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Nivasio Dolcemare è un nome multiforme. È il nome del «maskarà» più

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(1)

N IVASIO D OLCEMARE :

UN «M ASKARÀ » AL S ERVIZIO DELLA R IVOLUZIONE

Nivasio Dolcemare è un nome complesso. Un nome che tace ben più di quello che si limita a trasmettere nella semplicità allegra e musicale del suono; un nome criptico e perfetto, disegnato da un prodigioso stilista dell’espressione, tagliato, cucito e rifinito a mano da un abilissimo sarto della parola perché cresca insieme al suo piccolo indossatore.

Meglio ancora: per non farlo crescere mai.

Nivasio Dolcemare è un nome multiforme. È il nome del «maskarà» più

stimato tra le maschere onomastiche di Alberto Savinio, il nome di un

funambolo che supera il suo creatore nel guizzo animalesco della cognizione

del reale. Nivasio Dolcemare è un nome rilevante, il nome di un combattente

fedele al Tempio dell’infanzia, di una creatura che tende a farsi alterità

speculare del suo autore e che nella visionarietà della pagina modellata da

questi abita un’epoca plastica che sfarfalla di una luminescenza vivida,

iridescente, glacé. È il nome di un bambino che nella sicurezza di ideali

eterni, ecumenici e fissi si surroga a Savinio, conducendoci alla scoperta di

(2)

109

una differente interpretazione di quanto si svolge nel mondo, inoculando in noi – con tutto lo psichismo di cui è capace – il dubbio che quanto si è fatto e si continua a fare all’interno della nostra società abbia forse necessità di essere ripensato.

Nivasio Dolcemare è un distillato della realtà che attraverso il clangore della sua agiografia si offre a un lettore che – filtrandola – la restituisce a sua volta al mondo. È in questo immortale moto di rivoluzione che noi trasformiamo il cosmo; è attraverso queste dinamiche che si edifica e si condiziona la realtà del nostro tempo. È attraverso l’«avventura colorata» di Nivasio che noi possiamo contemplare e comprendere l’ecumene con gli occhi veri

1

di un bambino, è attraverso l’esemplarità della sua vicenda che i grumi espressivi che plasmano l’ideologia dell’ateniese si manifestano in tutta la loro chiarezza ontologica.

Nivasio Dolcemare è un nome che comprende in sé la spensieratezza e i turbamenti dell’infanzia, l’attaccamento atavico alla casa dei padri e insieme la volontà nomade di un superamento convulso del fisico, il nome di un essere che sogna la terra ma che appartiene al cielo delle idee più sottili, di una creatura che tra l’esuberanza terrorista del déraciné e la sventurata

1

«Grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori. Questo il privilegio toccato a Nivasio Dolcemare». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Isadora Duncan, in I

DEM

, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, Adelphi, 1984, p. 229);

«Io cerco […] l’anima segreta delle cose, e per trovarla sono costretto molte volte a guardare la loro

facciata consunta dall’uso e divenuta irriconoscibile». (I

DEM

, Ascolto il tuo cuore, città, Milano,

Adelphi, 1984, p. 14).

(3)

110

nostalgia del migrante sceglie la lotta per la liberazione dell’uomo. Un nome che la dea Mnemosine stessa sembra aver scelto per un bambino che sempre, comunque e dovunque rimarrà tale,

2

di una creatura che contiene in sé – già nel proprio nome – la cifra distintiva della sua eccezionalità. Nivasio Dolcemare è il nome di un surrealista indisciplinato come il suo ideatore, sovversivo e sregolato come tutti i bambini, dinamitardo come la lirica più pura, sedizioso, visionario, ellittico e inclassificabile come un poeta ha necessità di essere, blasfemo come deve apparire al bigotto, corsaro al conformista.

Nivasio non è solo l’ovvio anagramma di Savinio; Dolcemare non è

solo un cognome gravido di allusioni mediterranee e che nel suono rimanda all’opalescenza levantina dello zaffiro e a porti argonautici intarsiati nella roccia.

Nivasio Dolcemare ha in sé tutto questo, ma è molto di più.

1. Un nome rilevante.

Nel secolo XVI un pittore Andrea Chirico o di Chirico o de Chirico fu attivo in Sicilia. In una chiesa di Catania, Santa Maria del Gesù, resta qualcosa di un suo affresco o di un suo quadro: ricordo di averne visto

2

«Che importa se nell’ordine comune della vita i diciotto anni sono l’età ufficiale dell’adolescenza?

Superato il traguardo del mezzo secolo, la vita di Nivasio Dolcemare continua più che mai a

svilupparsi nel senso dell’adolescenza, e la maturità questo uomo fuori età non la raggiungerà

probabilmente se non nella morte, che è la stagione dei frutti più maturi, dei canti più dorati e della

memoria immortale». (I

DEM

, Maupassant e l’«altro», Milano, Adelphi, 1975, p. 9).

(4)

111

riproduzione in un libro di storia locale. Credo che di lui, al di là del nome e del secolo in cui visse, al di là dei frammenti di pittura che gli si riconoscono, pochissimo sappiano gli storici e gli eruditi. Si può fare l’ipotesi che operò prevalentemente nella Sicilia orientale, affrescando chiese e palazzi; e da ciò la scomparsa, nei terremoti che di quel secolo corsero nella zona, dei suoi lavori. Ma si può anche fare l’ipotesi – il lettore può farla – che questo pittore Andrea de Chirico del secolo XVI io stia inventando qui ed ora Et pour cause. Come omaggio e mimesi Ad Alberto Savinio Per Alberto Savinio. Di quel suo modo di memoria, di incidenze, di coincidenze, di rifrazioni, di corrispondenze.

Alberto Savinio, di suo vero nome Andrea de Chirico, seppe mai di questo pittore suo omonimo vissuto tre secoli prima in Sicilia? Con quasi assoluta sicurezza si può affermare che nulla ne seppe, che se qualcosa ne avesse saputo più di una volta – parlando delle origini siciliane della famiglia e del vaticinio nel nome Chirico contenuto – ne avrebbe scritto.

3

Sì. Non c’è dubbio che l’avrebbe fatto.

E non possiamo che trovarci d’accordo con Sciascia quando scrive queste parole, perché da lettori coscienti dell’enciclopedica, eterodossa e omnidirezionale produzione saviniana, siamo certi come il Nostro non avrebbe mai resistito a un così baritonale richiamo dell’elzeviro.

Ma parallelamente possiamo anche abboccare all’esca – «Ma si può anche fare l’ipotesi che questo pittore Andrea de Chirico del secolo XVI io stia

3

L

EONARDO

S

CIASCIA

, Savinio e Stendhal, in A

A

. V

V

., Mistero dello sguardo: studi per un profilo

di Alberto Savinio, in R

OSITA

T

ORDI

(a cura di), Roma, Bulzoni, 1992, p. 45.

(5)

112

inventando qui ed ora Et pour cause» – che, proprio per la nostra natura di lettori, lo scrittore di Racalmuto ci offre.

Delle due l’una allora: o questo Andrea de Chirico vissuto qualche centinaia di anni prima del Nostro è esistito veramente, oppure Sciascia ci sta attirando in una trappola mimetica per suo proprio divertissement. In ambedue i casi, il dipanamento di una simile lenza mi è utile per indagare un aspetto biografico dell’ateniese sotto certi aspetti non scevro d’interesse interpretativo.

Nelle loro opere, i fratelli de Chirico rivendicano a più riprese la loro italianità per diritto di sangue, ma inciampano frequentemente in

contraddizioni riguardo al luogo di nascita dei genitori. Se la madre è sempre genovese – o quanto meno ligure –, il padre è invece ora toscano di Firenze, ora palermitano. In Memorie della mia vita, Giorgio non accenna mai al luogo di nascita dei genitori, ma in un lacerto autobiografico pubblicato in

«Valori Plastici» chiama genovese la madre e fiorentino il padre.

Leggermente diversa è invece la notizia geografica fornita ne La vie de Giorgio de Chirico –

4

autobiografia del ’29 pubblicata sotto pseudonimo

4

«L’ingénieur Evariste de Chirico, à l’esprit non moins aventureux qu’un Jonathan Smith, était venu

de sa lointaine et trop paisible Toscane, où il s’était transplanté de son originaire Sicile, pour lancer

le premier «cheval de fer» dans ces plaines de centaures». (G

IORGIO DE

C

HIRICO

, La vie de Giorgio

de Chirico, apparsa in «Sélection. Chronique de la vie artistique, Cahier VIII, a firma di Angelo

Bardi, Anversa, Éditions Sélection, 1929, pp. 20-26, poi in «Metafisica» n. 5/6 (2006), pp. 485-489).

(6)

113

rilevante –,

5

nella quale il pittore metafisico scrive come il padre fosse sì arrivato in Grecia dalla Toscana, ma che era di origini siciliane.

Nella sua ubiquità autobiografica, neppure Savinio riporta notizie monodrome sull’origine paterna, che – anche nei suoi scritti – è ora toscano («Nivasio Dolcemare, venuto al mondo in Atene, dall’unione di una tritonessa ligure con un centauro toscano»),

6

ora siciliano:

La costa siciliana si delinea di là dallo Stretto, alta a sinistra di monti, stesa a destra a fior d’acqua, irta all’estremità di un faro. È la prima volta ch’io vedo la Sicilia. Essa è la culla, mi diceva mio padre, della nostra gente. Quella terra laggiù, disegnata in turchino da sapientissima mano, è dunque in maniera più ampia della strettamente umana, un’antica madre, un’antica madre per me.

7

5

«Lo pseudonimo Angelo Bardi sembra avere delle radici nel luogo stesso della nascita della Metafisica: Piazza Santa Croce a Firenze. De Chirico racconta il momento in cui, seduto in questa piazza, ha avuto la strana impressione di vedere tutte le cose per la prima volta, e in cui la composizione del suo quadro “apparve al suo spirito”. L’analisi eseguita da Maurizio Calvesi sulla formazione fiorentina di de Chirico indica un’immagine come fonte dell’iconografia architettonica dell’artista, sfociata dopo la rivelazione avuta in Piazza Santa Croce, nell’opera L’enigma di un pomeriggio d’autunno. Nel quadro, la piazza si presenta frontalmente, con la sua chiesa, la statua di Dante e il muro di mattoni sulla destra. Nella facciata della chiesa dipinta dall’artista, lo studioso ha trovato un’eco della pittura toscana del Trecento, e collega l’immagine di de Chirico a un particolare architettonico di un affresco di Giotto che si trova proprio nella chiesa di Santa Croce: Le stimmate di san Francesco. Nella scena raffigurata da Giotto – che si trova nella cappella della famiglia Bardi – san Francesco riceve le stimmate da un Angelo che vola sopra un tempio, simile, secondo Calvesi, a quello nell’opera di de Chirico. Sembrerebbe, allora, che il nome Angelo Bardi abbia la sua origine in questa fonte iconografica, un fatto che indica il luogo fisico e l’evento stesso della scoperta della Metafisica. […] Il fatto che de Chirico usi il nome particolare Angelo Bardi come firma della sua autobiografia, è una chiara indicazione di riconoscenza e di memoria dell’esperienza fondamentale che gli è accaduta in Piazza Santa Croce – il luogo della nascita della Metafisica –». (K

ATHERINE

R

OBINSON

, Angelo Bardi, in G

IORGIO DE

C

HIRICO

, La vita di Giorgio de Chirico, in «Metafisica» n.

5/6, 2006, p. 495).

6

A

LBERTO

S

AVINIO

, Isadora Duncan, in I

DEM

, Narrate, uomini, la vostra storia, cit., p. 229.

7

I

DEM

, Il ferry-boat è una nave femmina, apparso in «L’Illustrazione Italiana», 25 aprile 1948, ora

in A

LBERTO

S

AVINIO

, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di

Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 696. Il corsivo è mio.

(7)

114

Il coagulo di ambiguità geografiche che negli scritti dei fratelli metafisici si manifesta compiutamente, si sbroglia tuttavia nell’analisi

onomastica dell’etimo del casato. A un radicale indagatore delle derivazioni etimologiche

8

come Savinio non poteva infatti sfuggire come «Chirico di Chirico o de Chirico» fosse un cognome non solamente di lignaggio antico, ma geograficamente localizzato nel Mezzogiorno d’Italia.

E infatti non gli sfugge. Perché Savinio sa bene che portare sulle spalle un nome remoto vuol dire anche condividere con questo e con la stirpe che da esso scaturisce un destino comune:

Il destino di noi uomini «civili» è nei nostri nomi e nei nostri cognomi.

Molto rari gli uomini che non «somigliano» al loro nome e al loro cognome. Molto rari gli uomini il cui destino non è scritto nel loro nome e prescritto nel loro cognome.

9

Ed è per questo il Nostro estrae dal suo cilindro etimologico una esplicativa radice magno-greca: «Chirico» è così nome rilevante che «deriva indubbiamente dal Kῆϱυξ greco, che è quanto dire araldo, annunziatore».

10

8

«La ricerca dell’ètimo è uno dei principali motivi dell’intelligenza (da motus e come contrapposto a «quietivo») e però lo si ritrova allo stato grezzo nelle persone incolte, ossia in coloro nei quali l’apparenza, la finzione, il velo della coltura non hanno spento ancora curiosità e desiderio di ricerca.

Così, per etimologica curiosità di scoprire il ‘perché’ delle parole, mia suocera chiama appetitivo l’aperitivo e mia cognata chiama Balneari le Baleari. Quanto più interessanti, quanto più commoventi questi errori, del continuare a dire aperitivo e Baleari e non domandarsi perché».

(I

DEM

, Achille, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 20). In proposito, etimo- deriva dal greco antico étymos, che sta per «vero»; indagare l’etimo vuol dire dunque farsi indagatore del vero.

9

I

DEM

, Maupassant e l’«altro», cit., nota 100, p. 126.

10

I

DEM

, Hermaphrodito, Torino, Einaudi, 1974, p. 48.

(8)

115

E per uno che come Savinio abita il mondo «di memoria, di incidenze, di coincidenze, di rifrazioni, di corrispondenze» di cui Sciascia parlava sopra, questo è motivo ulteriore di gioco e autocompiacimento, diventa moltiplicatore di significati, si fa plusvalore.

Ma durante gli anni più bui del regime fascista – quelli che dissodano la terra per la semente delle leggi razziali –, «Chirico» è anche un cognome dal quale difendersi e insieme attraverso il quale trovare rifugio. Nel 1937 infatti – in risposta a una lettera di Anton Giulio Bragaglia che sul quotidiano

«Il Meridiano di Roma» aveva accusato i de Chirico di essere ebrei –,

11

Savinio abbozza la versione ufficiale della sua storia famigliare. Il documento è costruito di una mescola intelligente e abilmente romanzata di verità e mistificazione, con il quale l’ateniese si adopera nel tentativo di affermare tanto le origini italiane dei de Chirico quanto il cattolicesimo avito dei suoi progenitori: «documentati fin dalla metà del Quattrocento», scrive il Nostro, i de Chirico sono infatti

originari della Terra di Lavoro, passati quindi in Sicilia e vissuti negli ultimi due secoli in Toscana […] Un Chirico arcivescovo riposa nella cattedrale di Palermo, sotto lo stemma della sua e nostra famiglia:

scudo bipartito con tre corone baronali in campo d’oro, aquila in campo azzurro, e sormontato di corona baronale ornata di triplice pennacchio.

A un nostro antenato capitano dei bombardieri, che si distinse in guerra

11

Cfr.: G

IORGIO DE

C

HIRICO

, Memorie della mia vita, Milano, Rizzoli, 1962, p. 162.

(9)

116

e durante una epidemia di colera, Maria Teresa imperatrice diede una baronia e la particella nobiliare. Nostro nonno, al servizio del Re di Sardegna, ha portato per primo la bandiera italiana in Oriente, quando il reame di Sardegna passò a essere Regno d’Italia. Per prerogativa della nostra famiglia, possiamo sedere alla mensa del cattolicissimo imperatore d’Austria.

1213

Anche se tutt’oggi non è ancora verificata la presenza di «un Chirico arcivescovo» tra le tombe della cattedrale di Palermo,

14

il rapporto con la capitale siciliana è – almeno sul piano metafisico e congetturale – gravido di contenuti. Perché proprio negli stessi anni in cui si difendeva dalle invidie romane degli esponenti dell’arte di regime, Savinio aveva infatti già dato vita alla sua maschera più celebre:

15

invisibile, soffocato da fabbricati di cemento armato nella forma di torre o in quella goffa del bastione a uso abitativo, stretto nell’abbraccio grigio dei capannoni industriali, scheggia antica

12

A

LBERTO

S

AVINIO

, lettera a «Il Meridiano di Roma», 28 novembre 1937. Il corsivo è mio.

13

La falsificazione della genealogia dei de Chirico va nella direzione di messa a riparo da ogni sospetto del regime, che da parte sua ha sempre considerato Savinio un intellettuale troppo irregolare e spiritoso. (Si veda il carteggio tra un Savinio particolarmente turbato e l’editore Mondadori, in A

LESSANDRO

T

INTERRI

, Note ai testi, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Hermaphrodito e altri romanzi, Milano, Adelphi, 1995, pp. 974-975). Attraverso la filigrana di una simile pseudo-ricostruzione storica e famigliare dei de Chirico si legge così facilmente il tentativo di allontanarsi quanto più possibile dalle ambiguità e dalle imminenti leggi razziali fasciste.

14

In uno scritto successivo alla lettera di risposta a Bragaglia, l’antenato «arcivescovo» viene traslato in Russia: «Gli altri parenti e i consanguinei di Nivasio Dolcemare sono tutti morti, ed erano o spagnoli, o austriaci, o russi, tra i quali un arcivescovo che morì in odore di santità e ora riposa nella cattedrale di Odessa». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Fame ad Atene, apparso in «Città», 23 novembre 1944, ora in I

DEM

, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), cit., p. 65).

15

Se la prima edizione di Infanzia di Nivasio Dolcemare è datata 1941, il Savinio anagrammato si

ritrova per la prima volta in stampa alla fine del ’35: Con il titolo Due terzi della vita di Nivasio

Dolcemare (e sottotitolo: con ardita incursione nel futuro a guisa di epilogo), il nucleo centrale

dell’Infanzia appare infatti in otto puntate sull’«Italiano» – periodico mensile pubblicato da Leo

Longanesi –, dal novembre-dicembre 1935 al settembre-ottobre 1938.

(10)

117

conficcata nei lombi del quartiere palermitano di Brancaccio, il castello di Maredolce riposa nonostante tutto nella sua pace millenaria.

Costruito all’interno della Fawwarah (che sta per «sorgente», «acqua che sgorga»), il palazzo è la reificazione in tufo della koinè mediterranea e insieme dove poetico nel quale la terra irradia da sé la vita nella forma dell’acqua e nella struttura simbolicamente espressiva dell’architettura araba.

Ma sebbene Maredolce sembri fuoriuscito direttamente da un idillio saviniano in olio su tela, non ci sono scritti del Nostro che ruotino attorno al castello palermitano. Ma valgono anche qui le parole di Sciascia («se qualcosa ne avesse saputo più di una volta […] ne avrebbe scritto»), oppure possiamo andare al di là del testo, possiamo leggere il mondo «di memoria, di incidenze, di coincidenze, di rifrazioni, di corrispondenze» che ha plasmato Savinio come salvacondotto alle nostre deduzioni?

Lo spirito del critico, del resto, è debole di fronte alle carnose coincidenze della parola.

16

Nivasio è l’anagramma di Savinio, e rappresenta così tanto l’autore

stesso quanto un’alterità che tende a coincidere con lui ma che alla carne e ai nervi sostituisce carta e inchiostro; Dolcemare non accoglie in sé

16

Non mi risulta, a oggi, che la critica saviniana si sia interessata all’interpretazione del nome

Dolcemare come rovesciamento di quello del castello palermitano.

(11)

118

semplicemente un sostantivo – mare, che Omero «dice divino», «lo dice ondisonante, lo dice canuto, lo dice vinoso» –

17

tanto caro all’iconografia infantile dell’ateniese; Dolcemare non è un semplice richiamo a un’isola dispersa (la Sicilia perduta, omerica, araba e levantina), mai conosciuta eppure così presente nella sua memoria prima ancora che Savinio costruisse una sua propria memoria; Dolcemare è un desiderio ecumenico, una volontà

di riappropriazione, un vero grido di rivolta che si irradia fino a farsi corale, un modo diverso di dire «memoria».

Nivasio Dolcemare è un nome rilevante e denso, sinonimo di una rivoluzione uccisa nella stanza dei giochi ma che è necessario combattere;

una rivoluzione impossibile perché non guarda all’avvenire, ma alle infinite iridescenze plastiche della dea Mnemosine.

2. Il «pericolo rosa».

La mitologia totemica dell’infanzia si manifesta nel suo costante e mutevole sfarfallio cromatico, nel suo descriversi e pensarsi come cosmo appartato, separato da leggi, lingue e idoli differenti da quello adulto. I bambini, questi eroi in miniatura, cercano infatti fin dai primissimi anni di vita – prima che la coscienza si schiuda loro nell’incarno evolutivo – di affermare la propria identità, di configurarla come diversità in perenne

17

A

LBERTO

S

AVINIO

, Mare, in I

DEM

, Nuova Enciclopedia, cit., p. 250.

(12)

119

conflitto con la rigida griglia sociale cristallizzata dalla società dei grandi.

Rigidità di cui i bambini non possono comprendere i perché.

Se vuoi, o adulto, essere coerente con quel proposito che tu celi nel profondo di te stesso, traccia col carbone sulle facciate delle maternità questo avvertimento: «Attenzione! Qui nasce il pericolo!».

La più grande organizzazione di difesa che esista al mondo è quella che l’umanità ha levato e tiene in perpetua efficienza contro il pericolo dell’infanzia.

«Pericolo rosa».

Al loro ingresso nel mondo, i piccoli uomini sono accolti come nemici.

La guerra scoppia tra infanti e adulti, tra l’autorità costituita e questi fieri battaglioni di uomini minuscoli che movono alla conquista del mondo.

Che l’umanità sia così arida di cuore, così spenta di fantasia, così parca di ambizioni, così limitata di desideri; dinota che nella guerra quotidiana tra infanti e adulti, una «vile» vittoria corona di giorno in giorno la fronte degli adulti.

18

È di per sé evidente come Savinio parteggi irresistibilmente con il cosmo dell’infanzia – per solidarietà verso il più debole, per la propria natura di

«bambino prolungato» –, eppure nel Commento il destinatario del suo appello non è l’ecumene dei piccoli. Perché il suo romanzo non è una fiaba per bambini, la sua non è un’istigazione all’insurrezione «rosa». È agli adulti che si rivolge, alla maggioranza antropologica e militarizzata, a chi detiene il

18

A

LBERTO

S

AVINIO

, Commento alla tragedia dell’infanzia, in I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, a cura

di Paola Italia, Milano, Adelphi, 2001 p. 123.

(13)

120

potere di abbattere l’alterità, a chi lo esercita senza comprendere neppure l’orrore delle dinamiche mute che giorno dopo giorno trasfigurano il profilo dolce del bambino, a chi lo spinge a farsi qualcos’altro. Savinio vuole parlare a chi non realizza che è attraverso i dettagli mai insignificanti, nell’imposizione di modelli che non sono quelli propri del bimbo, che è tra le sfumature pigmentarie dell’educazione che avviene la metamorfosi in uomo, che è attraverso questo che si reitera ancora e ancora una volta la vera tragedia. Parla a chi pensa il bambino sia al sicuro tra le mura domestiche,

tra quelle della scuola, quando invece è proprio là che muore, è là che

«diminuisce»; è là che si fa creatura «dimezzata». Quello di Savinio è un invito alla coerenza – virtù tanto cara al conformismo dei «grandi» –, una proposta di rinegoziazione, di revisione di trattati che dalla nascita della civiltà

19

in poi hanno sterilizzato per «consorziare», per ridurre e contenere un’età che è più di tutte quella della creatività smodata e della magia iridescente.

E se l’ateniese mette in guardia i grandi dal «pericolo rosa», dalla «più grande organizzazione di difesa che esiste al mondo», dallo spettro a tinte pastello

19

«Troppo civile io sono da conoscere la vita. Non parliamo lo stesso linguaggio. Quello che ha senso per me, per un altro uomo non ha senso; e la vita è un altro. La vita è infelice all’uomo – infelice a me. E tanto basta. L’uomo è nella vita come in un elemento estraneo. Come un sommergibile dentro il mare. Ogni contatto rammenta questa insanabile incompatibilità tra noi e la vita. L’uomo perciò provvede a sopprimere tra sé e la vita ogni contatto, a isolarsi; e come il sommergibile per andare dentro il mare si riveste di un impermeabile involucro di acciaio, così l’uomo per navigare nella vita si riveste d’involucri materiali e spirituali. I quali hanno un nome: si chiamano civiltà. Quanto più spesso l’involucro, tanto più progredita la civiltà. Un involucro perfettamente impermeabile darà una civiltà perfetta, da spegnere al tutto la voce degli asini che di laggiù continueranno ad ammonire: «Abbandonate ogni artificio! siate semplici! siate naturali!»».

(I

DEM

, Lo Stato, in A

A

. V

V

., Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, a cura di

Salvatore Silvano Nigro, edizione originale a cura di Dino Terra, Palermo, Sellerio, 2014, p. 57).

(14)

121

che si aggira per l’Europa e per le epoche, la sua non è se non la trazione irrealizzabile dell’utopista, il tentativo di far dischiudere gli occhi a un’«adultità» che ha dimenticato la tragedia, che ha perso le sue radici:

Quale profonda rivoluzione nell’umanità se gli uomini cessassero di calare sull’infanzia una cortina di ferro iniziando di là dalla cortina la vita seria dell’adulto, e formassero la vita adulta come uno sviluppo dell’infanzia!

20

Cosa succederebbe se…, si chiede Savinio in una torsione immaginativa, perché analizzando la guerra di annientamento che ogni giorno si combatte tra bambini e adulti – queste creature dalle «palpebre cucite»,

21

questi esseri piegati dall’abitudine di «celare i [propri] trasporti sotto la maschera di una simulata indifferenza» –,

22

emergono con estrema chiarezza i profili delle due contrapposte identità belliche: quella dominante e abbottonata degli adulti, quella fresca, immaginifica e traboccante di desideri dei battaglioni degli uomini minuscoli. Un conflitto simile – e Savinio lo sa – è però drammaticamente scontato. Perché la disparità delle forze in campo è tale che l’unica prospettiva a offrirsi spontaneamente ai piccoli è quella del sacrificio, dell’annichilimento, della metamorfosi, della

20

I

DEM

, Lasciate che l’infanzia…, apparso in «Corriere d’informazione», 24-25 giugno 1948, ora in A

LBERTO

S

AVINIO

, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 730.

21

Cfr.: I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 39.

22

Ivi, p. 64.

(15)

122

scrematura – in altre parole – di quella parte di sé che l’adulto ha perso nello stesso trauma che adesso replica, nella stessa guerra, anni dopo, a parti invertite.

Sul fondale appiattito su cui si staglia, Nivasio Dolcemare torreggia così nelle tre dimensioni del reale, e senza la coscienza dell’adulto e altre armi con cui difendersi parte per la sua guerra nella condizione più ambigua ed enigmatica dell’evoluzione umana: quella infantile. Una guerra nella quale non ci sono elmetti, trincee di fango o bombardamenti all’iprite. Perché la distruzione della città dei piccoli si realizza con altri mezzi.

3. Sterilizzare per «consorziare»: due oggetti.

Il debutto in società del bambino, la festa grande che accoglie il suo ingresso nella città dei grandi è pregna di narcisismo, di ambiguità. Il «lieto evento» infatti – «Dottore, la nascita di un bimbo perché la chiamano “lieto evento”?» –

23

non viene celebrato per il nuovo nato, non è tanto un omaggio, un augurio, un benvenuto al nuovo arrivato. «Il neonato è un simbolo», e i festeggiamenti che lo accolgono un semplice rito famigliare. Un rito oscuro che sottende «un’altra cosa»:

23

I

DEM

, Infanzia di Nivasio Dolcemare, a cura di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi, 1998, p. 26

(16)

123

Feste circondano il neonato, l’allegria è di rigore? Ogni eccesso, si cerchi a quale «contrario» fa da contrappeso. Anche la gioia intorno al neonato è un eccesso – di cui bisogna scoprire il contrappeso.

La conduttibilità di elettricità dei corpi, è in proporzione alla refrattarietà di essi corpi all’elettricità.

Si ama il bambino, oppure nel bambino si ama un’altra cosa: la madre, l’amore, l’accoppiamento di cui lui, poverino, non è se non il frutto involontario?

Amiamo noi stessi nel bambino? Amiamo nel bambino il nostro proprio orgoglio?

La maternità oltre a tutto è un atto di orgoglio. Assurdamente, anche la paternità oltre a tutto è un atto di orgoglio.

Quando venne al mondo la mia bambina, i parenti si rallegravano con me «che certamente ero ben orgoglioso…».

Orgoglioso di che?... Vergognoso vorrete dire.

Basta avvicinare appena appena questo interrogatorio alla realtà dei fatti, per vergognarci di noi stessi.

Quali ragioni «dirette» noi abbiamo di amare il neonato – questo sconosciuto, questo «brutto» sconosciuto?

Il neonato è un simbolo. I simboli non si amano per se stessi. È il simbolo della nostra proprietà. Basta questo presupposto a giustificare l’ostilità, l’odio, la ribellione del figlio ai genitori. Del figlio «che vuole essere amato per se stesso»; del figlio, «questo incompreso»; del figlio nel quale vigila un sordo ibsenismo che ancora non ha trovato il suo Ibsen.

24

L’«altra cosa» che Savinio intende è il possesso, il capitale degli affetti, ed è partendo da qui che avvia la traslazione prospettica alla quale mira nella sua

24

I

DEM

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, pp.

123-124.

(17)

124

riscrittura del mondo dell’infanzia. Se il topos romantico da Lucrezio a Leopardi

25

aveva indicato nel legame tra adulto e bambino una identica comunione di dolore tra le parti, nella Tragedia l’ateniese insiste invece sull’incomunicabilità insita nell’impari rapportarsi dell’una con l’altra.

Perché infanzia e «adultità» non sono esperienze opposte, ma incompatibilmente differenti, incomunicabili tra loro; perché il bambino «è il simbolo della nostra proprietà», un semplice oggetto da ostentare. Chi possiede – i genitori – non avrebbe infatti un rapporto reale con chi è posseduto – il bambino –, poiché questi vivrebbe un’esperienza cosmicamente lontana, del tutto altra rispetto ai grandi; chi è posseduto,

specularmente, non riuscirebbe a comunicare con il suo possessore, perché non è l’individuo a possedere, ma è il tutto a farlo attraverso la mano lunga della società supina e borghese, attraverso le leggi e le imposizioni che questa società l’hanno edificata.

Adulti e bambini si pongono allora in un’antinomia acuta che configura un verticistico rapporto di classi in conflitto, nel quale il mondo dei grandi difende un’ideologia per salvaguardare se stesso, trasformando la classe inferiore in forza al servizio del potere stesso:

25

Se genitori e figli sono accomunati da un dolore collettivo, è anche vero come all’interno di questa

sofferenza per Leopardi i ruoli siano ben distinti: «…Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte

il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il

genitore / il prende a consolar dell’esser nato. / Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene,

e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo dell’umano stato: / altro

ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole. / Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita

/ chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura, / perché da noi si dura?» (G

IACOMO

L

EOPARDI

, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in I

DEM

, Canti, ).

(18)

125

Infanzia – onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai «grandi», questi reazionari.

Rivoluzione infaticabile e mai delusa, perché essa non sospetta la disfatta cui è destinata. Non veggono le retroguardie l’insidia nella quale le avanguardie cadono via via. Balda, fidente, l’avanzata continua da che mondo è mondo: l’inaridimento della fede, lo svaporamento delle illusioni avviene per dispersione, come fiume

«bevuto» dalla sabbia.

26

Ed è di fronte al progressivo e minaccioso ingrossarsi delle fila di questa classe subalterna che l’adulto utilizza tutti gli strumenti di dominio che la società ha forgiato per lui e dunque per sé, per irreggimentare e inquadrare, per limare e livellare, per totalizzare con la sua superiorità di fuoco la vittoria su quelli che già pregusta come futuri «grandi».

L’adulto chiama quest’opera di repressione col nome di «educazione», prima forma di reazione nella quale l’uomo s’imbatte nel suo proemio vitale.

Per questo, scrive Savinio,

Educare – «condurre» – ha perduto per sempre la sua ragione etimologica.

Educazione, sotto l’ipocrita maschera della bontà e della «necessità», non è se non la sistematica, scientifica, legale diminuzione dell’uomo, la castrazione completa, l’evirazione, la sterilizzazione dell’individuo, in vista della sua ammissione nel «consorzio».

27

26

A

LBERTO

S

AVINIO

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, pp.

125-126.

27

Ivi, p. 127

(19)

126

Questa «diminuzione dell’uomo», la sua «evirazione», nascono per Freud dalla necessità di rimozione degli istinti fondamentali dell’individuo, nel tentativo – così facendo – di salvaguardare, non solo la cultura, ma la società stessa, la comunità degli uomini, il «consorzio», che verrebbe altrimenti sconvolto dall’esplosione emotiva di energie primordiali sotto forma di bisogni da gratificare. «La concezione dell’uomo che emerge dalla teoria freudiana», scrive Marcuse, «è il più irrefutabile atto di accusa della civiltà occidentale – ed è al tempo stesso, la difesa più incrollabile di questa civiltà».

28

Per il Freud filtrato da Marcuse, quindi «la storia dell’uomo è la storia della sua repressione», poiché la cultura è capace di imporre

«costrizioni non solo alla sua esistenza nella società, ma anche alla sua esistenza biologica, e non solo a settori della sua esistenza umana, ma alla sua struttura istintuale stessa».

29

Questa repressione si svolge così su un doppio canale, sia all’interno della storia della civiltà sia all’interno della formazione dell’individuo, incidendo profondamente tanto nel primo quanto nell’altro campo, definendone per gran parte i limiti. Ma sarebbe un’ipotesi antistorica concepire un corso di cose completamente diverso: bisognerebbe immaginare il sovvertimento dell’ordine stesso della società. Ed è lì che vuole arrivare Savinio.

28

H

ERBERT

M

ARCUSE

, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1968, p. 59.

29

Ibidem.

(20)

127

Per evitare e insieme proteggersi da questa evenienza, l’umanità si è preparata per tempo. E senza soluzione di continuità, essa pratica così la rimozione e il soggiogamento delle immediate soddisfazioni istintuali, deviando le energie dei corpi verso altri obiettivi. L’individuo viene allora addomesticato a saper aspettare, a saper differire, a saper distinguere l’utile dal dannoso. Perché se la gratificazione immediata del desiderio porta alla distruzione dell’ordine sociale, la dilazione dei piaceri lo salvaguarda. Questa operazione di costruzione dell’uomo borghese

30

e conformista si chiama educazione, ed è attraverso questo dispositivo che – come scrive Freud – il principio di piacere si trasforma in principio di realtà.

E questa trasformazione di stato nell’uomo deve avvenire in maniera dirompente e traumatizzante. Solo così l’animale surrealista può farsi

«grande».

Scrive Savinio:

Si immagina un uomo la cui vita sia lo sviluppo naturale, conseguente dell’infanzia?

Una siffatta eventualità spaventa l’adulto – questo borghese generale.

30

Nell’accezione di «borghese», Savinio propone l’aggiornamento dei francesismi «pompiere» e

«pompierismo»: «Pompiere è colui che non pensa per criterio proprio, ma secondo schemi

prestabiliti e consacrati dall’opinione dei più. Il pompiere è incapace di opera originale, ossia viva e

pura, ma – o imitatores, servum pecus – fabbrica imitazioni di cose preesistenti e vistose. Il pompiere

pensa che una grande opera di poesia non può essere fatta se non sul modello della Divina

Commedia; che una grande opera di pittura non può essere fatta se non sul modello del Giudizio di

Michelangelo; che una grande opera di musica non può essere fatta se non sul modello della Nona

Sinfonia». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Sorte dell’Europa, Milano, Adelphi, 1977, p. 33).

(21)

128

E però il potere esecutivo dell’adultità recide l’infanzia: oltre a tutto, la vestizione della toga virile sanziona, con una cerimonia «ambita», l’inizio del «passo ridotto».

Un dovere illusorio e la solenne buffoneria della serietà, mascherano la tristezza mortificata di questo passaggio – dal giardino alla cella, dalla libertà al «dovere».

31

Attorno al passaggio dallo stato del gioco a quello di fatica e lavoro, Freud ha offerto paradigmi che – pur conoscendolo poco e male in questa sua fase narrativa – l’ateniese intuisce profondamente.

32

Ma con una differenza:

perché mentre lo psicanalista guarda all’uomo come la cosa del suo studio, lo scrittore si sente immerso, pienamente implicato nei fatti che analizza;

perché le vicende di cui si occupa, prima ancora di essere universali, sono le proprie.

33

Non può stupire allora come quell’onda d’avanguardia che si è fatta poi scuola surrealista sia attraversata da una melanconia forte, suggestione delle dottrine psicanalitiche e insieme presa di coscienza che il processo di repressione degli istinti serve a rendere più docile l’individuo nell’accettazione dell’ordine sociale. Ma la ribellione di Savinio non è tinta di rosso e di nero, non prende coscienza della realtà attraverso le lenti del

31

I

DEM

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 127.

32

Cfr.: M

ICHEL

D

AVID

, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1966, pp. 356- 362.

33

«Freud gli spiegava tante cose, ma gli sembrava in fondo profanare con il linguaggio clinico quel

tesoro nascosto dell’infanzia che Nivasio Dolcemare ha contato e ricontato in tutta la sua opera

d’uomo». (Ivi, p. 359).

(22)

129

materialismo storico,

34

non si rivolge all’umanità tout court, ma si abbatte, e con forza, contro questa specifica società, con quella che confonde paura e prudenza, difesa egoistica dei privilegi e amore figliale:

Al banchetto in casa di Agatone, Aristofane denunciò il vigliacchissimo trucco di Giove il quale, spaventato dalla forza e grandezza degli uomini suoi figli, li tagliò nel mezzo come pere e di ciascuno fece due.

Est deus in nobis? Il sistema gioviale piacque agli uomini, i quali presero a usarlo sui loro piccoli, affinché crescendo costoro non diventassero più dei padri grandi e forzuti. E tanto più efficace si dimostrò il sistema in quanto gli uomini lo perfezionarono, e dal taglio corporeo adatto a creature primitive e semplici, passarono al dimezzamento lento, sottile, scientifico delle facoltà.

35

Savinio, come Breton, come Eluard e Aragon, è così alla ricerca dell’uomo totale, dell’uomo non «dimezzato», dell’uomo libero dal quotidiano perdurare della prigionia, dalle mortificanti consuetudini.

36

Ma la mezza pera non può più farsi pera intera, e allora il soggetto da ricercare non

può che trovarsi all’indietro, in uno stadio di autenticità ferina, aurorale e

«feracissima» rintracciabile solamente nell’infanzia.

34

«L’aspirazione al socialismo e al comunismo, sono i pensieri degli uomini peggiori, degli uomini più piatti, la loro volontà di inasprire l’«educazione», «ridurre» maggiormente l’uomo». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 127).

35

Ivi, pp. 127-128.

36

Entrare nella società, «incivilirsi», vuol dire per Savinio diventare «mezzi uomini», ridursi «al formato comune del cittadino». E questa «riduzione al formato civile» comporta la perdita della

«curiosità» in favore della «compattezza». (Cfr.: A

LBERTO

S

AVINIO

, Ascolto il tuo cuore, città, cit.,

p. 25).

(23)

130

Ma da lucido intellettuale, il Nostro sa che la congiura della mediocrità è così radicata, così forte, che essa non ammette che nel miscuglio colloidale dell’humus sociale si installi il seme libero capace di fare degli uomini

«ragazzi grandi»:

Perché questo rigoroso divieto a una vita come «séguito» e

«continuazione» dell’infanzia? La terra è troppo piccola forse? Non c’è spazio sufficiente per una umanità di ragazzi «grandi»?

37

Una simile «deviazione della volontà», scrive Savinio, non è allora molto diversa da quella praticata dai regimi totalitari; eppure, se noi occidentali ci meravigliamo di come questo accada di là dai nostri confini politici,

«l’annientamento della volontà che l’educatore pratica sul bambino, perché non ci maraviglia più?».

38

Eppure, nonostante il dispotismo sociale, anche attraverso le maglie della repressione può casualmente verificarsi il miracolo, uno straordinario caso di evasione. Allora, per una complessa serie di circostanze, può capitare l’impossibile, l’inaspettato, e cioè che non si riesca a eviscerare da qualche bambino la sua propria volontà, la sua sfacciata unicità.

E quando questo accade, nel mondo degli adulti è arrivato un artista:

37

I

DEM

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 128.

38

Ivi, p .129

(24)

131

Una grande illusione maschera l’operazione tenebrosa: l’educazione è praticata a fin di bene.

Lo sviluppo naturale di una «volontà» è puro caso: caso di negligenza, caso di orfanismo, caso di artista. Un destino è sfuggito al controllo!

(Urlo d’allarme della sirena sul tetto del penitenziario). La paura dell’artista in famiglia – che si vuol giustificare con gli stenti, l’incertezza della vita d’artista – è il terrore che in seno alla famiglia, tra uomini «ridotti», abbia a formarsi un uomo di sviluppo pieno: un gigante.

Allo stesso Giove fecero paura gli «uomini doppi». Figurarsi alle belle famiglie.

Nei soli artisti – si sa – la vita adulta è la continuazione naturale dell’infanzia. Per tenerli buoni, si dice che gli artisti sono grandi fanciulli.

39

Conosciuto il miracolo, superate le avversità, l’artista rende testimonianza.

L’arte si configura allora come trazione continua verso l’autentico, come tentativo di rottura, come contraddizione al banale e trito svolgersi della vita dell’uomo, come principio di trasformazione della Storia.

40

Perché se l’arte – parafrasando Breton – è un atto cosciente al servizio della rivoluzione, qualunque operazione estetica incapace di provocare «una crisi

39

Ibidem.

40

«L’intelligenza è stata considerata come una forma sterile, nociva alla salute della nazione, gli intelligenti sono stati additati come i nemici della patria, e i risultati li vediamo. L’autorità odia l’intelligenza, perché nell’intelligenza sente l’avversario che presto o tardi la vincerà. L’autorità osteggia l’intelligenza per istinto di conservazione; […] Bisogna «liberare» la mente degli uomini.

Solo così gli uomini sentiranno veramente il bisogno di vivere liberi […]. Solo così gli uomini acquisteranno il diritto di vivere liberi. Altrimenti l’uomo non vuole libertà. Non vuole la libertà perché non ha bisogno della libertà; e anzi odia la libertà e la teme, e ama invece la schiavitù perché la schiavitù lo sorregge, lo protegge, lo colma, mentre la libertà lo abbandona a se stesso e lo lascia solo. Non si tratta di «istruire» gli uomini, cioè a dire di aumentare il numero delle loro cognizioni […]. Si tratta di insegnare all’uomo a vedere da sé le cose come veramente sono e a giudicarle».

(I

DEM

, Sorte dell’Europa, cit., p. 24, 51).

(25)

132

di coscienza della specie più generale e più grave»

41

rappresenta dunque un fallimento storico.

Il bambino sfuggito al tritacarne della massificazione si fa allora artista,

42

portatore, cioè, di una funzione messianica, di denuncia. Depositario di una memoria intatta che ha in sé l’opalescenza aurorale dei colori veri dell’esistenza, l’artista è colui il quale mette sotto accusa le strutture che consentono la replicazione continua della strage degli innocenti.

43

Per essenza, la sua sensibilità non può tollerare le mistificazioni:

Noi uomini di memoria pura, di coscienza immacolata, noi soli possiamo capire quanto stolta, quanto immorale è l’invocazione dell’uomo comune: «Ripetere l’infanzia, stagione spensierata della vita…»

Infanzia: a te, ingrato campo di battaglia senza onore, la memoria di noi uomini coscienti non si rivolge con nostalgia.

Non ti desidera: ti sfugge. Non t’invoca: ti ripudia. Ti vuol dimenticare – soprattutto.

41

A

NDRÉ

B

RETON

, Secondo Manifesto del Surrealismo (1930), in I

DEM

, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 2003, p. 64.

42

La riflessione di Savinio su fanciullezza e poesia sbocca nella definizione dell’«artista-fanciullo», e si costruisce – come del resto molte linee guida della sua poetica – attorno a concetti di matrice vichiana. Già dalle Degnità di Vico è infatti reperibile tanto l’associazione di poesia e libera creatività infantile, quanto la definizione dell’infanzia come stato artistico per eccellenza: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.

[…] Gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti». (G

IAMBATTISTA

V

ICO

, Scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977, p. 192).

43

«[…] il poeta e l’artista vivono in «condizione di lirismo», e il non poeta e il non artista vivono

fuori di questa condizione. Ma «condizione di lirismo» che cos’è?... Chiedete a un teologo di

spiegarvi la natura della grazia. La condizione di lirismo implica un suo proprio linguaggio, dà molte

volte alle parole un significato diverso dal comune, consente la soluzione dei problemi

apparentemente insolubili, apre l’animo a una «felicità» altrimenti ignorata». (A

LBERTO

S

AVINIO

,

Sorte dell’Europa, cit., p. 72).

(26)

133

Ogni ricordo, e sia pur l’ombra d’una reminiscenza di ciò che fu l’infanzia, è la conferma spietatamente crudele che la vita, per legge, è una sconfitta.

44

Si avverte potentemente in queste parole lo sdegno per le torture personalmente patite, la sfiducia esistenziale e la certezza che ad altri toccheranno simili sofferenze. La passione e l’impegno dello scrittore

«civico» creano allora un’enfasi dal profilo savonaroliano, un’impetuosità figlia della comprensione che il ruolo che si è scelto non è pacifico, che non si limita alla stesura di bei discorsi, di frasi perfette e limate, ma tende instancabilmente alla tessitura costante di una rete di messaggi e di comunicazioni, di un’intricata serie di interconnessioni con il reale; il ruolo che Savinio ha scelto è quello della creazione indefessa di una forma e di una coscienza per ciò che è ancora informe e incosciente.

45

Perché lo scrittore riveste una funzione capitale all’interno della società in cui opera. Perché attraverso le sue parole egli si raccorda alle cose, a tutte le cose pensate dalle generazioni che lo hanno preceduto; attraverso le sue parole si congiunge idealmente a tutte le cose che i suoi contemporanei pensano, ai pensieri di generazioni di là dall’oggi che si formeranno attraverso le parole che egli stesso ha usato. Per questo, scrivere non è un’azione pacifica. Perché scrivere vuol dire disporsi sulla scacchiera della realtà, perché scrivere vuol dire

44

I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 125.

45

Cfr.: I

DEM

, Prefazione a Tutta la vita, cit., pp. 11-12.

(27)

134

accettare una responsabilità formativa, perché scrivere è connettersi con l’altro, palesare le distorsioni sociali, trovare soluzione a questioni universali.

Scrivere è accogliere in sé l’obbligo tirtaico.

46

3.1 La «tremenda zanzariera bianca».

Non so se fosse primavera o già estate: il caldo era soffocante, la gola mi ardeva di sete. La mamma si ostinava a non darmi da bere, non voleva aprire la zanzariera. Perché tanta malvagità?

I miei mali, che se avessero trovato modo di farsi largo si sarebbero placati un poco e forse disciolti addirittura, venivano tutti da quella tremenda zanzariera bianca che dal soffitto pendeva a spegnimoccolo sul mio lettuccio.

47

La protasi di Tragedia dell’infanzia esplica e sintetizza in poche righe l’intera architettura dell’opera: Repubblica dei bambini e Regno degli adulti – stati confinanti dalle frontiere porose – hanno lingue nazionali di ceppo diverso, intraducibili, logicamente sconnesse, non travasabili, mute per

46

«Ora io ti domando, umanità, qual dannatissimo potere tu eserciti, da suscitare tante passioni e tanto astio in ognuno dei poveri consorti che compongono questo tuo corpo molle, enorme e senza volto? […] Quanto alla maldicenza che serpeggia, la buona e salutare e cristianissima, tutti le si ribellano, specie gl’infetti, e sviperando fuori dalle tane cercano mordere il mostro che possiede l’infando genio di rinfacciare a coloro le loro proprie facce, col sudiciume pure che macula la sottocute. Amano però comodamente sdraiati in poltrona, masochizzarsi all’estrosa riproduzione delle loro miserie, delle loro viltà, del loro sporchissimo dramma quotidiano». (I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 70).

47

Ivi, p. 15.

(28)

135

l’orecchio dell’altro. Non semplicemente distanti, opposte, ma incomparabili, incomunicabili.

48

Le immagini del bambino assetato e arso dalla febbre tifoide e quella della madre che, sorvegliandolo con severità, crudelmente si rifiuta di dargli da bere, offrono così la chiave interpretativa per entrare non solo all’interno del segreto che avviluppa tutto il romanzo, ma per penetrare nell’esistenza stessa dell’autore.

Fortemente significativa è la scelta incipitaria. La narrazione non esordisce infatti né con quelli che in psicoanalisi vengono definiti «ricordi di copertura» – cioè a dire connessi a fatti di rilievo dell’esistenza dell’uomo che fiancheggiano l’opera di rimozione degli istinti –,

49

né con ricordi secondari, spie di esperienze che in un tempo recente o remoto hanno avuto comunque importanza. Nell’esordio di Tragedia, infatti, «il ricordo si presenta non solo con un suo contenuto autenticamente mnestico, ma con un valore di simbolo chiaramente evidenziato nel Super-io».

50

Esordio che di per sé si colloca in una posizione di privilegio, poiché, come scrive Freud,

«proprio il ricordo che l’analizzato antepone agli altri, quello che cita per primo e col quale dà inizio alla sua confessione biografica, si dimostra il più

48

Riguardo ai «codici» propri del mondo infantile/adolescenziale si veda: J

EAN

C

OCTEAU

, I ragazzi terribili, Milano, Rizzoli, 2015. L’ambientazione mediterranea e «aperta» propria dell’infanzia di Nivasio e del suo fondale greco si condensano – nella traduzione parigina – nella «camera astratta, capace di ricrearsi in qualsiasi luogo» del romanzo cocteauiano. Interessante sarebbe a mio avviso uno studio approfondito delle concordanze d’intenti e d’azione di questi due pur così diversi artisti.

49

Cfr.: U

GO

P

ISCOPO

, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 139.

50

Ivi, p. 140.

(29)

136

importante, quello che cela in sé la chiave d’accesso ai comparti segreti della sua vita psichica».

51

La primavera o l’estate mediterranea nella quale si svolge la scena è generalmente associata alla massima libertà di movimento, alla leggerezza degli abiti, mentre qui Nivasio è costretto alla permanenza in decubito e a una velatura che in sé contiene già la prima menzogna del mondo adulto che l’ha prodotta:

Per un infingimento crudele quel velo simulava la levità delle nuvolette che fumano sui monti prima che il sole si levi, ma in effetto era una piramide di marmo, il coperchio di una tomba.

52

Nonostante sia sepolto sotto la volta lugubre della zanzariera, il bambino riesce ugualmente a giocare, ispirato dalle ombre e dalle pieghe dei veli di mussola, inseguendo forme che sbocciano e si destrutturano continuamente in una libera e vitale – ma non sempre piacevole – finzione:

Aggiungo il suo potere stregonesco. Le pieghe della zanzariera celavano migliaia di brutti ceffi o piccini come ranocchi o smisurati come cipressi che camminassero sulle radici divelte, i quali mi

51

S

IGMUND

F

REUD

, Un ricordo d’infanzia tratto da «Poesia e verità» di Goethe, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969, vol. I, p. 257.

52

A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 15.

(30)

137

serravano addosso, si pigliavano gioco dei miei tormenti, me li rendevano più aspri.

53

Mentre sopra la testa del piccolo malato si svolge la parata dei mostri, mentre la febbre e la sete lo costringono alla prigionia, la madre osserva silenziosa.

Basterebbe solo che la sua mano scostasse il velo, ed entrerebbero luce e aria fresca, si disperderebbe l’orda dei «brutti ceffi», da ogni parte affluirebbe la vita. Eppure la madre non si muove, non fa nulla affinché il miracolo avvenga, si chiude in un’ostinazione inflessibile e totalitaria, che tutto vede e tutto può:

Le colonnine del letto, quelle sì che erano fresche! Ma come salire lassù? Guai se mi fossi lasciato sorprendere con la fronte poggiata a quei ferri refrigeranti.

Un sollievo così piccolo, e ascritto questo pure fra i beni proibiti.

54

«Perché tanta malvagità?» si chiede disperato il bambino, perché quell’ostilità se non c’è una colpa da punire? Una di fronte all’altro, madre e figlio sembrano così racchiudere nella loro immobilità plastica tutto il senso della Storia, che si realizza compiutamente con l’avvento di un’altra figura:

53

Ibidem. Il corsivo è mio.

54

Ivi, pp. 15-16. Il corsivo è mio.

(31)

138

il padre, divinità onnipotente venuta a gustare lo spettacolo sadico che si svolge sotto i loro occhi genitoriali pieni di crudeltà:

I miei genitori non li riconoscevo più. Erano inumani, si compiacevano a farmi soffrire. Perché? […]

Come negare che la gioia più intima dei nostri genitori si nutre delle sofferenze di noi bambini?

55

Ma sebbene entrambi i genitori si spartiscano equamente i benefici derivanti dal sacrificio infantile, partecipando come spettatori paganti a un dramma degno dell’ingegno del Divin Marchese, è vero anche come il loro rapporto con il bambino sia differente. Il padre è infatti un ingrediente inessenziale nell’ambito del quotidiano svolgersi dei giorni, e risulta illuminato solo indirettamente dalla madre e dalla sua ardente luminescenza. Nella logica freudiana del ricordo d’esordio, di lui non c’è infatti traccia, e la sua presenza è semmai agglutinata all’indistinto e multiforme grumo di mostri e di fantasmi che volteggiano sulla testa di Nivasio. Se il padre acquista forma è così solo per un capriccio materno, per la sua voglia di compagnia davanti alla sadica pantomima. Avrebbe potuto anche non comparire mai.

La madre, che è principio di gioia e di vita, diventa così generatrice di dolore senza misure e di morte quando rifiuta di accontentare i desideri del figlio.

55

Ivi, p. 16.

(32)

139

Infame diventa poi il suo atteggiamento se non solo nega il ristoro, ma si diverte con il compagno nella contemplazione delle sofferenze figliali.

Nivasio, abbandonato a se stesso, sprofonda così nel più nero sconforto che ha i contorni della resa incondizionata al nemico:

Libere e potenti come sono, le persone grandi anche quando s’ammalano nessuno le può punire. Ma noi bambini che non godiamo degli stessi privilegi, il meno che ci possa capitare è che la terribile Vecchia venga a portarci via.

In che guaio mi ero andato a cacciare!

Una grande pietà mi saliva dal cuore, una calda compassione di me stesso.

56

Immerso in un’atmosfera lugubre, a Nivasio non resta allora che piangere, tuffando «la faccina nel guanciale caldo del mio fiato»,

57

mentre la sua fervida immaginazione vola alle terribili punizioni che dall’altra parte della stanza i suoi crudeli genitori stanno certamente preparando per lui. E se la memoria in questi casi è in grado di ovattare i ricordi, di renderli così meno tremendi, meno vividi nel presente, la sensazione che di quei giorni il bambino conserva dentro di sé – e che la narrazione rende nitidamente manifesta attraverso una mirata scelta aggettivale – è quella di una tortura inspiegabile:

56

Ivi, p. 17.

57

Ibidem.

(33)

140

Dei momenti più bui della malattia quasi non serbo traccia. Ricordo appena che qualcuno ogni tanto mi tirava su dal letto. Viaggiavo interminabilmente per lunghi corridoi spogli, per vaste camere deserte.

Immense, le nostre ombre ci accompagnavano sul muro. […]

D’un tratto una gran luce mi abbagliava, il fiato mi si troncava in gola:

mi avevano tuffato dentro un’acqua diaccia che non vedevo.

Intorno, tutto è oblio e oscurità.

58

Ma sulla china dell’incomprensione, la tragedia si muta spesso in farsa.

Non si può infatti resistere a lungo all’interno del trauma, perché l’esistenza stessa è inconciliabile con uno sconvolgimento continuo. E se anche una simile evenienza dovesse manifestarsi, la natura stessa dell’uomo la trasformerebbe in apparenza di normalità, e l’abitudine avrebbe allora la funzione di valvola di scarico. Così, quando una sera estiva un Nivasio oramai ristabilito esce al seguito dei genitori che gli comprano il gelato, tra di loro si svolge un dialogo dalle venature grottesche.

Il bambino si distrae, e lascia che il mantecato si sciolga mentre un profondo e sottile turbamento eccita la sua immaginazione e i suoi sensi. I genitori ne attribuiscono subito la causa a un ritorno del morbo, e così dall’esame eziologico arrivano senza soluzione di continuità al battibecco attorno a un sintomo dalla natura esclusivamente sentimentale:

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Ivi, pp. 17-18. Il corsivo è mio.

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«Non finisci il tuo gelato?».

Mi destai di soprassalto. […]

Il cubicello del mantecato, sciolto in un laghetto iridescente, lambiva le sponde del piattello.

Guardai la mamma terrorizzato. Che risponderle?

Ma già la mamma si era rivolta al babbo:

«Non mangia il suo gelato! Lo dicevo io! una pazzia farlo uscire di sera!

Questo bambino mi sta di nuovo male!».

«O se sei stata tu la prima a insistere!».

«Io?».

«No, io! Ma guarda un po’!».

Si palleggiarono la responsabilità, finché la mamma, più istintiva, riportò il suo cruccio su me.

Il vero colpevole della imprudente passeggiata notturna non era né lei né il babbo, ma io. Che stava per capitarmi?

La sua mano mi tastò la fronte, il ganascino, strisciò tra il bavero e la pelle della schiena.

«Dio mio! I brividi!».

Era solletico, ma io non lo dissi.

«Fuori la lingua!».

Stettero entrambi a fissare la mia lingua, preoccupatissimi dapprima, poi via via più imbambolati, infine delusi.

Allora, piano piano, io mi riportai la lingua a casa.

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Ma perché il bambino tace? Perché accetta una verità che egli sa essere falsa?

Nivasio non ha nessuno a cui confidare il motivo del suo turbamento;

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non un amico che lo ascolti. Figurarsi poi parlare con il babbo e con la mamma,

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Ivi, pp. 99-100. Il corsivo è mio.

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«Perché turbarmi nei miei pensieri? Febbre non è la mia. Non di quelle in ogni modo causate da

«forme tifoidi», come dice il vecchio Saltas. Avverto sì un imprecisabile turbamento, ma non è cosa

che voi possiate capire, né io tanto meno confidarvi. […] Confidarmi. Ma con chi?». (Ivi, p. 100).

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