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3 La fauna di Horcynus Orca

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Academic year: 2021

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3 La fauna di

Horcynus Orca

3.1 Animali in letteratura

Osservando i rapporti fra esseri umani e animali è facile notare che nella vita quotidiana le relazioni si sono da sempre rivelate più spesso inclini allo sfruttamento che a qualsiasi forma di condivisione disinteressata; allo stesso modo nella letteratura la presenza degli animali è generalmente improntata a un'antropomorfizzazione che, pur comparendo in forme diversissime, sottende sempre lo stesso sfruttamento della figura dell'animale al fine di veicolare contenuti e significati prettamente umani, e solo raramente riesce a mettere in relazione vita umana e vita animale per le radici comuni che le uniscono indissolubilmente.

All'interno di questo modello generico il passare dei secoli ha visto mutare in modo talvolta radicale i metodi di interpretazione della presenza animale, che hanno influito su tutti i tipi di rappresentazione non ultimo, ovviamente, quello letterario. Così se in testi arcaici possiamo ancora trovare rispetto e ammirazione per le abilità degli animali, con il progressivo distacco dalla vita naturale e con l'incivilimento della società si accrebbe piuttosto un senso di orgogliosa superiorità del genere umano rispetto alle altre forme di vita. La concezione dell'animale si stratifica in seguito agli usi (rituali, pratici, simbolici...) che l'uomo man mano ne fa, usi che a loro volta diventano tradizioni e si costituiscono negli archetipi simbolici che arrivano fino a noi.

“Oltre la sua significazione archetipa e generale, l'animale è suscettibile di essere iperdeterminato da caratteri particolari che non si riferiscono direttamente all'animalità (…) ciò che prevale in essi sono le qualità che non sono propriamente

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animali”1.

È l'interpretazione che si dà di certi comportamenti animali o del loro aspetto che diventa per noi d'uso comune, che ci viene insegnato fin da bambini: “niente ci è più familiare, dall'infanzia, delle rappresentazioni

animali”2; infatti gli animali sono comunissimi, per esempio, nelle

rappresentazioni iconografiche dedicate a quell'età, ma portano con sé una visione distorta, irreale di questi esseri viventi: le caratteristiche di arroganza mitezza e pavidità attribuite a leoni agnelli e conigli nelle favole e in altri tipi di racconti per bambini hanno nulla o poco a che vedere con l'animale reale. Inoltre, come sottolinea Durand, i nostri bambini sognano e parlano di animali che non hanno mai visto né toccato, e si tratta di rappresentazioni umanizzate, neutralizzate, prive dell'ignoto che conserva l'incontro con l'animale (l'Altro) vivo.

Questo tipo di gestione della presenza animale è chiamato

antropomorfismo “cattivo” da Paolo Trama3, che indica, come esempi,

innanzitutto i bestiari medievali come il Fisiologo e le loro realizzazioni nell'iconografia dei blasoni nobiliari: in base ai paradigmi etico-simbolici che la singola specie animale viene a rappresentare, in virtù dei diversi significati attribuiti al comportamento e alle leggende che la riguardano, essa può essere inserita in una categorizzazione gerarchica che ha poco o nulla a che fare con la realtà della bestia4. Per esempio la balena:

1 G . D u r a n d , Le strutture antropologiche dell'immaginario. Introduzione

all'archetipologia generale, Bari, Dedalo, 1972: p. 62.

2 Ivi p. 61.

3 Cfr. Paolo Trama, Animali e fantasmi della scrittura. Saggi sulla zoopoetica di

Tommaso Landolfi, Roma, Salerno Editrice, 2006: pp. 26-49, il quale si appoggia

ad alcune considerazioni di C. Cervellon in Id., L'animal et l'homme, PUF, Paris, 2004.

4 Utilizzo i termini “animale” e “bestia” in modo pressoché indifferenziato ma

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[La balena] quando ha fame, apre la bocca, e dalla sua bocca esce ogni profumo di aromi, e lo sentono i pesci piccoli e accorrono a sciami nella sua bocca, ed esso li inghiotte; (…) Così anche il demonio e gli eretici, con la seduzione e l'inganno, che sebra essere un soave profumo, adescano i piccoli e coloro che non hanno il senno adulto (…)5.

In modo simile nella prosopopea l'animale “appare essenzialmente un

pretesto”6 e sullo stesso piano possiamo trovare, come forma catacretica

di similitudine, la bestemmia (ma quest'ultima è una considerazione particolarmente rilevante solo per il legame animale-parola che nella lettura di Trama caratterizza la produzione landolfiana7).

Similitudini e metafore sono, infatti, le forme che stanno alla base dell'utilizzo degli animali in letteratura sia in modo indiretto che in modo diretto, ovvero sia fruendo della rappresentazione dell'animale che la cultura ci tramanda, sia utilizzando dati che ci provengono dall'osservazione dello stesso in natura, e quindi sostanzialmente individuando nell'uomo elementi fisici per cui somiglia all'animale – ammesso che sia possibile dire che un tale “ha un viso volpino” senza che il lettore implichi il complesso di conoscenze, usi e tradizioni che la nostra cultura applica alla volpe.

Ad ogni modo le metafore si prestano particolarmente bene per valutare “i processi di incrocio e tangenza tra umano e animale”8,

soprattutto laddove dalla metafora di partenza si sviluppi una vera e propria metamorfosi, accentuando per entrambe le figure retoriche l'ambiguità e la capacità di fondere le due identità di partenza;

quest'ultima espressione.

5 Il Fisiologo, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano, 1975: p. 56. 6 Trama, cit. p. 29.

7 Ivi p. 102-107. 8 Ivi p. 25.

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naturalmente prendiamo in considerazione in questo senso solo quelle metamorfosi che implicano la convivenza all'interno della creatura “di arrivo” di entrambe le identità di partenza (per esempio l'insetto e Gregor Samsa) e non tutte quelle situazioni in cui l'identità umana si disperde nella nuova identità.

Un uso particolare di metafore e similitudini animali è ovviamente la caratterizzazione fisiognomica dei personaggi, che nell'ottocento vide uno sviluppo particolare fondato ancora una volta su quelle caratteristiche e comportamenti che vengono attribuite agli animali per tradizione.

Francesco de Cristofaro9 riconduce questo successo “a una serie di

elementi allotri, extraletterari e culturali” come “la dottrina della decifrazione dei corpi di marca settecentesca, che visse un momento di eccezionale rilancio e irradiazione artistica grazie all'enciclopedia-collettore di Moreau de la Sarthe ristampata nel '20, vero vademecum – talvolta persino dichiarato – per i padri del realismo”; secondo queste teorie “la descrizione fisica del personaggio corrispondeva infatti ad un'inscrizione nel campo di saperi, in quell'amalgama di ideologie del soma costituito dai trattati di frenologia, fisiognomica e fisiologia, sia coevi che della tradizione”. In particolare le rappresentazioni, soprattutto quelle relative al corpo brutto (del villain, del bête) tendono a venir descritte, qualificate e spesso caricate attraverso la metafora animale secondo un paradigma universalmente riconoscibile “per cui le designazioni corporee inducono sillogismi entro un condiviso orizzonte cognitivo: un tipo fisiognomico incarna un progetto, una disposizione assiologica dei ruoli attanziali, prima ancora che essi siano 9 Francesco De Cristofaro, Zoo di romanzi. Balzac, Manzoni, Dickens e altri bestiari,

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drammatizzati”. Ancora una volta l'animale serve ad esprimere l'uomo. Si tratta di un uso che godette di particolare fortuna nel periodo d'oro dei grandi romanzi e che con il passare di moda di questi ultimi decadde. Le motivazioni di questo cambiamento non sono esclusivamente stilistiche e (sebbene non sia questa la sede per discuterne in modo articolato) bisogna almeno notare che quegli anni centrali dell'ottocento furono gli stessi in cui si ricominciò a discutere, in sede non teologica, della diatriba sull'anima degli animali10 e soprattutto l'intelligenza degli

animali non venne più concepita solo in forma metaforica ma venne studiata con interesse e curiosità11: con il novecento i nuovi studi sulla

psicologia umana fanno cadere l'interesse per queste materie insieme a un nuovo distanziamento fra uomo e animale aggravato questa volta, (e anche questo è un dato da non sottovalutare) dalla separazione fisica: nelle grandi città in cui si è concentrata la popolazione sono sempre meno gli animali con cui si ha confidenza fin da bambini, la maggior parte di essi viene allontanata perché bestie ritenute sporche o pericolose (ratti, piccioni, insetti...) e, cosa ancora più grave forse, abbiamo perso il contatto anche con quegli animali a cui dobbiamo il nostro sostentamento perché ce ne nutriamo quotidianamente.

Con i nuovi studi psicologici si afferma ancora un altro sistema di uso simbolico dell'animale: si tratta delle immagini che la psiche sviluppa per rappresentare il rimosso nei sogni e nelle fobie.

Come la fisiognomica, anche in questo caso si tratta di una

10 Ivi p. 12.

11 Cfr. R. Morus, Gli animali nella storia della civiltà, Einaudi, Torino, 1973: pp.

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prospettiva etologica che viene elaborata in funzione della comprensione dell'umano ma, a differenza della “scienza del volto”, i presupposti del suo impianto sono tali da provocare un'intensa oscillazione che porta ad un vacillamento delle frontiere uomo-animale12.

Questo vacillamento, che tende alla riscoperta della parte animalesca dentro l'essere umano, è però accompagnato a una realizzazione “pratica” nei sogni o come sostituto fobico del represso in cui ancora una volta la bestia non è importante in quanto tale ma in quanto simbolo, oppure si presenta in una realizzazione mediata da strati della cultura così arcaici da non destare sospetto: che un leone o un lupo rappresentino, nei sogni di un bambino, un desiderio di violenza o impulsività ci sembra perfettamente normale ma non combacia con l'estrema delicatezza e l'intelligenza di lupi e leoni in natura.

Un esempio di questo tipo di interpretazione della presenza animale

applicato ad un testo letterario è quella che Giacomo Debenedetti13

faceva utilizzando la scena di Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi in cui vengono castrati, per ordine del padre, tutti gli animali del podere: serve per spiegare, innanzitutto, il titolo del libro (la corrispondenza fra castrazione ed accecamento ci fa risalire addirittura allo stesso mito di Edipo) e in secondo luogo come immagine fondamentale alle spalle di Tozzi come scrittore e come uomo; sarebbe una scena primaria che “irrompe nel tessuto del libro come un corpo estraneo scagliatovi da una improvvisa necessità che non vuol legge. Ha tutti i caratteri della confessione involontaria”14. Inoltre la violenza insensata e reiterata a cui

vengono sottoposti gli animali sia in questo romanzo che nella 12 Trama, cit.: p. 36.

13 G. Debenedetti, Con gli occhi chiusi, in Il personaggio-uomo, Garzanti, Milano,

1988: pp. 81-101.

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precedente raccolta di racconti, Bestie, rende evidente la loro condizione di sostituti di una pulsione inesprimibile15.

Proprio gli animali di Bestie sono stati studiati da Debenedetti in un saggio precedente a Il personaggio-uomo16: il critico analizzando la

funzione narrativa degli animali in questo testo arriva a individuare tre tipi di presenze: nel primo caso, in modo tradizionale, “la bestia è emblematica, oppure funziona come immagine analogica della situazione”, nel secondo tipo “l'animale è introdotto in funzione drammatica; interviene in qualche modo nell'azione dell'immagine-racconto” (potremmo ridurre questo caso ad un approssimativo “valore di personaggio”), infine, e ben più interessante, “l'apparizione dell'animale risulta più difficilmente spiegabile, addirittura gratuita e come introdotta per partito preso”17. In Tozzi l'animale è spesso evocato, talvolta neppure

descritto, eppure spesso diventa una presenza inquietante con il suo solo comparire sulla scena:

Un mondo come di animali che hanno in comune con noi il fatto di essere vivi, di prendere iniziative; ma conservano, nell'amore o nell'odio, amici od ostili che ci paiano, quella loro inspiegabilità di esseri diversi, con cui non abbiamo mai veramente un linguaggio in comune, nemmeno quando siamo riusciti ad addomesticarli, a condizionare i loro riflessi.18

Questa inspiegabilità è stata fatta corrispondere da alcuni a una forma di allegorismo vuoto, cioè un'allegoria priva del referente concettuale: resta solo l'animale che svolge funzione di segno misterioso, che rimanda 15 Per una brevissima incursione nelle prose tozziane sotto il segno del rospo cfr.

C. Gucciarelli, Tozzi, il trauma, i rospi, in “Il primo amore” n. 2, ottobre 2007: pp. 119-121.

16 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1971: pp. 61-87. 17 Ivi p. 64-65.

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a un valore metafisico non più possibile19.

Ma gli animali non allegorizzati né umanizzati, nel testo, possono essere letti anche come portatori di un valore di alterità del tutto particolare: come sottolinea Arrigo Stara20

gli animali tendono a prendere corpo, nei racconti, con un destino diverso [rispetto a quello di altri personaggi ], che potrebbe essere riassunto come un passaggio dal «naturalismo» della loro apparizione, all'«animalizzazione» che l'intera vicenda subisce con la loro comparsa21.

L'ingresso nel racconto dell'animale non antropomorfizzato è spesso neutro, un segno quasi naturalistico-descrittivo, eppure proprio in quanto animale è in grado di informare di sé silenziosamente l'intero racconto, anzi è tanto più interessante quanto riesce a mantenere la sua identità:

Una volta entrata nella pagina, la bestia si dimostra tanto meno docile, tanto meno accessoria quanto più le riesce di rimanere se stessa; quanto più la sua sola presenza si lascia intendere come inconciliabile con quella familiarità dei parametri, con quella saldezza del mondo fisico e morale che l'uomo potrebbe mantenere se fosse l'unico protagonista del racconto. La bestia deve, in generale, resistere all'antropomorfizzazione; scansare il destino avvilente di «animale parlante». Sulla sua 'carta di intensità', ciascuna bestia porta segnata la sua somiglianza con l'uomo come parametro inverso a quello della sua possibilità di essere autentica, di essere latrice di una sua verità diversa22.

È questo uno dei modi in cui, tradizionalmente, vengono interpretate alcune delle numerose presenze animali nell'opera di Landolfi, ma che

19 Trama cit.: pp. 48-49.

20 A. Stara, La «civilizzazione dei bruti». Qualche congettura sugli animali nei

racconti, in AAVV, Studi sulla modernità II, a cura di F. Curi, Bologna, Printer,

1993 poi in Id., La tentazione di capire, Le Monnier, Firenze, 2006: pp. 115-136.

21 Ivi p. 120-121. 22 Ivi p. 118.

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possiamo ritrovare in alcune novelle di Pirandello23 e soprattutto,

secondo una delle molte letture possibili, nella Metamorfosi di Franz Kafka. Dobbiamo questa interpretazione della famosissima novella a Deleuze e Guattari24 che in un famoso saggio proprio sulla produzione

kafkiana introdussero i concetti appena citati di letteratura minore, carta d'intensità dell'animale, e deterritorializzazione. Molto brevemente una letteratura minore è “quella che una minoranza fa in una lingua maggiore”25 deterritorializzando proprio questa lingua maggiore; Kafka

sceglierà di compiere questo allontanamento dalla lingua maggiore facendo un uso intensivo della lingua, tentando di “arrivare a un'espressione perfetta e non formata, un'espressione materiale

intensa”26. Questo tipo di espressione si otterrà eliminando ogni tipo di

simbolismo, ogni metafora e lasciando al loro posto la nuda metamorfosi o, nei casi che più ci interessano, il nudo animale:

Kafka sopprime deliberatamente ogni metafora, ogni simbolismo, ogni significazione come ogni designazione. La metamorfosi è il contrario della metafora. Non c'è più né senso proprio né senso figurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola. La cosa e le altre cose non sono ormai che intensità percorse dai suoni o dalle parole deterritorializzate secondo la loro linea di fuga. E non si tratta d'una rassomiglianza fra il comportamento d'un animale e quello d'un uomo, e tanto meno di un gioco di parole. Non c'è più né uomo né animale, perché l'uno deterritorializza l'altro in una congiunzione di flusso, in un continuum di intensità reversibile. 27

Come chiosa Paolo Trama, la deterritorializzazione è ciò di cui si carica 23 Ivi pp. 120-121.

24 Gilles Deleuze – Felix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore [1971], Milano,

Feltrinelli, 1975.

25 Ivi, p. 27. 26 Ivi, p. 32. 27 Ivi, p. 36-37.

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la forza straniante della novella, il divenire-animale rifiuta qualsiasi simbolismo e si situa in un ambito che non appartiene a nessuno dei due enti:

La metafora kafkiana, come la concepiscono Deleuze e Guattari, equivale a “deterritorializzare” l'uomo, a rompere del tutto sia con l'antropomorfismo (l'animale non è lo specchio dell'uomo, l'insetto non è l'immagine di quello che era Gregor), sia con l'antropocentrismo (l'animale non è assolutamente differente e inferiore a l'uomo, l'insetto non è distinto da Gregor) (…) Né differente né simile, l'animale è

altrove, su un altro terreno da quello umano, ed è per ciò che

l'uomo può fuggire radicalmente e fantasticamente lungo questo strano cammino. 28

Se questa lettura della novella risulta convincente, interessante, è pur vero che la metamorfosi in un animale conserva, per la nostra cultura, un'ineludibile sfumatura di punizione, di dannazione, così come qualsiasi forma umana che tenda in una qualche maniera all'animale ci suscita ribrezzo: non riusciamo ad accettare di abdicare alla parte razionale dell'essere umano, abbiamo imparato a nascondere la parte animale che vive in noi, che ci è insieme estranea e familiare, oppure a trasformarla in forme raffinatamente culturali, in alimenti elaborati, in rituali sociali complessi.

Estranea e insieme familiare: con la parola freudiana

Unheimlich, perturbante, sinistra, la presenza e la voce

dell'animale si affacciano al di sotto della fisionomia civilizzata dell'uomo rammentandogli una parentela, un'unità di origine che al suo sguardo e udito oggi appaiono mostruosi. Da dentro di sé l'animale lo chiama con una voce (…) che egli non può identificare con nessuna delle lingue conosciute; che gli appare terribile e spaventosa proprio perché è già stata la sua.29

Il timore per le forme miste, che non conservano un'identità precisa va 28 Trama cit.: pp. 47-48.

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di pari passo con l'orgoglio e il senso di superiorità che ancora ci portiamo dietro. Da questa posizione dominante solo uno sguardo ci può salvare: lo sguardo improvvisamente non più vuoto, non più muto dell'animale in disperata lotta per la vita oppure già in agonia, sguardo che ha il potere di richiamarci, con un imperativo difficile da ignorare, alle comuni origini e a ciò che davvero lega l'uomo e l'animale in modo indissolubile: la vita30.

30 Per una scorribanda frettolosa fra alcune immagini di questo tipo in

letteratura cfr. Ernestina Pellegrini, Bestie imperfette, in Bestiari del Novecento, a cura di E. Biagini e A. Nozzoli, Roma, Bulzoni, 2001: pp. 75-100.

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3.2 Gli animali in Horcynus Orca

Femmina o maschio la vita non è la quaglia che s'incanta con un fischio.

Codice Siciliano, p. 69

In Horcynus Orca, come in parte ho già avuto modo di dire, ci troviamo di fronte a una società diversa dalla nostra, per cui gli animali sono un insondabile mistero, ma anche una presenza familiare e necessaria. Metafore e similitudini, in questo mondo letterario, sembrano sottolineare la contiguità fra gli esseri viventi e l'ambiente che li circonda, tanto che le temporanee metamorfosi che coinvolgono gli esseri umani non portano con sé necessariamente sensazioni di straniamento e dannazione. È piuttosto rara, invece, la caratterizzazione fisiognomica dei personaggi, nel senso che l'epiteto “leoncello” usato per Caitanello ha piuttosto, appunto, il sapore dell'e p i t e t o formulare ch e u n a caratterizzazione fisico-psicologica effettiva. Considerazioni diverse si possono fare per la signora dello yacht che “faceva la civetta”, e per il gerarca fascista dall'aspetto scimmiesco, ma mi sembra che siano figure di non eccessivo rilievo e soprattutto che non si possano invocare a testimonianza di un modulo descrittivo sistematico nel romanzo.

L'indipendenza degli animali di questo libro è una caratteristica che salta immediatamente agli occhi del lettore per la naturalità con cui si inseriscono nel racconto, senza subire un'umanizzazione eccessiva. Nel prossimo capitolo cercherò appunto di pagine indagare il modo in cui le sole presenze animali vivono nel romanzo, enfatizzandone tre caratteri in particolare: il ruolo da personaggio in primo luogo e soprattutto l'intreccio fra funzione simbolica e rappresentazione realistica.

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ruoli importantissimi nella trama, ma la mia analisi si estende anche a una piccola serie di animali che compaiono relativamente poco o per nulla nel romanzo ma il cui ruolo simbolico non è affatto di secondo piano; alcuni di essi, è il caso del cavallo e del cane per esempio, registrano anche un buon numero numero di presenze nei repertori, confermando la loro l'importanza nell'immaginario dell'autore.

La maggior parte degli animali raccolti, invece, sembra configurarsi solo come caratterizzazione del territorio in senso naturalistico, ma in quanto tale gli animali sono sempre individuati con precisione, ovvero servono a rappresentare in modo quanto più possibile fedele il paesaggio dello stretto di Messina e della zona circostante: i mari e i cieli del romanzo non sono mai popolati, per quello che ho potuto verificare, da animali che non siano effettivamente occupanti abituali del luogo; perfino l'orca ha, come confine ultimo dei suoi spostamenti, le acque del mediterraneo, ma non si spinge mai oltre i mari della Sicilia.

La presenza simbolica degli animali in questo romanzo è stata in parte analizzata in un saggio di Cristiano Spila intitolato Il bestiario orcynuso31,

in cui questi vengono presi in considerazione in primo luogo in virtù del loro valore metaforico, come una galleria di immagini bestiali in cui

ogni animale rappresenti qualcosa come la voce di un dizionario segreto che svela i propri significati all'attento lettore.32

Si tratta di un contributo critico ricco di considerazioni interessanti, da cui ho tratto diversi spunti, ma che secondo me resta troppo confinato al valore simbolico dell'animale, senza dare il giusto peso alla realtà 31 In AA.VV., Simbolismo animale e letteratura, a cura di D. Faraci, Vecchiarelli,

Roma, 2003: pp. 299-314.

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concreta dell'animale e al suo ruolo nel romanzo. Resta fuori dall'indagine anche il rapporto del mondo animale con le comunità umane, che viene qui visto in modo quasi esclusivamente negativo, come capacità dei corpi di mutare in modo spaventoso. Inoltre Spila fa uso di termini come “catalogo” e “enciclopedia” che implicano l'idea di un'organizzazione razionale della natura che non mi pare adatta a questo romanzo, alla sua forma fluida e liberamente ripetitiva. Certamente

Horcynus Orca ha come obiettivo di creare “un'enciclopedia di tutte le

conoscenze e nozioni possibili sul mondo dello scill'e cariddi”33, nel

senso di una raccolta di conoscenze quanto più completa e accurata possibile su quel microcosmo, che resta però priva dell'ordine e dell'articolazione disgiuntiva che sono caratteristiche dell'enciclopedia. Mi sembra di poter accogliere invece l'idea di un “bestiario” nel senso di una raccolta degli animali presenti nel libro che noi estraiamo cercando di interpretarne di volta in volta il senso, cercando anche però di andare oltre il solo significato simbolico-allegorico che caratterizza l'origine del termine.

Quello che cercherò di dimostrare è che il valore simbolico-archetipico dell'animale e la sua presenza reale restano sempre, in questo romanzo, compresenti in una stessa figura e non vengono inseriti in un sistema gerarchico di valori, per cui la presenza concreta della bestia, che possiamo individuare per esempio nei suoi dettagli più bassi (le puzze che emana, per esempio, o il modo di cucinarne le carni), non viene in alcun modo messa in secondo piano rispetto alla sua presenza simbolica.

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Il rapporto fra l'uomo e questi animali nel romanzo consiste di una superiorità del primo sui secondi che resta sempre precaria, si potrebbe parlare, forse meglio, di condivisione, anche dal punto di vista narrativo; gli animali, infatti, svolgono ruoli di rilievo nella trama, costituiscono poli di riferimento per l'immaginario costruito dal libro al pari delle comunità umane. Esempio lampante ne sono senza dubbio le fere, che però, per poter confrontarsi alla pari con gli esseri umani, subiscono una forte umanizzazione; l'orca al contrario, pur essendo un animale centrale nello

svolgersi della trama34 vive un'esistenza fortemente segnata dalla

componente animale, forse ancor più dei pescispada, per esempio, che rappresentano l'altro forte polo di interesse per le popolazioni dello Stretto. Si può dire anzi che la seconda parte del romanzo racconta della graduale scoperta da parte dei cariddoti che “l'animalone” non è un'immortale Morte di mare ma un bestione ferito, che muore, ucciso dalle fere: il lettore segue il graduale trapasso dell'animale da una funzione simbolica alla sua esistenza reale, anzi, alla sua morte, esclusivamente terrena, concreta; l'orca diventa una “carcassogna”, “una montagna di carne”.

Segnalo qui che la grandezza della bestia mi sembra un dettaglio da non sottovalutare perché può essere ricondotto a un interesse duraturo nella pur esile produzione darrighiana: l'animale di dimensioni straordinarie, dall'aspetto e dal comportamento arcaico colto nell'attimo supremo sembra rivestire un fascino particolare per il nostro autore, infatti sono caratteristiche che ritroviamo anche nell'elefante morente

34 La si può indicare forse come un animale “emblematico” nel senso inteso da

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che è protagonista di L'elefante dello Zambesi35, un lungo frammento

narrativo rimasto escluso dalla redazione definitiva di Cima delle

Nobildonne e poi pubblicato autonomamente. Mi sembra che la scelta di

pubblicare questo raccontino possa essere la spia di un interesse notevole, vista la gran quantità di materiale già scritto che pure D'Arrigo non ha mai pubblicato.

L'orca non è l'unico animale che i n Horcynus Orca si comporta coerentemente con la sua esistenza biologica, e non si tratta solo di animali di sfondo: la vita dei pescispada o del verdone, traspaiono dal velo simbolico e si impongono alla nostra memoria. Oltre a questo, come mostra il repertorio in appendice, ci sono molti animali, sia di terra che di mare, che svolgono un ruolo solamente ambientale: sono presenze fuggevoli, talvolta vagamente simboliche, più spesso semplicemente di sfondo che servono, mi pare, a dare il senso della pienezza dello scill'e cariddi; senza i lunghi elenchi di pesci e uccelli, infatti, potrebbe sembrare che il Duemari sia abitato solo dalle fere e dagli “orlandicchi”, mentre è pieno di piccoli animali che appartengono alla vita dei pescatori non meno di quelli più grossi e “sanguosi”, con cui si istituisce un legame più forte; gli animali di terra, insetti e uccelli compresi, partecipano a creare questo senso di pienezza, di condivisione con il mondo animale, anche se spesso entrano nella vita dei pescatori più attraverso similitudini e metafore che nella realtà della diegesi: asini e gatti, maiali e porcellini d'india sono solo referenti metaforici, non diversi dalle favolose tigri e dai leoni, chiamati in causa spesso solo per questo motivo.

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Ciononostante mi sembra che la vicenda risulti profondamente modificata da tutte queste presenze animali, sia quelle metaforiche che quelle che partecipano effettivamente alla vita dello Stretto; proprio il rapporto e lo scontro fra queste ultime e le comunità umane svolge un ruolo fondamentale, a mio parere, nella realizzazione di quella tonalità epica, di quel senso di serietà e di potenza che è stato riconosciuto in modo abbastanza unanime dalla critica nelle pagine di Horcynus Orca36,

ma che solo Giordano ha collegato con gli animali, anche se in un rapido accenno poi non sviluppato37.

Per analizzare approfonditamente questo nesso fra epica e presenza

animale bisognerà anzitutto vagliare le ragioni che spingono a individuare

in Horcynus Orca un romanzo segnato dal “palese tentativo di costruzione

di un epos”38. Su tali ragioni nessuno sembra essersi soffermato finora in

modo complesso (se non per la ricerca delle fonti e delle citazioni dirette

e indirette39), io mi accontenterò qui di indicare brevemente alcuni punti

che mi sembrano più rilevanti.

In primo luogo bisogna dire che se è pur vero che una parte della tensione narrativa è veicolata dalla sorte tragica, e annunciata, del protagonista, la cui figura è in molti modi riconducibile agli stilemi 36 Maria Corti parla di un vero e proprio “poema epico” (cfr. Principi della

comunicazione letteraria, Bompiani, Milano, 1976) ma cfr. anche, per esempio, N.

D'agostino, art. cit.: pp. 27-52, G. Pontiggia, Un eroe moderno, cit.: passim e F. Giardinazzo, Elementi per una genealogia poetica di «Horcynus Orca», cit.: p. 166 sgg.

37 E. Giordano, Femmine folli, cit.: p. 135.

38 Pierantonio Frare, «Horcynus Orca» di Stefano D'Arrigo, in “Testo”, 6-7, 1984: p.

102.

39 Gli interventi più sistematici in questo senso sono forse quelli di O. Bruno,

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dell'epica classica, è però anche vero che quel materiale viene attinto per rappresentare le grandi scene in cui sono protagonisti gli animali: come nei cartelloni dipinti da Caitanello sull'invasione del Duemari da parte delle fere, oppure la battaglia finale contro l'orca. Bisogna anche riconoscere che alcune scene, come la battaglia fra Caitanello e la terribile Grampo grigio, vengono impostate su un tono sottilmente ironico40, però ce ne sono altre, prima fra tutte la scena dello scodamento

dell'orca, che invece sono trattate con un tono profondamente serio e quasi tragico.

Una seconda osservazione riguarda la visione del mondo, ideologicamente forte, di cui solitamente un poema epico si fa portatore: mi pare che essa si possa ritrovare senza fatica anche in Horcynus Orca, e che sia addirittura condivisa anche dal narratore;

Due universi alternativi e contrapposti si fronteggiano, di norma, in questo tipo di racconto: che dunque privilegia il rapporto fra un io e un tu, fra un eroe e un antagonista. Siano queste identità individuali o collettive, attorno a un tale dualismo ruota l'azione epica.41

Nel nostro romanzo il versante del bene (cariddoti e spada) si oppone chiaramente al versante del male (femminote, e fere), ma a ben guardare il vero scontro avviene solo fra cariddoti e fere, con una mescidazione forse difficile da ritrovare in letteratura, ma non così rara nelle cosiddette “società di sussistenza”.

Proprio questo tipo di società coltiva un rapporto con l'animale “le cui modalità sono di reciprocità e di interscambio”42, rapporto che non

40 N. D'agostino cit.: p. 45.

41 S. Zatti, Il modo epico, Laterza, Roma-Bari, 2000: p. 82, ma cfr. anche J. B.

Hainsworth, Epica, La Nuova Italia, Firenze, 1997.

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realizza la sua forma più piena nell'attimo culminante dell'agonia della bestia: questo è invece forse l'unico momento in cui noi, abitatori delle città, riusciamo a sentirci veramente vicini agli altri esseri viventi. Al contrario i n Horcynus Orca il legame con gli animali si vive nella quotidianità e l'agonia dell'animale viene descritta chiusa nel proprio incomunicabile mistero: quando l a Mezzagiornara muore, nel momento in cui diremmo che l'anima scivola via, è invisibile agli occhi dei ragazzi,

perché coperta da una nuvola di sangue che la rende simile a un feto43, e

così anche l'orca si spegne del tutto in un momento indefinito durante i colloqui dei pellisquadre con Sanciolo sullo sperone44, nessuno se ne

accorge nemmeno fra gli inglesi che le sono vicini sullo zatterone.

È quasi spontan e o pensare che dopo la morte dell'Orca, animale-simbolo di questa società e del suo rapporto con la natura, il modo in cui i pellisquadre guardano e parlano degli animali cambi sensibilmente: storicamente sappiamo che il mondo che D'Arrigo descrive è sul punto di scomparire dalle nostre coste per essere soppiantato rapidissimamente dalla società dei consumi e delle macchine. Eppure nel romanzo si trovano flebili tracce di questo cambiamento: proprio mentre il cadavere dell'orca sta per essere arenato sulla spiaggia cariddota i pellisquadre vedono tornare i pescispada all'orizzonte, e non li accolgono certo con indifferenza:

Ridevano e piangevano: i loro belli, sempreterni spada e spaduzzi, con tutto lo sterminio che ne avevano fatto fere oceaniche e abitué, eccoli là, si rivedevano i pulcinella che tornavano dall'Africa: né guerra né fera potettero o potevano impedirgli di arrivare a maggio e ripartire a ottobre. Ridevano e piangevano, perché quelli per loro erano segno che non era

43 Ivi p. 272. 44 Ivi p. 1169.

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successo niente, che tutto era come prima, nella fatalità della natura.45

Probabilmente ciò che non appartiene più alla fatalità della natura è proprio la comunità umana, che ancora non sa di essere cambiata e usa quell'antico grido “oooh, oh”46 non per tirare la sciabica piena di pesci o

una palamitara, ma un enorme bestione che sperano diventi, per loro, capitale. Infatti nell'ombra crescente della sera, come vedremo, anche i loro connotati si “scancellano” e diventano tutti uguali, tutti un unico fantasma. È interessante osservare la sequenza delle scene a questo punto: dopo che la comunità si è dissolta nel buio ricompare mentre si affaccenda attorno al cadavere, cominciando a trarne, come primo utile, la cicirella e i suoi due rappresentanti più notevoli hanno, come sembra notare solo 'Ndrja, una strana luce negli occhi, un'“aria allupata di daffare”; il protagonista prova una strana sensazione guardandoli così, anche se non sa giustificarla:

gli faceva addirittura impressione vederli come sguazzavano con le mani impastate di sangue intorno all'ammasso dell'orcagna. [...] Davano sconcerto, facevano senso, e questo, 'Ndrja, lo provava di persona, davvero come prova provata, e anche se non se ne capacitava, non si sentiva di scandalizzarsi di vederli tutti all'agire47.

Questa sensazione peggiora l'ultima volta che vediamo i pellisquadre e la gran massa dell'orcaferone, anche se né 'Ndrja né il narratore la commentano, anche se forse non ce n'è bisogno:

Distinsero un'ultima volta i pellisquadre che si agitavano attorno all'orcagna come anime dannate in un'opera d'inferno. La carogna dell'orcaferone si era come gonfiata di tenebrosità e pareva una roccia, una nuvolaglia, ancora tutta intatta con le sue tonnellate di carne, la pelle spalmata del nero suo di pece,

45 Ivi p. 1180. 46 Ivi p. 1183. 47 Ivi p. 1185.

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di quello della notte, la sua chiusa, indecifrabile forma d'animale del mistero: e sotto quello spaventoso, gigantesco profilo temporalesco, i pellisquadre facevano la figura di nani impotenti, di dannati o di pazzi, che svacantavano il mare col palmo della mano.48

Mentre il nostro protagonista si muove verso Messina e verso la sua morte immagina (o forse desidera) di trovarsi ancora sulla barca di Ciccina Circé, circondato dalle voci e dall'odore delle fere: nulla sembra cambiato per loro, che continuano a giocare nell'acqua, falsamente innocenti. Né le fere né i cariddoti sanno che presto resteranno, nelle acque dello scill'e cariddi, soltanto delfini, e l'unico a intuirlo sembra essere proprio 'Ndrja che muore, ultimo e maggiore sacrificio per il ritorno alla normalità, ma anche forse perché non vuole fare parte del mondo che intravede arrivare49.

Una conferma del cambiamento avvenuto si potrebbe individuare nella graduale diminuzione delle presenze animali nelle pagine che seguono la rivelazione dell'“invaiolamento” dei cariddoti: nelle ultime cento pagine del libro, all'incirca, diminuiscono gli animali citati e spariscono quasi del tutto gli animali che effettivamente interagiscono con i personaggi; resiste l'orcaferone, per ovvie necessità di trama, sono presenti le fere (di cui ho appena detto) e alcuni uccelli marini, che come vedremo sembrano rivestire un ruolo simbolico forte. Similitudini e citazioni dal mondo animale, comunque, non svaniscono mai del tutto, soprattutto nelle parole di 'Ndrja, il cui linguaggio fa spesso riferimento al mondo animale, per esempio la sua incazzatoria “cova e cova, stava per 48 Ivi p. 1200.

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tirare fuori la testa”50 oppure don Luigi assomiglia a un pesce lasciato al

sole, che boccheggia51. Non scompaiono del tutto neanche gli spada, né

nei pensieri di 'Ndrja né sulle acque dello scill'e cariddi, a testimoniare una fedeltà del mondo naturale e del suo campione al “bell'antico mestieruzzo”.

Tutti questi segnali, però, da soli non sono decisivi perché la presenza degli animali nelle parole e negli episodi di Horcynus Orca non è affatto costante al di fuori dei luoghi appena citati e muta molto, talvolta a prescindere dal contesto narrativo.

50 HO p. 1004. 51 Ivi p. 1136.

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3.2.1 La fera

L'animale che svolge il ruolo più importante nella trama di Horcynus

Orca non è tanto l'orca del titolo quanto, piuttosto, i suoi “parenti” più

piccoli, i delfini, che nel libro sono chiamati “fere”52; i motivi di questa

centralità sono, a mio parere, principalmente due: innanzitutto la loro presenza permette di introdurre una serie di tematiche che sono fondamentali nell'economia del libro, quali, per esempio, il conflitto con il mondo dei “delfinari” e lo “straviamento” che ha investito i cariddoti. Il secondo motivo, e ben più importante, è che le fere svolgono nel testo un ruolo di personaggi niente affatto secondari: come specie sono una presenza costante nei discorsi e nelle riflessioni delle popolazioni dello scill'e cariddi, accompagnano molti degli episodi fondamentali del viaggio di 'Ndrja e, infine, si rendono protagoniste del fatto forse più importante dell'intero libro, cioè lo scodamento dell'orca.

Alcune fere in particolare si presentano come personaggi autonomi, talvolta con tanto di nome, come la grampo grigio Manuncularais con cui Caitanello si scontra in singolar tenzone o come la Mezzagiornara, feruzza amica dello stesso padre di 'Ndrja quando era bambino. Questi animali, però, sono presenti nel testo e si qualificano come personaggi in modo molto più rilevante se considerati a livello di specie: l'intera genia delle fere occupa costantemente i discorsi e le menti dei pellisquadre, non solo alcune di loro, è un gruppo indistinto di loro che accompagna e quasi 52 Ovviamente anch'io utilizzerò “fera” anziché “delfino” in ragione del diverso

valore che viene attribuito a ciascuno dei due termini in Horcynus Orca.

Il termine appartiene al dialetto siciliano della zona dello Stretto e pare addirittura che sia cronologicamente individuato, nel senso che in raccolte lessicografiche non recenti acquistava una sfumatura negativa (“mostro marino”) e solo raramente veniva usato come ad indicare il delfino in contesti popolari; cfr. D. Marro, cit.: pp. 122-3.

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guida la barca di Ciccina Circé, un altro gruppo è quello che sembra presagire la morte dei Castorina e dopo l'esplosione li riporta tutti a riva. È doveroso aggiungere che nella maggioranza dei casi questi animali vengono descritti attraverso una umanizzazione innegabile, sia nei comportamenti, sia in virtù del complesso di valori in cui vengono inseriti e di cui vengono considerati partecipanti coscienti. Eppure le fere mantengono la loro alterità animale attraverso un'irriducibilità ai comportamenti umani e, soprattutto, attraverso il mistero che circonda le loro “menti beccute”, i ragionamenti alle spalle delle loro azioni: questo le condanna (o forse le salva) ad essere leggibili come niente più che espressioni di una logica dell'istinto, una forza e un'intelligenza che provengono dalla natura stessa. Quest'impressione nasce, in parte, come una forma di reazione ai numerosi e interessanti tentativi di simbolizzazione di questo animale: la maggior parte dei critici, infatti, ne ha dato una lettura in chiave simbolica che, sebbene doverosa e arricchente, risulta anche limitante se presa in modo assoluto. La ricchezza di Horcynus Orca mi pare stia proprio nel fatto che delfini o fere possano fungere da rappresentazione simbolica della vita nella sua bellezza e nella sua crudeltà, pur restando degli animali che si comportano come tali, sebbene il loro atteggiamento e le loro azioni vengano interpretati in base a parametri umani. L'esempio più lampante è l'episodio dello scodamento dell'orca, in cui la terribile Morte di mare viene uccisa dalle piccole ma intelligenti forze della Vita53, o, secondo

un'altra lettura, l'ultimo mostro della modernità viene sconfitto dal 53 Cfr. A. Romanò, art. cit.: p. 96 e G. Sommavilla, Stefano D'Arrigo: dialettica

monistica di vita-morte e sua rottura in Peripezie dell'epica contemporanea, Dialettica e mistero, Jaka Book, Milano, 1983: pp. 325-454.

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“simbolo della guerra devastatrice”54 ! allo stesso tempo, però, noi

vediamo anche un gruppo di animali che difende il proprio territorio da un'invasore ferito e sperduto in mari ignoti: ma sarebbe ingenuo ignorare tutti i segnali che ci conducono a una lettura simbolica di questo animale e nessuna di queste letture può essere accolta in modo univoco. Marabini per esempio indica un'“aria cimiteriale”, un'“emanazione funesta”55 che

circonda le fere, ma poi muove anche l'ipotesi che “«fere» e Orca si pongano come metafora della vita, dell'esistenza rischiosa e penosa dei «pellisquadre», il loro ostacolo, la loro dannazione, il nemico quotidiano con cui misurarsi”56.

Oltre a queste interpretazioni simboliche “macroscopiche” se ne potrebbero evidenziare altre, come l'idea della fera simbolo della fame per i pescatori, per esempio; io invece ho scelto di seguire le tracce degli elementi più concreti con cui questi animali vengono tratteggiati, che cercherò di mettere in luce nelle prossime pagine: non solo il piano della realtà, che le tiene saldamente ancorate al loro essere animali, ma anche l'umanizzazione attraverso cui vengono interpretati i loro comportamenti e l'aura sacrale che le circonda.

Proviamo ad analizzare le prime informazioni che ci vengono date sulle fere, consapevoli però della tendenza del narratore a fornirle a più riprese e in luoghi anche distanti fra loro; per le fere, naturalmente, il discorso è particolarmente complicato perché informano della loro presenza l'intero testo.

54 G. Amoroso, Analisi stilistica di Horcynus Orca, cit.: pp. 9239. 55 Marabini, Lettura di D'Arrigo, cit.: p. 21.

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Per essere precisi le fere sono presenti solo nelle parti di racconto che si svolgono nel Duemari, di cui sembrano essere lo spirito profondo; infatti non partecipano alla parte finale delle avventure di 'Ndrja né compaiono nelle prime pagine del racconto, non se ne parla durante l'escursione di 'Ndrja e Masino in direzione di Messina, né nell'episodio ambientato a Napoli. L'ultima apparizione è registrabile a p. 1202:

sotto gli albanelli, come in caccia di gabbiani, le fere erano scasate anch'esse a poppa dello zatterone, piega con piega alle onde, aqquattate dentro l'oscurità, aspettavano che i gabbiani remigassero abbastanza bassi per nuovoliargli, saltargli contro e a colpi di manuncole sbatterli a mare: gettavano allora i loro iiih, iiih, e ridevano tutte sciacquose.

Nei momenti in cui quelle malanova stavano accostate e nuotavano in crociera con lo zatterone, 'Ndrja, richiudendo gli occhi, aveva l'impressione di trovarsi ancora con Ciccina Circé, l'impressione come se la traversata con quella millunanotte ancora non gli finì, come se il suo viaggio continuava ancora per mare, con la femminota e con le fere alloppiate dal dindin, dindin della campanella.

In modo quasi simmetrico possiamo registrare la prima apparizione meno di cento pagine dopo l'inizio del racconto e, al di là del dato in sé, è interessante notare quello che viene detto nel colloquio fra 'Ndrja e lo “scardellino alto un palmo”, pellesquadra decaduto di cui abbiamo già accennato57:

«(...) E là, vedete, quel lordume di carne, quella è una fera che porto, pescebestino con rispetto parlando, pesce immangiabile in altre parole, perlomeno in tempo di pace: barbaro animale, capriccioso e pestifero, ma forse a voi che non siete del mestiere, vi viene a sconoscere come fera e la conoscete come delfino, eh?»

«Modestamente io pure sono del mestiere» gli fece col sorriso «e pure dalle parti mie, per il duemari, l'intendiamo fera, sta malacarne. Delfino? A quelli là può pigliare per fessi, a quelli che parlano con la lingua fra i denti» (…)

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la fera, per bocca dello scardellino, tutto all'improvviso lo faceva risentire nel suo, risentire cioè dove la fera si chiamava fera e chiamandola si sentiva in dovere di dire: col dovuto rispetto, per chi era presente; e questo di risentirsi nel suo, nel suo antico stato, dove anche quelli che non aveva mai visto in vita sua, come quello scardellino, gli sembravano vecchie conoscenze.58

Nei Malavoglia di Giovanni Verga è il mare a far sì che ciascuno si riconosca a casa:

il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico59.

Invece in Horcynus Orca sono gli animali, in particolare le fere “abitué”

a rendere unico e inconfondibile il paesaggio60, e grazie a loro 'Ndrja può

“sentirsi nel suo” anche parlando con un uomo mai visto prima.

In questo luogo in particolare la fera funziona come una parola d'ordine che permette ai due uomini di riconoscersi appartenenti allo stesso mondo di usi e conoscenze, ovvero quasi provenienti da una stessa stirpe. Qui l'animale ha importanza in primo luogo per la sua presenza in quanto parola, o meglio per il complesso epistemologico ed etico che sta alle spalle delle diverse designazioni possibili di esso: co m e abbiamo visto dire “delfino” o dire “fera” non significa semplicemente usare termini diversi, ma significa riconoscersi come parte di due mondi radicalmente differenti; abbiamo già visto come riportare questo scontro nei termini del tradizionale rapporto fra Natura e Cultura, sia un appiattimento che impoverisce la complessità della questione in gioco. 58 HO p. 91.

59 G. Verga, I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Einaudi, Torino, 1995: pp. 371-2. 60 Cfr. anche HO p. 810.

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In questa prima apparizione la fera è priva di testa e coda, legata alla groppa del cavallone bianco dello scardellino, il quale la presenta nel modo che abbiamo visto. In queste poche parole troviamo una serie di informazioni molto interessanti, che ci danno anche un saggio del modo in cui questo animale viene tratteggiato nel testo.

Si tratta di un “pescebestino”, cioè pesce immangiabile ma anche animale “barbaro, capriccioso e pestifero”. Vediamo qui quasi opporsi il concetto di pesce da una parte e dall'altra quello di animale: da una parte la concretezza della bestia e della carne dall'altra l'essere animato da uno spirito misterioso e infido. In tutto il testo queste due “nature” del delfino m i p a r e c h e s i rincorrano senza contraddirsi, arricchite da un'umanizzazione evidente ma non pervasiva. Possiamo cogliere la somiglianza con gli esseri umani già in queste poche parole, se valutiamo che le decisioni prese per capriccio sono inconsuete negli animali, che normalmente agiscono in modo strettamente finalizzato a obiettivi precisi: il nutrimento, la riproduzione, il gioco.

Immediatamente dopo ci vien detto che la fera è un animale “cantarato” e “colorato”, “brunastro di pelle e di sangue sanguoso,

rossissimo”61 simile quindi e confondibile con il tonno o altri pesci, ma

non all'occhio esperto di una persona del mestiere: 'Ndrja infatti non la identifica immediatamente, probabilmente per la lunga assenza dalle acque di casa; subito dopo queste notazioni sulla sua “sanguosità” (su cui insiste anche l'immagine del sangue che gocciola rigando il mantello bianco del cavallo) ci viene comunicato che “ammazzarla, la fera, era impresa grande pure per milluno, figurarsi per uno” e che mangiarne è 61 Ivi p. 92.

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cosa di cui arrossire, anche se le persone del luogo sanno che può diventare necessario. Qui la fera ci viene mostrata in bilico fra le caratteristiche animali (se ne descrive l'aspetto e le carni) e quelle di spirito maligno, piccola divinità marina (“ammazzarla è impresa grande”); il “sangue sanguoso, rossissimo”, come vedremo, è una caratteristica che D'Arrigo riporta con insistenza per gli animali marini di grosse dimensioni (tonni, spada, squali e delfini), in questo e a partire da questo simili al genere umano.

Umanizzazione, divinizzazione, “presa diretta” sul dato naturale si intrecciano in percorsi che corrono vicini, sviluppati nello stesso giro di frase o nella stessa immagine. Per esempio la vita delle fere si svolge parallela a quella dei pellisquadre rendendola difficile (ma anche degna

di essere vissuta, come sembra confessare alla fine Don Luigi62),

condividono per anni gli stessi spazi e lo stesso nutrimento, però le fere, misteriosamente, sembrano non morire mai, ovvero passati i trent'anni d'età spariscono ed è impossibile trovare la carcassa di una fera centenaria.

Quello era il primo arcano dell'arcano appellato fera, il primo all'origine dei tanti: era questo non combaciare mai, nella loro vita, di nascita con morte, questo conto che non torna mai in paro.63

I pellisquadre conoscono la data o il periodo di nascita della maggior parte delle fere e sono in grado di calcolarne l'età e le vedono, ormai vecchie, radunarsi in certe acque fuori mano, attendere per qualche giorno e poi sparire definitivamente alla vista, senza mai ricomparire. 62 Cfr. ivi p. 810: “Senza fera, senza quel loro eterno, barbaro contrasto, sarebbe

stato forse come non ci fosse più gusto né merito a essere bravi, onesti travagliatori”.

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Questo è il primo e più importante mistero della fera, che ossessiona i pellisquadre come il mistero delle uova d'anguilla ossessiona il professore di Messina – ed è questo mistero che 'Ndrja crede di risolvere quando sogna il cimitero delle fere, suggestionato dalla spiaggia femminota.

Il tema del cimitero animale ritorna nella produzione di D'Arrigo nel racconto L'elefante dello Zambesi64, il cui soggetto è la descrizione di

alcune fotografie della rivista “Life” in cui, fra gli altri animali colti nel “momento cruciale”, c'è anche un elefante che percorre quindici miglia di cammino per andare a morire nel proprio “cimitero”, un luogo circondato da “alte dune, ove nere ove cinerine (…) che a prima vista si sarebbe detto un paesaggio lavico o il risultato della caduta e dello

sprofondamento di un gigantesco meteorite”65. Le somiglianze con il

cimitero delle fere sono lampanti, sebbene si tratti di un testo così lontano nel tempo, ed emerge anche l'affinità dell'elefante con l'orca, la duratura fascinazione per “l'essere gigantesco che rappresenta il Tutto, la Natura, il Mondo”66, animali che sembrano provenire da un'altra epoca

colti nel momento dell'ultima debolezza e della comunicazione con un mondo ulteriore:

L'animale, nel momento della morte, raggiunge d'un balzo l'Assoluto, il ricongiungimento col Tutto, con l'eternità della Specie.67

Questo collegamento, questo balzo è del tutto negato alla specie 64 Per un commento dettagliato cfr. C. Spila, L'istantanea della morte: L'elefante

dello Zambesi di Stefano D'Arrigo, in “Rivista di studi italiani”, Anno 2002, n. 1: pp. 231-236 da cui sono tratte le informazioni qui utilizzate.

65 Ivi p. 233. 66 Ivi p. 232

67 Ivi. Ma cfr. anche Alfano, Gli effetti della guerra cit.: p. 149 sgg. oppure

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umana, perfino alla comunità cariddota, quando viene investita dalla modernità: fino a quel momento, infatti, i bambini del paese potevano pensare che gli spiaggiatori

andassero in cerca di un qualche cimitero insabbiato o di barca che doveva venire ad imbarcarli e traghettarli all'altro mondo, a ogni istante e a ogni spiaggia, e il segnale era qualcosa che cercavano nei rigetti di mare, perché, se si mettevano a spiaggiare, era per quello, come se ogni spiaggia dove spiaggiavano, fosse fra il mondo di qua e il mondo di là.68

Una vecchiaia che tende naturalmente alla morte, tende anche ad un cimitero, un luogo in cui tutti i rappresentanti di una stessa specie o comunità si raccolgono. Per i cariddoti questo spazio è un punto

indeterminato oltre il mare, a cui si può arrivare navigando69 o sulle ali

del pescerondine70 oppure scavando sotto la sabbia delle Tre Palme:

Di là, dicevano ai muccuselli, si scendeva sprofondando nella sabbia, si scendeva per laddèntro, lassòtto sinché non s'incontrava l'acqua salata, e scendendo poi il nero fondo marino. Allora bisognava trattenere il fiato […] e nuotare, nuotare sinché di sopra non arrivava uno specchìo di luce. Allora si poteva riassommare e una volta a galla, quello che vedevano mare calmo e trasparente, traboccante di pesci che da soli, mansi mansi, saltando in barca, nella mano, senza bisogno di reti né ami né fiocine né traffinere, quello, era il loro paradiso di mare, là si sarebbero ritrovati tutti, famiglia per famiglia, chiumma per chiumma...71

Alle società moderne questa consolazione è negata, il percorso da seguire per arrivare a questi cimiteri è stato dimenticato, così come il senso ultimo della morte: soprattutto durante la guerra gli annegati invece di nuotare verso la pace sembrano ritornare, interrogativi e straviati pure loro, a tormentare le spiagge umane; anche le barche non 68 HO p. 102.

69 Ivi p. 1121. 70 Ivi pp. 416-21. 71 Ivi p. 427.

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seguono il loro “ciclo vitale” normale, e vengono affondate dai tedeschi

prima del tempo, talvolta cariche di soldati uccisi72. Come il morto dalle

sembianze di pesce che riemerge sulla linea del Duemari e la percorre, così anche la carcassa dell'orca sembra aver smarrito la pista per il suo cimitero e aspetta di essere uccisa in un mare straniero. Anche questo è un segnale dello stravolgimento dei valori del mondo, dovuto non solo alla guerra: mentre, nel ciclo naturale, morte e nascita si succedono con un ritmo prestabilito (come lo spiaggiatore, vecchio saggio che “sapeva di vivere e in conseguenza sapeva di dover morire”73), nel tempo della

guerra muoiono i giovani e sopravvivono i vecchi, muore l'orca senza saper più raggiungere il proprio cimitero.

La spiaggia femminota fornisce gli elementi coloristici del sogno del cimitero delle fere: la sabbia nera, vulcanica e le ossa biancheggianti nella notte. Proprio le ossa delle fere ci riportano al nostro filo conduttore: nonostante siano ciò che rimane, concretamente, della loro esistenza fisica, sono di una strana consistenza, straordinariamente sottili e leggere, quasi pieghevoli, e addirittura se sollecitate col piede si muovono in modo inconsulto:

gli saltarono contro le caviglie, punzecchiandogliele come fossero schegge : le pizzicò in punta e gli si rovesciarono contro, o v'infilò dentro la punta della scarpa e il piede gli restò intrappolato come fossero tutte ossa a tenaglia, tutte ganasce di quella bocca a becco.74

Naturalmente, per i pellisquadre e per 'Ndrja, la spiegazione risiede nella natura maligna e soprannaturale dell'animale, che resiste anche 72 Cfr. ivi pp. 1116-22.

73 Ivi p. 104. 74 Ivi p. 149.

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dopo la morte:

L'ossatura [della fera] spiega che è solo spirito, maligno spirito cresciuto vecchio di mente, e sostanzialmente senza età il corpo: questo però, trucchigno, pomatoso, incantatore, con quel cristiano, puttanesco culo a mandolino, con quella bellezza, quella eleganza, quella ondulosità d'andamento che vorrebbe averlo ogni fedele cristiana.75

Ancora una volta, mentre abbiamo sotto gli occhi la testimonianza concreta della mortalità e della concretezza della bestia, si insinua un elemento che ne suggerisce una natura ulteriore, misteriosa e caratterizzata sempre dagli stessi attributi: civetteria, cattiveria, intelligenza e vitalità. Se le fere sono state interpretate come le forze della vita in opposizione con la forza negativa della morte rappresentata dall'Orca è proprio per il costante riferimento alla loro vitalità, all'energia inesauribile che le caratterizza: sembrano non dormire mai del tutto76,

come sembra che non muoiano mai, e quando muoiono lo fanno per aver

troppo mangiato ovvero per aver troppo vissuto77.

All'opposto rispetto all'“arcano” della morte delle fere sta l'esperienza quotidiana e rassicurante della loro nascita; in questo ambito infatti i pellisquadre riconoscono nelle fere elementi di affinità. Innanzitutto partoriscono dopo nove mesi di gestazione non più di uno o due piccoli per volta, addirittura di alcuni si conosce la data di nascita perché accadeva che venissero alla luce contemporaneamente a un bambino del paese; inoltre il momento del parto è “l'unica occasione in cui la fera faceva sul serio” perché dimostrava di soffrire “mandando un tale rantolo 75 Ivi p. 149.

76 Cfr. ivi pp. 644-5. 77 Cfr. ivi pp. 152-3.

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finofino, che se chiudevano gli occhi, avrebbero detto di stare dietro la porta di una stanza dove si partoriva una cristiana, invece che sulle rocce della 'Ricchia a vedere figliarsi una fera”78:

persino quella impressione di riso perenne, di smorfia e di sfottò, sembrava sparita dalle labbra beccute, e l'occhio mezzo chiuso, tra gli assalti dei marosi e i sussulti della feruzza nascitura, aveva sprazzi di dolore vero e terribile, appannamenti e sfavillii nelle fitte di quel gran male di cristiana.79

E se è nella sofferenza che la fera maggiormente rassomiglia ai “cristiani” è proprio in una scena di sofferenza che la vediamo regredire a una forma di feto umano. Siamo nell'episodio della Mezzagiornara, che è stata colpita dai cacciatori:

La Mezzagiornara si spense di colpo, puntata verso le acque calme e appartate della 'Ricchia. Era interamente nascosta nel suo sangue: ci fu un attimo, in cui apparve ai muccuselli come un orrendo essere informe, avvolto nel suo sangue, qualcosa che allora e per lungo tempo ancora non seppero mai definirsi e che poi, avanti negli anni, andarono definendosi, per via di paragone, come un grosso, spaventevole feto, uno sbozzo di grumi sanguosi, che scaricava il suo cieco istinto di vita.80

Questi due esempi coinvolgono le fere in momenti di debolezza e possiamo aggiungere un terzo esempio tratto dall'episodio dello spubblico, sia nel momento in cui la fera usa la sua voce da neonato che già all'inizio, quando i marinai trovano due fere mentre si accoppiano:

Lei stava immobile come fra azzurri guanciali, con mezza di quella sua panzitta, d'un biancore come di latte, rovesciata all'aria, a pinne aperte e manuncole strette a pugnetti, torcendosi lievelieve di piacere la coda. Lui le stava sopra di trequarti, col suo groppone sottile, tutto ispirato, s'incafollava dentro a lei, sussultando in fretta ma leggero, leggero che nemmeno pareva, intanto che con una manuncola l'annaspava,

78 Ivi p. 154. 79 Ivi p. 153. 80 Ivi p. 272.

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le cercava dietro il collo, come per pigliarle il tuppo di capelli.81

L'umanizzazione si fa ancora più chiara nelle righe successive, quando ci si spiega la presenza di queste fere sicuramente “forestiere”: le due bestie vengono rappresentate come una coppia umana “signorina lei e verginello lui” che si è appartata un momento per togliersi per la prima volta questa “voglia che gli era ancora sconosciuta”; qualche riga di esempio:

La femmina (…) aveva avuto una rapida alzata di ciglia, era stata a orientarsi, nuda, bianchicella, come una baccalara, pancia all'aria, poi era schizzata via: fuggendo, si riaggiustava nelle spalle brune, nascondendo viavia le abbaglianti nudità di sotto, e poi s'appanciava, e allora sembrava ricoprirsi del suo manto, come una ragazza che scappa dal letto e rigirandosi di spalle, s'infila precipitosamente una veste.82

A partire da questo brano può essere interessante notare come le forme e le caratteristiche anatomiche di questi animali vengano spesso descritti utilizzando termini che apparterrebbero alla sfera dell'umano: le fere, diversamente da altri pesci, possiedono “spalle” e “pancia”, “vita sottile” e spesso un “culo a mandolino”; come è facile notare si tratta per lo più di caratteristiche ritenute tipiche delle donne attraenti: le fere infatti sono spesso chiamate “belle scìscì”, sono bestie che si muovono in modo sensuale e civettuolo per nascondere una natura maligna. Elemento chiaramente inconsulto per un animale e derivato, probabilmente, da una sovrapposizione fra le motivazioni pratico-economiche che fanno sì che la fera “incarni il principio del Male” per i pescatori83 e l'identificazione di quel principio in quella femminilità

81 Ivi p. 197. 82 Ivi p. 198.

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sfacciata e sessualmente libera di cui ho già detto a proposito delle sirene84.

Un altro elemento molto importante sono, naturalmente, le “manuncole” delle pinne, che sono caratteristica esclusiva di questi animali e dell'orca; per quest'ultima, però, sono ridicole rispetto alla sua stazza e non riesce a usarle bene come fanno le fere. Questo dettaglio così simile al genere umano va sicuramente messo in relazione con l'importanza che hanno in tutto il romanzo le mani, in particolare per la

costruzione dei rapporti sociali all'interno delle comunità umane85.

La fera che di cristiano tutto ha e tutto fa, alla parola, alla parola loquente loquente cristiana, non arrivò ancora.86

Questi animali non parlano ma, come è evidente nell'episodio dello “spubblico”, sono in grado di utilizzare la propria voce per intenerire gli esseri umani, piangendo con una voce simile a quella di un bambino. La somiglianza fra i due suoni viene interpretata dai pescatori come l'ennesima dimostrazione della subdola intelligenza delle fere, che è forse il loro vero tratto distintivo. Un altro dettaglio anatomico estremamente rilevante, che viene spesso chiamato in causa parlando delle fere è infatti il loro cervello “fine, genialone”87, loro forza e loro debolezza: sembra che

l'unico modo per ucciderle sia un colpo proprio nella testa88, che fermi il

cervello. Questo è un ulteriore elemento che costruisce l'umanizzazione 84 Cfr. infra § 2.5.

85 Cfr. naturalmente l'episodio dell'arrabbiatura di Caitanello e il seguito con la

storia di Federico Scoma (pp. 601-625) e il racconto del tedesco ucciso a Napoli (pp. 626-639).

86 HO p. 610. 87 Ivi p. 214. 88 Cfr. ivi p. 185.

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di questi animali, soprattutto quando lo si considera insieme alla crudeltà gratuita. Su questa caratteristica insistono spesso le descrizioni del narratore e le conversazioni dei pellisquadre ora con rabbia ora con stupore ora con odio rassegnato:

«Questa, vossia non lo può sapere, noi la chiamiamo fera e fera effettivamente è. E fera vuol dire pescebestino, tutto una fetenzia di animale che in quanto carne, non vale un soldo, ma quanto al cervello ce l'ha fine, genialone».89

Così Caitanello cerca di spiegare cosa siano le fere all'Eccellenza fascista.

L'ingegno di questi animali è tale da istituire con i pellisquadre uno scontro alla pari, come ricorda don Luigi in diversi luoghi:

«Avvilirci? E perché?» era andato dicendo «Due mani abbiamo noi e due manuncole loro. Ora, abbiamo l'orecchio mozzicato sia noi che loro. La questione venne perciò al faccia a faccia, al tupertù...».90

«[...] con la fera siamo alla pari, non proprio simili ma simili con simili […] dal principiare della vita, anzi dal concepimento, alla pari cioè nel ventre della nostra madre, alla pari per il tempo che ci mettiamo a formarci, nove mesi noi e nove mesi loro e alla pari poi per tutta la vita, loro là a mare e noi qua a terra, loro a corrugare la fronte bozzuta per darci l'improsatura e noi a leggerle nella mente beccuta per pararci l'improsatura.»91

Da questa parità nasce una lotta infinita delle comunità umane contro la crudeltà insensata e accanita delle fere, che sembrano far soffrire gli altri esseri viventi senza motivo, per il gusto del gioco; 'Ndrja cerca di spiegarsi perché, nei momenti di carestia di mare, le uniche cose che si trovano da mangiare siano proprio carogne di fera che il mare (o loro stesse) spingono verso la riva:

89 Ivi p. 213-214. 90 Ivi p. 188. 91 Ivi p. 814.

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Perché? Per tenerli in vita, perché il gioco gli piace, sinché lo giocato è vivo: per questo, terrorizzano il tonnacchiolo, ma non lo sterminano mai, per questo, se gli riesce, scodano il verdone, ma lo tengono, trattengono ancora a galla afferrandolo coi dentuzzi a spinadirosa per i brandelli di pelle dove lo troncarono di coda, non lo fanno cioè sprofondare subito come sarebbe legge di natura snaturata […] e per questo, per questo, al cristiano gli levano tutto, ma non gli levano la vita. Su questo, doveva basarsi il paragone.92

Nelle fere si concretizza un rapporto ambivalente con l'animale che l'uomo vive da sempre, in cui coesistono ammirazione, timore e coscienza della propria superiorità:

Potente e pericoloso, l'animale, che incarna così al tempo stesso forza vitale e rischio mortale diviene il termine col quale l'uomo si misura per provare la propria vitalità.93

I giovani cariddoti dimostrano di essere cresciuti quando sanno gestire la barca opponendosi all'estrema vitalità del mare, ma in qualche modo anche il coraggio di avvicinarsi e competere con le parenti umane delle fere, le femminote, è un importante rito di iniziazione.

Il gusto per i divertimenti94 e per il gioco, la crudeltà e l'intelligenza

alzano la fera a un livello superiore: in quanto “prime cittadine” del mare, infatti, diventano quasi divinità marine feroci e misteriose, ma che talvolta rivestono un ruolo quasi salvifico.

L'aggettivo salvifico non è usato con una sfumatura cristologica, né nel senso delle “favole” raccontate dal signor Monanin95 (che pure, non

92 Ivi pp. 293-4.

93 J. Barrau, cit.: p. 587.

94 “[La 'Ricchia era] una meraviglia sia d'utile e sia di dilettevole, perché a

criterio della fera, col solo utile non c'è gusto” HO p. 182.

95 Secondo Giordano i due racconti hanno come fonte comune L a descrizione

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