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Ogni provvedimento legislativo trova la propria ragion d’essere nel contesto storico, sociale, economico, ma ancora di più politico in cui vede la luce.

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INTRODUZIONE

Ogni provvedimento legislativo trova la propria ragion d’essere nel contesto storico, sociale, economico, ma ancora di più politico in cui vede la luce.

La considerazione di essi risulta ancora più importante nell’affrontare il tema centrale del presente lavoro, ossia l’analisi delle modifiche del procedimento in materia di impugnazione dei licenziamenti illegittimi, apportate con la legge del 28 giugno 2012 n. 92.

La riforma, infatti, nasce in un periodo travagliato per l’economia del nostro paese. Nell’estate del 2011, tra la crisi economica globale causata dall’esplosione della bolla speculativa sul mercato immobiliare e lo scandalo dei mutui subprime, l’Italia si trova in una situazione di default sostanziale correndo il grave rischio di non poter più rispettare gli interessi che avrebbe dovuto concedere agli acquirenti dei propri titoli di Stato. Tra questo, la bassa crescita che riduce le entrate fiscali e obbliga lo Stato ad indebitarsi maggiormente

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, e la consueta tendenza all’instabilità politica, il nostro paese resta esposto alla c.d. crisi dei debiti sovrani, mettendo quasi a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’area Euro. In questa situazione è arrivato da più parti il monito

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a ricorrere ad urgenti riforme strutturali; da un lato volte a risanare i conti pubblici riassumibili nella riduzione del rapporto negativo deficit-pil, dall’altro volte a invertire il trend recessivo e a favorire la ripresa economica.

Ed è proprio in questo contesto sociale che si inserisce la l. n. 92/2012, introdotta in un contesto di pulsioni decodificatrici, a meno di un anno dal d.lgs. n. 150/2011, intitolato alla “riduzione e semplificazione dei

1 L’ammontare del debito pubblico italiano nel secondo trimestre 2013 si è attestato a 2.076 miliardi di euro, pari al 133,3 % del prodotto interno lordo. I dati sono elaborati da Eurostat e visibili in http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-23102013-AP/EN/223102013- AP-EN.PDF. Nel 2011 tale rapporto era del 120,7 %, poi salito al 127 % nel 2012.

2 Ci si riferisce alla lettera inviata del presidente BCE Jean Claude Trichet il 5 agosto 2011 al presidente del consiglio, nella quale si raccomandavano provvedimenti volti al risanamento della situazione economica nonché all’adozione di misure per riavviare la crescita economica.

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procedimenti civili di cognizione”. In media, negli ultimi dieci anni, contiamo più di una novella a ministro della Giustizia, ed incessanti e susseguenti sono proprio gli interventi sul rito, dettati, a mio parere, dall’esigenza di far vedere che si sta facendo qualcosa contro la cronica lentezza del processo civile, piuttosto che da un’idea, anche vaga, di quello che si sta facendo realmente. Che lo scopo dell’intervento normativo non fosse propriamente tecnico giuridico si palesò subito agli occhi dei giuristi:

la riforma si muove infatti in un’evidente prospettiva di law and economics, dove la parola chiave è quella di flexicurity con la quale si intende un modello di mercato del lavoro caratterizzato da un’elevata mobilità della forza lavoro, che possa fornire ai lavoratori gli strumenti adeguati per far fronte utilmente alla perdita del posto di lavoro, sia attraverso opportuni sostegni al reddito, sia attraverso la previsione di corsi di formazione e professionalizzazione che aumentino le chances di ritrovare un posto a seguito di un licenziamento.

La security in questione quindi non è intesa tanto come sicurezza della stabilità del posto di lavoro, quanto come sicurezza nel mercato, dove poterne reperire con facilità uno nuovo.

Come abbiamo visto quindi l’obiettivo del legislatore , imposto dalle ragioni del mercato, era quello di rendere più rapidi i processi in un settore in cui il tempo va a discapito di entrambe le parti della lite, creando una corsia preferenziale che non penalizzasse la qualità della cognizione e non creasse differenze tra i diversi gradi del giudizio.

L’ostacolo più grande al raggiungimento di quell’obiettivo però è stata la

previsione della necessità che questo si realizzasse a costo zero, infatti, il

comma 69 dell’art. 1 della L. n. 92/2012 ribadisce che “dall’attuazione delle

disposizioni di cui ai commi da 47 a 68 non devono derivare nuovi o

maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ovvero minori entrate”, il

che rendeva inevitabile che si ripiegasse sulla ricerca delle norme

processuali che potessero consentire una risposta più celere (o meno lenta)

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alla domanda di tutela, pur nella consapevolezza che non esiste un rito ideale, ma solo un sistema che deve poter funzionare nel suo complesso, e che qualunque tentativo di imprimere velocità ad un settore rischia di tradursi, se le risorse non sono adeguate, in un rallentamento complessivo dei giudizi.

Il legislatore sembra immemore del fatto che la riforma del processo del lavoro portata dalla l. n. 533/1973 fu un successo proprio perché ad essa si accompagnarono forti investimenti, e sembra anche incurante del fatto che l’intervento a costo zero ha grande possibilità non solo di restare inefficace, ma di creare non pochi danni al complessivo sistema della giustizia del lavoro. Non dovrebbe infatti essere ignoto ai tecnici che hanno partorito la riforma in questione, che riforme a costo zero non esistono, c’è sempre qualcuno che paga, ed in questo caso a pagare non saranno le Casse dello Stato, ma tutte le altre cause che subiranno un inevitabile ritardo imposto dalla indiscriminata distrazione di risorse da un modello organizzativo flessibile a uno vincolato, destinato, come vedremo meglio nel prosieguo della trattazione, a introdurre cause di serie A e cause di serie B, senza che tra molte di quelle di serie B e quelle di serie A ci sia una sostanziale differenza di urgenza e di gravità.

O forse, -potremmo anche dire- è proprio questo uno degli scopi reconditi della riforma: quello di spostare le già scarse risorse della giustizia del lavoro dal fine di effettività di tutela del soggetto più debole verso l’interesse dei più forti.

Entriamo pertanto nello specifico della materia, precisando che l’elaborato in questione riguarderà essenzialmente la problematica temporale irrisolta, per i motivi che andremo ad analizzare, dalla legge Fornero per quanto riguarda l’impugnazione dei licenziamenti previsti dal novellato art. 18 St.

Lav.

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DEL PROCEDIMENTO DI IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI

L’analisi delle novità della riforma Fornero, per quanto riguarda il rito di impugnazione dei licenziamenti, e quindi con specifico riferimento ai commi dal 46 al 68 dell’art 1, può ritenersi condotta in maniera esaustiva solo avendo esaminato -seppur brevemente- la disciplina previgente in materia di impugnazione di licenziamenti illegittimi. Ci proponiamo così in questo capitolo di accennare, in maniera il più possibile esaustiva, all’evoluzione normativa in tema di impugnazione dei licenziamenti, prendendo come riferimento normativo le due leggi più importanti in materia, fino al rito introdotto con la riforma Fornero, ci si riferisce alla l.

n. 604/1966 e alle notevoli modifiche apportate con la l. n. 183/2010.

Originariamente, per il contratto di lavoro a tempo indeterminato era previsto il c.d. regime di libera recedibilità, detto anche recesso ad nutum, così come previsto dall’art 2118 c.c

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.

Per effetto delle normative successive, che hanno dapprima introdotto la tutela obbligatoria con la l. n. 604/1966 e più tardi la tutela reale con l’art.

18 dello St. Lav., l’area di libera recedibilità si è fortemente ridotta.

Infatti, ai sensi dell’art. 1 della l. 604/1966, il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato non poteva essere intimato che per giusta

3 Ci si riferisce al Codice Civile del 1942, dove la materia del lavoro era circoscritta in una visione economico-filosofica esclusivamente di tipo liberale, e all’art. 2118 si prevedeva appunto la libertà del recesso sia del datore di lavoro che del lavoratore dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, -salvo l’obbligo di preavviso- ponendo sullo stesso piano lavoratore e datore di lavoro. Tale uguaglianza formale non teneva conto però della posizione di svantaggio del primo nei confronti del secondo. Sarà soltanto con l’avvento della Costituzione Repubblicana che, sulla base degli artt. 4 e 41, comma 2, si aprì un ampio e vivace dibattito perché venisse affermato il divieto dei licenziamenti immotivati.

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causa

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o giustificato motivo, quest’ultimo distinto, nelle ipotesi delineate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in giustificato motivo oggettivo e soggettivo.

Ma l’argomento centrale del presente lavoro ci vede costretti a tralasciare tutta la disciplina sostanziale, per focalizzare la nostra attenzione sugli aspetti procedurali di impugnazione del licenziamento illegittimo.

Andiamo quindi ad analizzare l’art. 6, l. n. 604/1966

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che è stato, negli anni, soggetto a numerose modifiche, prime tra tutte dalla l. n. 183/2012, detta più comunemente Collegato Lavoro.

1. Natura giuridica e forma dell’impugnazione dopo il c.d. Collegato Lavoro.

L’impugnazione del licenziamento consiste in un atto unilaterale recettizio che, pertanto, produce i suoi effetti solo quando viene portato a conoscenza del datore di lavoro.

La giurisprudenza ha affermato che il diritto del lavoratore di contestare o di accettare il licenziamento è un diritto disponibile e rinunciabile, al contrario del diritto a che il recesso venga attuato dal datore di lavoro solo nelle ipotesi previste dalla legge o dai contratti o dagli accordi collettivi e con le modalità ivi stabilite.

Occorre però che la rinuncia sia esplicita e faccia univoco riferimento alla cessazione del vincolo lavorativo. Il lavoratore potrà rinunciare all’impugnazione del licenziamento o revocarla anche mediante comportamenti concludenti.

Sul punto sono diverse le fattispecie segnalate dalla Giurisprudenza, basti ricordare la quietanza a saldo o liberatoria che il lavoratore sottoscriva a seguito della risoluzione del rapporto nel riscuotere le indennità di fine

4 Art. 2119 c.c.

5 In Gazz. Uff., 6 agosto, n. 195, Norme sui licenziamenti individuali.

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rapporto. In questo caso la Suprema Corte

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ha ritenuto che si tratti di una mera dichiarazione di scienza priva di effetti negoziali, a meno che non concorrano circostanze idonee a dimostrare la sicura volontà del lavoratore di accettare incondizionatamente la risoluzione del rapporto di lavoro.

Oppure ancora con riferimento alla mera accettazione del trattamento di fine rapporto ancorché non accompagnata da alcuna riserva, la Suprema Corte

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ha ritenuto che non possa essere interpretata, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibilità logica e giuridica tra l’accettazione di detto trattamento e la volontà di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento al fine di conseguire l’ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del danno.

Per quanto riguarda la forma, l’impugnazione richiede la forma scritta ad substantiam e può consistere in qualsiasi atto scritto giudiziale o stragiudiziale con cui il prestatore di lavoro manifesti la sua volontà di contestare la legittimità del licenziamento.

In base al tenore letterale della disposizione in commento

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, la Corte di Cassazione, in un primo momento aveva optato per la natura recettizia dell’atto di impugnazione del licenziamento, con la conseguente applicazione dell’art. 1334 c.c.

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quanto all’efficacia dello stesso, che doveva quindi pervenire al destinatario entro il termine di decadenza in esso previsto

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.

Tuttavia, un orientamento giurisprudenziale più recente sostiene che l’impugnazione del licenziamento deve ritenersi tempestiva allorché la relativa lettera raccomandata sia consegnata all’ufficio postale entro il

6 Cass. Sent. n. 19344/2007.

7 Cass. Sent. n. 3345/2000.

8 Ci si riferisce all’art. 6 l. n. 604/1966, come modificato dall’art. 32 l. n. 183/2010.

9 Art. 1334 c.c.: “Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati.”

10 Cass. S.U. 18.10.1982, n. 5935; successivamente Cass. 13.12.2000, n. 15969; Cass. 13.7.2001, n. 9554; Cass. 21.6.2001, n. 8765.

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termine previsto di 60 giorni, nonostante il recapito al destinatario sopraggiunga dopo la scadenza del termine stesso.

Mi riferisco alla Sentenza del 14 aprile 2012, n. 8830, con la quale appunto la Corte prevede che l’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6 legge n. 604/1966, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo di servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato, atteso che, in base ai principi generali in tema di decadenza con riferimento alla notificazione degli atti processuali, l’effetto di impedimento alla decadenza si ricollega, di regola, al compimento da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio sottratto alla sua ingerenza.

Prima di analizzare l’impugnazione giudiziale, è importante ricordare che la giurisprudenza ha ritenuto valide le seguenti impugnazioni stragiudiziali:

- Il telegramma dettato al telefono dal lavoratore sempre che il medesimo fornisca la prova della provenienza da sé del telegramma stesso con ogni mezzo, e anche tramite elementi indiziari, precisi e concordanti, intesi a delineare presunzioni in tal senso, quali la coincidenza tra il soggetto cui nel testo sia attribuita la dichiarazione e il titolare dell’abbonamento relativo all’apparecchio telefonico da cui proviene la chiamata, il possesso della copia del telegramma da parte dell’abbonato-mittente, l’utilizzazione esclusiva dell’apparecchio dal quale proviene la richiesta di dettatura

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; - La notificazione, entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione

della comunicazione del licenziamento, al datore di lavoro di un

11 Cass. 23.12.2003, n. 19682.

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ricorso proposto al giudice amministrativo, seppur carente di giurisdizione in materia

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;

- Il ricorso introduttivo di una procedura cautelare che, pur se affetto da nullità e come tale inidoneo a instaurare un valido processo, può tuttavia valere quale impugnazione del licenziamento se risulta certa in tale senso la volontà del lavoratore a seguito del rilascio di procura al difensore che ha sottoscritto il ricorso stesso, e sempre che tale atto sia stato portato a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento

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.

2. La risistemazione dei primi due commi dell’art. 6 della l. n.

604/1966.

Come abbiamo accennato, la disciplina dell’impugnazione dei licenziamenti è stata modificata dall’art. 32 della l. 4/11/2012 n. 183, che va a introdurre una nuova disciplina in tema di impugnazione del licenziamento e di termini decadenziali. Il provvedimento inoltre porta a compimento un articolato sistema di procedure conciliative e di arbitrato finalizzate a deflazionare il carico di contenzioso dinanzi al giudice del lavoro, mediante una più rapida definizione extragiudiziale della controversia.

Vale la pena sottolineare che le previsioni che ci accingiamo ad analizzare hanno un notevole rilievo, dal momento che il difetto di impugnazione determina la decadenza del lavoratore dalla possibilità di far valere in giudizio l’illegittimità del licenziamento.

12 Cass. 2.6.1982, n. 3370.

13 Cass. 18.4.1995, n. 4337.

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Ma andiamo per ordine e vediamo cosa disciplina l’art. 6 della l. n.

604/1966. La legge in questione va a sostituirne il primo

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e il secondo

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comma, con la seguente previsione: “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto a impugnare il licenziamento stesso”.

Tale disposizione, in realtà, non introduce alcuna modifica, essendosi il legislatore limitato a riformulare le norme sostituite.

La novità si rinviene piuttosto nel prosieguo della disposizione in commento che dispone: “l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto un accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve

14 Art. 6, co. 1, Legge n. 604 del 15 luglio 1966: “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.”

15 Art. 6, co. 2, Legge n. 604 del 15 luglio 1966: “L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.”

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essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

Ecco che comincia a delinearsi, in materia giuslavoristica, una necessità di accelerazione delle controversie: la nuova disposizione infatti introduce una fattispecie a formazione progressiva tendendo a velocizzare i tempi di definizione giudiziale del licenziamento e condizionando l’efficacia dell’impugnazione al deposito del ricorso giudiziale entro 270 giorni dall’impugnazione stessa ovvero alla comunicazione -da inviare alla controparte- della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato, da effettuarsi entrambi entro il medesimo termine.

Come è evidente, l’obiettivo sotteso all’intervento legislativo è quello di garantire una maggiore certezza nei rapporti giuridici e patrimoniali tra le parti. Inoltre, l’inserimento del termine di 270 giorni

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per l’instaurazione della controversia sembrerebbe, da un lato, avere un’implicita finalità deflattiva del contenzioso e, dall’altro, comporta certamente la riduzione del rischio economico per quelle aziende rientranti nell’ambito di applicazione della cosiddetta tutela reale, venendo tale rischio legato sostanzialmente e soltanto alla durata del processo e non più all’inerzia del lavoratore che godeva del termine prescrizionale di cinque lunghi anni. Infatti, nel regime vigente fino al Collegato Lavoro, il lavoratore era onerato a impugnare il licenziamento entro il termine di sessanta giorni, ma poi era libero di proporre ricorso nel termine prescrizionale di cinque anni, potendo incidere in tal modo sulla determinazione della misura della retribuzione maturata medio tempore dal licenziamento fino all’eventuale sentenza di reintegrazione.

Così, nelle controversie in cui l’importo cresce con il decorso del tempo si assisteva, da parte dei lavoratori, ad un indecente fenomeno di

16 Termine che sarà ridotto a 180 giorni dalla l. n. 92/2012.

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differimento dell’introduzione del giudizio al fine di lucrare il più possibile senza lavorare.

Questa distorsione era stata agevolata anche da un lassismo giurisprudenziale, che poneva a carico del datore di lavoro la rigorosa prova dell’eventuale aliunde perceptum o percipiendum, salvo alcune encomiabili presunzioni di quest’ultimo dopo un certo tempo, sia, soprattutto, svalutando il significato della mera inerzia giudiziale del lavoratore quale condotta attestante il disinteresse per il rapporto.

3. Campo di applicazione ed estensione dell’onere di impugnazione.

A questo punto della trattazione è necessario spendere due parole in riferimento al campo di applicazione del Collegato Lavoro, in tema di impugnazione dei licenziamenti. Inizialmente, infatti, la l. n. 183/2010 estendeva i nuovi termini di impugnazione anche ai casi di inefficacia del licenziamento, ovvero anche al licenziamento orale, per il quale la giurisprudenza e la dottrina hanno sempre univocamente ritenuto doversi escludere l’applicazione del termine decadenziale per l’impugnativa.

Nel corso poi del lungo e travagliato iter parlamentare

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che ha accompagnato l’approvazione della legge, il legislatore ha escluso i casi di inefficacia. Ciò nonostante, il dibattito sul campo di applicazione dei nuovi termini vede comunque esistenti opinioni diverse. Vi è chi

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ritiene che il regime di impugnazione si applichi a tutti i casi di invalidità, ivi compresi quelli nulli perché discriminatori o intimati nel periodo di interdizione per matrimonio o maternità o per motivi illeciti

17 Ricordiamo infatti che l’iter del provvedimento è iniziato nel 2008, il collegato è stato approvato dopo ben sette letture dalle Camere del Parlamento. Dopo l’approvazione in data 3/3/2010, il Presidente della Repubblica ha rinviato in data 31/3/2010 il provvedimento alla Camera dei deputati, ai sensi dell’art. 74 Cost., evidenziando con proprio messaggio alcuni elementi di criticità e chiedendo alle Camere una nuova deliberazione.

18 R. DE LUCA TAMAJO, Commentario breve alle leggi sul lavoro, CEDAM, 2013.

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o in frode alla legge, ad esclusione però dei licenziamenti inefficaci perché intimati oralmente. La ragione starebbe non solo nella circostanza che il legislatore ha eliminato nel testo approvato il riferimento a questi ultimi, ma anche perché nel modificare l’art. 6, comma 1, l. n. 604/1966, la l. n. 183/2010 espressamente fa decorrere il termine di impugnazione di 60 giorni dalla comunicazione “per iscritto”

del licenziamento.

Di diverso avviso è altra parte della dottrina

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che ritiene che detto termine si applichi a tutti i casi di nullità di licenziamento di cui sopra (ivi compresi quelli motivati con il compimento dell’età ed il possesso dei requisiti per il pensionamento ovvero con il superamento del periodo di comporto o con il mancato superamento del periodo di prova) anche al licenziamento orale, nonostante il rilievo dell’oggettiva difficoltà di stabilire in tal caso il momento iniziale della decorrenza.

I nuovi termini decadenziali inoltre, si applicano ad una serie assai eterogenea di fattispecie, solo in parte assimilabili al licenziamento, ovvero: “ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nelle modalità a progetto, di cui all’art. 409, n. 3) c.p.c.; al trasferimento ai sensi dell’art.

2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione del trasferimento; all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artt. 1, 2 e 4, D. Lgs. n.

368/2001, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo; ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4, D. Lgs. n. 368/2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza

19 G. PROIA – M. TIRABOSCHI, La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro. Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato Lavoro), Giuffrè Editore, 2011.

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del termine; ai contratti di lavoro a termine stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al D. Lgs. n. 368/2001, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;

alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c.

con termine decorrente dalla data del trasferimento; in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27, D. Lgs. n. 276/2003, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.”

A questo punto dobbiamo fare una precisazione. Quella appena riportata è una delle disposizioni più discusse della legge in esame, in quanto estende i termini di impugnazione del licenziamento anche a fattispecie diverse dal licenziamento, tra i quali come abbiamo visto sono menzionati anche i contratti a termine, siano essi ancora in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge o già conclusi a tale data.

In particolare il legislatore in tale ipotesi ha previsto che il termine di impugnazione di 60 giorni dovesse decorrere dal 24/11/2010, data di entrata in vigore del Collegato, con la conseguenza che coloro che hanno voluto impugnare il contratto a termine hanno dovuto farlo entro e non oltre il 23/11/2010, pena la perdita del diritto di poterne far valere la legittimità.

Considerato il tempo limitato e le conseguenze negative per il lavoratore in caso di non tempestiva impugnazione, nonché l’estensione dei nuovi termini e delle modalità di impugnazione anche alle fattispecie sopra segnalate, il legislatore, in sede di conversione del D.L. 29/12/2010, n.

225, c.d. decreto Milleproroghe, ha introdotto all’art 32, l. n. 183/2010,

il comma 1bis secondo cui: “In sede di prima applicazione, le

disposizioni di cui all’art. 6 primo comma, della legge 15 luglio 1966,

n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al

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termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”.

Tale normativa però presentò numerosi profili di criticità tant’è che la Camera del Deputati precisò che l’effetto del comma 1bis è solo quello di differire l’efficacia delle disposizioni limitatamente alla fattispecie del licenziamento di cui all’art. 6, co 1, l. n. 604/1966, quindi la sua interpretazione non deve comportare anche il differimento dell’applicazione dei termini decadenziali delle altre fattispecie previste ai commi 3 e 4 dell’art. 32, l. n. 183/2010.

Per quanto riguarda invece gli effetti dell’impugnazione del licenziamento, nel vigore della precedente disciplina abbiamo già visto che la valida impugnazione del licenziamento impediva la decadenza e, in conformità ai principi generali ex art. 2967 c.c., il diritto del lavoratore rimaneva soggetto ai normali termini di prescrizione.

In particolare l’azione di annullamento del licenziamento illegittimo si prescriveva in cinque anni ex art. 1442 c.c.

A seguito della promulgazione della l. n. 183/2010, i principi appena esposti restano validi nei soli confronti dei licenziamenti esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 6 l. n. 604/1966, nella nuova formulazione; per tutti gli altri, invece, l’effetto dell’impugnazione di impedire la decadenza resta efficace solo se tale atto è seguito, “entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto del mancato accordo”.

Chiediamoci a questo punto chi è legittimato a impugnare.

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L’art. 6 l. n. 604/1966, anche nella formulazione introdotto dal Collegato lavoro, indica come soggetti legittimati a impugnare il licenziamento il prestatore di lavoro e l’associazione sindacale cui esso aderisca, attribuendo così a quest’ultima un potere di rappresentanza ex lege, con esclusione della necessità di qualsivoglia atto formale preventivo di rappresentanza, valendo a tal fine il semplice mandato che il lavoratore abbia conferito al sindacato per la tutela generale dei propri diritti.

La Suprema Corte, con la sentenza n.14087 del 2006, ha escluso che possa integrare una valida ipotesi di impugnazione stragiudiziale l’invio al datore di lavoro, nel termine di sessanta giorni, dell’avviso di convocazione dell’Ufficio provinciale del lavoro per l’esperimento del tentativo di conciliazione, in quanto tale avviso è un atto dell’ufficio del lavoro, ancorché promosso e sollecitato dal lavoratore, e non costituisce pertanto l’atto scritto di impugnativa, di valore negoziale e formale, dalla legge riservato unicamente al lavoratore medesimo e all’associazione sindacale cui aderisca.

Riguardo alla legittimazione ad agire, una tematica abbastanza dibattuta in giurisprudenza è stata quella relativa all’impugnazione del licenziamento proposta mediante lettera sottoscritta dal solo legale del lavoratore.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno innanzitutto confermato la validità dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento mediante lettera del difensore solo se munito di procura scritta rilasciata prima del termine di decadenza e hanno stabilito, per l’ipotesi di difetto di procure, la possibilità di ratifica da parte del lavoratore, purché tale ratifica richiami in modo specifico l’atto compiuto dal falsus procuratur e sia fatta per iscritto.

La Suprema Corte ha inoltre avuto il modo di precisare come la natura

decadenziale del termine impedisca che possano rilevare le condizioni

soggettive del destinatario della comunicazione dell’atto di

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17

impugnazione, e in particolare la sua capacità di intendere e di volere, salva la tutela nei limiti dell’art. 428 c.c.

20

Per quanto riguarda l’impugnazione del licenziamento vale la pena ricordare anche una sentenza del 1990 della Suprema Corte riguardo al termine per impugnare da parte del lavoratore. L’art. 6 della l. n.

604/1966 prevede, come abbiamo avuto modo di sottolineare, che il termine di impugnazione decorra dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento.

Proprio in questo ambito la Corte ha precisato, con la sentenza n.

2785/1990 come, ove il lavoratore abbia impugnato il licenziamento prima di aver ricevuto la comunicazione dei motivi, ciò non comporti l’inefficacia dell’impugnazione del licenziamento e non implichi, quindi, che, ricevuta la comunicazione di essi, il lavoratore debba procedere a una nuova e autonoma impugnazione del licenziamento.

Per quanto riguarda invece la decorrenza del termine di impugnazione, la Suprema Corte ha rilevato che poiché gli atti recettizi in forma scritta, come la dichiarazione di licenziamento prevista dall’art. 2 della legge del 1966 si considerano conosciuti dal destinatario, a norma dell’art.

1335 c.c., il termine perentorio fissato per l’impugnazione del licenziamento, ai sensi dell’art. 6 legge cit., decorre dal momento in cui la dichiarazione di licenziamento è pervenuto all’indirizzo del lavoratore, salva dimostrazione, da parte del medesimo, che egli senza sua colpa fosse impossibilitato ad avere conoscenza della lettera di licenziamento

21

.

Dalla giurisprudenza citata, ed anche dal tenore dell’art. 1335 c.c.

emerge quindi che incombe al dipendente licenziato fornire la prova rigorosa di non aver avuto conoscenza del licenziamento fornendo la

20 Cass. 1.12.1989, n.5279.

21 Cass. 23.4.1992, n. 4878.

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dimostrazione dell’esistenza di un evento estraneo alla sua volontà, quale la forzata lontananza dal domicilio, ad esempio per una grave malattia

22

, tale da non consentire il collegamento, neanche telefonico o epistolare dell’interessato al proprio domicilio, luogo di destinazione dell’intimazione del licenziamento.

La prova dell’avvenuta impugnazione nel termine di sessanta giorni, quale atto impeditivo della decadenza, incombe sul lavoratore licenziato, che ha anche l’onere di allegare quando ha ricevuto la comunicazione del licenziamento e quando lo ha impugnato

23

.

Essendo l’impugnazione del licenziamento un atto negoziale unilaterale, per il quale la legge richiede la forma scritta ad substantiam, questa non potrà essere provata con il ricorso alla prova testimoniale.

24

Per concludere è necessario fare riferimento anche agli effetti della mancata impugnazione del licenziamento. Ai sensi della disciplina introdotta con il Collegato lavoro, la mancata impugnazione del licenziamento entro il termine di sessanta giorni indicato dall’art. 6, l. n.

604/1966, ovvero il mancato deposito del ricorso giudiziale o la mancata comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato entro il successivo termine di 270 giorni, comporta rispettivamente la decadenza dall’impugnazione medesima ovvero l’inefficacia dell’impugnazione tempestivamente proposta, ossia preclude al lavoratore licenziato la possibilità di richiedere la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 St. Lav., come la possibilità di fruire della tutela obbligatoria prevista dall’art. 8, l. n. 604/1966.

22 Anche nell’ipotesi di licenziamento intimato al lavoratore in stato di malattia, il termine per l’impugnazione decorre dal giorno in cui il lavoratore ha conoscenza del licenziamento e dei relativi motivi, e non può essere differito alla cessazione della malattia. Cfr Cass.11.10.1997, n.9934.

23 Cass.8.2.1999,n.1076.

24 Cass.24.8.2000, n. 11059.

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19

C’è da dire però che queste conseguenze non precludono l’esercizio della normale azione risarcitoria

25

per danni conseguenti all’illegittimo licenziamento ove ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti, o anche solo per ottenere l’indennità di mancato preavviso.

La decadenza dall’impugnazione non può essere rilevata d’ufficio dal giudice ex art. 2969 c.c. attenendo a un diritto disponibile del datore di lavoro, ma dà luogo a un’eccezione in senso stretto, soggetta alla disciplina contenuta nell’art. 416 c.p.c. e pertanto deve essere sollevata nella memoria di costituzione da depositarsi almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione.

Conseguentemente, questa eccezione, se proposta nel prosieguo del giudizio sarà inammissibile, salva la facoltà del giudice prevista dall’art.

420 c.p.c. di autorizzare la modifica delle difese delle parti

26

.

La decadenza, come si è detto, può essere impedita innanzitutto dal deposito del ricorso giudiziale, nel qual caso nulla quaestio.

Abbiamo però visto che l’interessato può anche promuovere un tentativo

27

di conciliazione o un arbitrato e in tale ipotesi, in caso di rifiuto o mancato accordo sull'espletamento della procedura, inizierà a decorrere un nuovo ulteriore breve termine (sessanta giorni) per adire il giudice. Siffatta previsione solleva svariati interrogativi ed apre una pluralità di scenari possibili, con margini di incertezza e di imprecisione che, riguardando una procedura, hanno creato non poche difficoltà.

Partiamo dal tentativo di conciliazione.

25 Con riferimento ai presupposti dell’azione risarcitoria di diritto comune, l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che il lavoratore decaduto dall’impugnazione del licenziamento possa esperire tale azione sulla base di ulteriori e distinti fatti ingiusti, atteso che la decadenza dall’impugnazione, precludendo al giudice l’accertamento della legittimità del recesso, impedisce altresì di poter considerare tale illegittimità quale elemento costitutivo della pretesa risarcitoria ex art. 1218 c.c. Cfr. ex multis Cass. 21.8.2006, n. 18216; Cass. 12.10.2006, n.

21833.

26 Cass. 19.12.1985, n.6514.

27 Da sottolineare il fatto che la l. n. 183/2010 ha trasformato il tentativo di conciliazione ex art.

410 c.p.c. da obbligatorio, e da esperire prima dell’azione giudiziaria, (ponendosi come una condizione di procedibilità dell’azione stessa) in facoltativo.

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20

Qualora la procedura non abbia corso per il rifiuto della controparte, l'unica possibilità che residua al primo è quella di rivolgersi al Tribunale, depositando il ricorso entro sessanta giorni dal rifiuto, rammentando che a quest'ultimo è equiparato il mancato deposito della propria memoria difensiva da parte del datore di lavoro entro venti giorni da quando ha ricevuto copia della richiesta del tentativo di conciliazione, momento dal quale, ai sensi dell'art. 410, comma 6, c.p.c. ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria.

Ove invece il datore di lavoro aderisca alla richiesta del prestatore e il tentativo di conciliazione venga esperito occorre distinguere.

Se la conciliazione riesce e la controversia si chiude con un accordo transattivo, nulla quaestio.

Se invece la procedura si conclude senza una soluzione o con una soluzione solo parziale, può sorgere un dubbio.

Alla luce dell'evidente parallelismo tra la prima e la seconda parte della norma non è infatti chiaro se il termine “mancato accordo” di cui al secondo comma dell'art. 6 della l. n. 604 del 1966 sia riferibile solo all'accordo “necessario all'espletamento” della procedura (nel qual caso, l'unico termine che il lavoratore dovrebbe tenere presente sarebbe quello ordinario di prescrizione, tra l'altro interrotto ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c. dalla proposizione del tentativo), o, come pare più logico e preferibile (pur con una piccola forzatura sintattica) anche al mancato accordo conclusivo della medesima, nel qual caso il lavoratore dovrà depositare ricorso al giudice entro sessanta giorni da tale momento.

Veniamo ora all'arbitrato.

L'art. 31 del Collegato riscrive gli artt. 412, 412-ter e 412-quater c.p.c.

prevedendo tre ipotesi: un arbitrato irrituale presso le Direzioni

provinciali del lavoro ed i collegi arbitrali presso le sedi di certificazione

nel corso o al termine del tentativo di conciliazione; un arbitrato presso

le sedi e secondo le modalità individuate dalla contrattazione collettiva;

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21

un arbitrato presso un collegio ad hoc, costituito su istanza della parti da un rappresentante di ciascuna di esse e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte o nominato dal presidente del Tribunale tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati abilitati al patrocinio davanti alla Corte di Cassazione.

Quando il lavoratore opti per la devoluzione della controversia ad arbitri le situazioni che possono presentarsi sono due: l'arbitrato o viene accettato dalla controparte e viene raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento oppure viene rifiutato o non si raggiunge l'accordo necessario al relativo espletamento.

Nel primo caso si darà corso alla procedura arbitrale e l'eventuale contenzioso in sede giudiziale riguarderà eventualmente la validità del lodo.

Nel secondo, invece, il lavoratore dovrà depositare ricorso al giudice entro sessanta giorni dal momento in cui abbia ricevuto espressa comunicazione da parte del datore di lavoro del rifiuto della procedura, dal mancato accordo sull'espletamento della stessa o dalla scadenza del termine fissato al convenuto per la nomina del proprio arbitro.

In una prospettiva di politica del diritto può osservarsi come la

farraginosità della previsione, il quadro di profonda incertezza che si

presenta all'interprete in ordine all'individuazione del dies a quo per la

proposizione del ricorso giudiziale e il timore di incorrere nella

decadenza prevista dalla legge potrebbero rappresentare un ulteriore

freno, sul piano pratico, al ricorso alle procedure conciliative ed arbitrali,

che va ad aggiungersi alla tradizionale diffidenza verso forme di giustizia

diversa da quella togata, e indurre il legale del lavoratore a preferire sin

dal primo momento la via giudiziale. Sarebbe stato dunque preferibile

fissare un termine preciso (ad esempio 90 giorni dalla notifica del ricorso

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22

al collegio) dal quale fare decorrere quello successivo per il deposito del ricorso al giudice, ove la procedura non abbia avuto inizio.

28

4. Alcune considerazioni di merito.

La sostituzione dell'ordinario termine prescrizionale con uno decadenziale più breve (oggi 180 giorni) ha indotto i primi commentatori ad avanzare talune riserve sulla previsione e a sollevare il dubbio di un possibile contrasto con il principio costituzionale del libero accesso alla giustizia ordinaria sancito dall'art. 24 Cost.

Altri osservano invece come la procedura possa rivelarsi, in complesso, persino troppo lunga (fino a 300 giorni), specialmente se confrontata

“con il termine di sessanta giorni per l'impugnazione degli atti amministrativi già vigente quando non esisteva il telefono e si viaggiava in carrozza”

29

.

In fin dei conti però l'innovazione può senz'altro essere salutata con favore. Con l'introduzione di un ulteriore termine di decadenza si evita infatti che il lavoratore, quando trovi applicazione l'art. 18 St. lav. o il regime della nullità di diritto comune, una volta impugnato il licenziamento con una semplice raccomandata, possa poi temporeggiare, iniziando la causa a distanza di molti anni allo scopo di far lievitare l'ammontare del risarcimento.

È vero, infatti, che di tali aspetti, ampiamente rimarcati in dottrina, è da tempo ben avvertita la giurisprudenza la quale, nel tentativo di porvi rimedio, ha sposato da oltre un decennio la tesi della natura interamente risarcitoria dell'indennità prevista dall'art. 18 St. lav., applicando, in sede di liquidazione della stessa, i generali principi di matrice civilistica

28 G. PELLACANI, Il cosiddetto Collegato Lavoro e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro. In Riv. It. Dir. Lav., fasc. 2, 2010, p.215.

29 In questi termini. A. VALLEBONA, Una buona svolta del diritto del lavoro: la legge n. 183 del 2010.

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23

in tema di risarcimento del danno da inadempimento, tra i quali quello della necessaria imputabilità del fatto causativo e della compensatio lucri cum damno

30

, qualificando i criteri per la commisurazione dell'indennità come una sorta di presunzione iuris tantum suscettibile di prova contraria sia da parte del lavoratore che del datore di lavoro

31

, ed ammettendo quest'ultimo a dedurre dall'ammontare del risarcimento sia sottratto quanto il lavoratore abbia percepito in dipendenza di altra attività (c.d. aliunde perceptum), sia il danno che il lavoratore abbia concorso a produrre (art. 1227, comma 1, c.c.) sia quello che lo stesso avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (art. 1227, comma 2, c.c.) (cosiddetto aliunde percipiendum).

Si tratta, peraltro, di soluzioni che operano a valle, sul piano giurisprudenziale, e che presentano inevitabilmente dei margini di incertezza.

Che quelle introdotte dal Collegato, dunque, non siano previsioni inutili pare fuori discussione. La questione è un’altra: che esse risolvono il problema solo in parte dal momento che rimane il problema dei tempi, spesso molto lunghi, dei giudizi.

Ha dunque ragione chi osserva che misure come quelle previste, che accorciano i tempi per la proposizione dell'azione in giudizio,

“dovrebbero essere accompagnate da altre che incidano sulla durata del processo, perché, diversamente, rischiano di apparire irragionevoli, se non derisorie”

32

E questo è quello che ha cercato di fare il legislatore del lavoro con la l.

n. 92/2012, introducendo un nuovo rito in tema di impugnazione dei licenziamenti illegittimi previsti all’art. 18 St. Lav., con l’intento primario di rendere i processi più veloci.

30 Cfr ex multis Cass. 21 settembre 1998, n. 9464.

31 Cfr ex multis Cass. 28 agosto 2007, n. 18146.

32 D. BORGHESI, Le nuove frontiere dell’arbitrato del lavoro secondo il disegno di legge n. 1441 quater.

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24

L’obiettivo però è alquanto mal riuscito. Al riguardo si tratterà nei prossimi capitoli.

CAPITOLO II

IL RITO FORNERO: LE CARATTERISTICHE

1. Cenni generali sulla Riforma e campo di applicazione.

Il 28 giugno 2012 è stata approvata la legge n.92, (in Gazzetta Ufficiale n.

153 del 3 luglio 2012) recante il titolo “Disposizioni in tema del mercato

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del lavoro in una prospettiva di crescita” detta più comunemente Riforma Fornero, dal ministro proponente Elsa Fornero.

Come si legge dall’art.1, comma 1, l’obiettivo è ambizioso: “misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”.

Per raggiungere questo fine il legislatore del lavoro ha sentito la necessità di andare a modificare, sia sul piano sostanziale che sul piano processuale, la disciplina dei licenziamenti tradizionalmente assoggettati alla c.d. tutela reale, creando un rito speciale e specifico per la loro impugnazione.

Il tutto si è tradotto (di nuovo) in una ricerca di una corsia preferenziale per i procedimenti aventi ad oggetto i licenziamenti, che è un po' una costante dei progetti di riforma del processo del lavoro

33

da quando il modello processuale varato nel 1973

34

si è trasformato, nell’ultimo ventennio, nell’esatto contrario di un processo immediato e concentrato

35

.

Di pochissimi anni fa è inoltre il d.lgs. n. 150/2011, intitolato “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione”, nato sulla spinta di una pulsione decodificatrice per tentare di porre rimedio alla Babele processuale che caratterizza il nostro ordinamento. Secondo tale riforma i riti civili si riducono a tre: il Rito ordinario di cognizione, regolato dalle

33 CI si riferisce all’elaborato della Commissione Foglia per la Riforma del Processo del Lavoro di cui al d.m. 8 novembre 2006. Più in particolare la soluzione suggerita dalla Commissione in tema di impugnazione di licenziamenti prevede piccoli aggiustamenti sostanziali funzionali ad un più spedito iter processuale; modifiche di natura procedurale; interventi di natura ordinamentale. In particolare si segnala: la novella all'articolo 6 della legge n.604 del 1966, il peculiare rito accelerato a cognizione sommaria, ma non superficiale, il regime di reclamabilità ed impugnabilità dell'ordinanza, l'introduzione di una misura coercitiva sul modello dell'astreinte a garanzia dell'ottemperanza all'ordine giudiziale di reintegrazione, la priorità nella trattazione di siffatte controversie.

34 Ci si riferisce alla legge 11 agosto 1973, n. 533, intitolata “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie.”

35 Il processo del lavoro si differenzia, -o si dovrebbe differenziare- dal giudizio civile ordinario proprio per le caratteristiche di oralità, concentrazione, immediatezza (e quindi anche per la maggiore celerità) e per i particolari poteri ufficiosi del giudice.

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norme del titolo I e del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile; il Rito del Lavoro, regolato dalle norme della sezione del capo I del titolo IV del libro secondo del codice di procedura civile; e il Rito sommario di cognizione, regolato dalle norme del capo III bis del titolo I del libro quarto del codice di procedura civile. Siamo così costretti ad assistere a incessanti interventi sul rito, dettati in particolar modo dall’esigenza di fare vedere che si sta facendo qualcosa contro la cronica lentezza del processo civile.

In questo contesto normativo, nel 2012, e nel contesto storico, politico e socio-economico come brevemente descritto nell’introduzione del presente lavoro, si arriva alla riforma Fornero. Protagonista della riforma è proprio il Ministero del Lavoro che la ingloba nel più ampio contesto della modifica -o meglio della riscrittura- della tutela reintegratoria, e va a introdurre un rito particulare, disciplinante un insieme molto limitato di controversie.

I ritardi della giustizia del lavoro, a prescindere dalle cause che li hanno determinati, hanno pesato non poco nella discussione sulle distorsioni e sulle rigidità imputate alla tutela reale nel posto di lavoro. Non ci si deve meravigliare quindi che, nell’ambito di una riforma tesa a modificare il mercato del lavoro, sia stato inserito anche un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle controversie relative all’art 18.

St. lav.

La previsione di questa corsia preferenziale, oltretutto prevista fino al grado di legittimità, esprime l’interesse dell’ordinamento alla trattazione celere di queste controversie e, al tempo stesso, indica che le parti possono ottenerla anche nel caso in cui il processo sia stato trattato erroneamente con il rito speciale (ordinario) del lavoro previsto dall’art. 409 c.p.c. e non con il nuovo procedimento, richiedendo il mutamento del rito.

Le nuove regole, oltretutto, non prevedono soltanto una corsia preferenziale

obbligatoria per i procedimenti aventi ad oggetto l’impugnativa dei

licenziamenti, ma introducono anche delle garanzie di tipo organizzativo-

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27

ordinamentale, come previsto dall’art 1 commi 65,66 e 68, l. n. 92/2012 , con la previsione di “udienze dedicate” alle impugnative dei licenziamenti e si introduce così, per la prima volta un criterio normativo di organizzazione dei tempi del processo attraverso un ordine di priorità nelle controversie sulla base della materia, imponendo un criterio di definizione c.d. LIFO (late in first out) e non FIFO (first in first out), contro tutti i suggerimenti che negli ultimi anni sono stati imposti dalla “giustizia manageriale”, sempre più interessata allo smaltimento dei processi

36

. Qui quello che si vuole realizzare è un procedimento autonomo, una tutela differenziata non più accordata per le esigenze di salvaguardia del lavoratore, come è stato nella riforma del processo del lavoro 1973, ma per l’interesse generale alla celere definizione di queste controversie, nella convinzione che essa sarà benefica per la crescita del mercato del lavoro.

Scendendo un po' più nel merito vediamo che all’art 1, comma 42, lett. b) la legge sostituisce i primi sei commi dell’art 18 l. 20 maggio 1970 n 300, c.d. Statuto dei Lavoratori, e riorganizza le categorie dei licenziamenti illegittimi e la relativa tutela sostanziale accordata loro, mentre nei successivi commi, dal 48 al 68 introduce un vero e proprio nuovo rito per le impugnative dei licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione dello stesso articolo 18, così come riformato. Viene così introdotto il tanto discusso rito Fornero.

Sotto il profilo sostanziale, con la legge in questione vi sono consistenti ed incisive novità: il computo e la durata dei termini di impugnativa, i presupposti e le modalità del recesso o della revoca, ma ciò che sicuramente ha avuto più risonanza è il nuovo equilibrio tra tutela reale e tutela obbligatoria con la modifica dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori e della sua rubrica: non più “Reintegrazione nel posto di lavoro” ma “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”.

36 Ivi, p. 353.

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28

Concentrandoci per un attimo sul campo di applicazione del nuovo rito e sulle tutele di cui all’art. 18, come riformato dalla legge, queste troveranno applicazione nel caso in cui il datore di lavoro abbia le caratteristiche dimensionali previste dalla stessa norma, ossia occupi in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento, più di quindici lavoratori o più di cinque per il caso di imprenditore agricolo, nonché quando il datore, nell’ambito dello stesso comune, occupi più di quindici dipendenti ovvero, trattandosi di impresa agricola, occupi nello stesso territorio più di quindici dipendenti , anche se nella singola unità produttiva non raggiunge tali dimensioni. In ogni caso, l’art 18 si applica ai datori di lavoro che occupano globalmente più di sessanta dipendenti. Laddove, tuttavia, si versi in ipotesi di licenziamento discriminatorio

37

o illecito

38

, la tutela dell’art. 18, commi 1,2,3, sarà concessa indipendentemente dal numero dei lavoratori impiegati.

In particolare sono state individuate quattro categorie di licenziamenti, in relazione alla motivazione che li hanno determinati, con altrettante tipologie di tutela, ad intensità gradata:

- La tutela reintegratoria piena, prevista dall’art. 18, comma 1 St. Lav., come modificato dalla l. 92/2012, prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna del datore al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in ogni caso non inferiore a cinque mensilità. Rientrano in questa categoria i licenziamenti

37 Si ha licenziamento discriminatorio quando il licenziamento è intimato per ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sule convinzioni personali del dipendente.

38 Si ha licenziamento illecito quando il motivo di licenziamento è illecito, ovvero quando è posto in essere nel momento in cui l’azione del datore di lavoro costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, Cfr Sent. Corte di Cass. 8 agosto 2011, n. 17087.

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29

discriminatori ai sensi dell’art. 3 l. 11 maggio 1990, n. 108, i licenziamenti intimati in concomitanza con il matrimonio di cui all’art. 35 d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, nonché i licenziamenti intimati in violazione dei divieti a tutela della maternità e della paternità ai sensi dell’art. 54, commi 1, 6, 7, 9 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ed infine tutti i licenziamenti comunque riconducibili ad altre cause di nullità previste dalla legge ovvero fondati su un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. nonché i licenziamenti inefficaci intimati in forma orale;

- La tutela reintegratoria depotenziata, prevista dall’art 18, commi 4 e 7 dello St. Lav. che prevede una reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria in ogni caso non superiore a dodici mensilità. Questa categoria racchiude i licenziamenti annullabili in quanto intimati in assenza di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa, perché il fatto contestato si rivela insussistente ovvero ascrivibile alle condotte punibili con sanzioni conservative in forza dei contratti collettivi di lavoro ed infine contempla, in virtù del disposto dell’art.

18, comma 7, ultima parte, tutte le ipotesi in cui il licenziamento risulti determinato da ragioni disciplinari. Tale disciplina è altresì estesa alle ipotesi di licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, l. 12 marzo 1999, n. 68 (norme per il diritto al lavoro dei disabili), ovvero in violazione dell’art. 2110, comma 2, c.c. per le ipotesi di infortunio, malattia, gravidanza o puerperio. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultato manifestamente insussistente, infine, l’applicazione dell’art. 18, comma 4, è rimessa al potere discrezionale del giudice, come si ricava dall’uso dell’espressione

«può» nel comma 7 dell’art. 18 novellato;

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- La tutela risarcitoria piena, prevista dall’art. 18, comma 5 e 7, St.

Lav., che prevede la risoluzione del rapporto e la condanna del datore al pagamento di una indennità risarcitoria compresa tre le dodici e le ventiquattro mensilità. Questa si applica alle ipotesi nelle quali il giudice accerta l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore di lavoro. La medesima disciplina è estesa dal comma 7 dell’art. 18 alle ipotesi nelle quali il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, con la precisazione che in tale caso, ai fini della determinazione dell’indennità, oltre che delle circostanze di cui al comma 5 dell’art. 18 appena richiamato, il giudice dovrà tener conto anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni;

- La tutela risarcitoria depotenziata, prevista dall’art. 18, comma 6, St.

Lav. che prevede la risoluzione del rapporto di lavoro e la condanna del datore al pagamento di una indennità risarcitoria compresa tra le sei e le dodici mensilità. Questa categoria contempla le ipotesi di inefficacia per violazione del requisito di motivazione di cui all’art.

2, comma 2, l. 15 luglio 1966, n. 604, come riformato dall’art. 1,

comma 37, l. n. 92/2012, in forza del quale la comunicazione del

licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo

hanno determinato. Appartengono, inoltre, a tale categoria i

licenziamenti intimati in violazione della procedura di cui all’art. 7

St. lav. o della procedura di cui all’art. 7 l. 11 luglio 1966, n. 604, e

successive modificazioni. Si applica la tutela risarcitoria di cui al

comma 5, ma l’indennità è compresa tra un minimo di sei ed un

massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto,

con onere di specifica motivazione a tale riguardo. Qualora, tuttavia,

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31

il giudice accerti che oltre alle violazioni predette ricorre anche un difetto di giustificazione del licenziamento, applica le tutele previste dai commi 4, 5 ovvero 7.

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Sotto il profilo processuale, invece, il legislatore del Lavoro si è proposto di introdurre un apposito rito speciale in materia di licenziamenti, seppure circoscrivendone il campo di applicazione alle sole controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti assoggettati al regime di tutela reale, avente l’obiettivo di “accelerare la definizione delle relative controversie”.

Il fine ultimo dell’introduzione del nuovo rito speciale non è soltanto quello di evitare che la lunga durata del processo aumenti la somma dovuta dal datore di lavoro in caso di reintegrazione, ma si tratta di evitare l’incertezza in sé della (possibile) reintegrazione, che rende difficile a entrambe le parti prendere delle decisioni definitive. Non si vuole tutelare una parte o l’altra, qui ciò che viene tutelato non è il diritto della parte che ha ragione, ma il diritto della parte in quanto tale (e quindi anche del soccombente) ad una decisione in tempi brevi

40

.

L’obiettivo di abbreviare i tempi delle liti che concernono i licenziamenti è strettamente collegato anche al convincimento che i “costi indiretti” di esse (ci si riferisce ai costi delle reintegre e dei risarcimenti che talora intervengono a distanza di anni dal recesso) costituiscono un forte disincentivo per le imprese ad assumere.

Emblematica è infatti la lettura del Professor. Buoncristiani che, dal lato metagiuridico riconosce al nuovo rito anche finalità pubbliche oltre che di tutela del lavoratore: l’esigenza di un nuovo rito speciale infatti è collegata

39 V.PETRELLA, Il rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, pp. 236 ss.

40 F.P.LUISO – R.TISCINI, - A. VALLEBONA, La nuova disciplina sostanziale e processuale dei licenziamenti, Giappichelli 2013, pp.59-60.

(32)

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alla necessità di ridurre l’incertezza circa le conseguenze del licenziamento per andare a favorire nuove assunzioni e nuovi investimenti

41

.

Ora, è innegabile che le modifiche sostanziali e processuali appena accennate siano collegate, ma qui non si pongono tanto una “in risposta”

dell'altra, quanto più specificatamente una “in completamento” dell’altra, cercando da una parte di circoscrivere l’ambito di incertezza circa l’esito del processo e il relativo costo, dall’altra di circoscriverne la durata, intervenendo proprio sulla disciplina processuale

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.

Ci troviamo così di fronte a un nuovo rito, speciale, rispetto al rito già speciale del lavoro, tanto che è stato anche definito “una specie di Rito Speciale al quadrato”

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.

Rispetto a quest’ultimo profilo si capisce bene che l’area di applicazione delle nuove regole processuali va esaminata partendo proprio dalla specificità del procedimento.

Non ci troviamo infatti di fronte a un procedimento speciale applicabile a una indeterminata serie di ipotesi e diverse azioni, come ad esempio nel caso dei procedimenti sommari di cognizione previsti dall’art. 702 bis e ss.

c.p.c., o in generale negli altri riti, ma siamo di fronte a un procedimento giudiziario specifico che si applica solo ai casi ben determinati dal legislatore della riforma. L’utilizzazione della parola specifico infatti non è usata a caso: come vedremo questa fa dedurre un’interpretazione non estensiva delle nuove norme, strettamente collegata alla previsione dell’obbligatorietà della scelta di questo rito per quelle determinate fattispecie

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. Ma questo punto lo analizzeremo nei prossimi paragrafi.

Un altro nodo centrale da sbrigliare è l’individuazione della funzione di questo rito.

41 D.BUONCRISTIANI, Rito licenziamenti: profili sistematici e problemi applicativi, in Rivista Italiana di diritto del lavoro, Anno XXXII Fasc.2 2013, p. 359.

42 Ibidem.

43 R. CAPONI, La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in GDir,2012,18,9 ss.

44 C. MUSELLA, op.cit. p.355

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