• Non ci sono risultati.

Parte 1: Lo scenario di riferimento: internazionalizzazione e globalizzazione

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Parte 1: Lo scenario di riferimento: internazionalizzazione e globalizzazione"

Copied!
10
0
0

Testo completo

(1)

Parte 1: Lo scenario di riferimento: internazionalizzazione e globalizzazione

Per globalizzazione s’intende la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione sovranazionale. In altre parole, una quota crescente dell’attività economica mondiale ha luogo tra soggetti che vivono in paesi diversi.

In termini economici, quando parliamo di globalizzazione, intendiamo un processo di integrazione delle economie dei diversi stati, ossia un processo che riduce, ed eventualmente elimina, gli ostacoli che si frappongono alla libera circolazione di beni, servizi, capitali, persone e conoscenze. Questo processo porta alla creazione de mercati globali (o mondiali), ossia mercati che trascendono i confini nazionali.

Le conseguenze dell’integrazione economica sono diverse:

m Oggi, la distanza geografica non è più un fattore determinante di protezione contro la concorrenza. In altre parole, i processi competitivi avvengono a livello sovranazionale (poiché, appunto, le imprese devono confrontarsi con l’economia mondiale) e, di conseguenza, nella maggioranza dei settori, la tensione concorrenziale è accentuata.

m La globalizzazione impone alle imprese di confrontarsi anche con nuovi clienti che hanno molte più opzioni di scelta a disposizione.

m La globalizzazione comporta anche una ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, delle modifiche nelle politiche di allocazione delle risorse su scala internazionale (poiché è maggiore il numero di paesi in competizione per attirare flussi di investimento) e processi di convergenza fra diversi sistemi di capitalismo (attraverso flussi di investimento cross border).

m La globalizzazione determina la veloce propagazione di fenomeni di instabilità finanziaria ed economica e l’indebolimento del ruolo dello stato nazionale.

Tuttavia, nonostante la globalizzazione sia una minaccia per le imprese, è anche un’opportunità di valorizzare in ambito internazionale le competenze specialistiche.

Evoluzione e tendenze in atto nell’integrazione dei mercati

L’economia mondiale ha vissuto tre fasi di globalizzazione:

1. 1870-1914: grazie a tre innovazioni principali, ossia la costruzione di navi a vapore robuste e veloci (tempi di navigazione e. di conseguenza, costi di trasporto ridotti), l’apertura del Canale di Suez nel 1869 (tempi di navigazione ridotti) e l’inaugurazione del servizio telegrafico transatlantico tra Londra, New York, Melbourne e Buenos Aires (trasmissione di informazioni, a livello transcontinentale, quasi immediata), i flussi commerciali internazionali, i movimenti di capitale e i flussi migratori

aumentarono moltissimo.

Nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale, ci fu una disintegrazione del sistema di relazioni economiche internazionali che si erano sviluppate negli anni precedenti. Infatti, ci fu una chiusura dei mercati poiché i governi imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sui movimenti delle merci, dei capitali e della forza lavoro.

Nonostante i controlli furono annullati nel 1918 e molti paesi vissero un periodo di prosperità grazie ai fondi ricevuti da America e Germania, nel 1929, con il crollo della borsa di New York, il sistema delle relazioni economiche internazionali fu nuovamente sottoposto a tensioni insopportabili che portarono ad una crisi economica gravissima.

Per reagire a questa crisi, nella maggior parte dei paesi, vennero adottate politiche commerciali che comportavano l’uso combinato di svalutazioni monetarie (per sostenere l’esportazione delle proprie merci) e l’aumento dei dazi doganali (per indirizzare la domanda interna verso i prodotti nazionali). Questo, chiaramente, generò un crollo nel commercio internazionale che, a sua volta, causò una “grande depressione”.

Nonostante alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si accorsero degli effetti negativi di tali politiche e cercarono di minimizzare i danni attraverso diversi Acts, nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale.

2. 1945-1980: con la conferenza di Bretton Woods (1944) e le influenze di Keynes iniziò la seconda fase della globalizzazione, basata sul libero scambio e sulla deregolamentazione. Più nello specifico, nella Conferenza di Bretton Woods, venne stabilito che i problemi economici non dovessero essere affrontati unilateralmente con l’imposizione di limitazioni agli scambi (à la cooperazione internazionale era fondamentale), vennero costituiti la Banca Mondiale (volta ad eliminare la povertà nel mondo) e il Fondo Monetario Internazionale (volto alla promozione della cooperazione monetaria internazionale, della stabilità dei tassi e della crescita economica) e vennero definite le premesse per il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade).

Gli Stati Uniti cancellarono tutti i debiti accumulati dagli alleati nei loro confronti e, anche a causa del conflitto che si era avviato con l’URSS, decisero di programmare la ricostituzione dei paesi europei attraverso il Piano Marshall, un piano d’aiuto finanziario. Grazie a questi aiuti, l’Europa si riprese rapidamente.

Anche altre regioni geografiche, come il Giappone, le “Tigri Asiatiche” (Taiwan, Hong Kong, Singapore e Corea del Sud) e il Medio Oriente, riuscirono a replicare il successo europeo e ad accrescere il loro ruolo economico. Per esempio, il Giappone, nonostante gli effetti disastrosi della seconda guerra mondiale, nella metà degli anni ’60 divenne la seconda potenza economica al mondo grazie allo sfruttamento dell’alto livello di capitale umano e di condizioni peculiari, come gli alti livelli di risparmio e investimento del popolo giapponese che rendevano possibile finanziamenti a lungo termine e a basso costo per le imprese. Per quanto riguarda il Medio Oriente, invece, la crescita fu dovuta prevalentemente alla grande disponibilità di petrolio presente in diversi stati arabi (Iran, Iraq, Arabia Saudita, etc.). Infatti, questi paesi, nel 1960, diedero vita all’Opec (organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) che, per esempio, nel 1973, in vista della quarta guerra arabo-israeliana, aumentarono repentinamente il prezzo del petrolio (da 3$ a 30$). A causa di questo aumento e della dipendenza da questa fonte energetica dei paesi industrializzati e in via di sviluppo, ci fu un periodo di “stagflazione” (stagnazione della produzione e occupazione associata ad un’elevata inflazione).

Gli altri paesi del mondo, invece, rimasero sostanzialmente ai margini dello sviluppo economico. Per esempio, i paesi dell’America Latina trovarono difficile il passaggio da un’industrializzazione volta alla riduzione delle importazioni ad una volta alle esportazioni. Inoltre, gli shock petroliferi (anni ’70) peggiorarono maggiormente le bilance commerciali.

(2)

In sintesi, la riduzione dei dazi e delle barriere artificiali conseguenti a Bretton Woods, insieme alla continua riduzione dei costi ti trasporto, fecero aumentare il commercio internazionale. Infatti, il rapporto tra commercio estero e PIL mondiale

raddoppiò, ritornando ai livelli toccati nella prima fase della globalizzazione. Invece, i flussi internazionali di capitale e lavoro, pur riprendendosi, rimasero su livelli inferiori rispetto a quelli raggiunti nella prima fase (poiché, per esempio, nonostante la liberalizzazione, molti paesi imponevano comunque dazi piuttosto elevati nei confronti dei paesi in via di sviluppo per beni diversi da quelli primari).

3. 1980 – oggi in corso: la terza fase della globalizzazione è caratterizzata da un ulteriore sviluppo del commercio internazionale, degli investimenti diretti esteri e dei flussi migratori.

Per quanto riguarda lo sviluppo del commercio internazionale, le economie nazionali si sono aperte ulteriormente agli scambi con l’estero (infatti, oggi, gli scambi mondiali di merci superano di più di dieci volte quelli del 1950) e, di conseguenza, è aumentato il peso delle esportazioni e delle importazioni sul PIL (dagli anni ’80 ad oggi, infatti, il tasso di crescita dei flussi di commercio è più elevato di quello del PIL). L’unico momento di recessione è stato nel biennio 2008-2009 (gli scambi mondiali sono diminuiti di 1/5) ma, dopo questa riduzione, dalla seconda metà del 2009, la domanda mondiale si è ripresa.

Anche gli investimenti diretti all’estero sono aumentati grazie alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, al miglioramento delle infrastrutture mondiali, al diffondersi dei servizi alle imprese e all’affermazione delle tecnologie dell’informazione che consentono di ridurre i costi di coordinamento delle attività svolte in paesi distanti.

Oggi, gli IDE riguardano prevalentemente l’industria manifatturiera e i servizi. Nel caso del settore manifatturiero, vengono utilizzati per frammentare la produzione a livello internazionale (delocalizzazione delle attività/ciclo produttivo scomposto in fasi separate). Inoltre, oggi, gli IDE considerano i paesi in via di sviluppo sia come destinatari, che come attori da cui si generano flussi in uscita (talvolta indirizzati verso altri paesi in via di sviluppo, es: investimenti reciproci tra India e Cina).

La differenza principale tra questa fase di globalizzazione e quelle precedenti è la forte partecipazione ai mercati globali di numerosi paesi in via di sviluppo, che hanno ottenuto un vantaggio competitivo nei prodotti e nei servizi labour intensive. Per questo, la struttura del commercio estero si è modificata radicalmente. Infatti, il commercio estero intra-industry (commercio orizzontale), ossia di beni appartenenti alla stessa categoria merceologica, prevale sul commercio estero inter-industry, basato sui divari tecnologici tra paesi.

Un’altra differenza importante è la crescente dematerializzazione dei flussi commerciali, dovuta all’aumento della componente intangibile dei prodotti (es: macchinario con relativi servizi di assistenza tecnica) e alla crescita dello scambio di servizi veri e propri (che non sono legati alla produzione e, talvolta, sono sostitutivi di essa // es: trasporti/telecomunicazioni).

Le determinanti dell’integrazione dei mercati

Come già detto, oggi l’economia mondiale è prevalentemente basata sul libero scambio di merci, tecnologie, servizi, capitali, persone e conoscenze, che sono in grado di spostarsi da un paese all’altro in modo semplice, rapido e meno costoso.

I fattori della globalizzazione sono quattro:

1. Sviluppo scientifico e tecnologico: le conoscenze scientifiche sono delle vere e proprie risorse produttive, nel senso che sono sempre più fondamentali nei processi produttivi. Più importanza assumono nei processi produttivi, più importante diventa la dimensione internazionale dei processi competitivi per tre motivi:

a) Il sapere scientifico è transnazionale, cioè può essere originato in contesti diversi e nessun paese è autosufficiente e indipendente rispetto alle conoscenze tecnologiche sviluppate e disponibili nelle altre nazioni, e interaziendale, cioè nessun’azienda dispone delle risorse, conoscenze e competenze sufficienti per affrontare da sola i rischi connessi allo sviluppo di un sapere scientifico e tecnologico sempre più complesso.

b) Inoltre, ormai, gli investimenti connessi allo sviluppo scientifico e tecnologico in alcuni settori sono talmente elevati che sono diventati necessari mercati di grandi dimensioni (i mercati nazionali spesso non sono sufficientemente vasti).

c) Infine, i tempi di obsolescenza dei prodotti nuovi si sono abbreviati, per cui gli investimenti devono essere ammortizzati in tempi più ristretti. Per questo, i mercati devono essere estesi in modo tale da riuscire a conseguire adeguati volumi di vendita in periodi brevi à è necessario entrare in nuove aree geografiche.

In sintesi, qualunque azienda, se intende procedere nello sviluppo di nuovo sapere, deve essere aperta verso l’esterno e deve, dunque, scambiare il proprio know-how con altri, anche per procedere verso ulteriori conseguimenti tecnologici (reti di imprese à imprese collegate da processi di scambio tecnologico, che si suddividono il rischio e l’incertezza della sperimentazione).

2. Progressi nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: oggi, il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e le telecomunicazioni sono i fattori trainanti dell’integrazione dell’economia internazionale. La diffusione del computer e il progresso della tecnologia della comunicazione (telefono) hanno consentito l’aumento della capacità di trasporto delle informazioni di oltre un milione di volte. Il fenomeno più significante è stato la diffusione della rete Internet, che permette a chiunque di entrare in contatto con chiunque in qualsiasi parte del mondo si trovino a costi bassissimi. In altre parole, annulla la distanza tra acquirenti e venditori (molti prodotti vengono scambiati online, in uno spazio virtuale che annulla le distanze).

Internet, inoltre, agevola enormemente la raccolta e l’utilizzo di informazioni utili all’impresa per conoscere il proprio mercato di riferimento in ogni paese in cui opera (es: attraverso i social media/feedback).

3. Diffusione dell’economia di mercato: in seguito alla Conferenza di Yalta (1945), l’Europa e, di conseguenza, il mondo, si divisero in due blocchi politico-militari contrapposti (uno guidato da USA, uno guidato da URSS). A questa situazione, chiaramente, corrispondevano due sistemi economici opposti: “economia di mercato” (la soddisfazione della maggior parte dei bisogni è affidata a imprese private e a meccanismi regolatori del mercato) e “economia di piano” (la soddisfazione della maggior parte dei bisogni è affidata allo Stato e a meccanismi di pianificazione centralizzata). Nella seconda metà degli anni

’80, però, ci furono vari processi evolutivi che portarono in breve tempo alla dissoluzione dell’Unione Sovietica in repubbliche indipendenti. Insieme alla caduta de muro di Berlino (1989), la “guerra fredda” e la divisione del mondo in due blocchi finirono.

(3)

Per questo, anche i paesi dell’Europa centro-orientale si aprirono (e sono tutt’oggi aperti) all’economia di mercato,

intraprendendo un rapido processo di sviluppo economico (maggiori importazioni + insediamento di impese estere sul proprio suolo). Molte imprese occidentali acquistarono i loro impianti che erano sofisticati ma che, allo stesso tempo, assicuravano costi di produzione nettamente inferiori. Oggi, questi paesi sono entrati a far parte dell’UE.

Contemporaneamente, anche i paesi dell’Estremo Oriente si sono aperti, favorendo cambiamenti dei sistemi economici verso modelli di mercato. Nonostante questa apertura, molti paesi asiatici, conservano ancora alcuni comportamenti cardine del sistema socialista, le regolamentazioni governative che guidano lo sviluppo e il ruolo centrale attribuito al mercato (es: Cina, dove il governo vuole creare un’economia socialista di mercato, non capitalista).

4. Riduzione delle barriere agli scambi e agli investimenti internazionali: gli accordi internazionali sottoscritti da vari paesi hanno consentito la riduzione delle barriere agli scambi e agli investimenti che erano state costituite negli anni precedenti e successivi alla guerra. Il primo accordo fu il GATT (stabiliva che ogni stato contrante dovesse contribuire alla riduzione delle tariffe doganali e degli altri ostacoli agli scambi). In seguito, ci furono il Kennedy Round (1964-67) e il Tokyo Round (1975- 1980) che intaccarono le barriere tariffarie e non tariffarie. Poi, con l’Uruguay Round (1988-94), però, la maggior parte dei paesi passarono dai sistemi di accordi internazionali basati su tariffe e prezzi, come il GATT, ad un accordo caratterizzato da un organismo internazionale, il WTO o OMC (World Trade Organization/ Organizzazione Mondiale del Commercio), dotato di capacità giuridica di regolazione delle controversie relative al commercio internazionale. L’azione del WTO ha tre obiettivi principali:

a) migliorare le condizioni di accesso ai mercati, attraverso la riduzione delle barriere artificiali

b) promuovere la concorrenza leale, attraverso un lavoro di estensione e razionalizzazione delle regole (es: governi possono imporre misure come il dumping)

c) promuovere la crescita dei paesi in via di sviluppo.

Al WTO partecipano 164 paesi e altri 19 paesi, come l’Iran, stanno negoziando i termini del loro ingresso.

Oltre a questo, ci sono stati anche alcuni interventi di riduzione delle barriere artificiali adottati a livello di singole “aree regionali plurinazionali” (trade bloc). Per esempio, l’Unione Europea negli ultimi anni si è ampliata (27 paesi) e il rapporto che lega gli stati membri si è approfondito, nel senso che l’integrazione monetaria, commerciale ed economica è aumentata.

In altre parole, vengono stipulati accordi di cooperazione e integrazione economica fra paesi appartenenti ai trade blocs.

Questi accordi possono essere:

a) Aree di libero scambio: nascono quando i paesi si accordano per eliminare o ridurre le barriere alla libera circolazione di merci e servizi tra le proprie economie. In altre parole, il commercio viene liberalizzato limitatamente alle merci prodotte nell’area. Es: NAFTA (accordo in vigore tra Stati Uniti, Messico e Canada).

b) Unioni doganali: comportano la riduzione o l’eliminazione delle barriere interne e la presenza di tariffe esterne comuni sui prodotti importati dai paesi terzi. Non comportano la libera circolazione di lavoro e di capitali. Per questo, generalmente si tratta di uno stadio di passaggio. Es: La Comunità Europea era un’unione doganale prima di diventare mercato comune.

c) Mercati comuni: formati da paesi che, oltre agli accordi tipici di un’unione doganale, beneficiano al loro interno della libera circolazione di servizi, incluso il lavoro, e di capitali. All’interno di essi ci possono essere anche accordi di natura fiscale, monetaria, di politica sociale e/o di difesa militare. Es: Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Cile).

d) Unioni politiche: nascono per assicurare il miglior raggiungimento degli obiettivi economici, monetari e sociali perseguiti dai diversi paesi. Non sono federazioni ma funzionano come sistema politico autonomo, con proprie istituzioni decisionali. Es: UE.

I nuovi protagonisti della globalizzazione

Fino al primo quarto del ‘900, lo sviluppo dell’economia mondiale era guidato dai paesi avanzati, i pionieri della rivoluzione industriale ottocentesca. Il resto del mondo, infatti, cresceva molto più lentamente. Questo, chiaramente, dava luogo ad una grande divergenza nei livelli di benessere fra Nord e Sud, Est e Ovest.

Nell’ultimo quarto del ventesimo secolo, tuttavia, questa divergenza è venuta meno. I paesi occidentali, infatti, registrano da anni una diminuzione dei tassi di crescita delle loro economie mentre i cosiddetti “paesi emergenti” si stanno espandendo (infatti il loro peso sul PIL mondiale ha superato il 50%).

Non esiste una definizione di “mercato emergente” o “paesi emergenti”. Negli studi di management, nello specifico, si ritengono “emergenti” quei mercati caratterizzati dalla compresenza di alcuni fattori prevalentemente di natura economica:

ridotta ricchezza pro capite, arretratezza del mercato di capitali, sviluppo economico impetuoso approssimato al tasso di crescita del PIL, grado di industrializzazione crescente e apertura agli investimenti esteri crescenti.

Alcuni mercati emergenti sono considerati più “interessanti” di altri a causa delle loro dinamiche economiche e demografiche.

Per esempio, tra il 1980 e il 2005, la Cina, ha registrato un tasso di crescita annuale del PIL poco inferiore al 10% e l’India ha registrato un tasso di crescita annuale del PIL quasi del 6%. In generale, dal 1950, i paesi in via di sviluppo dell’Estremo Oriente asiatico hanno più che raddoppiato la loro incidenza complessiva sul PIL mondiale, a scapito dei paesi occidentali industrializzati e di quelli appartenenti all’ex blocco sovietico. Allo stesso modo, è aumentata la loro incidenza sulle esportazioni mondiali.

Anche l’Africa, nonostante la povertà, la violenza e la corruzione siano ancora prevalenti in molti paesi, presenta prospettive interessanti. Infatti, gli stati democratici sono aumentati e i tassi di crescita (pur partendo da una base molto bassa) sono tra i migliori del mondo.

Il ruolo dell’Italia nell’economia internazionale

Il tasso di crescita del PIL italiano era inferiore alla media dell’area Euro e lo sviluppo dell’economia italiana era piuttosto scarso. A questa situazione, dovuta prevalentemente a problemi strutturali irrisolti, a partire dalla seconda metà del 2008, si sono aggiunti gli effetti della recessione causata dalla crisi finanziaria negli Stati Uniti. Quest’ultima, da crisi di liquidità, è diventata una crisi di fiducia, che ha avuto un impatto soprattutto sul livello degli ordini provenienti dall’estero. In altre parole, le esportazioni sono diminuite notevolmente.

(4)

Nonostante questo, dal 2010 le esportazioni sono tornate ad essere crescenti (l’Italia è tra i primi 10 paesi esportatori nel mondo e seconda in Europa, dopo la Germania). La ripresa delle esportazioni, inoltre, ha contribuito al miglioramento del saldo di conto corrente italiano che è tornato in attivo nel 2013.

La quota dell’Italia sull’export mondiale, tuttavia, è diminuita molto (dal 4,5% del 1995 al 2,9% del 2016) a causa dei cambiamenti nella geografia economica internazionale. Più nello specifico, le esportazioni italiane hanno subito le maggiori perdite di quota nei prodotti di consumo tipici del Made in Italy. Al contrario, si sono consolidate le esportazioni nei beni intermedi e nei beni di investimento legati a tali produzioni. Questo, probabilmente, è anche dovuto al fatto che le imprese italiane ormai adottano sempre più spesso iniziative di presenza produttiva all’estero.

Specializzazione settoriale

I vantaggi dell’Italia sono concentrati prevalentemente in due settori. Utilizzando la tassonomia di Pavitt, possiamo dire che si tratta dei settori “tradizionali” e dei settori a “offerta specializzata”, ai quali fanno riferimento le 4° dell’eccellenza

manifatturiera italiana (alimentari-bevande, abbigliamento-moda, arredo-casa, automazione-meccanica-plastica-gomma).

Più nello specifico, i settori tradizionali riguardano i beni di consumo legati alla persona e alla casa (alimentari, prodotti del tessile, abbigliamento, calzature, cosmesi, utensileria domestica, ceramiche, etc.). In questo settore, l’Italia non si basa sulla mera efficienza di costo e sugli elevati volumi, si basa fattori di stile (anche nelle fasce medie) e sull’innovazione tecnologica principalmente ricevuta da altri settori (es: nuovi macchinari). In quasi tutti questi campi, l’Italia è diventata style setter.

Tuttavia, oggi, si trova a doversi misurare con una concorrenza sempre più agguerrita: quella proveniente da Cina e diversi paesi del Sud-Est asiatico, paesi in cui i costi del lavoro sono molto bassi, i macchinari sono importati dall’estero, la capacità di imitazione (e, talvolta, di contraffazione) è elevata, la capacità di miglioramento della qualità dei prodotti è progressiva e la gestione manageriale è in costante evoluzione. à le imprese italiane operanti in tali settori hanno perso importanti quote di mercato negli ultimi anni per cui è necessario che venga innovata l’offerta in termini di stile-design-creatività-moda-qualità.

I settori a offerta specializzata comprendono, invece, tutti i comparti della meccanica e dell’elettromeccanica strumentale (es:

macchine utensili), di costruzioni navali e ferroviarie, di componentistica specializzata (es: motori), etc. Quasi sempre, quindi, si tratta di prodotti propri di una struttura industriale composta da molte imprese operanti in concorrenza monopolistica e che, quindi, servono mercati di nicchia, con esigenze alquanto peculiari e con elevata differenziazione. Questo ha permesso di contenere la perdita di quote di mercato sull’export globale, soprattutto perché si è riuscita a compensare la perdita in volumi con il maggior valore (es: imprese meccaniche si sono impegnate sul fronte dell’innovazione posizionandosi in nicchie di alta tecnologia).

L’Italia, invece, manifesta debolezze (minori quote di mercato, maggiore dipendenza della domanda interna dalle importazioni, saldo commerciale in disavanzo, scarsa presenza multinazionale) negli altri due grandi raggruppamenti individuati nella tassonomia di Pavitt:

1. Settori basati sulla scienza: settori ad alta intensità di r&s, generatori di innovazione tecnologica che si diffonde, successivamente, negli altri sistemi (es: computer, telecomunicazioni, chimica, etc.)

2. Settori a forti economie di scala produttiva e commerciale: settori di classica competizione oligopolistica in cui si producono beni di consumo intermedi in grandi volumi (es: prodotti alimentari derivati, prodotti petroliferi, fibre sintetiche e artificiali, etc.) La debolezza in questi fattori è dovuta sia ai limiti del sistema italiano di creazione e diffusione delle conoscenze, sia alla struttura industriale nel quale scarseggiano le grandi imprese capaci di sostenere costi e rischi degli investimenti in attività di ricerca.

La struttura dimensionale

Il sistema manifatturiero italiano è caratterizzato dall’elevata presenza di piccole imprese (il 57% delle imprese italiane operanti nel settore manifatturiero è occupato da aziende con meno di 50 dipendenti).

La dimensione aziendale ha diverse ripercussioni sulla presenza internazionale delle nostre imprese:

m La maggior parte delle aziende italiane esportatrici si qualificano come micro-esportatori, ossia imprese che realizzano vendite all’estero per un valore annuo inferiore ai 75.000€.

m Le imprese esportatrici generalmente indirizzano la propria offerta verso un solo paese estero (sono presenti in un numero ridotto di mercati). Questo determina una scarsa capacità di diversificazione geografica e una forte dipendenza commerciale da pochi paesi.

m Le imprese esportatrici generalmente operano sui mercati internazionali con una sola linea di prodotti.

Nonostante ciò, i cambiamenti tecnologici e organizzativi connessi allo sviluppo dell’economia digitale stanno cambiando la situazione: il commercio elettronico abbassa i costi di accesso al mercato estero (per cui anche le piccole imprese sono facilitate ad accedere ad essi).

Oltre alla tecnologia, per risolvere il problema, nel 2009 sono stati introdotte nel nostro ordinamento le cosiddette “reti di impresa”. Il contratto di rete è finalizzato al conseguimento, attraverso la determinazione di un programma comune, di obiettivi strategici condivisi che permettano sia collettivamente, sia alle singole imprese di accrescere la propria capacità innovativa e/o migliorare la competitività.

Gli investimenti diretti all’estero

Oltre all’internazionalizzazione mercantile (esportazione di manufatti realizzati nel proprio paese), l’internazionalizzazione può avvenire anche attraverso altre modalità che permettono all’impresa di radicarsi all’estero con una presenza diretta.

Quando prendiamo in considerazione gli investimenti diretti all’estero (che rientrano nell’internazionalizzazione produttiva), la posizione delle imprese italiane è debole rispetto a quella dei nostri maggiori partner europei.

Confrontando gli IDE in uscita e gli IDE in entrata, possiamo dire che è maggiore la presenza delle imprese italiane all’estero rispetto a quella delle imprese estere in Italia. Tuttavia, le seconde hanno un peso economico (in termini di ricavi e controllo proprietario) più rilevante.

(5)

Gli IDE, tuttavia, non possono ritenersi esaustivi dell’internazionalizzazione produttiva poiché non considerano le forme di imprenditorialità all’estero e non tengono conto delle cosiddette “forme leggere” di internazionalizzazione. Per quanto riguarda le ultime, intendiamo la delocalizzazione della rete produttiva “governata” dalle imprese industriali e di servizi. In base alla delocalizzazione, l’integrazione può essere verticale (esternalizzazione di fasi di lavorazione industriale, previa fornitura di materie prime e input intermedi) oppure orizzontale (acquisto di beni finali senza corrispondente fornitura a monte).

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2016 il rapporto tra stock di IDE e PIL (18,7%) era significativamente inferiore alle medie mondiale (35%), Europea (49%), dell’UE (47%) e devi principali competitor europei (es: UK e Spagna 45%).

Sistema istituzionale a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese

L’Italia dispone di un sistema istituzionale volto a sostenere l’internazionalizzazione delle imprese. Alla base di questa scelta ci sono varie motivazioni:

1. Operare all’estero implica il superamento di ostacoli di tipo informativo, che spesso sono troppo onerosi per le singole aziende

2. Le barriere all’entrata da superare per accedere ai mercati esteri sono più elevate per le piccole imprese.

In Italia, l’intervento del governo è limitato sia a livello nazionale, sia a livello sovranazionale. A livello sovranazionale, esistono dei vincoli derivanti dagli accordi commerciali sottoscritti nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (es: divieto di concessione di sussidi all’esportazione), dalle regole del Consensus, dall’accordo promosso dall’Ocse e dalle normative dell’UE. A livello nazionale, invece, le politiche di sostegno all’internazionalizzazione sono gestite da diversi organismi che operano insieme in una “Cabina di regia per l’Italia internazionale” volta alla definizione delle strategie di

internazionalizzazione, basate anche su consultazioni delle organizzazioni imprenditoriali e processi di coordinazione tra soggetti nazionali e locali (es: Regioni e Camere di Commercioà hanno competenze in tema di politiche per

l’internazionalizzazione).

Più nello specifico, nell’assetto attuale, al vertice ci sono il MEF (ministero dell’economia e finanze), il MAE (ministero degli affari esteri) e il MiSE (ministero dello Sviluppo Economico), che si occupano di elaborare e attuare le politiche. Poi, ci sono gli operatori pubblici: SACE, SIMEST e ICE che collaborano e comunicano attraverso la “Cabina di regia per l’Italia

internazionale”. Più nello specifico:

m la SACE è una “export credit agency”, ossia offre alle imprese italiane vari prodotti assicurativi e finanziari;

m la SIMEST è una finanziaria che ha l’obiettivo di favorire l’internazionalizzazione delle imprese attraverso l’assunzione di partecipazioni di minoranza al capitale di rischio delle affilate estere di aziende italiane all’estero. Inoltre, la SIMEST, ormai, offre finanziamenti a tasso agevolato (es: copre le spese per la partecipazione a fiere, mostre, etc., finanziamenti per rafforzare la solidità patrimoniale delle pmi, etc.), contributi agli interessi a supporto di dilazioni di pagamento concesse dalle imprese esportatrici e partecipazione al capitale dell’impresa.

m ICE-Agenzia è l’organismo attraverso il quale il Governo favorisce il consolidamento e lo sviluppo economico-commerciale delle imprese italiane sui mercati esteri. ICE affianca le imprese offrendo loro vari servizi di informazione, formazione, promozione e consulenza riguardanti i mercati esteri, individua nuove opportunità e consolida relazioni con intermediari e clienti esteri. È inoltre il soggetto incaricato di promuovere l’attrazione degli investimenti esteri in Italia (attraverso azioni di promozione, organizzazione di seminari, promozione online, etc.).

(6)

Parte 2: L’impresa e le strategie internazionali

Con strategie internazionali, s’intende l’insieme di scelte che riguardano la distribuzione a livello internazionale delle attività che compongono la catena del valore. Quest’ultima rappresenta l’impresa come un insieme di attività distinte che, singolarmente e collettivamente alle altre, contribuiscono a generare un vantaggio competitivo per l’impresa. Le attività sono divise in attività primarie (logistica in entrata, produzione, logistica in uscita, marketing e vendite, e assistenza post-vendita) e attività di supporto (approvvigionamenti, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane e infrastrutture e servizi di supporto).

Ogni attività comporta il sostenimento di costi per cui l’impresa deve riuscire a sfruttare le risorse e le competenze di cui dispone per realizzare il vantaggio competitivo (costi inferiori oppure alto grado di differenziazione).

La catena del valore può risolversi in un ambito locale (regionale o nazionale) oppure può estendersi all’ambito internazionale.

Quest’ultimo fenomeno si può manifestare in modi diversi. In ogni caso, ci deve essere una delocalizzazione (offshoring), ossia un trasferimento delle attività al di fuori dei confini nazionali, a proprie unità (una singola impresa integrata verticalmente può dislocare in diversi paesi le attività della catena del valore) oppure ad aziende indipendenti (le attività sono presediate da diverse imprese). N.b. la delocalizzazione è diversa dall’esternalizzazione (caso in cui l’impresa decide di non svolgere più alcune attività al proprio interno e decide di acquisirle presso altre imprese à per essere delocalizzazione, le imprese da cui

acquisisce le attività devono essere estere).

Le forme d’internazionalizzazione sono:

m Internazionalizzazione degli approvvigionamenti: approvvigionamento di materie prime, semilavorati o componenti a prezzi più competitivi e, eventualmente, integrazione verticale.

m Internazionalizzazione produttiva: localizzare all’estero parte o tutta l’attività manifatturiera, per esempio per impiegare fattori di produzione disponibili localmente a condizioni più vantaggiose.

m Internazionalizzazione della ricerca e sviluppo: le imprese più dinamiche sono quasi obbligate a sviluppare relazioni strategiche con fornitori (esteri) di servizi come l’innovazione tecnologica, la progettazione dei prodotti, etc.

m Internazionalizzazione finanziaria: reperire capitali sui mercati internazionali (borsistici e creditizi).

L’assetto strategico delle imprese internazionali

Le strategie internazionali dell’impresa possono essere rappresentate in funzione di due variabili:

1. Configurazione: localizzazione delle singole attività della catena del valore. Le attività possono essere concentrate in uno (o pochi) paesi oppure decentrate (in molti paesi).

Le attività della catena del valore possono essere distinte in attività a monte o a valle. Le attività a monte possono essere localizzate, anche in luoghi molto distanti dall’acquirente (es: attività tecnico-produttive), le seconde, invece, devono essere localizzate nei paesi in cui l’impresa intende collocare la propria offerta (es: marketing, vendite e assistenza).

La scelta tra concentrazione e decentramento è influenzata da diversi fattori. Generalmente, la concentrazione è favorita dalla presenza di economie di scala e di esperienza e dall’esistenza di vantaggi di coordinamento derivanti dalla comune

localizzazione di attività interrelate. Il decentramento, invece, è favorito, per esempio, dalle differenze nelle esigenze della domanda locale (va a discapito delle economie di scala) oppure dai rischi derivanti da una concentrazione elevata. Inoltre, in alcuni settori, come quello dell’erogazione dei servizi, il decentramento è quasi fondamentale.

In ogni caso, la scelta tra concentrazione e decentramento deve essere assunta con riferimento alle singole attività (non l’intera catena del valore). In altre parole, l’impresa può scegliere di concentrare alcune attività nel proprio paese e decentrarne altre in paesi esteri.

2. Coordinamento: modo in cui le attività dislocate sono collegate tra loro.

Il grado di coordinamento è considerato basso quando l’impresa fonda la sua presenza internazionale su unità nazionali non specializzate, ciascuna delle quali si occupa, con riferimento alla propria specifica area geografica di competenza, delle stesse questioni di cui si occupano le altre. Il grado di coordinamento è considerato elevato quando ciascuna delle unità nazionali deve integrare le proprie strategie e le proprie politiche gestionali con quelle della casa madre (al limite assumendo una missione particolare a livello corporate).

Attraverso il coordinamento, l’impresa può ottenere diversi benefici, per esempio la condivisione delle conoscenze acquisite fra le divise unità nazionali oppure la definizione di prodotti transnazionali (derivanti dall’interazione tra culture diverse).

à

Il vantaggio competitivo dell’impresa operante a livello internazionale è determinato dalla capacità di configurare e coordinare le attività aziendali dislocandole in aree geografiche differenti.

La combinazione delle due variabili definisce l’assetto strategico dell’impresa operante a livello internazionale. Le strategie internazionali, più nello specifico, sono:

m Strategie multidomestiche: strategie in cui le attività decentrate nei vari paesi non presentano significative interrelazioni, poiché dipendono da condizioni specifiche dei singoli contesti nazionali. Si dividono in:

Ñ Strategia basata sulle esportazioni: l’esportazione caratterizza un diffuso orientamento strategico

all’internazionalizzazione, basato prevalentemente sulla commercializzazione dei prodotti nei mercati esteri.

L’esportazione può essere indiretta (il produttore delega a operatori commerciali specializzati le attività di vendita e di marketing connesse alla funzione esortativa) oppure diretta (il produttore utilizza come canale di ingresso la propria forza di vendita o una rete di agenti oppure istituisce una vera e propria unità organizzativa, come una sede/filiale, in loco volta alla commercializzazione dei prodotti).

Generalmente, questa strategia è la prima tappa dello sviluppo internazionale delle imprese. Tuttavia, nei casi delle imprese home-based (che hanno una fitta rete di rapporti con il contesto locale), è una base solida e duratura.

(7)

Ñ Strategia basata sul decentramento: l’impresa opera a livello internazionale svolgendo in vari paesi più attività della catena del valore e in modo che le politiche adottate in ogni paese siano fondamentalmente indipendenti le une dalle altre.

Più nello specifico, questa strategia si può configurare in due modi:

1. L’impresa mantiene un prevalente orientamento all’esportazione, decentrando le attività a valle della catena del valore (più vicine ai mercati di sbocco).

2. L’impresa localizza una completa (o quasi) catena del valore in ogni paese, o gruppo omogeneo di paesi, in cui intende operare.

m Strategie globali: strategie attraverso il quale l’impresa cerca di ottenere un vantaggio competitivo, sfruttando le interdipendenze esistenti tra i vari paesi in cui opera, coordinando le attività decentrate. Si dividono in:

Ñ Strategia globale omogenea: è la strategia globale più semplice e consiste nel concentrare il massimo numero di attività in un unico paese e nell’assicurare, attraverso una completa standardizzazione, lo stretto coordinamento di quelle attività a valle della catena del valore che devono essere svolte in prossimità degli acquirenti.

Nel concreto, questa strategia si esplica tramite un prodotto standardizzato che soddisfa esigenze omogenee nei vari paesi; una significativa partecipazione a tutti i principali mercati nazionali per generare un volume di vendite elevato; la concentrazione delle attività della catena del valore in alcuni paesi per massimizzare le economie di scala e sfruttare i vantaggi; e una coerente strategia competitiva (la cui formulazione deve essere centralizzata).

Ñ Strategia transnazionale: l’impresa opera con logica selettiva, nel senso che alcune risorse vengono concentrate nel paese di origine, alcune sono centralizzate in altri contesti nazionali e altri ancora vengono distribuiti fra le unità locali.

Internazionalizzazione degli approvvigionamenti

Oggi, il ricorso ai mercati di approvvigionamento internazionali è molto diffuso, sia tra le piccole-medie imprese, sia tra le grandi imprese. Le motivazioni sono diverse:

› Molte aziende sono costrette ad intraprendere iniziative di riduzione dei costi per continuare a competere. Esistono dei mercati che, grazie alle loro condizioni strutturali di natura economico-sociale o per caratteristiche ambientali e naturali, consentono di praticare a costi talmente bassi da risultare economicamente più vantaggiosi (nonostante i maggiori oneri logistici e di trasporto).

› Possono esserci obblighi commerciali: i governi dei paesi verso i quali l’impesa intende esportare possono imporre all’impresa stessa di acquistare particolari componenti o servizi dalle aziende locali.

› Migliore qualità di beni e servizi.

› Opportunità di entrare nel paese come acquirente per poi, una volta acquisite le competenze commerciale, instaurare partnership con locali oppure esportare i propri beni e servizi.

› Esigenza di assicurarsi che i fattori produttivi acquistati rispondano alle specifiche qualitative richieste e siano disponibili nei tempi stabiliti rispetto ai piani di produzione programmati.

› L’integrazione verticale delle operazioni a monte del processo di lavorazione, mediante investimenti diretti esteri supply- oriented oppure mediante accordi con i fornitori affidabili, permette di conseguire superiori livelli di efficienza e di flessibilità nel processo produttivo.

In molti casi, la ricerca dell’ottimizzazione degli approvvigionamenti ha portato alla delocalizzazione di parte o di tutta l’attività produttiva. Questa soluzione è adottata soprattutto in quelle imprese in cui prevalgono costi delle risorse “fisse” o altamente vincolate nella localizzazione (es: energia, acqua). Più nello specifico, per quanto riguarda le risorse energetiche ed idriche, le imprese possono trovare vantaggiosa la delocalizzazione della attività industriali nei paesi in cui tali risorse sono meno onerose.

L’internazionalizzazione degli approvvigionamenti, tuttavia, comporta anche rischi:

› Interruzioni delle forniture a seguito di problemi politici

› Coordinamento mondiale dei trasporti e della logistica

› Fluttuazioni dei cambi (modificano la convenienza dell’acquisto)

› Gestioni onerose delle controversie legali che potrebbero insorgere nel rapporto.

Esempio: Benetton presiede in alcune aree di origine delle lane (Patagonia) e governa in modo decentrato il trattamento che il prodotto grezzo deve subire in diversi paesi dell’America Latina e dell’Australia prima di arrivare alle linee di produzione dell’abbigliamento.

Internazionalizzazione della produzione

Molte imprese delocalizzano le lavorazioni in paesi a basso costo tramite accordi di fornitura a lungo termine, attraverso l’acquisizione di unità produttive o attraverso la costituzione di joint venture con operatori locali.

Per poter delocalizzare la produzione, è necessario che il processo manifatturiero possa essere separato, temporalmente e spazialmente, dalle fasi di concepimento e progettazione del prodotto, senza che ci sia una grande perdita di qualità ed efficienza. Perché sia possibile, è necessario che le tecnologie produttive siano diffuse e costanti nel tempo e che le competenze e le capacità di usarle siano diffuse. Questo succede, generalmente, quando il processo produttivo è standardizzato (tipico della produzione di massa).

Per quanto riguarda le imprese italiane, le tipologie di attività produttive maggiormente delocalizzate sono quelle attinenti alle fasi più vicine alla materia prima, quelle che riguardano prodotti poco sofisticati e generici (la cui produzione non richiede conoscenze specifiche) e quelle realizzate in serie lunghe e la cui produzione possa essere programmata con largo anticipo.

(8)

La mancanza o la scarsa qualità professionale della manodopera disponibile nei paesi in cui il costo del lavoro risulta più vantaggioso sono un problema dell’internazionalizzazione, nel senso che possono annullare i vantaggi e limitare la possibilità di delocalizzazione. Tuttavia, ormai, anche i paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione (che in passato non erano in grado di garantire qualità dei processi produttivi) sfruttano la propria forza lavoro a basso costo per realizzare prodotti la cui qualità soddisfa le esigenze di molte fasce di clientela internazionale (à per questo il Made in Italy ha perso quote di mercato).

Esempio: le imprese leader che producono sedie hanno decentrato le attività relative alle prime fasi della filiera produttiva nei paesi dell’Est europeo poiché sono caratterizzati da bassi costi del lavoro, sono relativamente vicini e i loro governi, attraverso varie politiche, incentivano le esportazioni di legname grezzo a favore di quelle di semilavorati. // i distretti del “sistema moda”

delocalizzano la subfornitura nei paesi del Sud-Est asiatico o nell’area balcanica.

Il decentramento di attività comporta sempre un decentramento di competenze, su cui potrebbe svilupparsi nel tempo un presidio più esteso o addirittura completo del ciclo produttivo. Inoltre, l’internazionalizzazione delle operazioni manifatturiere pone le basi per una nuova domanda di beni strumentali nelle aree verso cui è orientato il decentramento, di cui possono beneficiare sia i distretti che si sono delocalizzati, sia il più generale settore della meccanica strumentale.

L’internazionalizzazione della ricerca e sviluppo

L’internazionalizzazione della r&s si è sviluppata molto negli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda i settori in cui tecnologia, know-how e risorse immateriali sono fondamentali per la crescita e la competitività dell’impresa.

I motivi per cui un’impresa può internazionalizzare la r&s sono:

› La possibilità di accedere a competenze tecnico-scientifiche specializzate presenti a livello locale (es: Silicon Valley)

› Le competenze specializzate sono accessibili all’estero a costi minori.

› La possibilità di monitorare gli sviluppi tecnologici raggiunti e raggiungibili in certi paesi.

› La possibilità di beneficiare di specifici incentivi disposti dalle autorità legali (es: incentivi di tipo fiscale).

› La possibilità di partecipare a progetti di ricerca in collaborazione con organismi specializzati.

› L’esigenza di rispondere alle richieste dei singoli mercati locali, alimentandone il potenziale di vendita attraverso l’adattamento dei prodotti e dei processi alle peculiarità locali.

› La possibilità di fornire servizi tecnici alle unità produttive localizzate all’estero in modo da sostenerle nella loro affermazione locale.

Allo stesso modo, ci sono anche alcuni vincoli. Per esempio, beneficiare le economie di scala legate a queste attività potrebbe limitarne il decentramento. Ancora, la necessità di massimizzare la sicurezza relativa alla tecnologia e alle conoscenze potrebbe imporre all’impresa un controllo centralizzato dell’attività di r&s.

I luoghi in cui vengono ubicate le attività di r&s sono chiamati learning markets, che possono essere di consumo (luoghi in cui si generano comportamenti di consumo destinati a diffondersi internazionalmente nell’arco di pochi anni, es: New York o Londra per la moda) oppure di tipo scientifico-tecnologico (luoghi in cui si concentrano conoscenze e competenze elevate, su scala mondiale, nell’ambito di un determinato settore, es: Silicon Valley per l’informatica).

I learning markets possono variare nel tempo. Inoltre, in uno stesso settore, possono esserci più learning markets (es: settore automobilistico: Germania per le capacità ingegneristiche, Italia per il design e Giappone per i processi tecnico-produttivi).

L’internazionalizzazione delle fonti di finanziamento

Negli ultimi anni, molte imprese hanno iniziato ad internazionalizzare anche la funzione finanziaria, per cercare di minimizzare il costo dei finanziamenti pur mantenendo il rischio (politico e valutario) entro livelli accettabili.

Questo fenomeno è stato possibile grazie alle dinamiche che hanno interessato i mercati negli ultimi anni, come la globalizzazione. Infatti, l’internazionalizzazione delle fonti di finanziamento ha coinvolto sia i paesi più avanzati, sia i paesi emergenti.

Più nello specifico:

› Grazie agli accordi internazionali, si è raggiunta la libertà di circolazione dei capitali, almeno nella maggior parte dei paesi industrializzati.

I risparmiatori hanno la possibilità di allocare le proprie disponibilità anche sui mercati esteri e, di conseguenza, si accentua il processo di competizione per il reperimento delle risorse necessarie a finanziare le decisioni di investimento reali (su scala internazionale).

› I progressi dell’information technology hanno influenzato moltissimo lo sviluppo dei mercati finanziari, soprattutto per quanto riguarda la capacità di calcolo e di archiviazione dei dati e l’efficienza delle comunicazioni. Infatti, per esempio, i segmenti fondamentali del mercato sono aperti e operativi in tempo reale 24 ore su 24. Questo ha diverse conseguenze, per esempio la riduzione dei costi di transazione e di informazione.

› Il mercato mondiale è in continua espansione anche grazie allo sviluppo delle aree alternative alle tradizionali piazze finanziarie concentrate nell’estremo Oriente e in Sud America e grazie alla creazione di linee di finanziamenti agevolati per la crescita e lo sviluppo dei paesi poveri.

(9)

In questa situazione, hanno assunto un ruolo fondamentale i fondi sovrani, ossia i fondi di investimento di proprietà statale che gestiscono portafogli di attività finanziarie, in parte denominate in valuta estera, derivate dalla vendita di petrolio e altre materie prime (i fondi principali, in questo caso, sono di proprietà dei paesi del Medio Oriente, come Qatar, Abu Dhabi, Dubai, etc.) o da surplus valutari della bilancia commerciali (i fondi principali, in questo caso, sono di proprietà dei paesi asiatici). In entrambi i casi, una parte di queste disponibilità viene investita all’estero (es: il fondo del Qatar detiene grandi partecipazioni in molti settori, come quello della moda Valentino).

Per quanto riguarda il capitale a titolo di credito, una fonte alternativa al credito bancario è rappresentata dai prestiti obbligazionari. Tuttavia, accedere al mercato obbligazionario internazionale risulta piuttosto difficile (poiché i grandi investitori tendono ad investire per importi superiori a qualche milione di euro à l’impresa deve essere grande). In molti paesi, tuttavia, esiste il mercato dei cosiddetti private placement, ossia obbligazioni emesse da aziende di media dimensione vendute privatamente ad uno o pochi investitori. In questo mercato non serve un rating ufficiale (ne serve solo uno ad hoc), si possono emettere obbligazione a lunga scadenza e le procedure sono molto veloci.

Esempio: alcuni anni fa, Piaggio ha effettuato un’operazione di private placement con Prudential, una compagnia assicurativa statunitense molto importante. Quest’ultima, infatti, ha investito 75 mln. di dollari in un prestito obbligazionario emesso appositamente da Piaggio.

(10)

Parte 3: L’internazionalizzazione commerciale

Il marketing internazionale. Obiettivi. Vincoli e risorse disponibili

Con marketing internazionale, s’intende quel fenomeno che si verifica quando l’impresa decide di collocare la propria offerta ance in paesi diversi da quello di origine. Più nello specifico, il marketing internazionale viene inteso come l’applicazione dei principi, delle tecniche e degli strumenti di marketing a business che oltrepassano i confini del paese di origine dell’impresa.

Le principali problematiche che presentano i processi di internazionalizzazione commerciale sono:

1. Complessità dell’ambiente internazionale (la compresenza dei differenti modelli di comportamento di consumo e di differenti modalità di risposta alle scelte dell’impresa in ogni paese determinano una maggiore complessità per le politiche di

marketing).

2. Politiche discriminanti (es: nazionalizzazione di settori dell’economia/imposizione di dazi) delle autorità nazionali nei confronti delle imprese estere, che sono in grado di restringere le modalità d’ingresso praticabili o/e fi innalzare il grado di rischio d’investimento.

3. Elevata differenziazione delle economie nazionali (à processi di crescita del sistema economico dei singoli paesi e maggiore volatilità dei tassi di cambio).

4. Presenza di diversi livelli di tensione competitiva che comportano una maggiore incertezza in merito alla difendibilità del vantaggio competitivo.

5. Necessità di coordinare al meglio le diverse attività svolte nei paesi.

Fasi della pianificazione strategica dell’internazionalizzazione commerciale

1°fase: Definizione degli obiettivi e dei vincoli aziendali

Obiettivi

› L’obiettivo più frequentemente perseguito da un’impresa intenzionata a estendere le vendite verso un nuovo paese è la volontà di sviluppare il fatturato e di migliorare la redditività. Le motivazioni che stanno dietro a questo obiettivo sono diverse, per esempio l’impresa potrebbe voler cogliere le opportunità di sviluppo prospettate dal mercato internazionale oppure far fronte alla stagnazione della crescita sul mercato interno. Generalmente questo obiettivo si traduce nella ricerca di mercati esteri che possiedono un’elevata capacità di assorbimento del prodotto aziendale.

› Obiettivi di tipo competitivo: connessi a manovre concorrenziali reattive (es: se il competitor si estende all’estero, l’impresa lo percepisce come minaccia e può reagire entrando nello stesso paese, per timore di subire un peggioramento della propria posizione di mercato // se il competitor entra nel proprio mercato nazionale, l’impresa può entrare nel mercato nazionale del competitor) oppure alla necessità di seguire all’estero la clientela (riorganizzazione produttiva su scala internazionale dei principali clienti).

› Trarre vantaggio dalla formazione di segmenti di domanda transnazionali: l’impresa può identificare segmenti che

raggruppano clienti che, pur essendo localizzati in luoghi diversi, esprimono le stesse esigenze, ricercano gli stessi benefici e reagiscono in modo omogeneo alle decisioni di marketing dell’impresa.

› Diversificazione del rischio e allungamento del ciclo di vita del prodotto: l’impresa espande un prodotto di successo che, nella sua nazione, è già maturo all’estero per trarne profitto.

› Obiettivi di immagine: per poter, in un secondo momento, ampliare la propria sfera operativa oppure per ottenere un maggior sostegno finanziario dalle istituzioni nazionali o per beneficiare di vantaggi fiscali.

Vincoli e risorse disponibili

In questa fase viene effettuata l’analisi dei punti di forza e di debolezza aziendali per valutare le risorse e le competenze distintive e i vantaggi concorrenziali più significativi di cui l’impresa dispone per poterli confrontare con i fattori critici di successo identificabili nei vari paesi e le risorse e le competenze dei concorrenti con i quali confrontarsi.

Teoricamente, le imprese dotate di significative risorse (materiali, immateriali e umane) e competenze possono avvantaggiarsene anche ai fini dell’espansione internazionale. Tuttavia, il problema è la trasferibilità di esse. Infatti, ci potrebbero essere vincoli legislativi, barriere artificiali, condizioni specifiche dei paesi che potrebbero intromettersi nel trasferimento di esse à alcuni asset aziendali (e le capacità competitive ad essi connesse) possono avere natura country- specific.

Inoltre, il valore strategico di una risorsa e di una competenza è relativo, nel senso che può mutare in un altro paese. Per questo, prima di trasferirle, è necessario effettuare un’analisi minuziosa per verificare che i vantaggi competitivi siano efficaci anche in altri contesti.

1. Definizione degli obiettivi e

dei vincoli aziendali

2. Analisi e scelta dei paesi

3. Selezionedelle strategie e delle

modalità di ingresso

4. Sviluppo e attuazione del

piano di marketing

Consolidamento 5.

delle posizioni

Riferimenti

Documenti correlati

TENUTO CONTO che la misura del diritto annuale è determinata in conformità alla metodologia di cui al comma4 deTl'articolo lB della legge -29 dicembre 1993, n. 580

Descrizione L’attività consiste nella ricezione da parte dell’INI di una richiesta di trasferimento indice del FSE di un assistito che ha cambiato la propria

17 e di allegare alla presente apposita certificazione rilasciata dal competente ufficio della Provincia di riferimento in originale o copia resa autentica con

17 e di allegare alla presente apposita certificazione rilasciata dal competente ufficio della Provincia di riferimento in originale o copia resa autentica con

29 L’attenzione per la risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali è stata manifestata sin dal Libro verde della Commissione del 16 novembre

9) che nei propri confronti non è stata pronunciata condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di

9) che nei propri confronti non è stata pronunciata condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di

Le comunicazioni, recanti la dicitura "Consultazione pubblica relativa alle modifiche ed integrazioni al regolamento recante la nuova disciplina della fase di avvio