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QUALE FUTURO PER IL DANNO ALLA SALUTE? Prof. Francesco Donato Busnelli

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Academic year: 2022

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QUALE FUTURO PER IL DANNO ALLA SALUTE?

Prof. Francesco Donato Busnelli*

l. Verso una terza fase del processo evolutivo del danno alla salute

La vicenda giurisprudenziale che, nel corso dell'ultimo decennio, ha impresso una svolta fondamentale al sistema della valutazione del danno alla persona si sta ormai avviando verso una terza fase del suo tormentato processo evolutivo. Le prime due fasi sono ampiamente note; e ad esse, comunque, sarà fatto più volte riferimento nel corso della trattazione.

La prima fase ha coinciso con la solenne affermazione del nuovo principio: il principio al quale ci si deve attenere - stabiliva la Corte di Cassazione nella sentenza n.3675 del 1981 - è quello per cui il danno cosiddetto biologico deve essere considerato risarcibile anche se non incidente sulla capacità di produrre reddito, ed anzi indipendentemente da quest'ultima. Si recepivano in pieno, cosi, le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale: che, nella sentenza n.88 del 1979, aveva affermato l'esigenza ~ costituzionale, appunto - di configurare il diritto alla salute tutelato dall'art.32 Cost. "come un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati", e conseguentemente di ammettere la piena risarcibilità di tutti "gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza o conseguenza".

La seconda fase, non ancora del tutto superata, inizia immediatamente dopo, ed è caratterizzata da un'applicazione disordinata, spesso contraddittoria e talvolta "scriteriata, (nel senso letterale del termine) del nuovo principio da parte dei giudici di merito. Si è parlato, senza esagerazione, di l'anarchia del dopo principio: “un’anarchia che è continuata, sia pure in termini meno clamorosi, nonostante il nuovo, fondamentale apporto costruttivo offerto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.184 del 1986.

Il passaggio a una terza fase, di consapevole reazione all'anarchia e di paziente ricerca di un modello ricostruttivo omogeneo nelle sue grandi linee, trova ora nuovi, e forse non meno temibili, ostacoli. Invero, se come si è appena visto lo scenario degli anni 180 in materia di danno alla salute era caratterizzato dalla cosiddetta l'anarchia del dopo principio" quello degli anni 190 si apre all'insegna di una sorta di antinomia, anzi di una doppia coppia antonimica; sulla quale vorrei concentrare la nostra attenzione, cominciando dalla prima di esse.

2. Il “nuovo corso” della giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla valutazione del danno alla salute: un ritorno al criterio equitativo puro?

Orbene, per un verso, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez.III, 13 gennaio 1993, n.357 - Pres. Bile, Rel. Rebuffat), innovando rispetto ai precedenti della stessa Corte, affronta in modo approfondito il problema della valutazione del danno alla salute, superando cosi tanto una prima fase in cui la Corte di Cassazione riteneva di non doversi occupare di questo problema, quanto una seconda fase (anni 185) in cui essa elencava alcuni criteri di valutazione del danno alla salute dicendo che erano tutti criteri attendibili. "Rimeditata la questione", si afferma che il criterio fissato dall'art. 4 della legge 26 febbraio 1977 n.39 in materia di RCA (triplo delle pensione sociale) non può essere utilizzato per la liquidazione del danno alla salute”: “la liquidazione equitativa del danno deve essere logicamente coerente col tipo e con la specie di danno considerato e tale coerenza manca in qualsiasi criterio - ivi compreso il cosiddetto triplo

* Ordinario di Diritto Civile alla Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento S. Anna di Pisa

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della pensione sociale - che assuma a parametro il reddito personale del danneggiato. D'altro canto - precisa la Suprema Corte il giudice del merito non può basarsi sul "fragile presupposto dell'appare equo; ma ha il "dovere di motivare in sentenza anche se si avvalga di criteri equitativi per fini strettamente estimativi".

Questa sentenza, che ha tutta l’aria di avviare un "nuovo corso” nella giurisprudenza di legittimità, è stata interpretata dai primi commentatori come una sorta di ritorno al criterio della determinazione equitativa pura, che in dottrina è stato di recente autorevolmente riproposto.

3. I progetti di riforma della R.C.A.: una tendenza legislativa alla standardizzazione?

Per altro verso, i primi anni 190 registrano una vicenda legislativa incompiuta che sembra, a prima vista, andare in una direzione diametralmente opposta. Si tratta di uno sfortunato progetto di legge diretto a introdurre "modificazioni alla disciplina dell'assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore": sfortunato perché una sua prima versione (il cosiddetto disegno Amabile), dopo aver ottenuto l'approvazione tanto del Senato quanto, con alcune modifiche, della Camera dei Deputati durante la X legislatura, era stata

"Picconata" dall'allora presidente Cossiga; mentre l'ultima versione, riproposta con ulteriori modifiche nel corso dell’XI legislatura, è decaduta a seguito dell'anticipato scioglimento delle Camere, dopo aver ottenuto l'approvazione del Senato. Orbene, le due versioni del progetto sembrano avere in comune l'adozione di un criterio di determinazione uniforme e standardizzata del danno alla salute: il cui risarcimento - statuiscono, rispettivamente l'art.26, comma 1, della prima versione e l'art.17, comma 1, dell'ultima - deve essere determinato ai sensi "dell'allegato B alla presente legge", ove si fa riferimento a un valore multiplo (tassativamente determinato, nella prima; indeterminato, nell’ultima) dell'ammontare annuo della pensione sociale.

4. L'antinomia tra vicenda giurisprudenziale e vicenda legislativa è più apparente che reale.

E' vera antinomia, dunque, quella che intercorre tra l'orientamento delineato dalla Corte di Cassazione nella sentenza appena ricordata, che sembrerebbe rilanciare un criterio equitativo puro, affidato alla discrezionalità (o all'arbitrio?) del singolo giudice caso per caso, e l'indirizzo che parrebbe trarsi da una vicenda legislativa che insiste su criteri uniformi e standardizzati, ancorati a "presupposti di eguaglianza" (art.26, comma 1, cit.)?

Ebbene, contrariamente a quanto potrebbe risultare da un confronto íctu oculi, 11 antinomia qui è forse più apparente che reale, o quanto meno può essere drasticamente ridimensionata, sol che si rilegga con maggiore cura l'articolata motivazione della sentenza n.357/93 della Suprema Corte, per un verso, e per altro verso si presti maggiore attenzione alle modifiche introdotte nella seconda versione del progetto di legge in materia di RCA con lo specifico obiettivo di ovviare ai penetranti rilievi di illegittimità costituzionale che erano stati alla base della picconatura, della prima versione del progetto.

Rileggendo la motivazione della sentenza, infatti troviamo scritto a chiare lettere che il risarcimento è ... determinabile equitativamente (arg. ex artt. 2056 e 1226) mediante individuazione del valore umano, perduto, fatta attraverso la personalizzazione, nel caso concreto, quantitativa (con aumenti o diminuzioni) o persino qualitativa (con scelta tipologica diversa), di parametri uniformi per la generalità delle persone fisiche, (i corsivi sono nostri); e, più avanti, scopriamo tra le righe un cauto, ma preciso, invito al giudice del merito - che proceda alla

"determinazione, nel caso concreto, della consistenza del risarcimento del danno alla salute" - a ispirarsi, per esempio, la pertinenti criteri metodologici suggeriti dalla dottrina specialistica o di diffusa applicazione giurisprudenziale, ma, pure in quei quadri dalla basilare uniformità categoriale, facendolo sempre flessibilmente, definendo così una regola ponderale su misura del

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caso specifico". Sembra allora di poter dire che questa sentenza, che i primi commentatori hanno per così dire etichettato come sentenza del ritorno al criterio equitativo puro, in realtà si muove in

un'ottica di contemperamento tra esigenza di uniformità ed esigenza di flessibilità, né più né meno di come suggeriva la notissima sentenza n.184/86 della Corte Costituzionale, quando nella parte conclusiva della sua motivazione precisa di non voler proporre l'una assolutamente indifferenziata, per identiche lesioni, determinazione e liquidazione dei danni", ma di accogliere l'indirizzo della "recente giurisprudenza di merito che assume il predetto criterio equitativo dover risultare rispondente da un lato a una uniformità pecuniaria di base... e dall'altro ad elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione del caso di specie all'effettiva incidenza dell'accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l'efficienza psicofisica del soggetto danneggiato". orbene, la Corte di Cassazione, lungi dal discostarsi dall'impostazione data dalla Corte Costituzionale, la sviluppa orientandola verso criteri di valutazione del danno coerenti e motivati.

5. Quanto alla vicenda legislativa alla quale prima si accennava, vanno attentamente valutate le modifiche, apparentemente di piccolo conto, ma a ben vedere assai significative, tra la prima e l'ultima versione del progetto. L'art. 17 di quest'ultima stabilisce che “il risarcimento del danno provocato dalla lesione alla integrità psicofisica spetta indipendentemente dalla incidenza dalla lesione sulla capacità di produrre reddito. Esso è previsto e determinato sulla base dei criteri dell'allegato B alla presente legge, fermo il disposto dell'art. 1226 del codice civile.” Quest'ultimo inciso è nuovo, cosi come nuova è l'assenza di un riferimento al principio di eguaglianza, che figurava nell'art.26 del cosiddetto disegno Amabile: nel quale, per contro, mancava una norma corrispondente all'ultimo comma dell'art.17, secondo cui "il giudice può tuttavia procedere alla liquidazione del danno in via equitativa qualora il risarcimento derivante dall'applicazione dei criteri di cui al presente articolo non risulti adeguato, avuto riguardo alle comprovate e particolari caratteristiche oggettive e soggettive del caso concreto". Ora, sol che si provi a inserire in un quadro sistematico queste innovazioni, si perviene agevolmente a una soluzione, che ancora una volta si sforza di conciliare uniformità di base e flessibilità, intesa come aderenza al caso concreto.

Quale può essere, infatti, il significato del richiamo dell'art.17 all'art.1226 del codice civile se non quello di consentire al singolo giudice di correggere mediante una valutazione del caso concreto i risultati a cui si arriverebbe sulla scorta dei criteri enunciati nelle tabelle allegate alla legge? Il che è quanto dire che si intende propugnare un criterio uniforme temperato da una possibilità di correzione. Qual è, d'altro canto, il significato dell'ultimo comma aggiunto alla stessa norma, se non quello di consentire al giudice, in casi particolarmente gravi e/o anomali, e previa adeguata motivazione, di operare al di fuori dalle tabelle, rifacendosi direttamente a un criterio di determinazione equitativa pura del danno?

In conclusione, la vicenda giurisprudenziale e la vicenda legislativa che abbiamo posto a confronto sembrano potersi collocare in un quadro meno antinomico di quanto si sarebbe portati a ritenere a prima vista. La antinomia è dunque più apparente che reale. In realtà, da questo quadro sembrano emergere tentativi diversi, ma non necessariamente inconciliabili, di raggiungere una soluzione di contemperamento tra esigenza di uniformità e esigenza di flessibilità: obiettivo, questo, che è sempre stato perseguito nelle ricerche che sono alla base della presente trattazione, fin dalle sue prime edizioni.

6.Passando alla seconda, preannunziata antinomia, va subito detto che qui, invece, di vera antinomia si tratta.

Lo scenario degli anni ‘90 registra infatti, da una parte, un processo che chiamerei dilatazione della tutela della salute all’interno della responsabilità civile, lungo una linea di omologazioni successive che dalla salute conduce al benessere, alla serenità, alla libertà sessuale alla felicità, in una parola alla "capacità di godere la vita" (Trib. Udine, 13 maggio 1991); dall'altra, un processo di concentrazione nella tutela della salute di un obiettivo primario di tutela della persona in

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quanto tale, destinato a fungere da minimo comune denominatore tra responsabilità civile e sicurezza sociale.

7. Punti di avvio del processo di dilatazione della tutela della salute sono tre pronunce degli ultimi anni 180, che coinvolgono giurisprudenza di merito, giurisprudenza di legittimità e giurisprudenza costituzionale.

La prima in ordine di tempo è una sentenza della Corte di Cassazione: Cass. 11 novembre 1986, n.6607. L'equiparazione proposta è, qui, tra il diritto alla salute e il diritto reciproco di ciascun coniuge ai rapporti sessuali con l'altro coniuge"; e la conclusione che se ne deduce è che la

"soppressione,, (il termine decisamente inelegante è tratto dalla motivazione) di quest'ultimo diritto, ,menomando la persona del coniuge in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia ... è, allo stesso modo risarcibile ..- quale danno che non è né patrimoniale né patrimoniale, bensì menomazione del modo di essere e di svolgimento della persona.

La seconda decisione è della Corte Costituzionale. Si tratta di Cost. , 18 dicembre 1987, n.

561, che dichiara l'illegittimità costituzionale della disciplina normativa dettata dal Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra "nella parte in cui non prevede un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici". Si prospetta, qui, una l'analogia" tra tale

"consumazione, (altro termine inelegante!) e la “lesione del bene giuridico della salute, in quanto valore personale garantito dalla Costituzione”; e se ne deduce che, “la violenza carnale comporta, di per sé, la lesione di fondamentali valori di libertà e di dignità della persona, e può dar luogo a pregiudizi alla vita di relazione” (voce di danno, questa, ormai anacronistico).

"Tali lesioni - questa è la conclusione - hanno un autonomo rilievo sia rispetto alle sofferenze e ai perturbamenti psichici che la violenza carnale naturalmente comporta, sia rispetto agli eventuali danni patrimoniali a questa conseguenti: e la loro riparazione è doverosa, in quanto i suddetti valori sono, appunto, oggetto di diretta protezione costituzionale".

La terza sentenza è una decisione di merito: Trib. Milano, 16 maggio 1988. Vi si afferma che

"gli stretti congiunti della vittima di sinistro stradale ... abbiano un titolo autonomo, svincolato dalla figura del danno morale, da far valere in giudizio per ottenere il ristoro del danno costituito dalla violazione del diritto alla cosiddetta serenità familiare". La configurazione di 'tale diritto sarebbe "dettata dalle esigenze innovativi che hanno portato ad una progressiva tutela di valori personali per lo più garantiti dalla Costituzione (es. diritto alla libertà sessuale, alla salute, ai rapporti sessuali coniugali, ecc." : una progressione questa, sintetizzabile in un trend che dal valore della salute conduce al desiderio della felicità.

E’, questo, un t:rend destinato ad avere un crescente, quanto disordinato, sviluppo nei primi anni ‘90 all'insegna di una incontrollata dilatazione della tutela della salute, a cui si accompagna spesso un riacutizzarsi dell'anarchia del dopo-principio", con il conseguente pericolo di duplicazione risarcitoria.

Esemplare, in tal senso, è una sentenza del Tribunale di Monza (2 aprile 1992), che distingue, cumulandoli, tra danno alla capacità lavorativa e danno alla salute, e tra quest'ultimo (specificato come danno biologico in senso stretto) e un non meglio precisato "pregiudizio biologico alla sfera sessuale e relazionale", a sua volta distinto dal danno morale.

Vi è poi un imprevedibile "risveglio" del "danno alla vita di relazione", considerato come

"danno-

in questo senso, distinto dal dannocome "danno-evento" (Trib.Verona, 15 conseguenza" e, in questo senso, distinto dal danno biologico inteso come "danno-evento" (Trib.Verona, 15 ottobre 1990).

Dal cosiddetto danno-evento si passa disinvoltamente all'evento lesivo, ritenuto di per sé fonte di risarcimento senza soverchie preoccupazioni di qualificarlo in termini di danno. E talvolta l'evento lesivo viene sic et: simpliciter identificato con il fatto storico di non aver più il marito o il padre o il figlio" (Trib. Treviso, 5 maggio 1992), o con l'alterazione dell'ordinario svolgimento

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della vita familiare con conseguenze incidenti sul 'valore uomo, di ciascun familiare convivente che subisce, quindi, un danno di natura psicofisica (danno biologico)" (Trib.Milano, l. febbraio 1993).

Tale danno - precisano i giudici lombardi - "non abbisogna di prova specifica potendosi ritenere compresa nel notorio la diminuzione della capacità psico-fisica dei soggetti che si trovano nella citata condizione,” (morte di un congiunto).

Si tratta, peraltro, di prese di posizione facilmente controvertibili: prova ne sia, per restare alla giurisprudenza del Tribunale di Milano, diametralmente opposta è, al riguardo, la conclusione a cui perviene un'altra sentenza a poco più di due mesi di distanza: "Al di là delle sofferenze provocate dalla morte del coniuge - afferma categoricamente Trib. Milano, 15 aprile 1993 - non si vede come la mancanza di questi possa sic et simpliciter menomare l'integrità psicofisica del superstite”, la lesione dell'integrità psicofisica di un soggetto conseguente alla morte di un congiunto è astrattamente prospettabile - si precisa - ma essa deve identificarsi con l'insorgere o l'aggravarsi di una vera e propria malattia psichica, pur se manifestantesi nelle forme più varie (ansia, depressione, difficoltà nell'intrattenere rapporti con gli estranei, fobie, ecc.”, fermo restando che “incombe alla parte che assume di aver subito la lesione l'onere di provarne la sussistenza”.

E non manca, per completare il variegato panorama offerto dal Tribunale di Milano nel corso dell'anno 1993, una posizione intermedia, che potrebbe definirsi in termini di “danno psichico presunto” “si ritiene osserva Trib. Milano, 2 settembre 1993 che la morte dell'unica figlia abbia comportato per i genitori. ... un'alterazione dell'equilibrio mentale, sia pure come difficoltà di partecipazione alle attività quotidiane e demotivazione nella vita futura”.

Al solo fine di indicare, conclusivamente, fin dove può arrivare il segnalato trend di dilatazione della tutela della salute, può citarsi una sentenza del Pretore di Trento (Pret.Trento, 22 febbraio 1993): il quale, preso atto “dell'insistente corteggiamento” a cui un datore di lavoro aveva sottoposto la propria dipendente, anche mediante pesanti ingerenze nella sua vita personale (basti pensare alla richiesta di incontrarsi durante le ferie)” provocando nella giovane “un sicuro turbamento nella sfera emotiva (alla quale la scienza attribuisce un ruolo di grande rilevanza nello sviluppo e nel benessere psichico della persona) “, giunge alla conclusione che “appare equo, alla luce delle cisrcostanze del caso concreto, determinare il danno biologico in L.10.000.000”: alla quale somma “appare equo, tenuto conto dell'entità della sofferenza, di cui certamente la ricorrente è rimasta vittima nel dover subire, contro la sua volontà, un atteggiamento affettuoso del datore di lavoro, aggiungere il danno morale”, quantificato in altri dieci milioni.

8.A questo processo di dilatazione della tutela della salute all'interno della responsabilità civile si contrappone, come si è già accennato, un processo di concentrazione nella tutela della salute del minimo comune denominatore tra responsabilità civile e sicurezza sociale.

"Preannunziato" da alcune decisioni della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione a metà degli anni ‘80 (a cominciare da Cass., 25 maggio 1985, n. 3212, e da Cass., 21 marzo 1986, n.2012), questo processo raggiunge il suo acme con le tre sentenze che nel corso del 1991 la Corte Costituzionale ha dedicato, appunto, al probema della configurabilità (e indennizzabilità) di un danno alla salute fuori dal terreno di elezione della responsabilità civile, concentrando la sua attenzione sul settore della tutela previdenziale degli infortuni sul lavoro.

La prima di tali sentenze (C.Cost., 15 febbraio 1991, n.87), dopo aver rilevato che l'esclusione del danno alla salute dalla tutela assicurativa del lavoratore non può dirsi in sintonia con le norme generali degli artt.32, comma 1, e 38, comma 2, Cost., ne deduce che "la menomazione dell'integrità psicofisica del lavoratore, prodottasi nello svolgimento e a causa delle sue mansioni, debba per sé stessa, e indipendentemente dalle sue conseguenze ulteriori, godere di una garanzia differenziata e più intensa, che consenta quella effettiva, tempestiva ed automatica riparazione del danno che la disciplina comune non è in grado di apprestare". La seconda di esse (C.Cost., 18 luglio 1991, n.356), conseguentemente, specifica e ripropone un "chiaro invito" al legislatore affinché proceda tempestivamente a "una riforma del sistema assicurativo idonea ad apprestare

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una piena e integrale garanzia assicurativa rispetto al danno biologico derivante da infortunio sul lavoro o da malattia professionale". La terza decisione, infine, "ribadisce che il principio costituzionale dell'integrale e non limitabile risarcibilità del danno biologico implica che l'INAIL non può avvalersi, ai fini dell'azione di regresso, delle somme che il responsabile deve all'infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico", a sua volta identificato - non senza, come si vedrà, il rischio di interpretazioni devianti - quale danno biologico "non collegato alla riduzione o perdita della capacità lavorativa generica".

9 L'antinomia sembra, qui, inevitabile. Il danno alla salute, per assurgere al ruolo di voce di danno capace di transitare con semplici adattamenti delle tecniche di liquidazione dal terreno della responsabilità civile a quello della sicurezza sociale senza perdere la propria fisionomia unitaria, non può rinunziare alla sua originaria vocazione di "prima, essenziale, prioritaria" posta di danno risarcibile, tanto per usare la nota formula consacrata dalla sentenza n.184/1986 della Corte Costituzionale.

In particolare, essenzialità implica concentrazione, non dilatazione dei confini della tutela della salute; e priorità significa centralità, non marginalità o frammentarietà del relativo danno.

La stessa Corte Costituzionale, tornando sul tema della tutela previdenziale degli infortuni sul lavoro con la sentenza n.37/1994, mostra di essere vigile nel respingere una proposta interpretativa di dilatazione dei confini della tutela della salute enunciata dall'ordinanza di rimessione: il rilievo del giudice a quo, secondo cui il danno morale, che non ha ovviamente natura economica, costituisce pur sempre una lesione della salute psicofisica, non tiene conto - afferma la Corte - della lettura 'costituzionale, degli artt.2043 e 2059 c.c. indicata dalla giurisprudenza di questa Corte, peraltro in armonia con le più accreditate acquisizioni della dottrina civilistica e della giurisprudenza di legittimità".

Maggiori sono, invece, i rischi sul versante di una progressiva - e non sempre consapevole - erosione della contralità del danno alla salute: rischi che traggono origine da una lettura non sufficientemente meditata (o, al contrario, meditatamente distorsiva?) di alcuni passaggi della motivazione di Corte cost. n.356/1991 che, facendo riferimento ai profili del danno alla salute

"non collegati all'eventuale diminuzione della capacità lavorativa", hanno fatto pensare a una distinzione giuridicamente rilevante tra tali profili e gli altri, che finirebbero con il coincidere con una riduzione della , tanto contestata capacità lavorativa generica".

Questa interpretazione affrettata (o tendenziosa?) è stata accolta con particolare favore in dottrina da quanti hanno ritenuto di poter invocare così l'autorità della Corte Costituzionale a sostegno della "reviviscenza" di una categoria (la capacità lavorativa generica, appunto) che sembrava definitivamente superata; e, in giurisprudenza, da alcune Corti di merito che, rilanciando la commisurazione in termini di opportunily cost del valore del cosiddetto tempo libero, attribuiscono alla menomazione di tale valore una quota di 2/3 della liquidazione complessiva del danno alla salute (quota che viene conseguentemente esclusa dalla surroga a favore dell'INAIL), mentre ritengono che la restante quota di 1/3 sia liquidabile a titolo di “danno alla capacità lavorativa” (Trib. Milano, 19 marzo 1992), e come tale suscettibile di surroga.

Contro questa interpretazione - implicitamente smentita, tra l'altro, dalla stesssa Corte Costituzionale che nella sentenza n.71/1993 ribadisce la “diversità ontologica”, tra “perdita o riduzione della capacità lavorativa e “danno biologico"“ come tale “non indennizzato dall'INAIL"

si sono pr onunziati: in dottrina, quanti respingono in linea di principio ogni ipotesi di marginalizzazione e/o di frammentazione della categoria del danno alla salute, ribadendone i caratteri fondamentali di unitarietà, di compendiosità, di non frazionabilità e, quanto ai criteri liquidativi, di aredditualità; nella giurisprudenza di merito, le categoria del danno alla salute, fondamentali di unitarietà, di decisioni sempre più numerose che colgono nel tentativo di far

"rivivere, la capacità lavorativa generica "un'operazione concettuale di segno sostanzialmente restaurativo, rispetto alla ... moderna concezione giurisprudenziale del danno biologico”, e mettono in guardia “dall'equivoco di... confondere concetti assolutamente eterogenei sotto il

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profilo ontologico quali il danno alla salute e la capacità lavorativa” (Trib. Torino, 11 dicembre 1993; ma v. già Trib. Piacenza, 19 maggio 1993 e 22 maggio 1993); e, soprattutto, nella giurisprudenza di legittimità, l'orientamento assunto dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione, che in termini fin troppo apodittici tende a bollare come l'errate le decisioni di merito che ritengono il danno alla salute già ricompreso, in tutto o in parte, nell'indennità erogata dall'INAIL (Cass., 8 luglio 1992, n.8325; Cass, 23 giugno 1992, n.7663).

10.Se, dunque, qui l'antinomia è reale, si impone una consapevole e coerente scelta di fondo tra i due possibili itinerari che il danno alla salute è chiamato a percorrere nei prossimi anni.

L'itinerario che prende le mosse dal processo di dilatazione della tutela della salute all'interno della responsabilità civile è destinato a svilupparsi secondo le seguenti linee: un graduale spostamento del fulcro della tutela risarcitoria della salute dal danno (reale) conseguente a una menomazione psicofisica accertata dal medico legale al danno (presunto) coincidente con eventi (di varia natura) che possono turbare il benessere esistenziale della persona; una persistente divaricazione tra risarcimento civile e indennità presidenziale solo in minima parte corretta da una voce comune di danno alla salute, inteso residualmente come danno aggiuntivo che si riflette sul

"tempo libero" della persona; una criptica tendenza ad ancorare al reddito della persona lesa la valutazione del danno alla salute non riconducibile al profilo del Il tempo libero": tendenza che nel settore presidenziale si manifesta attraverso l'opinione di quanti ritengono già indennizzato tale danno dalla vigente normativa del Testo Unico, e che nel campo della responsabilità civile trova espressione nelle ( per ora sporadiche) sentenze che tornano a commisurare sic et simpliciter il danno alla salute al reddito lavorativo del soggetto leso (v., per esempio, Pret. Livorno, 27 febbraio 1991).

L'itinerario che poggia sulla concentrazione nella tutela della salute del minimo comune denominatore tra responsabilità civile e sicurezza sociale è indirizzato verso i seguenti obiettivi:

consolidazione di un concetto rigoroso di danno alla salute inteso come conseguenza di una menomazione psicofisica medicalmente accertata; uniformazione tra regole risarcitorie e misure previdenziali (all'uopo necessariamente da riformare) in ragione di tale voce comune di danno, informata a principi di unitarietà, compendiosità, non frazionabilità e aredditualità; riproposizione all'interno dell'unitaria nozione di danno alla salute (in senso lato), della distinzione, ormai penetrata anche in ambito giurisprudenziale (v., per esempio, App.Roma, 2 luglio 1986; Trib.

Firenze, 4 marzo 1992), danno biologico e danno alla salute - o, come a noi sembra preferibile (cfr. Trib. Pisa, 16 gennaio 1985, n.1), ha aspetto statico e aspetto dinamico del danno alla salute, in funzione delle diverse tecniche di liquidazione: tecniche fondate su parametri uniformi, nel primo caso; e tecniche ispirate a criteri flessibili di adeguamento dell'uniformità pecuniaria di base alle peculiarità del caso concreto, nel secondo caso.

11. La scelta di fondo tra i due itinerari è una scelta obbligata a favore del secondo di essi per chi, ripudiata la tradizionale affermazione per cui il guadagno è il parametro del danno alla persona, da tempo si sforza di accreditare la nuova idea forza secondo cui “il risarcimento del danno alla salute ...mira invece a restaurare o conservare la dignità sociale, (art.3, comma 1, Cost.) del danneggiato, tutelando in questo senso il suo diritto alla salute".

Il primo itinerario, infatti, risulta distorsivo rispetto a tale idea-forza in quanto rischia di approdare a uno dei seguenti risultati: o quello di reintrodurre più o meno apertamente il cosiddetto referente retributivo nella valutazione del danno alla salute (sintomatica, al riguardo, è l'impegnata motivazione di Pret. Livorno, 27 febbraio 1991, cit.); o quello di emarginare il danno alla salute (inteso, allora, come danno edonistico ) facendo inopinatamente rivivere figure di danno (cosiddetto menomazione dell'efficienza lavorativa, danno alla cosiddetta vita di relazione) che sembravano definitivamente abbandonate.

Il secondo itinerario è indubbiamente più impegnativo, se non altro perché rende necessario e urgente un intervento legislativo, del resto reiteratamente suggerito dalla Corte Costituzionale; ma

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è l'unico che consente di proseguire il cammino del danno alla salute senza paralisi o inversioni di rotta.

Proseguire il cammino del danno alla salute significa, allora, superare le antinomie del momento attuale sciogliendo la prima di esse, più apparente che reale, e affrontando la seconda, senz'altro reale, con una chiara scelta di fondo.

12. Sciogliere la prima antinomia equivale a riproporre la distinzione tra l'aspetto statico del danno alla salute (che, identificandosi con la menomazione psicofisica, si presta a una liquidazione standardizzata) e il suo aspetto dinamico in senso stretto (che, dovendo tener conto dell'effettiva incidenza della menomazione nel caso di specie, implica un contemperamento tra esigenze di uniformità e esigenze di flessibilità), non più in termini di contrapposizione o di alternatività, ma piuttosto in termini di possibile complementarietà.

Perché questo avvenga, occorre sganciare la liquidazione del danno alla salute dai criteri elaborati dalla giurisprudenza genovese (che, com'è noto, dopo aver fatto riferimento in una prima fase al reddito medio nazionale, ha poi adottato il criterio delineato dall'art.4 della legge n.39/77, assumendo come parametro un reddito annuo pari al triplo della pensione sociale) , per ricercare parametri uniformi che prescindano da referenti reddituali e appaiano "coerenti col tipo e con la specie di danno considerato".

E' quanto ha iniziato a fare, nel suo "nuovo corso", la Corte di Cassazione: la quale ipotizza, come si è accennato, che un quadro di "basilare uniformità" possa ispirarsi “a pertinenti criteri meotodologici suggeriti dalla dottrina specialistica o di diffusa applicazione giurisprudenziale" . Sembra, questo, un autorevole invito a dare avvio a una ricerca diretta a raccogliere e sistemare l'esperienza giurisprudenziale che si è venuta accumulando disordinatamente nei nostri Tribunali : invito che è stato prontamente recepito dal Gruppo pisano di ricerca coordinato da M. Bargagna.

Un punto, comunque, è certo. Se venisse riproposta una tabellazione legislativa, essa dovrebbe avere un'oggettiva base di riferimento. E questa base non potrebbe più essere costituita dal semplicistico riferimento a un multiplo della pensione sociale - alla stregua degli allegati ai ricordati progetti di riforma della RCA - , ma potrebbe invece fondarsi su una raccolta sistematica della giurisprudenza che ambisca a trarne criteri ordinati e ordinanti, cosi da trasformare, con opportuna elaborazione, il diritto vivente in diritto positivo.

Il danno alla salute, cosi recuperato a una liquidazione "logicamente coerente", potrebbe svolgere una duplice funzione. Nel suo aspetto statico, esso potrebbe fungere da referente ordinario per la liquidazione dei danni alla salute sui quali non sorga controversia, nonché da anello di congiunzione tra responsabilità civile e sistema previdenziale, cosi da realizzare quel minimo comun denominatore in termini di danno alla salute su cui insiste la Corte Costituzionale.

Al tempo stesso, esso potrebbe costituire una sicura base uniforme di riferimento per la valutazione del danno alla salute nel suo aspetto dinamico, affidata al singolo giudice nella sua incomprimibile funzione di “adeguare la liquidazione del caso di specie all'effettiva incidenza dell'accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana”.

Sulla scorta delle indicazioni desumibili dalle modifiche introdotte nella seconda versione del progetto di riforma della RCA più volte citato - modifiche che meriterebbero di essere confermate in una eventuale riformulazione del progetto -, tale adeguamento potrebbe avvenire in due modi:

o attraverso un intervento correttivo dei risultati a cui perverrebbe una standardizzata liquidazione del danno alla salute; o attraverso un motivato intervento derogatorio, diretto a sostituire tale liquidazione con una valutazione equitativa pura del danno alla salute in casi particolarmente gravi e/o anomali.

13. Affrontare la seconda antinomia con una chiara scelta di fondo nel senso già indicato significa, anzitutto, ribadire che il danno alla salute - sia che esso venga liquidato secondo parametri uniformi con riferimento al suo aspetto statico, sia che esso venga valutato con criteri flessibili con riferimento al suo aspetto dinamico - presuppone una menomazione psicofisica medicalmente accertata; che esso va, per quanto possibile, rigorosamente distinto dai meri stress

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emozionali e dal cosiddetto danno-dolore, ai quali si addice piuttosto la previsione dell'art.2059; e che il suo risarcimento "costituisce un primo, essenziale, prioritario risarcimento, che ne condiziona ogni altro" (Corte Cost. n.184/1986, cit.).

Coerentemente, occorre quindi enucleare i principi che contraddistinguono in maniera irrinunciabile tale figura di danno: il principio della unitarietà, che osta a una settorializzazione del danno alla salute (distinto in danno civile, professionale, ecc.); il principio della compendiosità, che implica l'assorbimento di alcune pseudofigure di danno (danno alla vita di relazione, incapacità lavorativa generica) ormai prive di rilevanza autonoma; il principio della non frazionabilità, che non consente di operare distinzioni tra attività lavorativa, cosiddetto tempo libero, relazioni interpersonali, nella valutazione complessiva del danno; il principio della aredditualità dei criteri di valutazione del danno.

I chiarimenti concettuali, qui proposti sulla base di un'analisi del tormentato processo evolutivo del danno alla salute, sono essenzialmente mossi da uno scopo ben compendiato nella motivazione di una sentenza della Corte di Appello di Roma (2 luglio 1986: pres. Ruperto; est. Cajaniello):

quello, cioè, di “eliminare il pericolo di conclusioni e soluzioni equivoche incomprensibili, nel tentativo di offrire il contributo più idoneo e concreto all'incanalamento dell'attuale anarchico fluire delle più disparate esperienze giurisprudenziali nel quadro ordinato di un coerente modello ricostruttivo".

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