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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2

AREA DI STUDIO

2.1 Le Riserve Naturali Biogenetiche Casentinesi

Il presente lavoro si è svolto all'interno delle Riserve Naturali Biogenetiche Casentinesi, gestite dal Corpo Forestale dello Stato tramite l’Ufficio Territoriale per la Biodiversità (UTB) di Pratovecchio (AR), più alcune aree ad esse attigue.

Le Riserve si estendono su una superficie di 5.303,25 ha all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, area protetta a cavallo di Emilia-Romagna e Toscana.

Le Riserve sono attraversate, in direzione NW-SE, dal crinale appenninico che, oltre a rappresentare un confine geo-politico, marca anche la divisione tra il versante tirrenico e quello adriatico.

Il versante adriatico, romagnolo, e quello tirrenico, toscano, presentano caratteristiche fisiche ed ambientali visibilmente diverse, dovute alla differente storia geologica che si riflette sulla attuale morfologia del territorio.

Il Parco Nazionale è suddiviso pressoché equamente nei due versanti, per un totale di 36.426

ha ricadenti in tre province (Arezzo, Firenze e Forlì-Cesena) e dodici comuni, di cui cinque in

Romagna (Premilcuore, Santa Sofia, Bagno di Romagna, Portico, Tredozio) e sette in Toscana (Poppi, Bibbiena, Pratovecchio, Stia, Chiusi della Verna, San Godenzo, Londa). Il versante romagnolo è solcato, perpendicolarmente al crinale, dalle valli del Tramazzo, del Montone, del Rabbi e del Bidente. La valle del Bidente è a sua volta suddivisa in tre rami che si congiungono poco al di sopra di Santa Sofia: Pietrapazza-Strabatenza, Campigna-Celle e Ridracoli. Questo ramo è conosciuto soprattutto per il bacino lacustre artificiale in esso presente, ottenuto grazie allo sbarramento del fosso della Lama con una diga ad arco alta più di 100 metri, costruita poco a monte del paese omonimo nel 1987. Il lago di Ridracoli è lungo circa 3 km e svolge la sua funzione di distribuzione idrica, servendo, con i suoi oltre 60 milioni di m3 di acqua, quarantadue comuni della riviera romagnola-marchigiana, la Repubblica di San Marino e le città di Forlì, Cesena e Ravenna.

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Il versante toscano divalla verso la valle superiore dell'Arno, il Casentino, suddiviso da crinali secondari della dorsale appenninica in cinque distinte aree geografiche:

la valle del torrente Oia, che si spinge fino al paese di Stia;

la valle del torrente Fossatone, ad Est della strada per il Passo della Calla; la valle del fosso di Camaldoli;

la valle del torrente Archiano, attraversata dalla strada provinciale per il Passo dei Mandrioli che percorre a Nord Est il centro di Badia Prataglia;

la valle del fiume Corsalone o Valle Santa.

A Nord Ovest del Casentino, in provincia di Arezzo, abbiamo l’Alto Mugello, in provincia di Firenze, comprensorio che include il Monte Falterona (1.654 metri s.l.m.).

Fig. 2.1.1 Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi M.te Falterona Campigna Riserve Naturali Biogenetiche Casentinesi

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Nel cuore del Parco a cavallo del crinale, sono presenti due importanti Riserve Integrali, quella di Sasso Fratino, inclusa nelle Riserve Biogenetiche casentinesi quindi gestita direttamente dall'Ufficio Territoriale per la Biodiversità, e quella de “La Pietra”, inclusa nel Demanio Regionale Toscano e gestita dal Consorzio dei Comuni del Casentino.

2.2 La storia

La storia del territorio incluso nelle Riserve casentinesi ha radici che affondano lontano nel tempo. I primi documenti storici riguardano la zona che comprende la Foresta di Camaldoli e risalgono al 1012: il comprensorio apparteneva ad un certo Maldolo di Campo Amabile, feudatario del vescovo di Arezzo, che donò a San Romualdo un piccolo appezzamento di terreno, in cui il Santo costruì il primitivo nucleo dell’Eremo e l’Ospizio di Fontebona, cioè l’attuale Monastero divenuto tale nel 1080, gestito dai monaci Camaldolesi. L'origine del nome “Camaldoli” si deve, secondo i più, alla contrazione del nome del donatore “Cà di Maldolo” in “Camaldoli”. Il Cacciamani (1965) avanza invece l'ipotesi che derivi dal vocabolo cainaldum, termine latino che significa siepe altissima, cioè bosco molto alto e vecchio, con il quale si indicava tutta la zona a monte dell'attuale monastero (Bottacci et al., 2012)

La gestione delle foreste intorno all’abitato di Camaldoli rimase quindi sotto l’Opera del Convento, che allargò anche i propri possedimenti con nuovi acquisti fino al 1886, quando un Regio Decreto soppresse gli Ordini Ecclesiastici confiscandone il patrimonio.

Tra le “consuetudini” di Camaldoli era prevista anche la cura della foresta: i monaci sostituirono gradatamente l’originale bosco misto di abete bianco e faggio della zona più elevata e quello misto di cerro, tiglio, rovere e aceri, della fascia sottostante, con piantagioni pure di abete bianco. Questo perché nella simbologia camaldolese, l’abete è simbolo di meditazione e sapienza. I monaci impostarono anche un rivoluzionario Codice Forestale ( il primo nella storia, ancora oggi studiato nelle Facoltà universitarie di Scienze Forestali), con regole precise riguardo all’utilizzazione del legno, i ritmi di taglio, le tecniche di piantumazione e di rimboschimento.

Per quel che riguarda la storia delle altre Riserve, si hanno notizie a partire dal 1289 quando i continui contrasti fra Guelfi e Ghibellini sfociarono nella battaglia sulla Piana di Campaldino (Poppi). Il territorio rimase possedimento dei Conti Guidi che lo utilizzarono come riserva di caccia fino al 1380, quando furono sconfitti nella guerra con la città di Firenze che mal vedeva l'aumentare della loro potenza. Dopo il conseguimento della vittoria, la Repubblica Fiorentina donò la gestione del patrimonio forestale all’Opera del Duomo di S. Maria del

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Fiore, che usò le ingenti risorse di legname per garantirsi l’esclusiva nelle forniture di legname agli arsenali di Pisa e Firenze.

Nel 1561 una riforma delle disposizioni riguardanti la foresta, voluta da Cosimo I de’ Medici, creò una nuova carica, “Ministro in Casentino”, ovvero un funzionario che risiedeva stabilmente a Pratovecchio e controllava il commercio del legname. Allora, Pratovecchio e Poppi erano porti fluviali di partenza dei tronchi di abete bianco, che per fluitazione-flottazione lungo l’Arno giungevano ai cantieri di Santa Croce sull’Arno e Livorno sfruttando le piene e lì erano trasformati in alberature per le navi o travature per palazzi.

Fig. 2.2.1 Possedimenti dei Conti Guidi prima della battaglia di Campaldino (tratto da Bottacci et al., 2009)

Il XIV secolo rappresenta il periodo principale per la politica produttivistica voluta dai granduchi nelle foreste, politica che, dal punto di vista paesaggistico, privilegia l’abete bianco a scapito di tutti gli altri alberi.

In conseguenza di ciò, la popolazione locale, perpetrava per necessità dei tagli abusivi (“ronchi”) ed incendi per favorire la creazione di aree aperte lavorabili. La pratica del ronco consisteva nel disboscamento di un pezzo di terreno tramite taglio a raso e successivo incendio in loco delle ramaglie, e infine nella messa a coltura dell'area così ottenuta. Tale consuetudine era particolarmente in uso nelle popolazioni romagnole, maggiormente legate delle casentinesi ad un’economia di tipo agro-pastorale. Risale a quel periodo la nascita delle

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“biancherie della Romagna”, termine usato dal naturalista e geologo romagnolo Pietro Zangheri (Zangheri, 1961), per descrivere il biancore delle rocce scoperte nella disboscata valle del Bidente. Solo la Foresta di Camaldoli e la zona di Sasso Fratino scamparono tale sorte: la prima perché dichiarata bandita alle attività di taglio e sorvegliata gelosamente, la seconda perché caratterizzata da un'elevata pendenza dei versanti che li rendevano difficilmente “lavorabili”.

Nella prima metà dell'800 viene segnata una svolta per le Foreste: l’allora proprietario, Leopoldo II Granduca di Toscana, preoccupato dallo stato in cui versava il territorio, assunse, in qualità di amminstratore unico, Karl Siemon, un tecnico forestale boemo chiamato a redigere il nuovo Piano di Assestamento.

Siemon elaborò un piano di riassetto che fu il primo tentativo di gestione del territorio sia a livello forestale che faunistico, con finalità prettamente economiche.

Parallelamente ad un’ampia campagna di rimboschimenti (in dieci anni furono piantati 890.000 esemplari arborei), promosse anche la fondazione di diverse attività quali:

• la costituzione sopra Campigna di una “burraia”, ancor oggi ricordata nel toponimo locale, ovvero un edificio adibito a deposito, refrigerato con la neve presente allora in quell'area di crinale anche nel periodo estivo, per i prodotti della lavorazione del latte delle mucche importate appositamente dalla Svizzera;

• una vetreria nei piani della Lama, per la produzione e lavorazione di oggetti in vetro (seguendo una modalità economica di sviluppo tipicamente “boema”), che sfruttava la possibilità di bruciare grandi quantitativi di legname presenti in loco.

In ambito faunistico Siemon effettuò introduzioni, discutibili nell’ottica di una moderna gestione faunistica, ma importanti nel contesto storico di allora: cervi e caprioli provenienti dalla Germania e mufloni dalla Sardegna.

Per quanto riguarda il riassetto forestale Simeon sviluppò la coltura del castagno “da frutto”, che seguì l’incremento delle abetine, le quali andarono ad affiancare il naturale bosco di faggio, in accordo con i dettami delle scuole silvo-colturali del tempo, che tendevano a privilegiare l’abete e le conifere in generale.

In quegli anni furono tracciate le “vie dei legni”, una delle quali ancora ben individuabile, da Pratovecchio. Essa, passando per Prato alle Cogne, giungeva sul crinale appenninico in località Giogo Secchieta per poi scendere lungo il Fosso degli Acuti verso la Lama. Tali “vie” erano vere e proprie strade che soppiantarono le piste usate precedentemente per lo strascico del legname.

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8 Fig.2.2.2 Porto di Pratovecchio nel periodo delle “vie dei legni” (tratto da Bottacci et al., 2009)

L’opera innovatrice di Siemon non si interruppe con la cacciata dei Lorena da Firenze né con la sua morte: la gestione della Foresta proseguì nel solco da lui tracciato con il figlio Odoardo. Dopo la gestione granducale “pubblica”, la Foresta passò in mani “private”, per due anni le superfici boscate vennero intensamente utilizzate da tal Massimiliano Massella ma, per combattere contro questo sfruttamento incontrollato e inviso alle popolazioni locali, il Municipio di Pratovecchio propose al Ministro dell’Agricoltura l’acquisto del terreno da parte del neonato Stato Italiano.

Tale operazione, rivoluzionaria per l’epoca, non fu da subito possibile e nel 1900 la proprietà Masella fu venduta al Cav. Ugo Ubaldo Tonietti, che la usò come riserva di caccia e per la produzione di legno e carbone. A questo periodo risale la costruzione di una linea ferroviaria lunga 20 km, (sul modello “decauville”, per le estrazioni minerarie) sul percorso Cancellino-Lama, per trasportare più agevolmente il materiale legnoso. Nel 1906 Tonietti, a sua volta, vende gran parte della Foresta alla Società Anonima per le Industrie Forestali (SAIF), che intensifica lo sfruttamento del bosco dall’area del Cancellino fino alla Lama.

Sempre in seguito alle proteste dei locali, che vedevano svanire intorno a sé la principale fonte di reddito, lo Stato Italiano nel 1914 acquisì il patrimonio forestale per intero e,

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accorpandolo a quello di Camaldoli, diede luogo al complesso delle Foreste Demaniali Casentinesi, costituendo l'azienda che prenderà in seguito il nome di A.S.F.D. (Azienda di Stato per le Foreste Demaniali). Essa gestiva inizialmente un territorio di 7.288 ha.

Fig. 2.2.3 Ferrovia “decauville” entrata in funzione ai primi del ‘900 fino alla Lama (foto archivio UTB Pratovecchio)

In seguito ai conflitti mondiali, nelle Foreste Casentinesi, oltre al pesante danno che la guerra apportò alla vita dei locali, si assistette ad un enorme degrado per i pesanti tagli effettuati (82.000 metri cubi di legname asportato solo nella Foresta di Camaldoli).

Lo spopolamento post bellico della montagna, a volte “necessario” per sfuggire alla miseria, a volte favorito da istituzioni poco lungimiranti, modificò ulteriormente il paesaggio: terreni agrari e pascolivi furono completamente riforestati dall’opera dell’A.S.F.D.; case e piccoli paesi furono addirittura demoliti e la foresta raggiunse livelli altitudinali mai toccati in precedenza, sfiorando il fondovalle ed arrivando ad una estensione di 10.601 ha.

Il patrimonio boschivo non era stato il solo ad essere pesantemente vessato durante il periodo bellico: anche le diverse popolazioni animali avevano accusato la continua azione del bracconaggio, motivo per cui si resero necessari cospicui ripopolamenti da parte dell'A.S.F.D, che occuparono l'arco di tempo compreso tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, durante il quale furono immessi:

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• cervi e caprioli, prelevati dalle foreste di Tarvisio;

• daini provenienti dalla Tenuta Presidenziale di S. Rossore;

• mufloni dalla Sardegna e dal S. Gallo (Svizzera).

I cinghiali vennero “reintrodotti” dalle amministrazioni provinciali negli anni ’70-’80 con capi provenienti dalla Maremma e dalla Sardegna (secondo fonti storiche il cinghiale si era estinto dal Casentino addirittura nel 1200). Sempre in questo periodo si ebbero immissioni illegali da parte delle associazioni venatorie, con esemplari di dubbia provenienza e con individui incrociati pesantemente con il maiale.

Nel 1975, con l’istituzione delle Comunità Montane del Mugello e del Casentino, la gestione di una cospicua parte delle Foreste Demaniali casentinesi passò al Demanio Regionale: i due enti amministrarono per conto della Regione Toscana parte dei territori ricadenti sul versante tirrenico; in Romagna, contemporaneamente, la gestione di gran parte del Demanio Statale passò all’ Azienda Regionale Foreste.

Nel 1977, i territori rimanenti (5.300 ha) vennero dichiarati Riserve Naturali Biogenetiche e dati in gestione, per il Corpo Forestale dello Stato, all’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, poi convertita in ex A.S.F.D., Ufficio Amministrazione Riserve Naturali Statali, infine, dal 2003, Ufficio Territoriale per la Biodiversità. L’ UTB di Pratovecchio è l’attuale gestore delle Riserve Biogenetiche.

L’opera di protezione di questo territorio è stata completata nel 1994 con l’istituzione del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, nel quale le Riserve sono ricomprese.

2.2.1 La Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino.

La Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino, citata nei paragrafi precedenti, merita uno spazio di approfondimento in quanto è stata la prima riserva integrale ad essere istituita nel nostro paese nel 1959.

La Riserva Integrale ha un'estensione di 764,25 ha, con una lunghezza massima di 6,6 km e una larghezza massima di 2,2 km ed è compresa interamente nella Regione Emilia Romagna, provincia di Forlì-Cesena (comuni di Bagno di Romagna e S. Sofia).

Essa è circondata dalle altre Riserve Biogenetiche casentinesi: Campigna a Nord, Scodella e Camaldoli a Sud, Badia Prataglia-Lama a Nord-Est ed a Sud-Est e dall'altra zona a protezione integrale della Regione Toscana (la Riserva de La Pietra).

Collocata sul versante settentrionale dell’Appennino Tosco-Romagnolo, la Riserva di Sasso Fratino è caratterizzata da pendii molto ripidi, con un’altitudine massima di 1.520 m s.l.m.

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(Poggio Scali) e minima di 650 m s.l.m. (Campo alla Sega). È caratterizzata da numerosi canaloni che, raggiungendo il crinale, la rendono, di per sé, territorio difficilmente accessibile. Il territorio di Sasso Fratino presenta perciò una morfologia molto complessa, con crinali secondari e profonde valli, che procedono in direzione SW-NE, formatesi per l’erosione dei suoli marnosi operata dai numerosi fossi, e da conseguenti crolli. Il bacino idrografico principale è quello del Bidente di Ridracoli, frequenti i salti rocciosi e numerose le cascate. Il suolo di Sasso Fratino è quasi completamente boscato, con una foresta secolare a tratti vetusta e monumentale, tendente allo stadio di climax (“old growth forest”). Tale associazione forestale ha un valore ambientale-paesaggistico molto elevato, per gli alti livelli di biodiversità e la presenza di specie e popolazioni, vegetali ed animali, rare o di importanza biogeografica.

La viabilità interna è scarsa e costituita da antiche tracce di sentiero, l’accesso è permesso solo per motivi di studio e di ricerca scientifica, per scopi educativi o per operazioni di controllo e vigilanza, svolte dagli agenti del Corpo Forestale dello Stato. L’influenza antropica è quindi ridotta al minimo, per consentire il graduale instaurarsi di una dinamica ecosistemica forestale il più possibile priva di qualsiasi influenza antropica.

Il valore intrinseco della zona di Sasso Fratino fu fatto notare per la prima volta dal direttore della Regia Azienda Forestale, istituita nel 1914, che la descrive come “il vero tipo della

faggeta naturale”, con alberi molto vecchi e sottobosco fitto (Sansone, 1915) motivo per cui

affermava che sarebbe stata meritevole di un rigido regime di tutela.

Durante la Prima Guerra Mondiale l’area di Sasso Fratino fu l'unica, nelle Foreste casentinesi, a non essere sottoposta a tagli.

Negli anni tra il 1930 e il 1940 per Sasso Fratino furono elaborati dei piani di utilizzazione e disboscamento, che prevedevano, innanzitutto, la costruzione di una strada di collegamento tra la Lama a Campigna, che doveva attraversare completamente il “nucleo storico” dell’attuale Riserva. Negli anni 1937-38 il progetto fu realizzato in parte, con la costruzione del tratto dalla Lama a Poggio Seghettina ma con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale i lavori furono sospesi e il rimanente tratto non fu più realizzato.

Nel dopoguerra, un nuovo piano, che prevedeva il completamento della strada, venne formulato dal tecnico forestale Fabio Clauser divenuto, nel frattempo, Amministratore delle Foreste Casentinesi. Tuttavia, al momento dell'applicazione del piano, egli ritenne opportuno cambiarne completamente gli indirizzi ed avviare un procedimento volto a tutelare tale area, vista la sua importanza forestale e paesaggistica.

La proposta fu condivisa ed appoggiata dal Prof. Pavan, entomologo dell’Università di Pavia e frequentatore delle Foreste casentinesi per i suoi studi di entomologia. Decisivo fu anche

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l'intervento del Prof. Gösswald dell’Università di Würzburg, in Germania, con una lettera inviata al Direttore generale del Corpo Forestale nella quale esaltava le bellezze paesaggistiche e l’importanza ecologica che aveva riscontrato durante una sua visita.

Così nel dicembre 1959 con un atto interno dell’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, nacque la Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino, la prima del suo genere in Italia classificata secondo i parametri U.I.C.N. (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura).

Come primo territorio da tutelare fu individuata un’area mai sottoposta a tagli di 45 ha circondata da un’area tampone di altri 65 ha, per un totale di 110 ha. Nel 1967, mancando ancora una legge specifica riguardo le “riserva integrali” l'allora Direttore Generale con un atto interno del corpo forestale istituì formalmente la Riserva Integrale di Sasso Fratino la formalizzazione di tale strumento di protezione avvenne, a livello nazionale, con il Decreto Ministeriale del 26 luglio 1971. Nello stesso anno l’Ufficio ASFD di Pratovecchio propose un ampliamento della Riserva verso il fosso di Sasso Fratino fino ad arrivare ad una superficie di 261 ha, creando un’ulteriore zona tampone. Nel 1980 seguì un successivo ampliamento a 551

ha, che incluse tra l’altro la porzione di foresta tra il fosso delle Cullacce e Pian del Pero, in

quanto area di presenza di specie vegetali alpine e centro-europee. L’ultimo ampliamento si ha nel 1983, su proposta del Prof. Padula, in quel momento capo dell’Ufficio di Pratovecchio, che porta Sasso Fratino alla superficie attuale di 764,25 ha, con l’inclusione di un’altra porzione a Sud-Est. Con questi ultimi ampliamenti sono state incluse aree forestali qualitativamente inferiori e molto più sfruttate rispetto a quelle del primo nucleo, rendendo però possibili interessanti ricerche sull’evoluzione dei soprassuoli in assenza di interventi antropici.

Un importante riconoscimento arriva, a dimostrazione della buona gestione operata nel corso dei decenni, nel 1985 da parte del Consiglio d’Europa, che assegna alla Riserva Integrale il Diploma europeo per le Aree Protette per il periodo 1985-1990; il Diploma è già stato rinnovato per quattro volte, nel 2010 tale rinnovo è arrivato “d’ufficio” vista la perfetta gestione operata dall’Amministrazione forestale di Pratovecchio, Ufficio Territoriale per la Biodiversità dal 2003.

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2.3 Geologia e morfologia del territorio.

L' Appennino è una catena a falde di ricoprimento, creatasi in un ampio arco temporale esteso dal Cretaceo superiore al periodo attuale, come conseguenza della convergenza tra la placca europea e il promontorio settentrionale della placca africana.

La catena appenninica segue il profilo della penisola italiana con direzione NW-SE e può essere divisa in due sezioni principali, una settentrionale e una meridionale.

L'area in cui si è svolta la presente indagine appartiene all'Appennino settentrionale ed è il risultato della sovrapposizione tettonica di due unità principali che si differenziano per caratteristiche litologiche strutturali e paleo-geografiche: l'insieme Umbro-Toscano e l'insieme Ligure-Emiliano.

Il primo è a sua volta distinto in due gruppi di unità strutturali: Unità toscanidi ed Unità Umbro-Marchighiane-Romagnole.

Tali sovrapposizioni hanno comportato la presenza di notevoli differenze tra il versante romagnolo e quello toscano, riscontrabili facilmente dal punto di vista paesaggistico: lo stile tettonico “distensivo” in Toscana ha fatto sì che nelle fasi del sollevamento gli strati si siano inclinati in direzione del Casentino dando morfologie piuttosto dolci; mentre lo stile tettonico “compressivo” in Romagna, unito alla forte erodibilità meccanica degli scisti marnosi e alla loro disposizione a reggi-poggio, è la causa per cui il versante romagnolo si presenta più aspro e ripido.

In Toscana, quindi, le pendenze medie delle valli sono lievi; i due maggiori corsi d'acqua sono: il fosso di Camaldoli, che nasce nell’Abetiolo e si getta nel torrente Archiano (affluente di sinistra dell’Arno) ed il torrente Fossatone, che partendo dalla Riserva Integrale de La Pietra confluisce nel torrente Ruscello e che, col nome di torrente Staggia, si immette nell’Arno all’altezza di Stia. Il fatto che i torrenti toscani necessitino di 4-5 km di corso per arrivare dal crinale ai 600 m di quota mentre a quelli romagnoli bastino 3 km, è un esempio della profonda diversità tra i due versanti.

In Romagna torrenti così inclinati, per le elevate pendenze medie, generano valli profonde ed incassate dall'aspetto ripido e aspro.

La formazione geologica dominante nel territorio delle Riserve è la marnoso-arenacea, costituita da sedimenti di ambiente marino profondo che risalgono al Miocene medio. Essa è caratterizzata da grandi banchi di arenaria, con spessori notevoli (dai 30 cm a qualche metro), ai quali si alternano degli strati di marne più sottili.

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Tali formazioni hanno avuto origine analoga a partire da 27 milioni d’anni fa quando tutto l’Appennino stava cominciando ad emergere sotto spinte orogenetiche. Nelle piattaforme costiere che lo circondavano, si accumulavano i sedimenti fluviali rimescolati dal moto ondoso e gli apporti grossolani di gigantesche frane, che avvenivano quando la scarpata abissale non era più in grado di sostenersi. Il prolungarsi di questi fenomeni per milioni di anni ha generato accumuli enormi, formando la caratteristica alternanza di strati attualmente ben visibile. Cinque milioni d’anni fa questi fenomeni orogenetici avevano già plasmato il territorio determinando una realtà geografica molto simile a quella attuale.

Fig. 2.3.1 Strati della formazione marnoso-arenacea (foto I. Franceschini)

Un’altra formazione geologica affiorante sul crinale appartiene alla cosiddetta “Scaglia toscana”, risalente all’Oligocene superiore e costituita da argillo-scisti variegati e marne policrome (individuabili sul crinale tra il Passo dei Fangacci e gli Scalandrini), nella Riserva Biogenetica di Badia Prataglia-Lama che, scendendo lungo il versante tirrenico, sono seguite dal macigno (un’arenaria molto più dura) e da marne differenti.

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Degne di nota per la loro rarità sono le cavità di origine tettonica, provocate dall’apertura di fratture nella massa rocciosa.

Cavità molto nota dal punto di vista turistico (benché non visitabile liberamente) è la Buca delle Fate, nei pressi di Badia Prataglia.

Meno nota, ma importante per la sua collocazione, sotto il crinale Tosco-Romagnolo a circa 1400 m s.l.m, è la Buca di Poggio Rovino, posta sul versante Nord del citato rilievo, che conserva anche d'estate spessi strati di neve al suo interno, presentando così una particolare situazione micro-climatica.

Nonostante la complessità orografica della regione, questa porzione di Appennino non presenta altitudine (né media né assoluta) particolarmente elevata. Le più alte vette sono il M. Falterona (1654 m s.l.m.) dal quale nasce il fiume Arno, il M. Falco (1658 m s.l.m.), il M. Gabrendo (1539 m s.l.m.), Poggio Pian Tombesi (1456 m s.l.m.) e Poggio Scali (1520 m s.l.m.).

2.4 Clima.

Il clima delle Riserve Naturali Biogenetiche Casentinesi è di tipo fresco ed umido, con distribuzione stagionale delle precipitazioni sempre superiore a 1000 mm e con due picchi in autunno e primavera contrapposti al minimo estivo. Un regime pluviometrico di questo genere è similare a quello oceanico, dal quale si differenzia per due aspetti principali: la maggiore escursione termica e la diminuzione delle piogge nella stagione estiva.

Le precipitazioni nevose sono distribuite nel periodo novembre-aprile con una maggiore frequenza degli eventi nei mesi di dicembre-gennaio. Alle quote elevate le nevicate sono abbondanti e la persistenza al suolo del manto nevoso è di notevole durata. In merito alle precipitazioni nevose le tre stazioni termo-pluviometriche situate nelle zone di Camaldoli, Badia Prataglia e Campigna, segnalano quanto segue:

• 23 giorni di precipitazione nevosa, con un periodo di permanenza al suolo di 94 giorni nella stazione termo-pluviometrica di Camaldoli-Eremo, posta a 1.111 m s.l.m;

• 20 giorni di precipitazione nevosa, con circa 64 giorni di permanenza al suolo nella stazione di Campigna (1.068 m s.l.m);

• 14 giorni di precipitazioni nevose con 46 giorni di permanenza della neve al suolo nella stazione di Badia Prataglia (834 m s.l.m.).

Per quanto non ci siano differenze estreme come nel caso delle caratteristiche geologiche dei due versanti, anche dal punto di vista climatico questi presentano delle peculiarità, dovute ai venti, che provengono da occidente e oriente, rispettivamente. Il versante romagnolo, infatti,

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risente maggiormente delle correnti umide provenienti dal mar Adriatico, che provocano più cospicue precipitazioni.

I venti sono frequenti solamente sul crinale e quelli più impetuosi e continui provengono da Sud-Ovest (Libeccio), come testimonia l’inclinazione verso la Romagna dei faggi che si trovano in prossimità dello spartiacque.

La temperatura media annua è intorno ai 10,3 °C, con minime di –10 °C/–12 °C tra gennaio e febbraio, con punte massime nella parte centrale dell'estate quando, comunque, raramente si superano i 22 °C.

Fig.2.4.1 Cospicuo innevamento nei mesi invernali (foto C.Bitossi)

Sono frequenti, soprattutto alle quote superiori, i banchi di nebbia e le nuvole basse anche nel periodo estivo, che apportano umidità nelle zone di crinale.

Nel complesso, quindi, il clima dell’area può essere definito di tipo montano, con piogge abbondanti, che hanno un massimo nei mesi di ottobre-febbraio ed un minimo in giugno-agosto.

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Da segnalare due fenomeni meteorologici legati al lungo inverno di questi territori:

la galaverna: dovuta condensazione dell'acqua in aghi di ghiaccio che si formano su ogni superficie disponibile. Tale condensazione, avviene quando l'umidità relativa dell'aria è elevata e la temperatura molto bassa;

il gelicidio: consistente nella formazione di strati di ghiaccio spessi anche alcuni centimetri dovuta alla caduta di una leggera pioggia sulle superfici gelate.

Entrambe queste manifestazioni sono spettacolari nella forma, ma, unite all’azione del vento, provocano spesso danni alla vegetazione forestale (Gonnelli et al., 2009; in: Bottacci et al., 2009).

2.5 Vegetazione.

Come già sottolineato, più dell'80% della superficie delle riserve è coperta dalla foresta: le modeste altitudini raggiunte fanno sì che non esistano praterie primarie; le uniche praterie attualmente esistenti, infatti, sono di tipo secondario, cioè ricavate tramite tagli a raso e mantenute tali con il pascolo (una delle più estese è quella della Burraia a Nord del passo della Calla).

Nelle Foreste casentinesi possiamo riconoscere due tipi di “orizzonti” vegetali e paesaggistici che si compenetrano fra gli 800 e i 900 metri di quota: quello montano e quello submontano-collinare (nelle Riserve è presente soprattutto il primo).

A quote elevate, al di sopra dei 1300-1400 m, troviamo la faggeta dell’orizzonte montano superiore: qui la dominanza del faggio (Fagus sylvatica) è totale, tranne qualche esemplare di acero di monte (Acer pseudoplatanus), di abete bianco (Abies alba) e sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), più raro l’olmo montano (Ulmus glabra); lo strato arbustivo è assente o poco consistente e lo strato erbaceo è caratterizzato da specie microterme.

La fascia che va dalle quote inferiori, intorno ai 900-1000 m, fino ai 1300-1400 m, è occupata dalle faggete dell’orizzonte montano inferiore. Anche in questa fascia il faggio costituisce popolamenti di tipo eutrofico, ed è più frequentemente accompagnato da acero di monte e abete bianco, quest’ultimo può essere presente in quantità quasi paritaria al faggio a causa degli interventi silvo colturali. Una caratteristica distintiva rispetto a quelle della fascia superiore è la presenza di specie, specialmente erbacee, di tipo relativamente termofilo, quali:

Daphne laureola, un piccolo arbusto sempre verde e la primula gialla (Primula vulgaris).

Altre formazioni particolari sono le faggete azonali acidofile, presenti soprattutto sul versante toscano a quote comprese tra 1300 e 1500 m. La loro distribuzione non è direttamente legata a fattori climatici, bensì a fattori edafici stazionali, come una particolare acidificazione del

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suolo. Nel piano arboreo il faggio è nettamente dominante, mentre lo strato erbaceo è caratterizzato da specie quali: Avenella flexuosa, Poa nemoralis, Veronica officinalis e a volte anche Vaccinium myrtillus.

Fig.2.5.1 Faggeta disetanea in Sasso Fratino (foto I. Franceschini)

La fascia collinare e basso-montana, fino a circa 900-1000 m, poco rappresentata nelle Riserve e individuabile nella parte bassa della foresta della Lama, nelle Riserva Integrale di Sasso Fratino e a Camaldoli, è occupata da querceti e boschi misti di latifoglie decidue, i quali possono essere divisi in due grandi gruppi: i popolamenti mesofili e quelli termofili.

In genere il piano arboreo è meno omogeneo rispetto a quello delle faggete e gli strati arbustivo ed erbaceo sono più ricchi di specie, anche se occorre sempre tenere presente gli interventi di gestione forestale che ne hanno sicuramente influenzato la composizione floristica.

Nella categoria dei querceti e boschi mesofili, prevalgono i popolamenti arborei misti con cerro (Quercus cerris), rovere (Quercus petrea), carpino nero (Ostrya carpinifolia), castagno (Castanea sativa), acero campestre (Acer campestre), acero opalo (Acer opalus s.l.), faggio, acero di monte (Acer pseudoplatanus), carpino bianco (Carpinus betulus), roverella (Quercus

pubescens). Lo strato arbustivo è ben rappresentato da specie quali: nocciolo (Corylus avellana), biancospini (Crataegus monogyna, C. oxyacantha), rosa cavallina (Rosa arvensis),

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rovi (Rubus sp. pl.), prugnolo (Prunus spinosa), ginepro comune (Juniperus communis) e maggiociondolo (Laburnum anagyroides). Lo strato erbaceo è ricco di specie con esigenze ecologiche diverse, molte delle quali sono specie indicatrici di “disturbo” quali,

Brachypodium rupestre, Carex flacca, Dactylis glomerata, Bromus erectus, più raramente Sesleria italica; indicatrici di “freschezza”, quali Melica uniflora, Brachypodium sylvaticum, Hepatica nobilis, Primula vulgaris, Hedera Helix, Campanula trachelium; specie di ambiente

di margine, quali Clinopodium vulgare, Helleborus foetidus, Silene italica.

In tutto il territorio sono ben rappresentati i rimboschimenti di conifere di origine sia antica che recente. A seconda dei luoghi si possono avere formazioni ancora del tutto artificiali, con piano arboreo monospecifico denso e rinnovazione quasi assente, oppure cenosi già diversificate. La specie arborea maggiormente impiegata è l’abete bianco, ma coprono superfici importanti anche l’abete rosso (Picea abies) e l’abete di Douglas (Pseudotsuga

menziesii). Anche il castagno, sebbene sia un componente spontaneo del bosco misto mesofilo

appenninico, è stato da sempre favorito dall’uomo per ricavarne castagne e legname, tanto che molti boschi misti sono stati trasformati in castagneti da frutto. Con la diffusione delle malattie crittogamiche del castagno e lo spopolamento delle aree montane e submontane, molte di queste “silve castanili” sono state abbandonate e convertite in cedui o fustaie, trasformandosi in boschi seminaturali. All’interno delle Riserve gli unici esempi di castagneti da frutto si trovano sotto Camaldoli, essi riflettono un aspetto tradizionale di importanza storica e paesaggistica, e per tali motivi sono da tutelare.

Nella zona della Lama sono diffuse lungo i corsi d’acqua, sui fondo valle a quote non elevate, formazioni arboree ripariali ed alveali. La specie arborea principale è l’ontano nero (Alnus

glutinosa), a cui saltuariamente si uniscono: salice bianco (Salix alba), pioppo nero ed

evanescente (Populus nigra, P. canescens), ontano bianco (Alnus incana) e varie specie dei boschi limitrofi. Lo strato arbustivo è composto da nocciolo, sambuco (Sambucus nigra), sanguinello (Cornus sanguinea), rovo, vitalba (Clematis vitalba); nei siti più aperti sono frequenti anche i salici a portamento arbustivo, come il salice rosso (Salix purpurea) ed il salice ripaiolo (S. elaeagnos). Lo strato erbaceo è ricco di specie mesofile dei boschi vicini (Geranium nodosum, Melica uniflora, ecc.) e di specie caratteristiche, quali Carex pendula,

Angelica sylvestris, Solanum dulcamara, Equisetum sp. pl., Aegopodium podagraria, Ranunculus sp. pl..

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20 Fig.2.5.2 Abetina monumentale intorno all’Eremo di Camaldoli (foto M. Lucchesi)

Nelle parti più elevate e sui crinali, su Monte Falco, Poggio Scali, Monte Penna e Prato al Soglio, sono localizzati i prati e pascoli montani. Queste praterie vengono spesso indicate con il nome di “nardeti”, dal nome del principale componente Nardus stricta, sono presenti inoltre

Festuca sp. pl., Stellaria graminea, Thymus pulegioides, Campanula rotundifolia, Potentilla erecta, Luzula multiflora, Lotus corniculatus. Queste cenosi sono spesso in stretta relazione

con le brughiere a Vaccinium myrtillus o con formazioni a Pteridium aquilinum e Cytisus

scoparius. Di particolare interesse sono le cenosi di rocce e cenge erbose, importanti esempi

sono conservati all’interno della Riserva di Sasso Fratino, nelle aree dirupate in prossimità del crinale: Saxifraga panicolata, Sesleria pichiana, Festuca altissima, Brachipodium genuense,

Filipendula ulmaria subsp. denudata, Linum catharticum, L. viscosum, Hieracium pilosella e Poa nemoralis, vicino alla “frana nuova” (Viciani et al., 2008; Gonnelli et al., 2009; in:

Bottacci et al., 2009).

Le abetine, invece, sono state impiantate in una fascia altitudinale assai variabile, che raramente supera i 1.400 metri di quota, mentre si spinge fino a 550 metri nei pressi della fonte Solforosa della Lama; la loro presenza si fa importante soprattutto sul versante toscano,

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raggiungendo il maggiore sviluppo nei dintorni dell’Eremo di Camaldoli. Per ovviare alle difficoltà nella rinnovazione delle abetine, già note ai tempi in cui i monaci gestivano il territorio, si cominciò, nel XVI secolo, a lasciare degli alberi di faggio detti “padri” che dovevano favorire la rinnovazione grazie al letto di cascami che producevano, in prossimità delle radure aperte dai tagli. Poiché le nuove piante di abete hanno una spiccata eliofilia nelle prime fasi di crescita e che il tappeto di aghi di abete ne rende estremamente difficoltosa la ricrescita spontanea, oggi il rinnovamento delle abetine è a carico dell’uomo e viene portato avanti col taglio degli esemplari adulti e la messa a dimora di nuove piante.

Da notare l’esistenza, sul crinale tra il M. Falco e il M. Gabrendo, sullo spartiacque tosco-romagnolo, della stazione italiana più meridionale di pino mugo (Pinus mugo), stazione comunque di origine antropica.

2.6 Fauna.

Le Foreste casentinesi sono un contesto ambientale ottimale per la presenza di numerose specie di fauna, sia per quanto riguarda la componente in Invertebrati che quella in Vertebrati, grazie all'elevata estensione dei boschi, alle tipologie vegetazionali differenti ed alla contenuta e localizzata presenza antropica.

Per quanto riguarda la fauna vertebrata “minore”, tra gli Anfibi Urodeli è da segnalare la presenza della salamandrina dagli occhiali (Salamandrina perspicillata), endemica dell’Appennino, della salamandra pezzata (Salamandra salamandra), del geotritone italiano (Speleomantes italicus) e di tre specie di tritoni: il tritone alpestre appenninico (Mesotriton

alpestris apuanus), il tritone punteggiato (Lissotriton vulgaris) e il tritone crestato (Triturus carnifex). Mentre, tra gli Anfibi Anuri, troviamo un’importante popolazione di rana montana

(Rana temporaria) e la più comune rana appenninica (Rana italica). Tra i Rettili Ofidi troviamo il biacco (Hierophis viridiflavus), il colubro liscio (Coronella austriaca) ed il colubro di Riccioli (Coronella girondica), segnalato di recente, inoltre alcune specie più comuni: la natrice dal collare (Natrix natrix), la biscia tassellata (Natrix tassellata) ed il colubro di Esculapio (Zamenis longissima). Tra i rettili Sauri, il ramarro (Lacerta bilineata), la lucertola muraiola (Podarcis muralis) e l’orbettino (Anguis veronensis) e la luscengola (Chalcides chalcides), queste ultime, specie diffuse ma di non semplice osservazione.

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La ricchezza faunistica di questo territorio è testimoniata anche dall’elevata diversità avifaunistica: tra i Passeriformi e i Piciformi, caratteristiche sono le specie legate alle piante di alto fusto, si tratta di insettivori che cercano le loro prede superficialmente alle cortecce o negli strati interni, come il picchio muratore (Sitta europea), il rampichino (Certhia

familiaris) ed il raro rampichino alpestre (C. brachydactyla); ancora più specializzati sono il

picchio verde (Picus viridis), il picchio rosso maggiore (Picoides major), il picchio rosso minore (Picoides minor) e il grande picchio nero (Dryocopus martius). Su quest’ultimo l’U.T.B ed il Parco hanno recentemente effettuato ulteriori ricerche, che hanno registrato un’espansione numerica e distributiva della popolazione, prima concentrata all’interno della Riserva Integrale di Sasso Fratino, con dispersione di individui giovani, in tutto il territorio delle Riserve Biogenetiche e subito al di fuori di esse (Cursano et al., 2009; in: Bottacci et al., 2009).

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Ben rappresentata anche la famiglia dei Paridi con la cinciarella (Cyanistes caeruleus), la cinciallegra (Parus major), la cincia bigia (Parus palustris) e la cincia mora (Periparus ater), quest’ultima tipica dei boschi di conifere. Nella medesima nicchia trofica delle cince troviamo anche due Silvidi, il regolo (Regulus regulus) e il fiorracino (Regulus ignicapillus), il primo legato alle conifere e presente come svernante, il secondo più stanziale e generalista per quanto riguarda l’habitat forestale frequentato. Ancora caratteristici delle chiome arboree sono il fringuello (Fringilla coelebs), il crociere (Loxia curvirostra), il ciuffolotto (Pyrrhula

pyrrhula) e il frosone (Coccothraustes coccothraustes); tali Passeriformi mostrano una

corporatura massiccia e becchi robusti da “granivori”. Uccelli di maggiori dimensioni, che sono soliti nutrirsi al suolo cacciando attivamente insetti e altri invertebrati, sono il merlo (Turdus merula), il tordo bottaccio (Turdus philomelos) e la tordela (Turdus viscivorus); molto diffuso nelle fasce boscate a quote medio/basse è il pettirosso (Erithacus rubecula), sempre appartenente alla famiglia dei Turdidi. Specie che sono ecologicamente legate alla presenza di torrenti e corsi d’acqua sono la ballerina gialla (Motacilla cinerea), la ballerina bianca (Motacilla alba) e soprattutto il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus), in grado di nuotare e di muoversi sul fondo dei torrenti, dove si nutre di macroinvertebrati fluviali. Agli ambienti montani più aperti sono, invece, legati la passera scopaiola (Prunella modularis) e il prispolone (Anthus trivialis); molto diffusa è anche la ghiandaia (Garrulus glandarius), tipico Corvide boschivo. Migratrice e legata alle aree forestali ed alle piccole zone umide in esse presenti, la beccaccia (Scolopax rusticola).

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Tra i Rapaci diurni strettamente forestali vi sono: l’astore (Accipiter gentilis), con una preziosa popolazione di cui andrebbe costantemente verificato lo stato, e lo sparviero (Accipiter nisus), molto più comune, ma non mancano comunque anche Rapaci meno specializzati come il gheppio (Falco tinnunculus) e la poiana (Buteo buteo). Interessante la presenza, come nidificante, del falco pecchiaiolo (Pernis apivorus); in migrazione si riscontrano altre specie: il biancone (Circateus gallicus), il lodolaio (Falco subbuteo), l’albanella reale (Cyrcus cyaneus) e l’albanella minore (Cyrcus pygargus), lo smeriglio (Falco columbarius) e il falco pellegrino (Falco peregrinus). La nidificazione dell’aquila reale (Aquila chrysaetos) è stata da anni accertata, sia sulle impervie pareti che circondano la Lama, sia sugli alberi di questa stessa zona. Tra gli Strigiformi sono comuni la civetta (Athene

noctua), il barbagianni (Tyto alba), soprattutto legati alle basse quote ed alle aree

antropizzate; raro ma nidificante il gufo reale (Bubo bubo), ma forse è l’allocco (Strix aluco), o meglio, il suo canto, una delle presenze più evidenti tra questi Rapaci.

Tra i Mammiferi possiamo registrare, nella categoria ecologica dei micromammiferi, alcune specie di Roditori arboricoli: scoiattolo (Sciurus vulgaris), ghiro (Glis glis), quercino (Eliomys

quercinus) e moscardino (Moscardinus avellanarius); tra la vegetazione erbacea e nelle buche

del terreno incontriamo i Roditori terricoli: topi selvatici con le specie Apodemus sylvaticus e

A. flavicollis e Microtini (arvicole). Gli “insettivori” sono ben rappresentati dalla presenza di

talpa europea (Talpa europea) e talpa cieca (Talpa caeca), toporagno appenninico (Sorex

samniticus) e, presso i torrenti, dei toporagni d’acqua del genere Neomys (N. anomalus e fodiens). Tra i mesomammiferi si riscontra la presenza della volpe (Vulpes vulpes), molto

diffusa; varie specie di Mustelidi come la faina (Martes faina), la puzzola (Mustela putorius), la donnola (Mustela nivalis) e il tasso (Meles meles). Recentemente confermate da rilievi genetici le segnalazioni della martora (Martes martes). Ancora sporadica, ma in aumento distributivo e numerico, la presenza di un Roditore di grosse dimensioni: l’istrice (Histryx

cristata). In particolare nelle zone di crinale, è frequente in ogni stagione la lepre (Lepus europaeus), animale oggetto del presente studio.

Tra i Carnivori particolare attenzione è riservata ad un felide di non facile osservazione, il gatto selvatico europeo (Felis silvestris silvestris). Specie inizialmente trascurata per mancanza di adeguate indagini, dopo il ritrovamento nel 2002 di un esemplare nell’alto Montefeltro, il gatto selvatico europeo è stata indagato profondamente, anche in seguito a segnalazioni da parte del personale CFS (Crudele et al. 2002; Simoncini et al. 2006) che lo collocavano nelle Foreste casentinesi, ovvero a circa 60 km a Nord del suo storico areale peninsulare. Dal 2007, nell’Appennino forlivese, sono iniziate indagini mirate alla conferma

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di tale presenza, con tecniche di foto-video trappolaggio (Tedaldi, 2009; in: Bottacci et al., 2009), a cui sono seguite due ricerche, la prima finalizzata a confermare il fenomeno di espansione della popolazione italiana verso l’Appennino settentrionale (Ragni et al., 2013), la seconda tesa alla caratterizzazione genetica della neo popolazione del Felide e ad individuare un possibile impatto su di essa da parte del gatto domestico (F. s. catus) per ibridazione (Santoni et al., 2016).

Fig. 2.6.3 Gatto selvatico, F .s. silvestris, da foto trappolaggio (foto Lucchesi & Tedaldi)

Da sottolineare, infine, la presenza di numerose specie di Chirotteri (17, più della metà delle specie presenti in Toscana e Romagna), tra cui citiamo la specie di dimensioni maggiori: il rinolofo maggiore (Rhinolophus ferrum-equinum).

2.6.1 Ungulati selvatici e lupo: aspetti storici.

All’interno delle Foreste Casentinesi troviamo cinque specie di Ungulati, tre Cervidi: il cervo (Cervus elaphus), il daino (Dama dama), il capriolo (Capreolus capreolus), un Bovide, il muflone (Ovis orientalis musimon) ed un Suide, il cinghiale (Sus scrofa).

Le popolazioni delle cinque specie sopracitate sono sottoposte all’azione di un unico predatore: il lupo appenninico (Canis lupus italicus), che in passato condivideva il territorio di caccia con l’orso (Ursus arctos), estintosi nei primi decenni dell’800 per persecuzione venatoria.

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Per quanto riguarda il lupo, le prime testimonianze circa la sua presenza risalgono agli inizi dell’ 800 (Tramontani, 1800; Gabrielli e Settesoldi, 1977) e continuano nel corso degli anni, nonostante l’attività di sterminio ad esso riservata.

Negli anni ’60, a causa della riduzione e della frammentazione dell’habitat, che lo costringeva a continui spostamenti rendendolo facile preda dei bracconieri, il lupo venne considerato estinto. In realtà la specie non scomparve mai del tutto: il netto calo degli avvistamenti che aveva fatto supporre la sua estinzione era dovuto alla drastica riduzione della popolazione ad un centinaio di individui suddivisi in poche aree dell’Appennino. Dalla prima metà degli anni ’80, grazie ad un approccio diverso riguardo la gestione dei così detti “nocivi” (Legge Quadro sulla caccia 968/77), il lupo inizia un processo di espansione numerica e di areale (Cicognani

et al., 2009; in: Bottacci et al., 2009).

Fig.2.6.1.1 Coppia di lupi appenninici, Canis lupus (foto G. Capaccioli)

Ritornando alla popolazione di ungulati presente, questa è tra le più importanti dell’Appennino. Fatta eccezione per il capriolo, la cui presenza è accertata a partire dal XIX secolo (Tramontani, 1800; Gabrielli e Settesoldi, 1977), le altre specie sono frutto di immissioni. Le opere di ricostituzione del patrimonio faunistico sono da riferire a Karl Siemon, che, come ricordato in precedenza, immise, attorno al 1840, cervo, daino e muflone,

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utilizzando, per il cervo alcuni capi provenienti dalla Germania e per il muflone alcuni esemplari della Sardegna; la provenienza del daino risulta invece sconosciuta.

Nei periodi successivi alle due Guerre Mondiali furono necessari ulteriori ripopolamenti, a causa dello sfruttamento intensivo di tutto il territorio e delle risorse faunistiche in particolare. L’andamento delle popolazioni negli anni ’80 e ’90 fu seguito grazie a censimenti, finanziati dalla Regione Toscana, effettuati tramite la Comunità Montana del Casentino, che mostrarono un iniziale aumento esponenziale degli erbivori dovuto alla scarsa presenza di predatori, fino a giungere nella seconda metà degli anni ’90 ad una situazione più stabile. Purtroppo, dalla seconda parte degli anni ’90 in poi, curiosamente con l’istituzione del Parco Nazionale, il monitoraggio demografico delle popolazioni di ungulati ha cominciato a seguire un andamento incostante, forse per la scarsità di risorse finanziare impiegate per tale, fondamentale, opera.

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Dal 2007 l’Ente Parco è tornato a pianificare un’attività di stima demografica per la popolazione di cervo (Gennai et al., 2009), con la metodologia del conteggio dei maschi bramenti durante il periodo riproduttivo (settembre-ottobre); contemporaneamente l’Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Pratovecchio ha sperimentato, nel territorio delle Riserve Biogenetiche, una nuova metodologia di censimento al bramito volta ad ottenere un’accurata stima della densità della popolazione con l’impiego di un numero limitato di operatori specializzati e formati, secondo un concetto di massimizzazione economica nel bilancio costi-benefici (Lucchesi et al., 2011).

Per quel che riguarda il muflone, nel corso degli anni è stato più volte dichiarato estinto, forse a causa delle difficoltà di monitoraggio per la bassa densità della popolazione, residente nei luoghi più impervi delle Riserve Biogenetiche, oppure per una reale mancanza di interesse nei riguardi di un’entità estranea al territorio. Nel 2003 l’U.T.B. di Pratovecchio ha avviato una ricerca per accertarne la presenza in modo definitivo e tale indagine ha portato alla conferma della presenza di una popolazione di limitate dimensioni, dai 10 ai 20 individui concentrati nella fascia M. Penna – Poggio Scali (Lucchesi et al., 2005; 2007; 2009a; 2009b).

Nel corso del biennio 2014-2015 in concomitanza con la ricerca riguardante il gatto selvatico europeo, effettuata anche con la tecnica del foto-video trappolaggio, sono stati ottenuti nuovi e preziosi reperti oggettivi che attestano, almeno per il territorio di Sasso Fratino, la presenza di un esiguo nucleo riproduttivo del Bovide (Lucchesi, 2016, com. pers.)

Infine, il trend demografico della popolazione di cinghiale nelle Foreste, che presenta naturalmente un andamento sinusoidale, con aumenti e successivi “crolli” della consistenza, non risulta di facile interpretazione in quanto fin troppo legato ad una approssimativa gestione venatoria operata nelle aree esterne al Parco Nazionale.

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