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1. Caratteristiche generali

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1. Caratteristiche generali

In questo capitolo si descrive la Corporate Social Responsibility e come questa è diventata importante e sempre più applicata dalla totalità delle imprese, si fa riferimento alla globalizzazione e alla sua influenza sulla diffusione della Csr e successivamente si considera l’inclusione della Csr all’interno della funzione obiettivo stabilita da qualsiasi organizzazione. Infine viene fatta un’introduzione su come, a seguito della crisi, nelle banche, siano diventati sempre più urgenti e di importanza crescente i benefici derivanti da una condotta responsabile.

1.1 Definizioni

Nel mondo di oggi si parla tanto di Corporate Social Responsibility, la quale risulta essere un argomento molto dibattuto che coinvolge tantissimi attori all’interno della nostra società, dalle Università, alle imprese, ai soggetti pubblici.

La Csr può essere considerata come un nuovo approccio strategico alla gestione d’impresa, basato su una visione relazionale della stessa, in altre parole è un modo di operare al fine della sostenibilità dell’azienda in un contesto di stakeholder network nella quale è inserita.

Ogni organizzazione per operare ha bisogno di consenso, è dentro un network di relazioni che è sempre più ampio e dal quale deve essere legittimata per svolgere la sua attività; questo in seguito al processo continuo di globalizzazione che spinge le persone ad essere più vicine e a interessarsi sempre di più e in modo maggiore al modo di operare delle varie organizzazioni. Non ci sono più centri decisionali autonomi, le imprese devono tenere conto che l’informazione è a disposizione e accessibile a tutti e l’opinione pubblica può indirettamente influenzarne, molto più di prima, le scelte.

E’ proprio questa interazione impresa-società dalla quale traggono successo le imprese, soprattutto le PMI. Se prima i problemi potevano essere gestiti in via residuale, è a causa del mutato contesto globale che invece oggi non è più possibile; grazie alle sempre più sofisticate reti di informazioni le crisi diventano subito un

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fenomeno di scala planetaria con effetti importanti sugli esiti futuri dell’impresa e quindi sulle relazioni instaurate con i mercati e gli stakeholder.

Tutto questo perché la creazione di valore dipende da tutta una serie di processi che sono alla base dell’impresa e un ruolo fondamentale giocano le relazioni con gli stakeholder i quali apportano risorse di ogni tipo e che conducono al successo della società. La sostenibilità dell’impresa dipende quindi dalla sostenibilità delle relazioni con i suoi stakeholder.

L’impresa non può più essere considerata quindi un organismo a se stante ma deve essere considerata come un insieme di relazioni che essa instaura con i vari portatori di interesse, devono inoltre essere determinati gli strumenti da utilizzare e le azioni da perseguire per affrontare le mutevoli condizioni di mercato e raggiungere gli obiettivi nel modo più soddisfacente possibile.

L’iniziale mancato riconoscimento di questo cambiamento di prospettiva ha esposto le imprese a rischi e minacce quali:

-crisi nella filiera di fornitura con impatti a valle nei mercati di sbocco -proteste e perdite di consenso nella comunità in cui operano

-campagne di boicottaggio realizzate dai consumatori finali -valutazioni negative da parte della comunità finanziaria -rilevanti responsabilità sul fronte ambientale

I manager delle imprese si son visti costretti a cambiare le loro scelte strategiche sotto la pressione di particolari gruppi di stakeholder, infatti l’incapacità di prevedere e identificare le richieste ha portato a non ben pochi problemi di reputazione sull’organizzazione e sulle potenzialità di sviluppo.

Affinché tutto ciò sia reso possibile le imprese devono avere una Responsabilità Sociale, che può essere definita come:

1.Una guida per lo sviluppo sostenibile a livello locale e globale:

Nel rapporto “Our Common Future” della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo viene spiegato il concetto di sviluppo sostenibile: “La risposta dell’industria all’inquinamento e al degrado delle risorse non è stato e non dovrebbe essere limitato alla conformità delle norme giuridiche. Dovrebbe essere accettato un

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comune senso di responsabilità sociale e assicurata la consapevolezza degli aspetti ambientali a tutti i livelli. Per raggiungere questo fine, tutte le imprese, le associazioni di commercio, i sindacati dovrebbero stabilire a livello aziendale o industriale delle politiche riguardanti la gestione delle risorse e dell’ambiente, inclusa la conformità alle leggi e i requisiti dei paesi in cui essi operano” (WCED 1987, p.198).

La presidente della Commissione di quel tempo, Brundtland, ha dato la sua definizione di sviluppo sostenibile, una frase che può essere definita storica: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (WCED, 1987).

Quindi dato che le imprese contribuiscono notevolmente al degrado ambientale è necessario che venga diffuso il concetto di sviluppo sostenibile sia al fine di rispettare le norme, in primis, e sia per assicurare il rispetto di determinati standard ambientali per una migliore conservazione del nostro pianeta.

Ovviamente gli imprenditori devono per primi sostenere tale motivazione, già nel Rapporto Pirelli di Confindustria del 1970 si riconosce che: “..gli imprenditori devono incoraggiare e sostenere con i fatti la domanda che si sviluppa nel paese per obiettivi sociali e collaborare con le altre forze sociali alla soluzione dei problemi della casa, dei trasporti e del territorio” (Doria 1999, p. 681).

2.Fattore differenziale per modelli competitivi più all’avanguardia:

Nell’Executive Summary del Green Paper europeo sulla responsabilità sociale si afferma che: “L’unione Europea si occupa della CSR in quanto può contribuire positivamente al fine strategico deciso a Lisbona: divenire la più competitiva e dinamica economia al mondo, capace di sostenere la crescita economica con maggiori posti di lavoro e una grande coesione sociale” (Commissione delle Comunità Europee 2001, p.3).

Inoltre nella Comunicazione del 2006, la Commissione Europea ha stabilito che deve essere promossa la crescita coerentemente con lo sviluppo sostenibile, il quale deve

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rimanere un obiettivo a lungo termine e che l’Europa deve adottare un modello di business che contribuisca a creare valore per la società.

Quello su cui si deve puntare per lo sviluppo è la sostenibilità, le capacità innovative delle imprese e il loro capitale umano, sociale, culturale e ambientale; la concorrenza deve essere affrontata su questi fronti e non sul lato dei costi perché ci sarà sempre qualcuno che riuscirà a produrre a prezzi inferiori, non si parla di cost-based competition ma di value-cost-based competition.

3.Elemento alla base di rinnovate relazioni tra soggetti pubblici, società civile e imprese.

La Csr è quindi vista non solo come opportunità ma anche come trampolino di lancio per l’instaurazione di nuove e proficue collaborazioni tra tutti i soggetti pubblici e privati. Sono gli stessi attori sociali che si assumono maggiori impegni per essere in grado di dirigere più efficientemente le imprese alla luce delle complesse dinamiche innescate proprio dal continuo processo di globalizzazione. Si cerca di mettere in atto soluzioni di welfare mix al fine di favorire una maggiore compartecipazione dei soggetti economici che non deve essere imposta dal regolatore ma bensì come una conseguenza di scelte strategiche.

Detto tutto ciò si può dire che la Csr:

-non risponde a una logica add-on: per contro nei contributi di Porter e Kramer (2002; 2006) viene evidenziato che la Csr è solo uno strumento aggiuntivo con il quale l’impresa può raggiungere una maggiore posizione competitiva, in quanto non può realizzare il suo intero valore solo tramite attività sostenibili.

Ovviamente questa impostazione non coglie la portata totalmente innovativa della responsabilità sociale che è in grado di dettare le regole chiave per migliorare la propria posizione strategica.

-non è filantropia: Porter (2007) analizza l’effetto del cambiamento climatico sui risultati di un’impresa e ritiene che le minacce provenienti dall’esterno non devono essere considerate solo da un punto di vista sociale ma soprattutto da un punto di vista strategico in riferimento agli impatti diretti sul business dell’impresa. Quindi in questo caso la responsabilità sociale viene considerata un fattore estraneo al

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business, ma allora avrebbe ragione Friedman (1970) ad affermare che la responsabilità sociale serve solo per far aumentare i profitti. In realtà non è così perché è necessario considerare il valore strategico della Csr e la capacità dell’impresa di relazionarsi con tutti gli attori interni e esterni (Post, Preston and Sachs 2002a, p.9).

-non è ambito residuale dell’attività d’impresa: la Csr è considerata un innovativo approccio strategico alla gestione dell’impresa e quindi coinvolge tutti i processi di un’impresa e tutte le relazioni che l’impresa instaura con i soggetti interni ma soprattutto con i soggetti esterni.

-non può essere intesa unicamente come social entrepreneurship: alcuni autori, come Brugmann e Prahalad (2007), fanno coincidere la responsabilità sociale con la responsabilità imprenditoriale, in realtà la responsabilità sociale non può essere applicata facendo esclusivo riferimento alle finalità di un’impresa ma anche e soprattutto a come vengono perseguiti gli obiettivi, si deve tenere conto del mutato contesto ambientale e delle mutate relazioni che si instaurano tra i vari attori nella società.

-non può essere limitata a sistemi di gestione: la responsabilità sociale va oltre la compliance normativa, la csr non può essere trattata come un qualsiasi processo all’interno di un’impresa e non possono essere quindi previste precise norme a carattere tecnico. Sono presenti a livello nazionale e internazionale delle guide alla responsabilità sociale ma non esistono un insieme di regole standard; lo scopo è quello di aiutare soprattutto le piccole e medie imprese a fornire loro un supporto terminologico, interpretativo e operativo. La responsabilità sociale riguarda le scelte di fondo di un’impresa, le logiche che sono alla base delle scelte aziendali, le quali non possono essere imposte per legge o regolate tramite modelli certificativi. Si deve pertanto lavorare sulla diffusione della cultura della responsabilità sociale, individuando le migliori best practice, facilitando il dialogo tra le imprese, soggetti

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pubblici e società civile tramite strumenti di confronto comuni e valorizzando i comportamenti virtuosi già alla base di molte esperienze condivise.1

1.2 Contesto ambientale di globalizzazione

La globalizzazione è un fenomeno ormai ampiamente conosciuto e discusso, esprime il processo di cambiamento sociale a livello macro delle nazioni. Molti fenomeni come la pace, la criminalità, la produzione, l’occupazione, gli sviluppi tecnologici, i rischi ambientali, la coesione sociale, sono colpiti da questo processo. La globalizzazione non è altro che il processo di intensificazione nazionale e internazionale delle relazioni sociali tra attori che provengono da paesi anche molto distanti tra loro, e di crescente interdipendenza transnazionale delle attività economiche e sociali (Beck 2000; Giddens 1990). Giddens sostiene che con la globalizzazione “le modalità di collegamento tra i contesti e le aree sociali contribuiscono a formare una rete in tutta la superficie della terra nel suo complesso”.

In questo processo lo Stato-nazione perde la sua capacità di guida politica, il potere dello Stato è collegato al suo territorio, mentre i soggetti di regolamentazione statale come le imprese commerciali hanno ampliato i loro poteri oltre il territorio nazionale. Oltre a questo, mutano continuamente gli scenari ambientali e i problemi che emergono non hanno più portata nazionale ma coinvolgono tutto il pianeta e non possono quindi essere governati da un singolo Stato, come ad esempio il riscaldamento globale, la criminalità, le malattie ecc. In questo contesto si stanno sempre di più facendo strada nuovi attori e istituzioni come le organizzazioni internazionali, le multinazionali, le organizzazioni non governative e gruppi della società civile che guadagnano sempre di più influenza politica e che hanno formato nuove forme di governance capaci di esercitare il loro potere oltre i confini nazionali.

1 Perrini F., Tencati A. (2008), Corporate Social Responsibility, Un nuovo approccio alla gestione

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Si parla di “globalismo” definito come un’ideologia, ovvero un atteggiamento normativo nei confronti della globalizzazione.

Per quanto riguarda le cause, è evidente come queste siano scaturite da decisioni politiche ma anche dagli sviluppi tecnologici, sociali ed economici; tutto questo ha portato effetti positivi come la liberalizzazione di merci e di persone che ha consentito lo scambio non solo da un punto di vista intellettuale ma anche da un punto di vista di apporto di nuove risorse laddove prima non erano presenti e laddove ora possono essere utilizzate in modo più proficuo. Non sono però da non tenere conto anche gli effetti negativi che hanno portato i rischi ad assumere una portata globale.

La globalizzazione ha condotto alla nascita di nuove responsabilità: la comunità, il lavoro, il capitale stanno perdendo le loro radici e il panorama che abbiamo di fronte è quello di un insieme di culture e stili di vita differenti, una società mondiale a cui manca però uno stato mondiale e un governo mondiale (Beck, 2000).

In questa nuova situazione la tradizionale divisione dello stato-nazione e delle imprese private non è sufficiente per garantire l’integrazione delle società. Le imprese diventano dei soggetti politici le cui responsabilità si estendono oltre i ruoli economici e la semplice conformità alle leggi non può essere un’adeguata risposta alle nuove sfide che via via si presentano.

La Csr, in questo contesto, deve essere analizzata come un rimedio al problema della separazione delle responsabilità economiche e politiche.

La responsabilità aziendale è basata implicitamente sul concetto neoclassico di una divisione rigida del lavoro tra attori economici e politici, questo pensiero è basato sulla percezione manageriale di responsabilità sociale, la società come attore privato si dovrebbe concentrare sulla ricerca del profitto mentre lo Stato e le istituzioni devono affrontare i problemi pubblici (Friedman, 1962; Sundaram e Inkpen, 2004).

La letteratura opera quindi con una visione strumentalista della responsabilità d’impresa considerandola solo come un fattore di successo per la realizzazione di profitti ma quello di cui non si tiene conto è l’ordine politico istituzionale alla base

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della società e il concetto di democrazia. Si fa riferimento al concetto di legittimità aziendale “una percezione generalizzata o assunzione che le azioni di un’entità sono desiderabili, corrette o appropriate entro un sistema socialmente costruito di norme, valori, credenze e definizioni” (Suchman, 1995), la responsabilità è quindi vista come un processo di adattamento in cui l’organizzazione reagisce alle aspettative esterne.

La concezione contemporanea di responsabilità sociale fa riferimento al modello liberale di democrazia, dove le società sono dei privati e quindi attori non politici, i quali possono partecipare ai processi di deliberazione politica ma con il fine di realizzazione degli obiettivi strategici aziendali. Nonostante la loro partecipazione però non sono considerati soggetti politici e quindi non devono giustificare il loro comportamento a patto di rispettare la conformità alle leggi (Friedman, 1962). Solo lo Stato come attore pubblico e politico è ritenuto responsabile da parte del sistema politico. Il ruolo dello Stato è quello di garantire la libertà, soprattutto economica, dei cittadini e la stabilità del contesto sociale dove hanno luogo le interazioni private.

La legittimazione aziendale ha come punto di riferimento le norme giuridiche e morali di una comunità a livello nazionale ma il contesto nel quale operano le imprese è diventato internazionale. Come ha sostenuto Barber (2000) però “siamo riusciti a globalizzare i mercati dei beni, delle valute, del lavoro, delle informazioni senza globalizzare però le istituzioni civili e democratiche che storicamente hanno reso possibile il contesto indispensabile al libero mercato”. Sul campo di gioco globale, l’ambiente sociale che garantisce la legittimità alle società è costituito da una molteplicità di richieste legali e morali che le imprese devono rispettare con aspettative però contraddittorie.

Ovviamente non esistono a livello globale degli standard legali applicabili o regole morali largamente accettate che possono circoscrivere la legittimità delle attività delle multinazionali ed è proprio per questo motivo che è iniziato il dibattito sulla responsabilità sociale in conseguenza degli effetti della globalizzazione.

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La globalizzazione sta indebolendo il potere delle autorità politiche nazionali di regolamentare le imprese che si stanno espandendo a livello globale, questo ha portato a due effetti: spingere i governi in una corsa verso il basso e il vuoto normativo che naturalmente si apre per quelle attività a livello internazionale. Per quanto riguarda la corsa verso il basso del governo è spiegata in ragione del fatto che le multinazionali, che hanno maggior potere e maggiore decisione, spostano i costi delle attività in quei paesi dove sono più bassi al fine di massimizzare i loro profitti, i governi sono quindi costretti ad intervenire per affrontare la concorrenza e cercare di attirare quanti maggiori investimenti possibili, non sono più i governi che impongono le regole ma le multinazionali che costringono i governi a determinati comportamenti.

Per quanto riguarda invece il vuoto normativo è evidente come molti problemi oggi abbiano una portata mondiale e non possono essere risolti singolarmente dagli Stati, la fonte di questi problemi è stata individuata proprio nelle attività svolte dalle multinazionali. Non esistono però delle istituzioni di governance abbastanza forti da imporre regole e meccanismi per far fronte a queste sfide e per sanzionare il comportamento deviante delle imprese.

Sono tuttavia presenti dei documenti che hanno valenza internazionale come la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo o le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del lavoro che stabiliscono degli standard universali ma che non possono essere applicati in modo vincolante sulle società. A complicare la situazione è la non presenza di valori e culture omogenee che portano a maggiori conflitti e maggiori sovrapposizioni di interpretazioni, in un contesto così eterogeno dove si sente molto meno il legame con il territorio e con le varie culture, le multinazionali vengono indotte a non affrontare adeguatamente problemi etici che possono sorgere durante le loro attività.

Il comportamento discutibile delle multinazionali ha prodotto una nuova distribuzione del potere tra i governi nazionali, gli attori economici e la società civile, ciò che ha contribuito a un governo delle grandi imprese è stata soprattutto la politicizzazione della società civile, si parla di “globalizzazione dal basso” (Beck,

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2000) che descrive il potere crescente di attori della società civile di influenzare i processi decisionali nelle aziende, si fa riferimento in particolare alle Organizzazioni Non Governative, le quali, grazie alla trasparenza forzata tramite internet, riescono a frenare le attività delle multinazionali.

Sotto la pressione di cambiare le aspettative della società, alcune multinazionali hanno iniziato ad intensificare il loro impegno in Csr, promuovendo iniziative per i diritti umani, impegnandosi nelle questione di salute pubblica e affrontando altri problemi di portata mondiale; hanno iniziato anche a impegnarsi in iniziative di autoregolamentazione per colmare il vuoto normativo di governance globale. In conclusione si può dire che le soluzioni politiche per le sfide sociali non sono più limitate al solo sistema politico ma sono incorporate nei processi realizzati da attori non statali come le ONG e le aziende, non si parla più solo di responsabilità limitata all’impresa ma le aziende devono essere intese come soggetti economici e politici e devono quindi avere una responsabilità sociale (Scherer, Andreas Georg and Palazzo, 2008).

1.3 Massimizzazione del Valore e Teoria degli Stakeholder

Nei paesi più industrializzati gli economisti, i manager, i dirigenti aziendali e i vari gruppi di interesse sono interessati al dibattito sulla corporate governance, al centro della discussione vi è la divergenza di opinioni sullo scopo fondamentale della società causato principalmente dalla molteplicità di interessi in conflitto. A livello individuale ogni organizzazione deve formulare una funzione obiettivo da massimizzare per determinare la misura delle prestazioni di ogni impresa, la maggior parte degli economisti sostiene che i manager devono avere un criterio per misurare le proprie prestazioni e questo criterio deve necessariamente coincidere con la massimizzazione del valore nel lungo periodo. La massimizzazione del valore non è un concetto recente ma ha le sue radici in 200 anni di ricerca in economia e finanza.

Un altro metodo utilizzato è quello della “teoria degli stakeholder”, il quale stabilisce che i manager devono prendere decisioni che tengano conto degli

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interessi di tutti i soggetti coinvolti in un’impresa, ovvero tutti gli individui o i gruppi che possono incidere in modo sostanziale o essere influenzati dallo svolgimento delle attività.

Mentre la massimizzazione del valore fornisce ai manager un unico obiettivo, la teoria degli stakeholder porta all’individuazione di una molteplicità di obiettivi. Senza quindi una chiarezza della missione aziendale, la teoria degli stakeholder può risultare confusionaria e portare a conflitti e inefficienze nell’utilizzo delle risorse. I manager devono non solo soddisfare ma ottenere il sostegno da parte di tutti gli stakeholder, tramite la loro leadership devono essere capaci nella progettazione, nell’efficacia della creazione e nella sostenibilità della visione strategica della società. Si parla di “Teoria degli stakeholder illuminata”, si fa riferimento alla struttura della teoria degli stakeholder ma si accetta la massimizzazione del valore di lungo periodo dell’impresa come criterio per cercare il giusto compromesso con tutti i portatori di interesse, giustificato dall’obiettivo comune.

In ogni caso, qualunque sia la funzione obiettivo stabilita, bisogna tenere in considerare che il fine aziendale e gli strumenti utilizzati dai manager hanno implicazioni per il benessere sociale, ambientale e economico. Questo è massimizzato quando tutte le imprese massimizzano il loro valore, dove valore è inteso come valore sociale, ovvero quando le “uscite” prodotte dall’impresa superano le “entrate”. Quando ciò non si realizza è perché sono presenti dei monopoli o esternalità, ad esempio l’inquinamento o altri effetti negativi sull’ambiente. Non possono esistere esternalità però se tutti i diritti di proprietà sono assegnati e definiti a uno o più soggetti, quindi la soluzione a questi problemi non risiede tanto nel stabilire una giusta funzione obiettivo ma eliminare le esternalità garantendo così il benessere generale.

La massimizzazione del valore di un’impresa non è una visione, una strategia o uno scopo, è soprattutto la scheda di valutazione dell’organizzazione, ciò che è essenziale è la guida verso un unico obiettivo, costruire una struttura tale per cui tutti perseguono un unico obiettivo e non siano interessati alla realizzazione dei propri personali interessi (Jensen, 2000).

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Affinché il comportamento strategico della società sia un comportamento socialmente responsabile, l’impresa deve stabilire:

-principi: definiscono la visione del contratto sociale che ogni azienda propone ai propri stakeholder, sono astratti e generali in modo che possano essere applicati a una generalità di eventi e devono essere tali per cui riescano a coprire sia eventi previsti che imprevisti

-regole di comportamento: la definizione di principi permette di individuare delle aree di potenziale opportunismo dove le interazioni tra le parti interessate e la società mettono i principi a rischio, per ognuna di queste aree è opportuno stabilire delle regole precauzionali di comportamento

-comunicazione e dialogo con gli stakeholder: affinché si instauri un rapporto fiduciario con tutti i portatori di interesse, è necessario che l’impresa dia conto del raggiungimento degli obiettivi definiti in termini di doveri di realizzazione, che ovviamente sono stati stabiliti ex ante in relazione ai principi e alle regole di comportamento. Si denota da qui l’importanza della comunicazione e si può misurare la responsabilità sociale (Sacconi Lorenzo, 2004).

1.4 Dopo la crisi finanziaria come è cambiato il modo di

operare delle banche

La crisi finanziaria è stata sicuramente un elemento che ha contribuito a creare notevoli difficoltà e problemi in tutti i settori dell’economia, ma è proprio da una crisi che risulta necessario ridefinire i ruoli dei manager e dei leader in generale che stabiliscono le strategie e le azioni aziendali da intraprendere per mantenere vitali le loro imprese.

In un tale contesto risulta necessario separare le banche in difficoltà da quelle più solide.

Da un punto di vista di un investitore, oltre a investire denaro nelle grandi banche che erogano i finanziamenti, le scelte per compiere dei buoni affari, dopo la crisi, si sono presentate in questo modo:

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-per quanto riguarda gli investimenti in titoli, risultano ancora molto richiesti gli ABS (Asset Backed Securities) o comunque altri derivati o prodotti strutturati (ad esempio quelli dell’America Latina, Stati Uniti o Asia), le banche dell’America Latina sono quelle che rispetto ad altre sperimentano più problemi, i mercati Asiatici sono invece in crescita costante, mentre il sistema bancario degli Stati Uniti presenta maggiori segnali di ripresa. Il tutto ovviamente si ripercuote sul prezzo delle azioni di queste banche che diminuisce per quelle che sono più in declino e per le quali ne beneficiano quindi gli investitori che, in precedenza, avevano venduto tali titoli e che ora possono beneficiare di un riacquisto a prezzi più bassi.

-ovviamente il successo dell’investimento dipende dal modo in cui le banche rifinanziano la loro attività e dal grado di write-off che hanno. In questo settore le prospettive sono migliori dato che il costo del rifinanziamento è pari solo all’1% ma la crescita del business è comunque più lenta dato che le ex banche commerciali preferiscono attuare operazioni di salvataggio e non di sviluppo, in attesa di attuare nuove regole sul fronte dei requisiti dei capitali. Ovviamente ulteriori problemi possono sorgere se le banche salvate continuano a effettuare errori commessi anche in precedenza e continuano ad operare in quei settori più colpiti dalla crisi finanziaria.

-Naturalmente se i governi immettono fondi in quelle banche dove vi sono più problemi e dove è richiesto il loro salvataggio, il quadro della situazione bancaria generale non risulterà svantaggioso, questo al fine di non scoraggiare gli investitori/elettori e la clientela in generale.

Bisogna comunque considerare un altro aspetto: i clienti hanno tutti gli stessi bisogni in qualsiasi parte del globo?

Per secoli l’affidabilità delle banche è stata una caratteristica molto importante ed essenziale e negli ultimi decenni è stata favorita dal concetto di CSR, tramite soprattutto strategie di sviluppo sostenibile. Ma questo sviluppo da dove proviene? Se le banche non spingono per effettuare maggiori operazioni di prestito significa che stanno cercando redditività altrove, ma quali sono queste altre forme di redditività? E perché sono state salvate per prime queste banche?

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I salvataggi sono iniziati a seguito dell’immissione sui mercati dei titoli tossici che sono stati la causa scatenante la crisi, ovviamente ora c’è la tentazione di stare lontani da questi titoli. La crisi ha colpito non solo i “portafogli cattivi” ma anche quelli “buoni” dove venivano fatti investimenti più prudenti e dove il rischio era minore, ma la crisi ha coinvolto tutti. Quindi la domanda adesso è: bisogna fare attenzione solamente al tipo di rischio di portafoglio o è necessario investire in banche socialmente responsabili?

Il rispetto dei bisogni dei clienti è sentito in tutte le culture, ma il servizio clienti è diverso nei vari paesi, soprattutto tra Stati Uniti e Europa. Sono state fatte delle ricerche sulla modalità di comportamento nel rapporto con la clientela e sono emerse delle differenze. Il servizio clienti sembra avere un valore più basso in Europa rispetto agli Stati Uniti dove invece il cliente è considerato un Re e dove la regola del “cliente ha sempre ragione” ha molto più valore.

Le attitudini, le percezioni, i valori, i benefici presenti in America relativi al servizio clienti dovrebbero essere oggetto di maggiore attenzione da parte delle imprese europee al fine di migliorare i loro profitti aziendali, la fedeltà dei clienti, ripetere le vendite e infine la responsabilità sociale delle imprese.

Un’altra domanda da porsi è: la regolamentazione può rendere le attività più efficienti nel settore bancario?

Come in ogni economia di libero mercato, il settore privato deve essere lasciato libero di operare e il governo deve intervenire solo quando è ritenuto necessario, stabilendo le regole per una pacifica convivenza. La troppa regolamentazione porta alla deregolamentazione, non è aggiungendo nuovi divieti e nuove norme che l’economia sarà in grado di evitare crisi globali, nessuno prima di allora aveva guardato alla Csr come a un rimedio, una migliore e più trasparente relazione tra banca e cliente in relazione ai servizi bancari.

Alcuni possono considerare la Csr come “la politica e la pratica del coinvolgimento sociale di una società al di là dei suoi obblighi legali a beneficio della società in generale” (Enderle and Tavis, 1998), mentre altri suggeriscono che la Csr descrive la misura in cui i risultati dell’organizzazione sono coerenti con i valori e le aspettative

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della società (Lerner and Frixell, 1988). In parole povere la csr è identificata con la logica che le imprese sono propense a fare del bene.

La Csr è intesa sotto molte forme, dal coinvolgimento della comunità al prestito etico alla salute finanziaria, ma ciò che è interessante è quando la csr viene definita come “salute finanziaria e tendenza a crescere”, la redditività dell’impresa incoraggia i manager a implementare programmi che migliorano il livello di responsabilità sociale delle imprese.

La prospettiva finanziaria però non è sufficiente per valutare il livello di CSR, una qualsiasi azienda può prevedere e attuare benefici nei confronti dei dipendenti ma se tale azienda entra in difficoltà finanziaria, tali benefici diventano nulli.

Invece le banche forti sono considerate più pro-sociali perché possono offrire ai dipendenti maggiori possibilità di avanzamento. Le domande da porsi sono quindi: meglio essere una banca grande piuttosto che una piccola? Meglio essere regolamentati e avere elevati livelli di responsabilità sociale?

Le risposte sono state:

-le difficoltà delle banche potrebbero ancora essere quelle di commettere errori nelle pratiche di investimento in quei settori e mercati più colpiti dalla crisi finanziaria, i regolamenti dovrebbero chiarire questi aspetti visto che le ripercussioni della crisi finanziaria si sono fatte sentire a lungo

-anche se la portata della crisi, essendo globale, ha colpito sia portafogli buoni che cattivi, esistono sempre e sono validi i metodi di gestione del rischio che le banche dovrebbero adottare

-per rafforzare e creare legami finanziari, non si devono cambiare e unificare le differenti culture ma piuttosto capire le cause ed effetti e anticiparle con soluzioni innovative

-un approccio personalizzato alle relazioni, pur essendo più costoso, produrrà sicuramente profitti più alti e può fornire una migliore immagine a livello fiduciario -la salute finanziaria delle banche e la tendenza a crescere è più probabile che produca effetti positivi in una società prospera e socialmente responsabile, quindi

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gli investimenti devono essere realizzati in quelle organizzazioni che adottano tecniche di csr

-si consiglia di indirizzare gli investimenti maggiori in banche più grandi, che si presume abbiano maggiori investimenti sociali e quindi una migliore prospettiva per gli stakeholder interni ed esterni (Mihai Yiannaki Simona, 2010).

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