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APPENDICE Conversazione con Lamberto Pignotti

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Academic year: 2021

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APPENDICE

Conversazione con Lamberto Pignotti

Trascrizione dell’intervista telefonica all’autore de L’uomo di qualità

Premessa: Sebbene l’autore si sia mostrato molto disponibile nel rispondere alle mie

domande, questa raccolta appartiene ad una fase per lui remota, marginale, anche parzialmente archiviata con l’avvento della poesia visiva. Ecco perché molte risposte appariranno vaghe, sfuggenti, liquidatorie.

D: Con L’uomo di qualità Lei partecipa al quarto numero del “Menabò” insieme a Vittorio Sereni, borghese che entra a contatto con l’industria lavorando come Direttore dell’ufficio propaganda alla Pirelli, e Giudici, socialista e cattolico, alto impiegato presso la Olivetti. Se per gli altri due poeti l’esperienza di lavoro nella fabbrica spiega la collaborazione con quel numero monografico, come è avvenuto invece il suo accostamento al tema “letteratura e industria”?

R: “L’uomo di qualità” riguardava soprattutto la poesia tecnologica, che deriva non dalle

tecnologie in se stesse, ma dai linguaggi di massa, dell’industria, della logica…Ero in contatto con Sereni e Vittorini, e nel frattempo avevo scritto un articolo, “La rosa e il frigorifero”, dove

spiegavo che non era necessario usare solamente parole derivate dal mondo tecnologico, ma che ogni termine assumeva in quell’epoca un che di artificiale.

L’incontro con Vittorini avvenne tramite Romano Bilenchi, che per me aveva un amore non corrisposto, perchè io non lo apprezzavo particolarmente come scrittore. Bilenchi mi “costrinse” benevolmente a scrivere sulla “La Nazione”. Io già collaboravo con un programma radiofonico, “L’approdo letterario”, e Bilenchi si sarebbe accontentato di avere i pezzi che scrivevo per la radio; il compenso che mi offrivano era altissimo. Insomma, fu Bilenchi a mandare “L’uomo di qualità” a Vittorini, il quale propose dei cambiamenti al testo che io ovviamente non accettai. Non modifiche sostanziali, qualche variante sui titoli, non ricordo, ma che rispecchiavano la tendenza di Vittorini di macellare e rifare tutto.

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R: Io sono del ’26, del primo quadrimestre, avevo diciotto anni quando sono stato chiamato alle

armi. Non ho fatto la Resistenza, ma la renitenza alla leva in un ex convento di Firenze, chiamato “Conventino”, dove si erano rifugiati artisti- compreso mio padre che era pittore- artigiani.. e c’erano anche i Fallaci, il padre e lo zio di Oriana . Qui veniva stampata “L’Unità”, insomma renitenti- resistenti. Gli alleati erano ancora a Firenze e noi, stufi di aspettare, venimmo via dal Conventino poco prima di un’irruzione delle squadracce fasciste. I fratelli Fallaci fuggirono, ma i fascisti spararono uccidendo qualcuno, mi pare fosse il 17 luglio 1944. In piazza Torquato Tasso c’è ancora una lapide in ricordo di quei morti.

D: E negli Sessanta era militante o simpatizzante per qualche partito?

R: Non ero militante, ma simpatizzavo per il Pci. Certo, Togliatti mi stava sulle scatole, ma il punto

era non votare la Democrazia Cristiana.

D: Lei ha partecipato al Gruppo 63, anche se nei manuali di letteratura viene considerato quasi un outsider, o meglio, appartenente ad una corrente minoritaria all’interno del movimento (Tipica è l’espressione “Un cenno a parte merita Lamberto Pignotti…”), soprattutto per il carattere tecnologico della sua poesia. Vi erano anche altri motivi che la distinguevano all’interno del movimento?

R: Io ho sempre considerato il Gruppo 63 un movimento endoletterario, interessato ad un certo

ambito. Preferivo il Gruppo 70, nato qualche mese prima, interdisciplinare, molto vario,

sinestetico. Nonostante questo sono sempre stato invitato a tutti gli incontri, fino all’ultimo di Fano nel ’67, anche se del gruppo mi interessavano solamente Balestrini e Pagliarani.

Una confidenza: nei congressi a cui ero invitato come ospite a presentare le mie poesie usavo questo stratagemma: leggevo sempre le penultime, mai le ultime, per non svelare i segreti del mio lavoro.

D: Lei condivide un’affermazione come quella con cui Fausto Curi aprì nel 1963 il numero de

Il Verri dedicato all’impegno, La società neocapitalistica ha accettato l’arte di avanguardia e l’arte di avanguardia ha accettato la società neocapitalistica? In altre parole, la poesia

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R: Assolutamente no, la poesia tecnologica non accetta la civiltà tecnologica: la poesia tecnologica

è la merce respinta al mittente, come spiego nel mio libro, scritto con Stefania Stefanelli, “La scrittura verbo-visiva”.

D: Nel famoso intervento Letteratura e industria Vittorini scrive : I testi poetici presentano sì

un atteggiamento che, per il fatto stesso d’esser lirico, è globale, inclusivo di tutto dell’uomo nei riguardi del “nuovo mondo” […] ma lo sforzo loro si manifesta ancora all’interno di

un’esperienza letteraria già da tempo accertata come non altro che un ennesimo dei tanti sforzi interlocutorii di questa.

Applicherebbe questa definizione a L’uomo di qualità? Pensa di aver trattato del “nuovo mondo” entro dei limiti letterariamente preindustriali (l’espressione è ancora vittoriniana)?

R: In realtà io sono sempre stato accusato di pregiudizio antilirico. Secondo le demarcazioni in

voga, la poesia italiana è lirica, petrarchesca; io invece sono più dantesco. Non avevo e non ho un pregiudizio antilirico, ma per me la poesia è anche narrativa, saggistica etc. etc.

D: Scusi l’apparenza matematica della domanda: nella loro totalità le trentuno poesie de

L’uomo di qualità non contengono una sola volta termini come industria, fabbrica, operai/o, lavoratore/i, rivoluzione etc. etc. Ovvero, in una raccolta ospitata su un numero monografico

dedicato ai rapporti tra letteratura e fabbrica, manca un linguaggio prettamente “industriale”. Come spiega questa assenza?

R: Il tema dell’industria in sé non mi è mai interessato, né ho mai amato il neorealismo, con il suo

operaio, la fabbrica, la bicicletta. Era un piccolo mondo chiuso. La poesia e l’arte funzionano non per quello che dicono, ma per come lo fanno. Non a caso i maggiori poeti, come Pound e Cèline, sono di destra. È chi rinnova il linguaggio che rinnova la società.

D: A che cosa allude il titolo L’uomo di qualità? Che rapporto esiste – se esiste- con il titolo del romanzo di Robert Musil, L’uomo senza qualità?

R: Si tratta di un semplice rovesciamento del titolo del romanzo di Musil, senza implicazioni

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D: I trentuno componimenti pubblicati sul “Menabò” nel 1961 confluiscono poi in Nozione di

uomo, spartiti tra le varie sezioni in cui il libro è suddiviso, L’uomo di massa, L’uomo di fatica, L’uomo di lettere, L’uomo sensibile, L’uomo in lotta, L’uomo in costruzione, L’uomo di qualità.

La disposizione dei titoli presuppone forse un percorso di formazione socio-culturale

dell’uomo fino alla consapevolezza e al raggiungimento di una coscienza critica, ovvero dalla “massa” alla “qualità”, dal presente-passato al presente-futuro?

R: Certo, il presente comprende sia il passato che il futuro: sta all’uomo di qualità scegliere un

potenziale futuro anche se, spesso, il contesto non lo permette. Questo contesto, ad esempio, non aiuta. Certo, gli anni Sessanta non erano così favolosi, non era l’età dell’oro, si pensi al super consumismo..ma adesso è molto peggio.

D: Ne L’uomo di qualità ricorre per due volte il nome del mese di aprile e per ben cinque il termine primavera. Ha un significato particolare? Anche T.S.Eliot apriva The waste land con il verso Aprile è il mese più crudele, ad indicare come il risveglio della natura mette in risalto, per opposizione, la sterilità, il grigiore e la mancanza di scopo dell’uomo moderno.

R: Concordo con quello che dice, ma non mi sono ispirato a Eliot. Aprile come mese mi piace

molto, io sono nato in aprile, amo la primavera e il verde di aprile.

D: Negli anni Sessanta lei disse di considerare la poesia “elemento costitutivo di una futura cultura democratica”. Una frase bellissima, ma che purtroppo non mi pare abbia trovato una risoluzione concreta.

Ora che ha vissuto i vari sfaceli offerti nei decenni dalla storia italiana, è ancora convinto che la poesia, o la cultura in generale, possa contribuire a rendere una società migliore, quando è evidente che essa rimane interesse di pochi?

R: Alcune mie poesie visive degli ultimi tempi sono legate a certe strategie anche politiche. Ma

Craxi e Berlusconi ci sono e non ci sono, passano..prima bastava nominare il Vietnam per essere “letti”, adesso nominare Berlusconi va bene in una cronaca giornalistica e basta. Più l’accenno all’oggetto polemico è preciso, minore è la forza. Non esistono temi eterni, ma temi per ogni epoca: ad esempio molti anni fa ho scritto una poesia sui bovini, come Carducci che aveva scritto “Il bove”. Anche i temi vittoriniani andavano bene allora, ma ormai sono superati.

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