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Riservatezza e segreto nella mediazione - Judicium

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www.judicium.it DOMENICO BORGHESI

PRIMENOTESURISERVATEZZAESEGRETONELLAMEDIAZIONE

SOMMARIO: 1. La situazione prima della riforma. − 2. Il d.lgs n. 28/2010. − 3. Il dovere di riservatezza e il contraddittorio. − 4. L’inammissibilità – inutilizzabilità della prova. − 5. I limiti alla garanzia della riservatezza.

1. In mancanza di espresse previsioni di legge si deve escludere che il giudice possa valutare il comportamento delle parti nel tentativo stragiudiziale di conciliazione, ai fini delle spese e (più in generale) a quello della soccombenza. Ai fini dell’art. 88 c.p.c. è infatti consentita la sola valutazione del comportamento tenuto nel processo1.

Sempre in mancanza di norme espresse, non si può escludere che quanto detto o fatto nel corso del tentativo di conciliazione stragiudiziale possa essere trasformato dalle parti in materiale istruttorio utilizzabile nel corso di un successivo giudizio, non essendo ipotizzabile una causa di inammissibilità non prevista dalla legge.

La riservatezza può essere imposta da un accordo tra le parti o dal regolamento di una Camera di commercio. Tuttavia si tratta di vincoli contrattuali che non sono certo idonei ad escludere l’ammissibilità di prove2.

Per colmare le citate lacune, sia pure limitatamente alla materia societaria, un primo intervento legislativo è stato effettuato dall’ora abrogato art. 40, comma 1, decr. leg. n. 5/2003 nel quale si stabiliva che la riservatezza del procedimento fosse prevista dai regolamenti degli organismi di conciliazione. Il comma 3 dello stesso articolo prevedeva poi che le dichiarazioni rese dalle parti nella procedura di conciliazione non potessero essere utilizzate, né essere oggetto di prova testimoniale nel giudizio successivo al fallimento del tentativo, salvo quanto previsto dal comma 5 a

1 Cass., 1 dicembre 2000, n. 15353.

2 V. CUOMO ULLOA, La conciliazione – Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, p. 354 ss.

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proposito della valutazione del comportamento delle parti in relazione alla distribuzione del carico delle spese.

Le due disposizioni erano complementari perché, mentre la seconda escludeva che le dichiarazioni rese dalle parti durante il tentativo di conciliazione fallito avessero efficacia probatoria e voleva quindi salvaguardare la spontaneità del comportamento tenuto dalle parti nel corso della procedura di conciliazione, la prima si ricollegava al carattere privato del procedimento e voleva evitare che fossero divulgate questioni che era interesse delle parti mantenere riservate.

Le norme cui si è appena fatto riferimento erano integrate dal Regolamento ministeriale, nel quale era stabilito che la riservatezza non fosse opponibile esclusivamente ai terzi, ma, in alcune circostanze, anche a chi era parte della procedura. L’art. 7, comma 5, prevedeva infatti che nella procedura di conciliazione fossero ammesse “comunicazioni riservate al solo conciliatore, tali espressamente qualificate dalle parti”, con conseguente estensione dell’obbligo di confidenzialità oltre i suoi normali limiti e compressione del principio del contraddittorio al di sotto di quello che, in una procedura aggiudicativa, sarebbe il suo livello minimo.

Secondo quanto disponeva l’art. 40, comma 8, del decreto, la conciliazione riuscita veniva inserita in “separato processo verbale”, in modo tale da impedire che il resto della procedura fosse divulgato3.

2. A dare una regolamentazione di carattere generale è poi intervenuto il d.lgs n. 28/20104 nel quale la “riservatezza del procedimento” è uno dei capisaldi sui quali si fonda la mediazione. Secondo quanto prescrive l’art. 3, comma 2, infatti i regolamenti che saranno istituiti dagli organismi di mediazione dovranno essere ispirati al detto principio, oltre che a quello dell’imparzialità dei mediatori.

L’art. 9, comma 1, pone poi un generale obbligo di riservatezza a carico di tutti coloro i quali prestano la loro opera nell’ambito della procedura di mediazione, non riferendosi alle parti se non come le beneficiarie di tale obbligo, che ha invece i propri destinatari in coloro i quali svolgono

3 Sulla riservatezza nel tentativo di conciliazione stragiudiziale in materia societaria v. BORGHESI, La conciliazione in materia societaria, in Riv.arb., 2004, p. 225 ss.

4 Il decreto è stato emanato in attuazione dell’art. 60 della legge 69/2009 e della direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008.

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l’attività di mediazione, nonché nei dipendenti della struttura di mediazione e in tutti coloro i quali, per qualsiasi titolo, vengono in contatto con la procedura di mediazione.

In questo modo è stato risolto dalla legge un problema che avrebbe suscitato non poche incertezze, se fosse stato lasciato all’interprete. Infatti, se si guarda alla parallela esperienza dell’arbitrato, è agevole rendersi conto che l’obbligo di riservatezza non è affatto pacificamente considerato un corollario del carattere privato della procedura5.

Dal carattere privato discende invece che il dovere di riservatezza non è posto nell’interesse pubblico ma in quello delle parti, le quali possono quindi rinunziarvi, consentendo agli organi di mediazione di non osservarlo nel caso specifico. Ciò non di meno – come si è detto - la riservatezza del procedimento è un dovere primario delle strutture che deve trovare riscontro nei loro regolamenti di procedura e un’obbligazione per le parti che deve essere adempiuta, salvo diverso accordo tra di loro.

Per concludere sul punto giova ricordare che, stante l’esistenza della legge, quelli che vengono definiti “accordi di riservatezza” sembrerebbero conservare una loro utilità, per derogare a quanto previsto dagli artt. 9 e 10 o, al contrario, per rendere le relative disposizioni più rigorose. Infatti, se si guarda alla formulazione dell’art. 10, ci si rende agevolmente conto che l’obbligo di riservatezza imposto alle parti – come si vedrà meglio in seguito – non è enunciato in termini generali, ma è riferito espressamente alla causa che segue il tentativo di conciliazione rimasto senza esito.

Ne consegue che è quanto meno dubbio che le parti siano tenute a mantenere lo stesso riserbo riguardo alla mediazione che si è conclusa con un accordo e che quindi non è destinata ad avere un seguito giudiziale6. Dubbio che, ovviamente, deve consigliare alle parti di premunirsi, colmando la lacuna, quando sono ancora in tempo per farlo.

3. Ovviamente il dovere di riservatezza si pone nei confronti dei terzi, non certo delle parti, le quali, anzi devono avere conoscenza di tutti gli atti della procedura. Esiste infatti un principio del

5 BORGHESI, Arbitrato e confidenzialità, in Arbitrato, ADR, conciliazione, a cura di M. Rubino – Sammartano, Bologna, 2009, p. 263 ss.

6 ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione nella prospettiva europea: note a prima lettura, in Riv.trim.dir.

e proc.civ., 2010, p. 667, dicendo che il problema della riservatezza “si apprezza di più in caso di fallimento, che non di avvenuto accordo, benchè possa essere auspicabile anche in questo secondo caso”, sembra condividere i dubbi espressi nel testo.

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contraddittorio che la ispira. Principio non certo identico a quello che vige nei procedimenti aggiudicativi, nei quali serve a garantire che la decisione tenga conto in maniera paritaria del punto di vista delle parti, ma che anche nella mediazione ha una sua ragion d’essere7 (non foss’altro quella di garantire che le parti facciano la loro scelta nel modo più informato e consapevole possibile).

Il comma 2 dell’art. 9 pone un’eccezione alla detta regola, consentendo al mediatore di avere colloqui separati con ognuna delle parti e di non rivelare quanto appreso nel corso di detti colloqui neppure a quella che non era presente, “salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni”. Eccezione che si giustifica solo nell’ambito della mediazione e che sarebbe del tutto inammissibile in arbitrato, tanto che la c.d. riservatezza interna è vista come uno dei principali motivi a sostegno della necessità di separare la funzione di mediatore da quella di arbitro.8

E’ dubbio se l’ambito della riservatezza interna garantita dalla disposizione in esame possa essere ulteriormente esteso fino a ritenere che, nel corso dei colloqui separati, le parti possano comunicare al mediatore, oltre che informazioni, anche documenti a lui solo destinati. Infatti, a parte l’uso strumentale che si potrebbe fare di una simile possibilità, è significativo che nei regolamenti di alcuni organismi di mediazione si sia sentita l’esigenza di prevederla espressamente9.

D’altronde che la realizzazione del contraddittorio tramite la partecipazione alla procedura di mediazione anche dell’altera pars, rispetto a quella che ha preso l’iniziativa, sia considerato essenziale è dimostrato dal fatto che la mancata partecipazione viene sanzionata.

L’art. 11, comma 4, stabilisce infatti che nel verbale di mancata conciliazione il mediatore deve dare atto che una delle parti della causa non è stata parte della procedura di conciliazione e l’art. 8, comma 5, prevede che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c.

7 Sul contradditorio nella procedura di mediazione v. VIGORITI, La direttiva europea sulla mediation. Quale attuazione?, in Riv.arb., 2009, p. 14.

8 DIALLO, La confidentialitè dans l’arbitrage et dans les ADR: approche comparative, in Les secrets et le droit, a cura di P. Zen-Ruffinen, Genève, Zurich, Bâle, 2004, p. 378.

9 V. ad es. l’art. 12 del regolamento di mediazione dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI) in vigore dal 1 ottobre 1994.

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La norma è sorprendente, per un verso, perché tratta peggio la contumacia nel procedimento di mediazione che non quella nel giudizio ordinario. E’ infatti curioso che il giudice possa trarre argomenti di prova dalla mancata partecipazione alla mediazione, ma non possa fare altrettanto riguardo alla contumacia nella causa, immediatamente susseguente, davanti al giudice togato, che invece è circondata da una serie di garanzie, che finiscono per premiare anche il più totale e immotivato rifiuto di collaborare alla soluzione della controversia. Tanto più che la norma in oggetto non si riferisce solo alla mediazione obbligatoria, ma anche a quella facoltativa, nella quale – coerentemente con la sua stessa natura – un dovere di partecipazione non dovrebbe esserci, ma che si può configurare desumendolo proprio della norma in esame10.

Per altro verso non si vede quali potrebbero essere gli argomenti di prova che il giudice dovrebbe trarre dalla mancata partecipazione alla procedura di mediazione. Semmai, invece di attribuire all’inerzia della parte un improbabile risvolto probatorio, il legislatore avrebbe potuto più utilmente (anche se non si sa quanto opportunamente) prevedere una sanzione in materia di spese11.

4. Per garantire il dovere di riservatezza il comma 2 dell’art. 10 prevede che il mediatore non è tenuto a deporre sulle dichiarazioni rese dalle parti e sulle informazioni acquisite nel corso della procedura di mediazione e che gli si applicano le disposizione e le garanzie previste per il difensore dagli artt. 200 e 103 c.p.p., in quanto applicabili.

In realtà, nel caso di specie, più che di una facoltà o di un privilege12 (per usare il termine inglese) si tratta di un divieto di testimonianza che discende direttamente dal dovere di riservatezza enunciato dall’art. 9, comma 1, la cui violazione rappresenta per il mediatore un illecito che determina, a suo carico, una responsabilità per danni.

Per questo motivo penso che l’astensione prevista dall’art. 10, comma 2, non sia una facoltà per il mediatore, ma un obbligo. Con la conseguenza che la testimonianza eventualmente resa sulle dichiarazioni e le informazioni acquisite in corso di procedura sarebbe comunque inammissibile.

10 V. sul punto BOVE, Mediazione civile: una disciplina poco liberale che richiede una visione legata agli interessi, in Guida al dir., 27.3.2010, n. 13, p. 12.

11 Così come previsto, ad altro proposito, dall’art. 13 d.lgs. n. 28/2010

12 Sull’esistenza di un privilege del mediatore v. BROWN e MARRIOTT, ADR principles and practice, 2nd ed., London, 1999, p. 486.

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Il dato d’altra parte è confermato dal comma 1 dell’art. 10 nel quale è enunciata in termini generali (e quindi non solo con riferimento al mediatore) la regola della inammissibilità -inutilizzabilità della prova testimoniale riferita alle dichiarazioni e informazioni che qui interessano. La disposizione in esame non introduce un nuovo tipo di incapacità in capo al mediatore, ma pone piuttosto una regola legale di esclusione di carattere oggettivo, riferita cioè alle informazioni e alle dichiarazioni delle quali questo è venuto a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni.

In buona sostanza del mediatore non si può dire che non è obbligato a deporre potendo opporre una sorta di segreto professionale, così come prevede l’art. 200 c.p.p., o più in generale, un giustificato motivo di astensione ai sensi dell’art. 256 c.p.c.13, ma che, al contrario, è tenuto a non rendere la testimonianza, perché, se lo facesse, introdurrebbe nel processo una prova inutilizzabile e, per di più, commetterebbe un illecito.

A questo proposito va aggiunto che il legislatore, nel formulare il comma 1 dell’art. 10 è stato tutt’altro che felice perché, per un verso, ha statuito in termini generali che le dichiarazioni- informazioni rese nel corso della mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, anche parziale, iniziato o proseguito dopo il fallimento della mediazione, e, per altro verso, ha stabilito che il divieto riferito alle dette dichiarazioni-informazioni riguarda soltanto la prova testimoniale14 e il giuramento decisorio.

In primo luogo bisogna dire che l’idea di deferire un giuramento su dichiarazioni o informazioni è, se non proprio incongrua, quanto meno insolita. E’ infatti di intuitiva evidenza che le dichiarazioni – informazioni cui fa riferimento la norma in esame non potranno mai coincidere con i fatti costitutivi, posti a base della domanda, né con quelli modificativi, estintivi o impeditivi, allegati come eccezioni15. Potranno avere, per lo più, carattere probatorio cioè rappresentativo di quei fatti o

13 Sul segreto professionale e sull’astensione v., rispettivamente, BORGHESI, Il segreto nella professione legale, in Rass.for., 2008, p. 354 ss. e COMOGLIO, Le prove civili, 2 ed., Torino, 2004, p. 272 ss.

14 Rileva l’irragionevolezza del riferimento alla sola prova testimoniale nella Direttiva 2008/52/CE GHIRGA, Strumenti alternativi di risoluzione della lite: fuga dal processo o dal diritto ?, in Riv.dir.proc., 2009, p. 365. Più correttamente l’art. 10, commi 2 e 3, dell’UNCITRAL Model Law on International Commercial Conciliation del 2002 prevede che l’obbligo di riservatezza renda inammissibile qualsiasi prova idonea a disattenderlo.

15 DITTRICH, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, Relazione al corso di aggiornamento della Camera civile di Milano, p. 20 delle bozze.

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tutt’al più, essere considerati “fatti istruttori”, che, come è noto, sono quei fatti secondari tramite i quali si dimostra la veridicità dei fatti primari o formativi.

Analoghe considerazioni valgono per il giuramento suppletorio, con l’aggiunta che le dichiarazioni- informazioni rese nella fase di mediazione non potranno neppure essere tenute in considerazione ai fini della semiplena probatio cui l’art. 2736, comma 1, n. 2, condiziona il potere del giudice di deferirlo.

Inoltre, balza evidente che non c’è consequenzialità logica tra le premesse che si esprimono in termini generali e le conclusioni che, invece, si riferiscono a singoli mezzi di prova. Se infatti si desse credito alla formulazione letterale del secondo periodo dell’art. 10, comma 1, il principio, contenuto nel primo periodo, secondo il quale le dichiarazioni-informazioni acquisite durante la procedura non possono essere utilizzate nel susseguente giudizio, potrebbe essere facilmente aggirato tramite gli interrogatori16 (libero o formale), la confessione e la prova documentale. Penso soprattutto alla dichiarazione confessoria contenuta nel verbale di mancata conciliazione che sarebbe prova legale se resa all’altra parte o prova liberamente valutabile, se resa al (solo) mediatore (art. 2735, comma 1, c.c.). Conseguentemente è logico attendersi che la norma in commento sarà interpretata nel senso che la inutilizzabilità - inammissibilità espressamente riferita alla testimonianza e al giuramento decisorio vale anche per le altre prove che, in qualunque modo, introducano nel giudizio dichiarazioni o informazioni provenienti dalla mediazione.

Non è poi accettabile l’opinione espressa da uno dei primi commentatori del decreto n. 28/2010, secondo la quale la limitazione del divieto al solo giuramento (oltre che alla testimonianza) si spiegherebbe perché in questa ipotesi l’eventuale diniego di una dichiarazione effettivamente resa darebbe luogo ad una fattispecie penalmente rilevante. Diversamente, l’interrogatorio formale non assumerebbe rilievo “dato che la risposta negativa ai quesiti non potrebbe causare alcuna conseguenza negativa per il dichiarante”.17

Se infatti si portasse l’opinione sopra riassunta alle sue logiche conseguenze, ne deriverebbe che la parte cui è deferito l’interrogatorio formale avente ad oggetto fatti rientranti tra le informazioni acquisite in corso di mediazione, per rispettare l’obbligo di riservatezza, sarebbe costretta a dire il

16 Nello stesso ordine di idee rispetto all’interrogatorio formale v. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione, cit., nota 56 a pag. 667.

17 PORRECA, La mediazione e il processo civile: complementarietà e coordinamento, in Le società, 2010, p. 635 s.

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falso, rispondendo negativamente a domande, che, se si dicesse la verità, dovrebbero avere risposta positiva. Non potrebbe invece – sempre portando alle sue logiche conseguenze la tesi criticata – rifiutarsi di rispondere, perché il detto rifiuto, ai sensi dell’art. 232, comma 1, c.p.c., può essere valutato dal giudice come l’ammissione dei fatti dedotti nell’interrogatorio.

A me parte invece che la disciplina della riservatezza contenuta nel decreto n. 28/2010 imponga in primo luogo al giudice di non ammettere un interrogatorio avente ad oggetto fatti coperti dalla riservatezza e comunque fornisca alla parte cui è dedotto l’interrogatorio un “giustificato motivo”

per non rispondere.

Vale la pena di aggiungere che il privilege previsto per il mediatore deve necessariamente valere anche per i componenti dell’organismo di mediazione e per i terzi che, per qualsiasi motivo, prestino la loro opera nella procedura di mediazione. E’ infatti evidente che, se così non fosse, sarebbe possibile aggirare l’obbligo di riservatezza enunciato dall’art. 9, comma 1, e il principio di inutilizzabilità sancito dall’art. 10, comma 1.

Va sottolineato che il divieto di utilizzare le informazioni-dichiarazioni, a differenza del generico dovere di riservatezza – che, come si è visto, grava principalmente sul mediatore – è rivolto soprattutto alle parti e si propone di realizzare un loro interesse. Si vuole, insomma, evitare che una delle parti usi contro l’altra le informazioni acquisite e le dichiarazioni rese nel corso della mediazione.

Sotto il primo profilo sulle parti incombe una sorta di divieto di allegazione, prima ancora che di prova. Le dichiarazioni-informazioni ottenute in corso di mediazione sono circostanze che il giudice non può prendere in considerazione e che, per questo motivo, non possono entrare nel giudizio né tramite una dichiarazione confessoria, né tramite una pro se declaratio, che nel caso di specie non avrebbe neppure il modesto valore di argomento di prova che normalmente ha18.

Probabilmente – ma su questo vedremo come si orienterà la giurisprudenza – si potrebbe aggiungere che una delle parti non può avvalersi di prove della cui esistenza è venuta a conoscenza

18 Sul fatto che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite in corso di mediazione non siano utilizzabili neppure come argomenti di prova v. SANTAGADA, La conciliazione delle controversie civili, Bari, 2008, p. 292.

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da dichiarazioni rese dall’altra durante la mediazione19 (ad es. una parte rivela l’esistenza di un registro ignoto all’altra parte, la quale poi ne chiede in giudizio l’esibizione).

Nello stesso ordine di idee ci si può chiedere se un fatto (ad es. l’avvenuto parziale pagamento del credito ad opera di un terzo) dichiarato durante la mediazione da una parte, che l’altra non avrebbe potuto conoscere aliunde, possa essere da questa allegato nel successivo giudizio o se alla citata allegazione sia di ostacolo il divieto di cui all’art. 10, comma 1, derivando la conoscenza del fatto stesso da informazioni ottenute o dichiarazioni rese in sede di mediazione.

Coperta dal vincolo di riservatezza e perciò non utilizzabile nel susseguente giudizio di merito è anche l’attività svolta nel corso della mediazione dal consulente tecnico nominato ai sensi dell’art.

8, comma 4, nonché, a maggior ragione quella posta in essere dal “mediatore ausiliario”, che l’organismo di mediazione può designare “nelle controversie che prevedono specifiche competenze tecniche”.

E’ infatti vero che, in questo caso, il compito cui è chiamato il CTU nella mediazione non presenta differenze di rilievo rispetto a quello svolto dallo stesso nel giudizio, nel senso che non sempre e non necessariamente il CTU deve operare con la logica del mediatore (a meno che non sia egli stesso mediatore ausiliario). Tuttavia è altrettanto vero che sembra difficile escludere le valutazioni del CTU nominato dal mediatore dal novero delle “informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione”. Del resto, se le parti vogliono evitare lo spreco di un’attività nella quale hanno investito tempo e denaro, possono decidere di avvalersene in giudizio, allo scopo, se non di sostituire, quanto meno di alleggerire l’opera del CTU nominato dal giudice, purchè però la scelta sia fatta di comune accordo.

Sotto il secondo profilo l’inutilizzabilità delle prove relative alle informazioni-dichiarazioni raccolte nel corso della mediazione, così come l’obbligo di riservatezza e il divieto di allegazione di cui si è detto, sono nella piena disponibilità delle parti, le quali possono, di comune accordo, autorizzare la testimonianza del mediatore e restituire la loro normale efficacia agli altri mezzi istruttori aventi ad oggetto fatti o avvenimenti occorsi durante la mediazione. In effetti, in questo, a differenza che in

19 Per evitare questa prospettiva l’art. 10, comma 5, dell’UNCITRAL Model Law on International Commercial Conciliation prevede che le prove non diventino inammissibili per il solo fatto di essere state usate nel corso della mediazione.

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altri casi (come ad es. in quello del difensore)20 non sono coinvolti interessi pubblici. Per questo motivo non credo che, di fronte alla contraria comune volontà delle parti, il mediatore possa rifiutarsi di testimoniare, facendo richiamo alle disposizioni degli artt. 200 e 103 c.p.p., a lui applicabili in virtù dell’estensione operata dall’art. 10, comma 2, del decreto21.

Non dovrebbe essere difficile individuare i contorni del processo che segue la mediazione non andata a buon fine “avente il medesimo oggetto anche parziale” (art. 10, comma 1).

Il divieto infatti dovrebbe valere per le cause collegate alla mediazione da un vincolo simile a quelli della litispendenza o della continenza, perché caratterizzati da una coincidenza totale o parziale di petitum e di causa petendi. La disposizione in esame non dovrebbe invece trovare applicazione in caso di semplice connessione o pregiudizialità della causa preannunciata nel procedimento di mediazione con quella poi proposta davanti al giudice.

In modo altrettanto elastico dovrà essere intesa la locuzione “giudizio”…..”iniziato o riassunto a seguito dell’insuccesso della mediazione”, nel senso, ad esempio, che nel concetto di “riassunto”

bisogna che sia ricompreso anche quello di “proseguito”.

Prima di concludere sul punto vorrei sottolineare che le norme in esame non possono essere interpretate in modo da consentire a una delle parti di trasformare il procedimento di mediazione nel luogo in cui “nascondere” le prove allo scopo di renderle inutilizzabili nel susseguente giudizio.

Sarebbe infatti troppo facile depositare nel corso della mediazione un documento che produca effetti probatori favorevoli alla controparte per essere sicuri che non sia poi producibile davanti al giudice.

E’ appena il caso di aggiungere che i comportamenti diretti a limitare il diritto alla prova per contrarietà alla regola della riservatezza nella mediazione possono essere contrastati se e nella

20 BORGHESI, op. ult. cit., p. 672 ss.

21 A proposito dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 40 del d.lgs n. 5/2003, SANTAGADA, La conciliazione, cit., nota 83 a p. 292, osserva che, comunque, “il conciliatore, comparso in udienza, potrebbe astenersi dal testimoniare invocando la tutela del segreto professionale di cui all’art. 200 c.p.p. sempreché la sua attività rientri nell’ambito delle professioni cui la legge riconosce il segreto professionale”. Obietterei che non è possibile avvalersi della facoltà di astensione collegata ad una professione riguardo ad attività che non hanno a che fare con l’esercizio della stessa (ad es.

un avvocato che svolga la funzione di mediatore ha il diritto-dovere di astenersi ai sensi dell’art. 10, comma 2, del decreto, ma non ai sensi dell’art. 249 c.p.c.).

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misura in cui se ne possa dimostrare il carattere abusivo, sulla base dei principi di recente affermati dalla giurisprudenza della Cassazione22 in materia di frammentazione della domanda.

5. Una possibile breccia alla garanzia della riservatezza del procedimento potrebbe essere aperta dalla disposizione secondo la quale la proposta che il mediatore ha la facoltà o il dovere di formulare, se le parti gliene fanno concorde richiesta, può influire sul carico delle spese quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente o quasi al contenuto della proposta (art. 13). Per evitare che questo accada e consentire, nel contempo, che la proposta possa fare il suo ingresso nel giudizio, l’art. 11, comma 2, prevede che, salvo diverso accordo delle parti, la proposta stessa non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.

Anche se la legge è muta in proposito23, non vi è dubbio che la garanzia della riservatezza della procedura di mediazione debba avere dei limiti. Limiti che coincidono, per un verso, con quel poco di pubblicità cui la mediazione è inevitabilmente esposta ogni qual volta entra in contatto con l’ordine giudiziario. Mi riferisco non solo a quanto detto a proposito dell’incidenza della proposta espressa dal mediatore sul carico delle spese, ma anche al deposito presso la cancelleria del Tribunale perché il presidente effettui i controlli necessari per l’emanazione del provvedimento di omologa previsto dall’art. 12.

Per altro verso possono ricorrere esigenze di giustizia che prevalgono su quelle di riservatezza. Si tratta dei casi in cui la parte, per far valere un proprio diritto, non può che basarsi sui verbali della procedura di mediazione. Spetterà ovviamente al giudice mettere su di un piatto della bilancia il diritto alla riservatezza di una delle parti e sull’altro piatto il diritto alla prova della controparte e decidere quale dei due debba prevalere.

Infine, la riservatezza e il segreto non possono impedire alle parti di fornire informazioni ad organi della pubblica amministrazione (sulla base ad es. delle norme fiscali o antiriciclaggio) o a determinate categorie di terzi (si pensi ad es. ai revisori, ai responsabili di società appartenenti allo

22 Mi riferisco a Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726.

23 Probabilmente il silenzio della legge è meglio del riferimento eccessivamente restrittivo ai casi previsti dalla legge e alle esigenze di esecuzione dell’accordo raggiunto tramite la mediazione contenuto nell’art. 9 dell’UNCITRAL Model Law on International Commercial Conciliation.

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stesso gruppo, agli azionisti, agli assicuratori, alle banche, agli aspiranti acquirenti che effettuino una due diligence diretta ad accertare la situazione patrimoniale della società, e così via)24.

24 Fa riferimento a “superiori questioni di ordine pubblico” ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione, cit., p. 667. Sullo stesso tema, in arbitrato, v. FAGES, La confidentialité de l’arbitrage à l’épreuve de la trasparence financière, in Riv.arb., 2003, p. 5 ss.

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