoghi topici della mitologia e della poesia greche: a primavera Apollo lascia le regioni settentrionali della penisola ellenica per ritornare a Delfi, e lì ricomincia a poetare. Al suo canto rispondono le isole dell’Egeo: le Cicladi fanno il girotondo attorno a Delo, patria del dio, e Citera e Cipro lo festeggiano con le loro «bianche spume» (v. 24), le stesse da cui era nata Venere. Intanto il mar Egeo è solcato da una imbarcazione dalle vele purpuree, sulla quale risuonano canti («legno […] canoro», v. 26): a guidarla è Alceo e al centro vi siede Saffo, qui ricordata rielaborando alcuni versi di Alceo, «Saffo, dalle chiome di viola, sublime, dal dolce sorriso»: «Saffo dal candido petto anelante / a l’aura ambrosia che dal dio vola, / dal riso morbido, da l’ondeggiante / crin di vïola» (vv. 29-32)25.

Ora, chiamandola di nuovo per nome, il poeta invita Lina a salire sul naviglio. Lui, che è «de gli eolii sacri poeti / ultimo figlio» (vv. 35-36), vuole condurla con sé nel mondo dell’antica Grecia:

io meco traggoti per l’aure achive: odi le cetere tinnir: montiamo: fuggiam le occidue macchiate rive, dimentichiamo.

(vv. 37-40)

L’ode si chiude con questo invito all’oblio e alla fuga verso la primavera – di vita e di poesia – che il paesaggio assolato delle isole greche rappresenta. Lina è un’interlocutrice passiva, silenziosa; tutto il testo è concentrato sulla voce del poeta, che le propone di essere la sua compagna d’evasione, di lasciare assieme a lui il presente delle loro vite, fatto di amarezze e di afflizioni, per “rivivere” l’antica Grecia: solamente con lei lui potrà restituirsi alla poesia classica, bella e pura, e alle passioni, non solo letterarie, proprie della giovinezza.

25 È l’autore stesso a specificarlo nelle lettere a Chiarini e a Lina, ma anche nella nota a Eolia che si legge nelle Nuove poesie, poi riprodotta in forma più sintetica nelle Rime nuove (1887)

(9)

177

Sull’autografo, oltre alla data di stesura si legge il primo titolo dell’ode: «A Lina». Ed è proprio la dedicataria e coprotagonista della poesia ad avere un ruolo tutt’altro che marginale nel riavvicinamento di Carducci all’«arte pura».

1.4. Lina, Lidia, Carolina Cristofori Piva

Lina è Carolina Cristofori Piva, una bella e colta signora milanese di origini mantovane26, moglie di Domenico Piva27, ex garibaldino e militare in carriera. Lina ha

26 Carolina Matilde Cristofori nasce a Mantova il 24 dicembre 1837; è figlia di Luigia Zanelli e Andrea Cristofori, medico e letterato, che la educa con premura e dedizione. Compie i primi studi presso il Collegio degli Angeli di Verona. Fin da giovanissima, coltiva un vero e proprio amore per Foscolo; studia, inoltre, il francese e il tedesco, che arriva a padroneggiare con sicurezza. È, inoltre, appassionata di musica. Nel 1862, all’età di venticinque anni, sposa Domenico Piva (vedi nota successiva). Dopo una serie di trasferimenti da una città all’altra causati dalla carriera militare del marito (Palermo, Torino, Milano, Civitavecchia, Verona, Rovigo, Foggia, Chieti), si stabilisce con la famiglia a Bologna, in via Mazzini 49: qui, provata da gravi lutti familiari e malata di tisi, muore il 25 febbraio 1881. Nei suoi ultimi giorni di vita, ad assisterla c’è anche Carducci, sebbene la loro relazione amorosa si fosse conclusa nel 1878. La bibliografia su Lina è vasta. I primi contributi sono quelli di Alberto Lumbroso, Michele Saponaro, Anna Evangelisti, Giuseppe Toffanin e Celestino Garibotto (si rimanda alla bibliografia); il primo a trattare della relazione tra Carducci e Lina senza eccessive censure moralistiche o faziosità è Biagini nel Poeta della terza Italia. Qui, mi limito a segnalare i contributi più recenti: per un breve profilo biografico, SIMONETTA SANTUCCI, Lidia: «angelo» e «pantera», in Carducci e i

miti della bellezza, cit., pp. 237-8; ricostruisce la storia della critica su Lina e Carducci ALBERTO

BRAMBILLA, Il leone e la pantera. Frammenti di un ritratto amoroso, in Carducci e i miti della bellezza, cit., pp.

74-89; sul loro carteggio, SIMONETTA SANTUCCI, Lettere inedite di Carolina Cristofori Piva a Giosuè

Carducci, «Archivi del Nuovo. Notizie di Casa Moretti», 10-11, 2002, pp. 69-80; EAD., Epistolari e carteggi

carducciani: ricognizioni e questioni editoriali, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, cit., pp. 261-80; LORENZA

MIRETTI,FRANCESCA FLORIMBII, Lettere di Lidia a Giosue Carducci, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, cit., pp. 207-24; RICCARDO BRUSCAGLI, Carducci dall’epistolario ai carteggi, «Nuova Rivista di Letteratura italiana», X, 1-2, 2007, pp. 108-19. A proposito del carteggio Lina-Carducci, di recente Casa Carducci è venuta in possesso di due importanti lotti di lettere di Lina: 32 acquistate sul mercato librario e di prossima pubblicazione a cura di Simonetta Santucci; altre 43 “riemerse” dalla Casa di riposo “Lyda Borelli”, dove aveva dimorato Libertà Carducci; di quest’ultime hanno annunciano la prossima pubblicazione Lorenza Miretti e Francesca Florimbii.

27 Domenico Piva nasce il 2 dicembre 1826 a Rovigo. Diciannovenne, si arruola nel corpo dei finanzieri asburgici e prende servizio a Padova. Nel febbraio del 1848 partecipa ai moti insurrezionali. Con l’accusa di aver assassinato un ufficiale austriaco, viene incarcerato a Rovigo. Liberato dagli insorti, si arruola nei Cacciatori dell’Alto Reno guidati da Livio Zambeccari (Bologna, 1802 – ivi, 1862), poi nel reggimento Italia Libera di Antonio Morandi (Modena 1801 – ivi, 1883). A novembre, a Bologna, conosce Garibaldi: decide di seguirlo e si arruola nella Legione Italiana, che nella primavera del 1849 interviene a Roma per sostenere la Repubblica. Caduta la città, segue Garibaldi a Venezia. Viene catturato al largo delle coste venete e sconta sette anni di milizia forzata nell’esercito asburgico. Congedato nel 1857, fa ritorno a Rovigo. Due anni più tardi, si arruola nel corpo dei Cacciatori delle Alpi. Combatte a Varese e a San Fermo. Da Garibaldi riceve l’incarico di organizzare la Guardia civica a Como. Al termine dei conflitti, è processato per aver indotto alcuni bersaglieri ferraresi alla diserzione; il tribunale lo proscioglie dall’accusa. Raggiunge Genova, dove è in prima linea per organizzare la Spedizione dei Mille, alla quale partecipa distinguendosi negli scontri presso la valle di Maddaloni, in provincia di Caserta. Conclusa l’impresa, decide di entrare nell’esercito regolare; nel 1862 ottiene il grado di tenente colonnello. Nello stesso anno sposa Carolina Cristofori. I due avranno sei figli, tra cui Vittorio Piva, giornalista d’orientamento socialista (così come il suo fratellastro Gino, nato dalla relazione tra la Piva e Carducci). Partecipa alla repressione del banditismo in Sicilia. È poi collocato in servizio a Verona, poi a Milano, a Civitavecchia e infine a Bologna. Nel 1880 è candidato nel collegio di Rovigo col sostegno della destra, ma non viene eletto. Il ministro Benedetto Cairoli lo colloca allora in pensione. Alla morte della moglie, lascia Bologna e si trasferisce con i figli a Rovigo. Qui muore il 5 luglio 1907. Si rimanda a POMPILIO SCHIARINI, Domenico Piva, in Dizionario del

(10)

178

trentaquattro anni, ma ne dichiara ventisette, ed è già madre di tre bambini: Guido, Edoardo e Abele28. A Milano, dove abita con il padre e i figli mentre il marito è di

stanza a Torino, frequenta la scrittrice Maria Antonietta Torriani29, lo studioso

Antonio Gusalli e il critico musicale Filippo Filippi30; è inoltre una habitué, certo non

delle più illustri, del salotto della Contessa Maffei. Lina padroneggia con grande sicurezza il francese e il tedesco, lingue di cui conosce le letterature. Il suo autore di culto è Foscolo.

Con Lina Carducci sta intrattenendo da qualche mese uno scambio epistolare. A dare inizio alla corrispondenza è stata Lina, che il 27 luglio 1871, nel giorno del trentaseiesimo compleanno del poeta, gli ha scritto una lettera nella quale, dopo essersi presentata come amica della Torriani, che Carducci aveva conosciuto ad aprile a Bologna31, si era proclamata entusiasta ammiratrice di lui, il «più grande tra i poeti

viventi», e delle sue poesie:

più recenti ANTONELLO NAVE, Domenico Piva. Dal tumulto padovano alla difesa di Roma con Garibaldi, «Camicia Rossa», XXVI, 1, gennaio-marzo 2006, pp. 12-4; ID., Domenico Piva tra Garibaldi e Carducci, «Camicia Rossa», XXVI, 3-4, luglio-dicembre 2006, pp. 14-7, e ALBERTO BRAMBILLA, Una spina nel

cuore. Il rapporto problematico tra Rovigo e Carolina Cristofori Piva, in ALBERTO BRAMBILLA,ANTONELLO

NAVE, Rovigo carducciana. Legami e corrispondenze tra Giosue Carducci, Lina Cristofori Piva, Clarice Dalla Bona

Roncali, Emma Tettoni ed amici rodigini, Rovigo, Minelliana, 2008, pp. 11-46.

28 Avrà altri tre figli, di cui uno, Gino (Milano, 9 aprile 1873 – Vetreso, 3 agosto 1945, giornalista, sindacalista, poeta socialista), probabilmente da Carducci. La tesi è state recentemente rilanciata da Guido Davico Bonino inGIOSUE CARDUCCI, Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia (1872-1878), a c. di Guido Davico Bonino, Roma, Salerno Editrice, 2010.

29 Maria Antonietta Torriani nasce a Novara nel 1846. Orfana, si diploma maestra elementare. Le sue passioni sono la pittura e la scrittura, alle quali si dedica assiduamente; è inoltre una grande frequentatrice di salotti e degli ambienti letterari. Nel 1875 si trasferisce a Milano e sposa il giornalista Eugenio Torelli Viollier (Napoli, 1842 – Milano, 1900), allora direttore del periodico «L’illustrazione universale» (l’anno seguente, Torelli Viollier fonda il «Corriere della Sera», il primo numero esce il 5 marzo 1876, e al quale la Torriani collaborerà assiduamente). Negli anni Settanta la Torriani si inserisce nel movimento proto femminista lombardo; il suo interesse è rivolto principalmente alle condizioni del lavoro femminile: un tema, questo, che ritorna frequentemente nei suoi racconti e nei suoi romanzi, che pubblica con lo pseudonimo di Marchesa Colombi, tratto da un personaggio minore della commedia La satira e il Parini di Paolo Ferrari (Modena, 1822 – Milano, 1889). Tra i suoi romanzi si ricordano In risaia, edito nel 1878 da Treves, e Un matrimonio di provincia, pubblicato nel 1885 dalla casa editrice Galli, entrambi di taglio verista e incentrati sulle protagoniste femminili. Muore a Milano nel 1920. Si rimanda a SILVIA BENATTI, La Marchesa Colombi: una scrittrice e il suo tempo, Interlinea, Novara, 2001.

30 Filippo Filippi nasce a Vicenza nel 1830. Critico musicale, musicista e compositore, è vicino agli ambienti scapigliati e in particolare ad Arrigo Boito e Franco Faccio. È un appassionato cultore della musica di Wagner e di Verdi. Dirige la «Gazzetta musicale» edita da Ricordi e scrive articoli di critica musicale su «La Perseveranza» di Milano, quotidiano da lui fondato nel 1859. Muore a Milano nel 1887.

31 Come Enrico Panzacchi e Raffaele Belluzzi (Bologna, 1839 – ivi, 1903; garibaldino, intellettuale e letterato bolognese, allora vicepresidente della Lega per l’istruzione popolare, fondata quello stesso anno – Carducci ne era il presidente –; compagno della giornalista Anna Maria Mozzoni, amica della Torriani), anche Carducci le aveva dedicato dei versi: la saffica Autunno, A Jole, poi successivamente intitolata Autunno romantico (si legge in edizione definitiva in Rime nuove, III, XL). Per i dettagli, BIAGINI,

(11)

179

mi sono abbandonata con delirio alla lettura de’ Suoi bei versi, e spesso ho baciato il libro, parendomi che non bastasse d’averlo impresso nella memoria32.

Alla lettera ha aggiunto una fotografia di sé e un suo sonetto, che ha scritto imitando il sonetto di Carducci «Bella è la donna se volge i neri», letto negli Juvenilia (I, IX) delle Poesie, che proprio la Torriani, al rientro dalla sua trasferta bolognese, le aveva fatto conoscere33. Carducci le risponde tre giorni dopo, ringraziandola delle lodi e

inviandole una copia dell’ode Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in Santa Croce34.

Il 1° novembre Lina, con un gruppo di amici milanesi, raggiunge Bologna per seguire al Teatro Municipale la prima italiana del Lohengrin di Wagner35. Tra gli

spettatori c’è anche Carducci, ma non si incontrano. In questa occasione lei fa la conoscenza di Panzacchi, con il quale inizia uno scambio epistolare36. A gennaio Lina

è di nuovo a Bologna; con Carducci fa appena in tempo a intravedersi37. Il primo,

vero incontro è tre mesi più tardi: Lina arriva a Bologna l’8 aprile per seguire una conferenza wagneriana di Panzacchi; il giorno successivo incontra Carducci al Caffè delle Scienze. Pochi giorni dopo, Carducci le scrive che la ama e le dedica nuovi versi. Lina diviene rapidamente l’interlocutrice privilegiata di Carducci. Lui le scrive di tutto: di poesia e di letteratura, ma anche di politica, delle lezioni universitarie che intende fare, delle ricerche che conduce e dei suoi impegni editoriali. Tanto nelle lettere quanto in poesia, Carducci la idealizza e la idolatra: ella diviene ora ispiratrice e compagna di fantasie elleniche, ora «regina», «signora», «angelo» e «madonna» che consola, ora «ramarro» elegante e svelto come quelli della Maremma38, ora «lionessa»

ed «Erinni» e «dolce pantera», feroce e tormentatrice. Molti volti per un’unica donna, il cui profilo reale filtra solo di rado attraverso l’immagine letteraria che di lei le lettere e le poesie carducciane restituiscono39.

32 Si cita la lettera di Lina da MICHELE SAPONARO, Carducci. Con 23 ritratti e due lettere autografe, Milano, Garzanti, 19429, p. 173. Occorre precisare che Saponaro ricostruisce le vicende del 1871-’72 con una buona dose d’astio per le donne protagoniste; particolarmente antipatico è il ritratto che fa della Torriani, dipinta né più né meno come una zitella dalle grandi pretese letterarie e a caccia di marito, ivi, pp. 167-72.

33 Si rimanda a TORQUATO BARBIERI, Versi di Lidia e postille carducciane, «Letterature Moderne», a. VIII, n. 1, gennaio-febbraio 1958, pp. 70-5.

34 Lettera del 30 luglio 1871, in CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 39-40.

35 Su Wagner, Bologna e Carducci si rimanda a ALBERTO CAPRIOLI, La morte di Isotta e la gioia

ideale. Giosue Carducci «wagneriano fervente», in Carducci nel suo e nel nostro tempo, cit., pp. 399-415.

36 Uno scambio epistolare di corteggiamento e di ambiguità. Lo si desume, oltre agli attriti che ne seguiranno tra Lina e Panzacchi e tra Carducci e Panzacchi, anche da una battuta di Lorenzo Ruggi, che era venuto in possesso di molte lettere di Lina: «Ho anche n. 18 lettere del Panzacchi alla Piva, pure d’amore, in quel rovello di passione e di capricci che fu per quella donna il periodo iniziale dei suoi amori con Enotrio», lettera del 26 dicembre 1945 di Lorenzo Ruggi a Sabatino Lopez, in LORENZA MIRETTI,FRANCESCA FLORIMBII, Lettere di Lidia a Giosue Carducci, in Carducci nel suo e nel

nostro tempo, cit., p. 209.

37 Alla loro «entrevue del 9 genn. [1872]» accenna Lina nella sua lettera del 12 settembre 1874 a Carducci; si legge in SANTUCCI, Lettere inedite di Carolina Cristofori Piva a Giosuè Carducci, cit., p. 77.

38 Questa bizzarra associazione in CARDUCCI, Lettere, IX, p. 96.

(12)

180

Eppure, al di là delle idealizzazioni, da questi stessi testi si evince che Carducci nutre per Lina una stima intellettuale autentica: è meravigliato dalla sua cultura poetica; considera i versi che lei scrive di grande pregio, equiparabili ai propri40, ed è

totalmente conquistato dalla prosa delle sue lettere, tant’è che ne trascrive alcuni brani e li invia agli amici più intimi; quelle, poi, scritte in francese lo lasciano esterrefatto, estasiato41. Con lei Carducci condivide veri e propri riti letterari che

ritiene possano ispirarlo e consentirgli di comporre poesia “nuova”: spesso le scrive che desidera che lei gli legga, nei loro rendez-vous, le sue poesie a voce alta; altrettanto spesso, perché vuole mantenere una sintonia culturale con lei, le raccomanda di leggere le Elegie romane e l’Ifigenia in Tauride di Goethe. Lina prende addirittura lezioni di greco antico: i saggi di scrittura che lei gli invia lo commuovono profondamente42.

Spesso le lettere che lui le scrive costituiscono una sorta di “prima stesura” delle poesie amorose che le dedica. Sarà così almeno per sei anni: tanto durerà, tra alti e bassi, tra furiose gelosie e appassionati riavvicinamenti, la relazione tra la Piva – la Lina delle Primavere elleniche, la Lidia delle Barbare – e Carducci.

1.5. Prove di versatilità

L’inizio del 1872 non sembra favorevole a Lina, che inutilmente pressa Carducci affinché le dedichi altri versi. Lui risponde di non essersi ancora «ritemprato» a sufficienza per dedicarsi alla poesia; le promette, però, che di lì a breve avrebbe pensato «a qualcosa di nuovo e serenamente artistico» e aggiunge che, in ogni caso, i suoi prossimi versi non sarebbero stati che di «riflessione se non memoria soltanto»:

Ho trentasei anni, e il peso di molti dolori e disinganni sul cuore, e veggo le più nobili idee, le più divine speranze fuggire e sento freddo per l’aere di febbraio il fruscio della candida ala della musa che s’invola43.

Nel finale della lettera tenta ancora di ammansire Lina, definita galantemente amante e consolatrice dei «poeti da lontano, come le voci gentili e pure delle divinità arcane nella religione naturale dei greci»44.

Anche nella lettera successiva, che risponde alle nuove, insistenti richieste dell’amica, cerca di prende tempo: spiega che una vita troppo «grave» lo ha schiacciato fin dalla gioventù e ora gli impedisce di innalzarsi fino a quel «lembo» di «divino cielo dell’Ellade» che pure, in qualche occasione, gli aveva arriso a vent’anni; aggiunge di essersi abbrutito tra gli studi solitari, il giorno, e tra le bottiglie, la sera, e che è «un miracolo» se «di quando in quando la cetra della sua anima manda un brivido di suoni che ricordi le armonie antiche»; suggerisce, poi, in modo tutt’altro

40 Si veda CARDUCCI, Lettere, IX, p. 66, pp. 86-7; XI, pp. 6-7. 41 Ivi, p. 31, p. 35.

42 Lettere del 9, del 17 e del 29 maggio 1874 a Lina, ivi, p. 100, p. 109 e p. 112.

43 Lettera del 7 febbraio 1872 a Carolina Cristofori Piva, in CARDUCCI, Lettere, VII, p. 101. 44 Ibidem.

(13)

181

che velato, che «forse», se potesse vederla e sentirla leggere i suoi versi, quelli «di una volta» – non certo gli epodi –, allora in lui «lo spirito eolio» potrebbe risvegliarsi, se non per sempre, «almeno pel canto del cigno»45. Il «miracolo» ultimo e definitivo

della poesia greca richiede, quindi, la contemplazione dal vivo di Lina lettrice di poesia.

Agli inizi, lo scambio epistolare tra Lina e Carducci è un intreccio tutto letterario di pose e di ambizioni poetiche. Carducci presenta se stesso come l’artista schiacciato dai dolori della vita, dagli obblighi di docente, da quella lotta caparbia e doverosa alle ingiustizie, una lotta che lo spinge verso l’invettiva, verso il sarcasmo, verso un realismo che offre, senza reticenze di stile e linguaggio, una rappresentazione sdegnata e cruda della crisi morale e politica italiana. A Lina, invece, tocca il ruolo di Musa: è lei, bella e colta, a dargli l’occasione di riprendere quei progetti artistici che aveva accantonato in nome della poesia impegnata46. Ciò non significa, però, che

Carducci accantoni d’un colpo gli epodi o che si concentri esclusivamente sulla nuova linea greca. Quel che si verifica è, invece, un forte ampliamento della gamma tematica, tonale e formale della sua poesia.

1.5.1. Liturgia civile: Giuseppe Mazzini

Una prima riprova della persistenza della poesia civile carducciana si ha proprio all’inizio del 1872. Mentre Lina gli chiede altri versi greci, Carducci scrive il sonetto Giuseppe Mazzini, che esce il 13 febbraio sull’«Alleanza», rivista organica al radicalismo democratico romagnolo. La poesia, contraddistinta da uno stile solenne e da immagini grandiose, presenta Mazzini come il profeta della terza Italia, dotato del «cuor di Gracco» e del «pensier di Dante» (v. 8), capace di riscuotere il «popol morto» degli italiani (v. 11), di restituirgli un’identità unitaria e di guidarlo verso la libertà dalla dominazione straniera; l’ultima terzina lo raffigura mentre rivolge al cielo il suo sguardo severo e imperturbabile («il volto che giammai non rise», v. 13) e pensa che solamente l’ideale è vero ed esiste47. Le immagini e il lessico scelti fanno di questo

sonetto un vero e proprio “monumento” a Mazzini, rappresentato avulso dalle contingenze e circonfuso da un alone di sacralità.

Un mese più tardi, a Pisa, dove si trova sotto falso nome, Mazzini muore inaspettatamente. Il 12 marzo Carducci partecipa, su invito di Quirico Filopanti, a una commemorazione che si tiene nel Teatro Comunale di Bologna: fa un breve discorso, nel quale rappresenta Mazzini come un padre della patria al pari di Colombo e Dante e denuncia la corruzione dell’Italia, affermando che a chi si

45 Lettera del 22 febbraio 1872 a Lina, ivi, p. 115.

46 Ibidem. Analizza le affinità tematiche tra alcuni versi giovanili, le Primavere elleniche e l’epistolario carducciano del 1871-1872 BRUSCAGLI, Carducci nelle lettere, cit., pp. 119-23.

47 Ne offre una parafrasi lo stesso Carducci nella lettera del 17 febbraio 1872 a Giuseppe Chiarini, in CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 106-7.

(14)

182

proclama erede di Mazzini spetta il dovere di risollevare il Paese all’«Ideale»; chiude chiedendo alla «gioventù italiana» di portare, «quando la patria sarà degna di lui», la sua salma «in cima al Campidoglio immortale, là dove egli ammirava in visione la immagine dell’Italia ministra per la terza volta ai popoli di luce e di libertà»48. Lo

stesso giorno scrive Per il passaggio della salma di Giuseppe Mazzini, un’epigrafe che viene diffusa in volantini e affissa ai muri di Bologna49. Giorni dopo, tenta di comporre una

poesia in mortem di Mazzini; abbozza quattro strofe, nelle quali riecheggiano sbiaditi i temi toccati nel discorso. Il componimento rimane incompiuto e così lo pubblicherà dieci anni più tardi nella raccolta Giambi ed epodi.

1.5.2. Medioevo italiano: l’epos di Su i campi di Marengo

La primavera del 1872, oltre a essere di Mazzini e della poesia greca, è anche della poesia epica medievale. Ad aprile, infatti, Carducci compone Su i campi di Marengo50.

Ha subito la certezza di aver fatto qualcosa di nuovo. Ne scrive con soddisfazione a Chiarini in tre lettere. Nella prima, datata 9 aprile – è il giorno del primo incontro con Lina –, dichiara di aver «partorito qualcosa di nuovo: […] una poesia storica, interamente storica, in metro nuovo»51. Nella seconda, risalente al 21 aprile, ribadisce

d’aver composto «una breve poesia tutta storica e vera» e di aver scelto «un metro nuovo per l’Italia dopo il ’200»52. Nell’ultima, senza data ma collocabile tra fine

maggio e inizio giugno, definisce il componimento «una breve poesia epica» e riassume la vicenda che ha ridotto in versi, dichiarandone nel dettaglio la fonte: il «libro I, cap. II de Les Révolutions d’Italie» di Quinet. A proposito del metro, l’alessandrino, afferma di averlo scelto in quanto «verso epico di quella età non solamente in Francia e in Germania, ma anche in Italia». In chiusura, rivendica per sé il ruolo di poeta “rinnovatore” poiché, seguendo l’esempio di Uhland, ha «rinnovato» un genere e un metro dimenticati da secoli53.

48Esce l’indomani sull’«Alleanza». Carducci riporta questo suo breve discorso in Decennale dalla

morte di Giuseppe Mazzini, in CARDUCCI, Opere, XIX, pp. 9-18: pp. 15-7.

49 «L’ultimo / dei grandi italiani antichi / e il primo dei moderni, / il pensatore / che de’ romani ebbe la forza / de’ comuni la fede / de’ tempi nuovi il concetto, / il politico / che pensò e volle e fece una la nazione / irridenti al proposito grande i molti / che ora l’opera sua abusano, / il cittadino / che tardi ascoltato nel MDCCCXLVIII / rinnegato e obliato nel MDCCCLX / lasciato prigione nel MDCCCLXX

/ sempre e su tutto dilesse la patria italiana / l’uomo / che tutto sacrificò/ che amò tanto / e molto compatì e non odiò mai, / GIUSEPPEMAZZINI, / dopo quarant’anni d’esilio / passa libero per terra italiana / oggi che è morto. / O Italia / quanta gloria e quanta bassezza / e quanto debito per l’avvenire», in CARDUCCI, Opere, XIX, p. 3.

50 Il primo titolo era Su ’l campo di Marengo, poesia storica. La poesia sarà pubblicata con il titolo Su’

campi di Marengo la notte del sabato santo 1175 in CARDUCCI, Nuove poesie (1873), XXVIII, poi con il titolo

definitivo Su i campi di Marengo la notte del sabato santo 1175 in Rime nuove (1887), VI, LXXVIII. Si legge in edizione definitiva in Rime nuove, VI, LXXVIII.

51 CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 126-7. 52 Ivi, p. 145.

(15)

183

Considerazioni simili si leggono nella nota che accompagna Su i campi di Marengo nell’edizione in volume:

Su tali particolari e su altri che fornisce la Vita Alexandri III nel t. III Script. Rer. Ital. volli tentare questo saggio di canto epico, in cui la storia si mescolasse all’invenzione ma per modo che la invenzione fosse storica e la storia alla sua volta poetica. Anche il metro ho desunto dal secolo decimoterzo: è l’alessandrino che allora fu il metro specialmente epico di tutta quella Europa che aveva poesia scritta, anche dell’Italia, ove tutta quasi la poesia didascalica e religiosa del periodo dialettale veneto e lombardo e in parte anche popolare o mezza popolare del centro e di Sicilia fu scritta in alessandrini54.

L’accurato autocommento spiega quali letture e che tipo di ricerca storico-critica precedono la poesia. Si specificano anche le modalità della composizione: si sceglie una storia vera, la cui autenticità è garantita da una fonte illustre, e la si amalgama con elementi d’invenzione; questi, però, non devono essere eccessivi: il «canto epico» deve narrare vicende storiche a cui si aggiungono alcuni elementi di fantasia; nel complesso, deve essere una narrazione plausibile. Si sceglie, poi, la soluzione metrica più consona alla materia, ossia all’epoca di cui si tratta e al genere al quale la poesia afferisce; in questo caso, si opta per l’alessandrino, poiché metro dell’epica duecentesca. È questo un modus operandi che distingue nettamente Carducci dai poeti romantici: mentre quest’ultimi fanno poesia sul medioevo, ma non adottano metri consoni al tema prescelto né di quel periodo, Carducci fa uno studio preliminare di carattere erudito e ricrea un pezzo di poesia in tutto e per tutto medievale.

Nel prosieguo della nota, Carducci aggiunge che l’alessandrino è rimasto un metro “vivo” solo nella poesia francese e che però, di recente, i tedeschi lo hanno «riconquistato»55. Continua ricordando che in Italia gli ultimi a impiegarlo erano stati

Pier Jacopo Martelli e successivamente, con esiti meno felici, Goldoni e Chiari. Sono affermazioni molto significative. Anzitutto, qui si trova un’ulteriore conferma di quanto sia proficuo per gli sviluppi della sua poesia il confronto e la competizione con i poeti tedeschi del Settecento e dell’Ottocento: le loro ricerche – nella

54 CARDUCCI, Nuove poesie (1873), cit., pp. 125-6. A proposito dell’alessandrino, nella prosa Ça ira del 1883 Carducci scriverà: «E non mi parlate di alessandrini. La solenne monotonia di cotesto gran metro del duecento, la quale ricorda e risuona la cadenza dei gran passi d’un barone crociato che smontato da cavallo camminasse tutto vestito di ferro, voi non avete il coraggio né la forza di rigirarla, e il vostro pubblico non ha la pazienza di sopportarla. L’alessandrino i poeti del Romanticismo francese nella metà prima di questo secolo lo frantumarono per renderlo moderno e sermonatore: gli odierni ne posson fare degli spezzatini mussettiani per le donnucce più o meno parnassiane. E non altro, non altro», in CARDUCCI, Opere, XXVII, pp. 382-3. Questo giudizio negativo risulta

incomprensibile se non lo si contestualizza: occorre infatti tenere presente che la prosa ha l’obiettivo di difendere la scelta del sonetto, forma chiusa e breve, per la «rappresentazione epica», cioè per «offerire alla fantasia e al sentimento altrui in brevi tratti come attuale e senza mistura di elementi personali un avvenimento o una leggenda storica; a quella guisa che feci altre volte con i Campi di

Marengo e la Canzone di Legnano», ivi, p. 386.

(16)

184

fattispecie, la “rinnovazione” dell’alessandrino operata da Uhland nella Ballade König Karls Meerfahrt 56 – indirizzano e stimolano Carducci. Poi, con il breve excursus sulla

storia dell’alessandrino in Italia Carducci rivendica la validità della propria poesia “rinnovativa”: in ragione delle sue competenze può recuperare dalla tradizione forme e generi desueti e “rinnovarli”. Il risultato è duplice: da un lato, rivitalizza con le sue poesie la tradizione letteraria nazionale, della quale riporta alla luce, con mirate operazioni di archeologia poetica, forme, temi e generi dimenticati o divenuti minori; dall’altro, lega la propria poesia alla tradizione e così facendo le conferisce legittimità e valore.

Un ultimo accenno merita la storia narrata in Su i campi di Marengo. Carducci racconta la ritirata di Federico Barbarossa e del suo esercito nelle campagne presso Marengo dopo il fallimentare tentativo d’assedio alla città di Alessandria; a Marengo le forze imperiali sono accerchiate dalla Lega Lombarda; per l’imperatore sembra la fine; però, dopo una notte di riflessione, all’alba grida:

A cavallo, o fedeli! Tu, Wittelsbach, dispiega il sacro segno in faccia da la lombarda lega. Tu intima, o araldo: Passa l’imperator romano, del divo Giulio erede, successor di Traiano. – (vv. 41-44)

A queste parole, «i vessilli / d’Italia s’inchinarono e Cesare passò» (vv. 47-48). Carducci ha scelto un episodio glorioso del medioevo comunale italiano: la vittoria della Lega Lombarda sull’imperatore Federico I; in chiusura, però, la poesia sancisce la superiorità dell’ideale di Roma e dell’Impero romano sul grande vinto e sui nobili vincitori: solo perché il Barbarossa si proclama «imperator romano», successore di Giulio Cesare e di Traiano, i lombardi scelgono di lasciarlo passare, in nome di un ideale comune, unanimemente riconosciuto, superiore a qualsiasi appartenenza o fazione: Roma.

Carducci ha a cuore la storia dell’Italia comunale da sempre: nelle sue prose giovanili essa è il momento fondativo della nazione; tornerà, poi, nella sua poesia con Il comune rustico, con Faida di comune e con Il parlamento dell’incompiuta Canzone di Legnano57. Questi testi hanno una ragione ideologica comune: risalire alle radici

56 È questo il testo che Carducci ha tenuto presente, la ballata König Karls Meerfahrt [La traversata di

re Carlo]; si veda LORENZO BIANCHI, Carducci tra Quinet e Uhland. A proposito delle poesie «Su i campi di

Marengo» e «König Karls Meerfahrt», Bologna, Zanichelli, 1951.

57 Il poeta scrive Il comune rustico nell’agosto del 1885. Anteriore è la stesura di Faida di comune, iniziata nel marzo del 1875; la riprende e la conclude nel 1887 (CARDUCCI, Lettere, XVI, p. 139). Il

primo abbozzo della Canzone di Legnano risale all’aprile del 1876; è ripresa nel 1879, ma è destinata a rimanere incompiuta, nonostante i reiterati tentativi da parte del poeta, sollecitato anche dalla Regina Margherita (si veda la lettera del 20 agosto 1898 a Zanichelli, in CARDUCCI, Lettere, XX, p. 159), di portarla a termine. Il comune rustico e Faida di comune si leggono in edizione definitiva in Rime nuove, VI,

LXXVII e LXXIX; nello stesso libro, tra i due, si legge Su i campi di Marengo, LXXVIII. Si ricostruisce la storia del “mito” medievale nell’opera di Carducci in MARCELLO CICCUTO, Mito del Medioevo carducciano,

(17)

185

medievali dell’identità italiana e rinsaldare le memorie collettive della nazione. Non si tratta, quindi, di mere operazioni di archeologia poetica, ma di componimenti che, oltre a ragioni formali e stilistiche, hanno significati di forte attualità politica e ideologica: primo su tutti, quello di fare gli italiani ricostruendone la storia, di dare loro dei miti condivisi, di rendere il Paese coeso58. Su i campi di Marengo costituisce il

primo esempio di questa nuova forma dell’engagement carducciano: un impegno che, a partire da rievocazioni storiche, punta a costruire un patrimonio comune di episodi che fondano e rafforzano l’unità e l’identità nazionale.

1.6. Di nuovo vent’anni: le Primavere elleniche

Il primo incontro tra Carducci e Lina ha luogo a Bologna il 9 aprile. Il poeta le aveva promesso che le avrebbe dedicato nuovi versi se l’avesse vista. È di parola: già il giorno successivo scrive le prime quattro strofe di un’ode a lei dedicata e gliele invia59. Il 13 aprile seguono altre strofe; le accompagna una lettera sentimentale,

foscoliana nel tono e per le citazioni, nella quale, dando per la prima volta del tu alla sua «superba regina», le annuncia che le è riuscito il «miracolo»: ha «richiamato ai sospiri ai sogni di un giorno il poeta degli epodi»; d’ora in avanti lui avrebbe «lavorato ogni strofe come Benvenuto Cellini una corona di re»60.

Il 16 aprile le invia altre strofe, che commenta con entusiasmo: «Questa è la più nobile la più pura la più greca poesia che abbia mai fatto per donna; ed è tua»61. Lo

stesso giorno spedisce a Chiarini l’intero testo dell’ode; nella lettera d’accompagnamento ne enfatizza il valore e la definisce «il non plus ultra dell’aristocrazia»; al tempo stesso riconduce alle proporzioni di un flirt letterario la liaison con la Piva:

Non creder già che io faccia all’amore: faccio solamente un po’ di poesia sur una bella signora milanese, che è fieramente classicista e pagana, ed entusiasta di me, che io ho veduto solo due ore, che sta in Milano ecc. ecc.62.

in Carducci poeta, cit., pp. 103-32; si veda anche il più datato TERESA SARACINELLI RUSSO, Il sentimento

lirico del medioevo nella poesia del Carducci, Firenze, Stella, 1931.

58 A questo proposito si rimanda a LUCA CURTI, Carducci: l’ideologia italiana e il suo destino, «Nuova rivista di letteratura italiana», X, 1-2, 2007, pp. 9-35; LAURA FOURNIER FINOCCHIARO, Carducci

costruttore di miti nazionali, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, cit., pp. 39-58, che riprende sinteticamente

le riflessioni esposte in EAD., Giosue Carducci et la construction de la nation italienne, Caen, Université de Caen, 2006. Sempre attuali e significative sono le riflessioni su Carducci poeta della storia e del medioevo italiano che si leggono in MARIO FUBINI, Premessa a una rilettura del Carducci [1968], in

CARDUCCI, Poesie e prose scelte, cit., p. XVIII e pp. XXII-XXV.

59 L’ode è la seconda delle Primavere elleniche, Dorica; CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 128-9.

60 CARDUCCI, Lettere, VII, pp. 130-2. Correttamente, a mio parere, Bruscagli suppone che fra la lettera del 10 e quella del 13 aprile – così differenti nel tono – possa esserci stata «una qualche dichiarazione o confessione d’amore, ovvero, con tutta probabilità, una carta perduta dell’epistolario carducciano», in BRUSCAGLI, Carducci dall’epistolario ai carteggi, cit., p. 116n.

61 CARDUCCI, Lettere, VII, p. 137. 62 Ivi, p. 139.

(18)

186

Sempre all’amico, il 23 spedisce «ancora accresciuto il canto delle Ninfe nella Primavera ellenica»; nello stesso giorno, scrive a Lina, la sua «signora» – appellativo che dichiara di attribuirle perché «riconosce la signoria sua, la signoria della bellezza e dell’amore»63 – e la prega di calmarsi, perché la sente eccessivamente commossa e

agitata. È chiaro che la dichiarazione d’amore ha avuto i suoi effetti sull’animo dell’ispiratrice e sulla sostanza delle sue lettere. Tuttavia, accantonate le raccomandazioni di buon senso, Carducci riprende subito a magnificare la sua interlocutrice, individuando tra lei e sé sostanziali consonanze d’animo e un’esaltante unanimità di gusto e sentire letterari: «Quanto ho caro che anche tu ami il sole! […] È il dio di noi greci»64. Attacca, poi, a parlare di sé, ripercorrendo le tappe della sua vita

trascorsa e prefigurando le nuove possibilità che Lina, con il suo offrirsi quale donna ideale e idealizzata, offre alla sua ispirazione:

Mi par di essere tornato a venti anni! E non avrei mai creduto di dover più amare! Parte gli studi aridi e lunghi e solitari a cui mi abbandonai perdutamente negli anni che seguirono il mio venticinquesimo, parte il disprezzo e lo sdegno che ho della società moderna e il fiero entusiasmo per il mio ideale filosofico e politico, parte l’oblio e l’odio degli uomini, mi avevan dovuto dare al cuore come uno smalto (direbbe Francesco Petrarca): e in vece io amo, deliro, come a venti anni; e vorrei, o Lina, soffocarti di baci… No, non è vero: nol credere, mia dolce signora: è una scappata retorica. Ti amo più artisticamente: ti amo perché sei bella secondo il mio cuore e secondo la mia fantasia65.

E continua dicendo che la sesta gravidanza della sua Musa lo inquieta, perché la indispone e ne «altera, se ben di passaggio, le forme»66. Infine chiude suggerendo a

Lina di rileggere La jeune tarentine, La jeune locrienne, gli Idilli e le elegie moderne di Chénier. Pregusta il loro prossimo incontro, quando potrà sentirla leggere Chénier e Foscolo. La saluta alla solita maniera, «Addio, mia dolce signora», non senza averla prima apostrofata «pantera»67.

1.6.1. A Lina, ossia Dorica

Sai tu l’isola bella, a le cui rive manda il Ionio i fragranti ultimi baci, nel cui sereno mar Galatea vive e su’ monti Aci?

(vv. 1-4)

Il nome della persona alla quale il poeta si rivolge nell’esordio è celato fino alla metà del componimento; nella prima parte, però, la sua identità è progressivamente

63 Ivi, p. 145. 64 Ivi, p. 146. 65 Ivi, pp. 146-7. 66 Ivi, p. 147.

67 Ivi, p. 148. Sul registro “panterino” di queste prime lettere di Carducci a Lina si rimanda a BRUSCAGLI,Carducci nelle lettere, cit., pp. 94-5.

(19)

187

disvelata: si apprende che è una donna, che ha un animo argivo ed è bella come Beatrice, e che per lei il poeta intende richiamare in vita le divinità greche che popolano la natura dell’isola68.

L’«isola bella» è la Sicilia, che viene preziosamente allusa attraverso il suo retaggio mitologico amoroso, con i riferimenti, in apertura, al mito di Galatea e Aci e alla dea Afrodite. L’isola è descritta nella stagione in cui Proserpina risale dagli inferi sulla terra: a primavera. Allora il paesaggio è tutto un fremere e un mormorare d’amore: «freme tutt’amor» la costiera (vv. 7-8); «Amor fremono, amore» i colli e i prati (v. 9); «Amore, amor, sussurran l’acque» (v. 13), mentre Alfeo, il cacciatore, figlio di Oceano e Teti, trasformato in fiume, si congiunge nei «talami» del mare con l’amata Aretusa, trasformata da ninfa in fonte; in modo simile «l’itala musa» s’ispira e si congiunge «al concento acheo» (vv. 15-16). Oltre alla natura, «Amore, amore» cantano le città siciliane e per i loro «fòri / dorïesi» (vv. 18-19, perché in stile dorico sono per lo più le piazze delle colonie greche in Sicilia) prorompono, festanti, i seguaci del dio Bacco con cetre e fiori (vv. 17-20).

Al termine di questa lunga descrizione intarsiata di riferimenti letterari e mitologici, il poeta afferma di non ricercare la poesia pindarica (allusa ai vv. 21-24); intende, invece, fare versi d’amore come ne aveva fatti il pastore Dafni, che «dicea tra i fonti / carmi divini» (vv. 27-28). Nei luoghi cantati da Dafni vuole portare il «tu» al quale si era rivolto in inizio di canto: Lina (v. 55). Là, nelle campagne silenziose, nella calma del mezzodì, quando la natura tace, lui farà poesia e risveglierà tutte le divinità immortali che dormono negli alberi, nei fiori, nei monti, nei fiumi e nel mare. Ogni qualvolta, infatti, li evochino il viso di una bella donna o il cuore di un poeta, essi «lampeggiano» con il loro riso fuori dalla «santa natura» nella quale, immortali, risiedono (vv. 57-60).

A questo punto, arrivano a passo di danza alcune ninfe e, riconosciuta Lina come loro sorella, le chiedono da quali luoghi e tempi ella provenga; notano, poi, la sua inquietudine e si offrono di portarla con loro e guarirla (vv. 65-100). Il poeta le interrompe e le supplica che gli lascino «questo raggio d’amor»: penserà lui a curare la ferita che affligge Lina; lo farà con la poesia, e «su ’l cuore mormorandole – O dolce / signora, io v’amo – » (vv. 115-116).

Con Dorica, l’atlante della poesia neoellenica carducciana si accresce di una pagina: quella siciliana, la più bella, secondo Carducci, «perché la più oggettiva e serena»69.

68 I commentatori ricordano che l’attacco di Dorica ricalca quello della Ballade goethiana di Mignon, tratta dal romanzo Wilhelm Meisters Lehrjahre [Anni del noviziato di Wilhelm Meister]: «Kennst du das

Land? Wo die Citronen blühn, / Im dunkeln Laub die Gol-Orangen glühn, / Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht, / Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht, / Kennst du es wohl? Dahin! Dahin / Möcht’ ich mit dir, o mein Gelibter, ziehn», “Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d’oro splendono tra le foglie

scure, / dal cielo azzurro spira un mite vento, / quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso, / la conosci forse? Laggiù, laggiù io / andare vorrei con te, o amato mio!”; si cita da JOHANN WOLFGANG

GOETHE, Tutte le poesie, edizione diretta da Roberto Fertonani con la collaborazione di Enrico Ganni, vol. I, tomo I, Milano, Mondadori, 1989, pp. 196-7 (trad. di Roberto Fertonani).

Riferimenti

Documenti correlati

E così anche in questi giorni, noi tuttora viventi, vedremo il mondo intiero, meravigliare delle grandi guarigioni della Chiesa, ed applaudire palma a palma al

mettono la lettura di questi li b r i , cooperano alla rovina della civile società e a danno della Chiesa quei maestri, quei superiori che trascurano d ’im­.. pedire

[r]

INDICA IL DADO, MOLTIPLICA POI MENTALMENTE IL NUMERO SUL QUALE È ARRIVATO PER IL NUMERO DELLA TABELLINA STABILITA.. SE IL RISULTATO È CORRETTO PUÒ RIMANERE NELLA CASELLA DOVE È

Sappiamo che all’interno di questo mondo ci sono stati fenomeni differenti: da una parte gli ipermercati hanno subito un vistoso calo, mentre supermercati e discount hanno

Sempre rima- nendo nell’ambito dei marchi esclusivi per il canale specializzato, abbiamo da poco rilanciato Purina Cat Chow, alimento secco per gatti, cogliendo il trend

addosso e dicono sì a tutto, ma senza guardarti, o solo ogni tanto, così, alzando gli occhi perché tu giri la testa e loro pensano che tu non li vedi, proprio quelli, sì, ci

Che e etto avrebbe sulla ostante di Hubble un errore del 20% in meno