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Roma – aprile 2010 2009 ____________ A C R M _______ C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E U

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(1)

C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E U

F F I C I O D E L

M

A S S I M A R I O

_______

R

ASSEGNA ANNUALE DELLA

C

ORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA PENALE

____________

A

NNO

2009

Roma – aprile 2010

(2)

Anno 2009

HANNO COLLABORATO:

Antonio Balsamo, Sergio Beltrani, Angelo Caputo, Ersilia Calvanese, Gaetano De Amicis, Luca Pistorelli, Alessio Scarcella.

Redattore: Gastone Andreazza

Coordinatori: Domenico Carcano e Giuseppe Santalucia

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SOMMARIO

1. -LE DECISIONI IN MATERIA SOSTANZIALE

1.1. Il codice penale : a)- Differimento della pena nei confronti di donna incinta o madre di infante; b)- Differimento della pena nei confronti di persona affetta da Aids; c)- Indulto e reati da esso esclusi; d) Decorrenza della prescrizione; e)- Computo della prescrizione e status soggettivo dell’imputato; f )- False informazioni alla p.g. e non punibilità ex art. 384 cod. pen.; g) – Assegnazione a casa di cura e custodia e infermo di mente; h)- Misure di sicurezza e accertamenti periodici della pericolosità; i) Non punibilità ex art. 384 cod. pen. e convivente more uxorio; l)- Segreto di Stato- m)- Reato di diffamazione militare; n) - Lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla circolazione stradale e competenza del giudice di pace

1.2. La legislazione penale speciale : a)- Reati di immigrazione; b) –Guida in stato di ebbrezza e trattamento sanzionatorio; c)- Lottizzazione abusiva e confisca; d)- Privacy e attività giornalistica; e)- Condono dei reati tributari; f)- Reati tributari e confisca per equivalente; g)- Detenzione domiciliare e allontanamento; h)- Detenzione domiciliare e padre di prole infradecenne; i) Regime penitenziario e reclamo; l)- Inosservanza di obblighi e prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale; m) - Misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno e arresto fuori flagranza.

2. – LE DECISIONI IN MATERIA PROCESSUALE

2.1. Soggetti : a)- Termine a difesa; b) -Astensione; c)- Responsabile civile.

2.2. Atti : a)- Impugnazione del difensore e restituzione nel termine dell’interessato.

2.3. Prove : a)- L’acquisizione delle sentenze irrevocabili; b)- Attribuzione in giudizio della veste di dichiarante; c)- Registrazioni di conversazioni telefoniche o tra presenti; d)- Accertamenti tecnici irripetibili; e)- Intercettazioni illegali.

2.4. Misure cautelari : a)- Mandato d’arresto europeo;

2.5. Indagini preliminari e udienza preliminare: a)-Insussistenza di gravi indizi e archiviazione “coatta”; b)-Incidente probatorio successivamente alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari; c)-Udienza preliminare e fascicolo processuale.

2.6. Il giudizio : a)- Nullità del decreto che dispone il giudizio; b)-Sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato; c)-Procedura relativa ai reati ministeriali; d)-Legittimo impedimento del difensore della parte civile; e)-Utilizzazione contra alios di dichiarazioni impiegate per le contestazioni;

f)- Applicazione di amnistia e indulto.

2.7. Procedimenti speciali : a)-Giudizio abbreviato e reati di competenza della Corte d’Assise; b) Giudizio abbreviato e atti di indagine difensiva; c)- Giudizio abbreviato e assoluzione per difetto di imputabilità; d) – Giudizio abbreviato e contestazione suppletiva “tardivamente” effettuata in dibattimento; e) – Efficacia della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare.

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2.8. Le impugnazioni : a) – Inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere.

2.9. L’esecuzione : a)- Pluralità di sentenze per il medesimo fatto e sospensione condizionale;

2.10. Processo innanzi al giudice di pace : a)- Citazione a giudizio; b)- Ipotesi di connessione; c)- Impugnazioni.

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1. LE DECISIONI IN MATERIA SOSTANZIALE

1.1. Il codice penale

a)- Differimento della pena nei confronti di donna incinta o madre di infante.

Con ordinanza n. 145 del 4 maggio 2009, depositata l’8 maggio 2009, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.

146, primo comma nn. 1) e 2), cod. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice possa negare il differimento della pena richiesto da donna incinta o madre di infante, quando lo ritenga non adeguato alle finalità di prevenzione generale e di difesa sociale e consideri la detenzione domiciliare non idonea a prevenire il pericolo di recidiva. In proposito il giudice delle leggi ha rilevato come la presunzione assoluta di incompatibilità con l’esecuzione della pena prevista dalla legge penale in tali casi debba ritenersi pienamente giustificata dalle esigenze di tutela del nascituro e del neonato e risulti in piena sintonia con il principio per cui la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, tanto più che la norma censurata non comporta una rinunzia definitiva all’esecuzione della pena, ma, per l’appunto, solo il suo differimento.

b)- Differimento della pena nei confronti di persona affetta da Aids.

Con sentenza n. 264 dell’8 ottobre 2009, depositata il 23 ottobre 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.

146, primo comma, numero 3), cod. pen., censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, primo e terzo comma, Cost., ove prevede il differimento obbligatorio dell'esecuzione della pena nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione. Secondo la Corte, la norma denunciata non è strutturata secondo un modulo di automatismo e non stabilisce una presunzione assoluta di incompatibilità con il carcere per i malati di AIDS o per quanti presentino uno stato di grave deficienza immunitaria (presunzione già stata censurata dal giudice delle leggi con la sentenza n. 438 del 1995): come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, ai fini del differimento obbligatorio non basta che il condannato sia affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'art. 286-bis, comma 2, cod. proc.

pen., ben potendo l’una e l’altra patologia essere normalmente fronteggiate con gli appositi presidi di diagnosi e cura esistenti all'interno degli istituti penitenziari o attraverso provvedimenti di ricovero in luoghi esterni a norma dell'art. 11 O.P., ma occorre l'ulteriore condizione che la malattia non solo sia gravemente debilitante, ma sia giunta alla sua fase terminale, così da escludere, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, la rispondenza del soggetto ai trattamenti disponibili o alle terapie curative. L'art. 146, primo comma, numero 3), cod. pen. – osserva ancora la sentenza n. 264 - è rivolto non solo ai malati di AIDS o a quanti presentino uno stato di grave deficienza immunitaria derivante da infezione da HIV, ma anche a coloro che siano affetti da altra malattia particolarmente grave, sicchè non individua una particolare 5

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categoria di persone rispetto alle quali l'incompatibilità con lo stato di detenzione è presunta ex lege, ma affida al giudice il compito di verificare in concreto se, ai fini dell'esecuzione della pena, le effettive condizioni di salute del condannato, per lo stadio estremo al quale è oramai pervenuta la malattia, siano compatibili con lo stato detentivo.

La norma censurata ha inteso così privilegiare esigenze di natura umanitaria, che trovano fondamento nell'art. 27, terzo comma, Cost. Il sistema garantisce un corretto equilibrio tra il diritto alla salute del condannato e le esigenze, reclamate dalla comunità sociale, di sicurezza, di effettività e di certezza dell'espiazione della pena e di sottoposizione dei soggetti pericolosi ai necessari controlli: infatti, precisa la Corte, negli stessi casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art.

146 cod. pen., il tribunale di sorveglianza può – a norma dell'art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. – disporre, anche d’ufficio, l'applicazione della detenzione domiciliare, e così assicurare, anche nell'immediato, le istanze di difesa sociale e di tutela collettiva, dovendosi escludersi che la eventuale lacunosità dei presidi di sicurezza possa costituire, in sé e per sé, ragione sufficiente per incrinare, sull'opposto versante, la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare. Infine, osserva conclusivamente il giudice delle leggi, non costituisce idoneo tertium comparationis la disciplina dettata dall'art. 147 cod. pen., che, all'ultimo comma, prevede una prevalenza dell'indefettibilità della pena se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti: le cause che danno luogo al rinvio facoltativo della pena sono differenti rispetto a quelle contemplate dall'art.

146 cod. pen., sicché rientra nella discrezionalità del legislatore disciplinare diversamente istituti che sono ancorati a differenti presupposti di fatto.

c)- Indulto e reati da esso esclusi.

Con ordinanza n. 103 del 1° aprile 2009, depositata il 2 aprile 2009, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.

1, comma secondo, legge n. 241 del 2006, nella parte in cui non esclude dalla concessione di indulto il reato di reimpiego di proventi illeciti (art. 648-ter cod. pen.) provenienti da attività di produzione o traffico di sostanze stupefacenti, come invece disposto dalla stessa disposizione con riguardo a quello di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.). Ha rilevato in proposito il giudice delle leggi che quella richiesta dal remittente è una pronunzia additiva in malam partem, in quanto tesa a sottrarre i responsabili del menzionato reato alla fruizione del beneficio, e come tale esorbitante dai suoi poteri.

d)- Decorrenza della prescrizione

Con ordinanza n. 5 del 12 gennaio 2009, depositata il 16 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dell'art.

158 cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra, per il delitto di cui all'art. 640 cod. pen., dal giorno di commissione del reato anziché dal giorno in cui la persona abbia contezza della truffa perpetrata ai suoi danni; dell'art. 158 cod.

pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra, per il reato continuato, dal giorno di consumazione di ciascun reato anziché dal giorno di cessazione della continuazione; dell'art. 158 cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di 6

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prescrizione decorra, per i reati perseguibili a querela, dal giorno di commissione di ciascun reato anziché dalla cessazione del reato continuato.

La Corte ha rilevato che in tali casi la pronuncia che viene sollecitata, mirando a introdurre un diverso dies a quo per il decorso del termine di prescrizione, esorbita dai poteri spettanti alla Corte, a ciò ostando il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni applicabili, inibendo alla Corte di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, tra i quali rientrano quelli attinenti alla prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi. Inoltre, il principio di legalità preclude alla Corte di pronunciare sentenze additive "in malam partem" del tipo di quella chiesta dal rimettente (sulla inammissibilità di pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie penali o comunque di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, v., citate, ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008).

Analoga questione di legittimità costituzionale relativamente alla decorrenza della prescrizione in ordine al reato ex art. 640 cod. pen. è stata nuovamente dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 204 del 24 giugno 2009, depositata il 2 luglio 2009.

e) -Computo della prescrizione e status soggettivo dell’imputato.

Con ordinanza n. 34 del 26 gennaio 2009, depositata il 6 febbraio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili o infondate una serie di questioni di legittimità costituzionale coinvolgenti essenzialmente gli artt. 157 e 161, comma secondo cod. pen. come introdotti dall’art. 6, commi primo e quarto, della L. n.

251 del 2005, in relazione agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 79 Cost.

Le diverse autorità remittenti avevano contestato la legittimità costituzionale della nuova disciplina di prescrizione dei reati in quanto contemplante un sistema di computo dei termini collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali.

La Corte, dopo avere riaffermato che sono inammissibili pronunce il cui effetto possa essere, come nella specie (caratterizzata dalla possibile introduzione di un più lungo termine massimo di prescrizione), quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti o comunque di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità (sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006 e ord. n. 65 del 2008), si è soffermata in particolare sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 161 comma secondo, cod. pen., sollevata sul presupposto di una ingiustificabile disparità di trattamento tra imputati recidivi e non recidivi, essendo solo i primi soggetti, in forza del riformulato art. 161 cit. in tema di interruzione, ad un più lungo termine prescrizionale determinato appunto non già dalla gravità oggettiva del fatto bensì dallo status soggettivo dell’imputato. La Corte, tuttavia, ricordando la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui l’aumento di pena previsto in caso di recidiva reiterata infraquinquennale, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo per effetto di atti interruttivi, è tale da incidere già sul termine ordinario 7

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di prescrizione ex art. 157, comma secondo, cod. pen., essendo la recidiva in questione annoverabile tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale, e precisato pertanto che, sulla base di tale criterio, il Tribunale remittente procedeva in ordine ad un reato il cui termine ordinario di prescrizione non era ancora maturato, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione per irrilevanza della stessa.

L’interesse di tale pronuncia risiede dunque nell’avere la Corte ripreso l’orientamento della Corte di cassazione, affermativo, della natura di circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva reiterata (Cass., sez. II, 9 aprile 2008, n. 19565, P.G. in proc.

Rinallo, rv. 240409), sì da comportare, rispetto agli imputati cui tale recidiva non sia contestata, un duplice effetto peggiorativo in ordine al termine prescrizionale, più lungo sia con riferimento al termine ordinario, sia, in caso di atti interruttivi, con riferimento al termine prolungato.

f) False informazioni alla p.g. e non punibilità ex art. 384 cod. pen..

Con sentenza n. 75 dell’11 marzo 2009, depositata il 20 marzo 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 384, comma secondo, cod. pen. nella parte in cui lo stesso non prevede l'esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato – a norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. pen.

– a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.

La Corte ha ritenuto manifestamente irragionevole l’esclusione, poiché tra il delitto di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e quello di favoreggiamento dichiarativo (commesso con la condotta di false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria) sussiste una sostanziale omogeneità del bene protetto consistente nella funzionalità di ciascuna fase rispetto agli scopi propri nei quali le esigenze investigative e quelle della ricerca della verità si sommano “sicché gli artt. 378, 371-bis e 372 cod. pen. finiscono per presidiare ciascuno una fase distinta del procedimento e del processo…”; ha evidenziato inoltre “l’identità delle condotte materiali (mendacio o reticenza) che nelle diverse ipotesi possono risultare rilevanti”.

Ha, poi, sottolineato come tale irrazionale esclusione si apprezzi ancor di più ove si consideri “l'evoluzione normativa del sistema processuale che….non soltanto ha statuito la sussistenza, in capo al soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria a rendere dichiarazioni, degli stessi obblighi previsti per chi è chiamato a deporre innanzi al pubblico ministero (e per il testimone), cioè dell'obbligo di rispondere e di dire il vero, salvo il limite della possibilità di un suo coinvolgimento, ma ha portato ad una sostanziale equiparazione, anche sotto il profilo della valenza processuale, delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria a quelle rese al pubblico ministero”.

Orbene, ha concluso la Corte, “la convergenza di disciplina processuale rende del tutto irragionevole il diverso regime giuridico riscontrabile tra le corrispondenti condotte di mendacio o reticenza, qualora esse siano riconducibili alle ipotesi di reato previste, rispettivamente, dall'art. 371-bis e dall'art. 378 cod. pen. (limitatamente alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria), non essendo applicabile alla seconda ipotesi (per mancata previsione normativa) la citata causa di non punibilità 8

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nel caso di assunzione d'informazioni ad opera della polizia giudiziaria, ancorché non sia configurabile in capo al dichiarante un obbligo di renderle o comunque di rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, a norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., a quello (commesso da altri) cui le dichiarazioni stesse si riferiscono”.

Sulla questione va in particolare ricordato il precedente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 21832, Morea, rv. 236371) in ordine alla configurabilità del delitto di favoreggiamento personale nei confronti dell'acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente per uso personale che, sentito come persona informata dei fatti, si rifiuti di fornire alla P.G. informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga, ferma restando, in tale ipotesi, l'applicabilità dell'esimente prevista dall'art. 384, comma primo, cod. pen. se, in concreto, le informazioni richieste possano determinare un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, consistente anche nell'applicazione delle misure previste dall'art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.

g) Assegnazione a casa di cura e custodia e infermo di mente.

Con sentenza n. 208 del 8 luglio 2009, depositata il 9 luglio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 219 del codice penale, in riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione, «nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in casa di cura e custodia, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale».

Ad avviso della Corte, il remittente avrebbe trascurato di vagliare la possibilità di pervenire ad una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata e tale da determinare il superamento dei dubbi di costituzionalità. Invero, per effetto di sue precedenti pronunce, la Corte ha ritenuto oramai presente nella disciplina sulle misure di sicurezza il principio secondo il quale si deve escludere l'automatismo che impone al giudice di disporre “comunque” la misura detentiva, quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale. A tal fine, sono richiamate le sentenze n. 253 del 2003 (che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 222 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale) e n. 367 del 2004 (che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 206 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate a contenere la sua pericolosità sociale). Ad avviso della Corte, i principi dettati da queste pronunce sono applicabili anche per la misura sicurezza detentiva (e quindi segregante) dell'assegnazione ad una casa di cura e di custodia, non apparendo ostativa la circostanza che la misura di cui all'art. 222 cod. pen. presupponga che il soggetto interessato risulti 9

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gravemente infermo di mente, e quindi non sia penalmente responsabile, essendovi una sostanziale identità concettuale tra vizio totale e vizio parziale di mente, il cui unico elemento differenziatore consiste nella diversa incidenza quantitativa esercitata sulla capacità d'intendere e di volere.

Né sarebbe di ostacolo all'applicazione del principio sopra indicato il richiamo, operato da una giurisprudenza più remota, all'art. 157 cod. pen. per il calcolo della pena ai fini della determinazione della durata minima del ricovero in una casa di cura e di custodia. Tale richiamo – ha rilevato la Corte - non presuppone infatti l'applicabilità della disciplina della prescrizione al sistema delle misure di sicurezza, ma si riferisce soltanto alla individuazione di un criterio sulla base del quale stabilire il periodo minimo di durata della misura (salva la possibilità di revoca di questa per il venir meno della pericolosità).

Pertanto, le modifiche normative in tema di prescrizione non incidono necessariamente anche sulle regole che governano la disciplina delle misure di sicurezza, disciplina che comunque deve tenere conto della necessità di pervenire ad un risultato ermeneutico conforme a Costituzione, anche determinando la nozione di «pena stabilita dalla legge»

con riguardo a tutte le circostanze ricorrenti nella fattispecie concreta.

h)- Misure di sicurezza e accertamenti periodici della pericolosità.

Con ordinanza n. 287 del 2 novembre 2009, depositata il 6 novembre 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 206, 208 e 222 cod. pen., sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione; il giudice a quo aveva, tra l’altro, rilevato che il sistema degli accertamenti periodici semestrali – con possibilità di revoca della misura provvisoriamente applicata – appare non adeguato al rispetto dei principi costituzionali, poiché non sono previsti l'obbligo dell'autorità procedente di rinnovare il provvedimento a norma dell'art. 206, primo comma, cod. pen., ovvero la previsione di un termine di scadenza della misura, eventualmente prorogabile all'esito dell'esame delle relazioni sanitarie periodiche, e tale carenza nella disciplina dell'applicazione provvisoria dell'istituto si riflette inevitabilmente sulla fase esecutiva. La Corte, oltre a rimarcare l’omessa indicazione di un petitum specifico, ha affermato che la rilevanza della questione è stata valutata dal giudice a quo sulla base di un presupposto interpretativo erroneo (ordinanze n. 34 del 2009, n. 447 e n. 390 del 2008), costituito dalla considerazione che il protrarsi del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, disposto con l'applicazione in via provvisoria di tale misura di sicurezza, configuri una restrizione priva di titolo, mentre il controllo sulla legittimità del perdurare dell'applicazione provvisoria della misura di sicurezza è attribuito dalla legge al giudice che procede attraverso il sistema del riesame semestrale della pericolosità sociale ai sensi dell'art. 72 cod. proc. pen., richiamato espressamente dal disposto dell'art. 313, comma 2, cod. proc.

pen.; inoltre, osserva ancora la Corte, il giudice a quo non ha motivato in ordine alla possibilità di interpretare le disposizioni in modo costituzionalmente orientato, in riferimento al parametro di cui all'art. 32 Cost. alla luce del consolidato indirizzo che, in materia di misure di sicurezza, esclude ogni automatismo nell'applicazione delle misure a carattere detentivo. Inoltre, l’ordinanza di remissione postula la sussistenza di termini minimi per la durata della misura, trascurando di considerare il potere del giudice di 10

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revoca della misura di sicurezza – in caso di accertata cessazione dello stato di pericolosità – anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge (sentenza n. 110 del 1974), e che, ai fini del riesame della pericolosità, quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato, il giudice può, in ogni tempo, procedere a nuovi accertamenti (art. 208, secondo comma, cod. pen.).

Ribadite le differenze, quanto a natura e finalità, tra la misura di sicurezza detentiva applicata in via provvisoria e la custodia cautelare, la Corte rileva la prospettazione da parte del giudice a quo di soluzioni non costituzionalmente obbligate.

i)- Non punibilità ex art. 384 cod. pen. e convivente more uxorio.

Con sentenza n. 140 del 4 maggio 2009, depositata l’8 maggio 2009, la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384, comma primo, cod. pen., nella parte in cui non estende la causa di non punibilità ivi prevista anche a fronte della necessità di salvare il convivente more uxorio - e non solo il coniuge - da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Il caso oggetto dell’incidente di incostituzionalità riguardava il reato di favoreggiamento personale commesso per aiutare la convivente a sottrarsi alle ricerche dell’autorità, perché colpita da un ordine di carcerazione. In proposito il giudice remittente rilevava l’oggettiva sussumibilità della fattispecie nella previsione della norma censurata, avendo agito l’autore del reato per la necessità di evitare alla convivente more uxorio le gravi conseguenze in tema di libertà derivanti dall'esecuzione dell'ordine di carcerazione emesso a suo carico. Ma l’effettiva applicabilità dalla speciale esimente rimaneva impedita dal fatto che la stessa norma limita alla categoria dei prossimi congiunti l’ambito dei soggetti la cui necessità di soccorso garantisce la non punibilità della condotta, categoria nella quale l’art. 307 cod.

pen. (che ne fornisce la nozione) ricomprende il coniuge, ma non il convivente more uxorio.

In proposito i giudici delle leggi hanno richiamato il proprio consolidato orientamento (rinviando espressamente alle sentenze n. 8 del 1996 e n. 237 del 1986 e alle ordinanze n.

121 del 2004 e n. 352 del 1989), ribadendo come il riconoscimento sociale del rapporto di convivenza non gli fa perdere i contorni che lo caratterizzano rispetto a quello di coniugio, autorizzando una collocazione delle due figure in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.

Conclusione asseverata, secondo la Corte, dalla stessa carta fondamentale, nella quale entrambi i rapporti trovano tutela, ma in modo diverso attraverso la disciplina, rispettivamente, dell’art. 2 e dell’art. 29. Dunque la disparità di trattamento tra il rapporto di convivenza e quello di coniugio eventualmente configurata dal legislatore non è di principio ingiustificata, quando non si rilevi del tutto irragionevole, non discendendo dalla Costituzione l’esigenza di parificazione dei due rapporti nella disciplina di tutti gli istituti giuridici. Ed in tal senso secondo la Consulta, nello stabilire i limiti di operatività di una causa di non punibilità (la quale per definizione interferisce con l’effettività della legge penale), lo stesso legislatore ben può discriminare tra famiglia legale e di fatto, 11

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apprezzando non solo il dato costituito dall’esistenza di un rapporto affettivo tra i suoi componenti, ma altresì le ricadute dell’incriminazione e le corrispondenti esigenze di tutela sull’istituzione familiare, intesa come quella fondata sul matrimonio.

l) – Segreto di Stato.

Con sentenza n. 106 dell’11 marzo 2009, depositata il 3 aprile 2009, la Corte, nel decidere un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha affermato che le c.d.

“extraordinary renditions”, compiute da personale dei servizi di sicurezza nell’ambito di attività tese al contrasto del terrorismo internazionale, pur rimanendo atti penalmente rilevanti in quanto integranti gli estremi del reato di sequestro di persona, non possono essere ritenute fatti eversivi dell’ordine costituzionale, come tali ostativi all’opposizione del segreto di Stato, in quanto un singolo atto delittuoso, per quanto grave, non è di per sé suscettibile di integrare un fatto eversivo dell'ordine costituzionale, se non è idoneo a sovvertire, disarticolandolo, l'assetto complessivo delle istituzioni democratiche.

Con la stessa sentenza i giudici delle leggi hanno altresì affermato che il segreto di Stato costituisce effettivo sbarramento al potere giurisdizionale solo e nei limiti dell’atto o documento cui il segreto accede ed a partire dal momento in cui l’esistenza del segreto ha formato oggetto di comunicazione all’autorità giudiziaria procedente, escludendo, pertanto, che l’opposizione del segreto successiva alla legittima acquisizione dell’atto o del documento cui si riferisce, comporti la retroattiva demolizione dell’attività di indagine svolta sulla base dello stesso, impedendo soltanto la futura utilizzazione dell’atto secretato ed imponendo al pubblico ministero di adottare gli accorgimenti necessari a che venga impedita la sua ulteriore divulgazione. Nella fattispecie il pubblico ministero aveva acquisito presso i servizi di sicurezza, attraverso una perquisizione, della documentazione relativa all’episodio criminoso menzionato in precedenza, senza che in quella fase gli venisse opposto dai funzionari che detenevano la stessa alcun segreto. Successivamente, in ottemperanza ad un ordine di esibizione e dopo che erano stati processualmente utilizzati, lo stesso pubblico ministero riceveva, tra l’altro, gli stessi documenti, questa volta omissati in alcune parti, modalità attraverso la quale l’autorità competente aveva inteso esercitare il potere di opposizione del segreto. La Corte ha in proposito evidenziato che, ferma la legittimità dell’utilizzazione processuale dei documenti prima dell’opposizione del segreto, il pubblico ministero avrebbe però dovuto, in seguito alla nuova acquisizione, stralciarli dal fascicolo processuale e sostituirli con le copie omissate inviategli.

m)- Reato di diffamazione militare ed exceptio veritatis.

Con sentenza n. 273 del 19 ottobre 2009, depositata il 29 ottobre 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 227 del c.p.m.p. nella parte in cui non prevede l'applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell'art.

596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, cod. pen. e, ai sensi dell'art. 27 L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell'art. 227 c.p.m.p. nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 2), e quarto comma, cod. pen.

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Ribadito l’indirizzo secondo cui la diversità di disciplina tra ordinamento penale comune e militare può rilevare in termini di violazione del principio di eguaglianza solo in presenza di un’assoluta identità tra il reato comune e quello militare, sul terreno sia della condotta tipica, sia dell'oggettività giuridica del reato e che i reati militari sono connotati, quale loro peculiare ed intrinseca caratteristica, da un’offesa alla disciplina e al servizio cui corrisponde l’interesse generale di garantire l'efficienza e la coesione delle forze armate, la Corte ha richiamato l’ordinanza n. 410 del 2000 con la quale fu dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 227, primo comma, c.p.m.p., in relazione all’art. 260 del medesimo codice, prospettata con riferimento alla violazione del principio di uguaglianza determinata dalla differente disciplina della condizione di procedibilità.

Nell’esaminare la questione relativa alla mancata previsione dell’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare della disposizione circa la possibilità di prova, con effetto liberatorio per l’imputato, della verità del fatto diffamatorio nel caso di cui all’art. 596, terzo comma, numero 1) cod. pen., il giudice delle leggi ha osservato che (salvo per l'aspetto evidenziato dalla citata ordinanza in ordine all’immanenza in tutti i reati militari della tutela di un interesse eminentemente pubblico quale quello della disciplina e del servizio), le due fattispecie poste a raffronto, diffamazione militare e diffamazione

“comune”, presentano una piena equivalenza sul terreno sia della condotta tipica, sia dell'oggettività giuridica del reato: la prima si pone in rapporto di specialità con il corrispondente delitto previsto dal codice penale, distinguendosi unicamente per la qualità del soggetto attivo e della persona offesa, che devono essere entrambi militari, restando invece identica, sotto il profilo testuale, la descrizione della fattispecie base delle due norme incriminatrici, vale a dire l'offesa della altrui reputazione nella comunicazione con più persone; inoltre, anche le ipotesi aggravate, previste rispettivamente dall'art. 595, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. e dall'art. 227, secondo e terzo comma, c.p.m.p., sono sostanzialmente corrispondenti.

Se, dunque, ha sottolineato la Corte, l’unica ratio giustificativa della diversa disciplina tra le due ipotesi delittuose in tema di condizione di procedibilità è l'interesse di tipo pubblicistico della tutela della disciplina e del servizio, mancano ulteriori apprezzabili ragioni che possano giustificare il diverso trattamento ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità della cosiddetta exceptio veritatis. Il presupposto, infatti, per l'applicabilità della prova liberatoria di cui all'art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen.

è che la persona offesa sia un pubblico ufficiale e che il fatto ad esso attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni, sicchè viene in rilievo un interesse pubblico all'accertamento del fatto che non può che determinare l'estensione di tale strumento probatorio anche a quanto previsto dall'art. 227 c.p.m.p..

Non ostandovi le ragioni che, in occasione dell'ordinanza n. 410 del 2000 hanno precluso l'accoglimento della questione allora sollevata, è stata dunque affermata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di uguaglianza, dell'art. 227 cod. pen. mil.

pace, nella parte in cui non prevede l'applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell'art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, cod. pen. Per le medesime ragioni la declaratoria di illegittimità costituzionale è stata estesa dal giudice delle leggi anche con riguardo all'applicabilità dell'art. 596, terzo comma, numero 2), cod. pen. che, allo stesso modo, prevede la prova liberatoria quando per il fatto attribuito alla persona offesa 13

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vi sia nei suoi confronti un procedimento penale; è rimasta invece esclusa l'ipotesi di cui al numero 3) del terzo comma dell’art. 596 cod. pen, relativa alla richiesta formale del querelante di estendere il giudizio all'accertamento della verità o della falsità del fatto ad esso attribuito, in quanto tale disposizione si riferisce alla figura del querelante e, pertanto, la sua applicazione non può estendersi alla fattispecie di diffamazione militare dato che l’ordinamento penale militare non conosce l'istituto della querela.

n) Lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla circolazione stradale e competenza del giudice di pace.

Con ordinanza n. 3 del 12 gennaio 2009, depositata il 16 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 52, 63 e 64 del D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 32 della Costituzione, nella parte in cui tali norme attribuiscono il reato di lesioni personali colpose commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale alla competenza del giudice di pace con la conseguente applicabilità delle sanzioni previste dal predetto art. 52.

La Corte ha evidenziato come il rimettente, affermando la rilevanza della questione senza risolvere il quesito preliminare relativo alla qualificazione del fatto reato in rapporto all'elemento psicologico - laddove la sussistenza del dolo eventuale condurrebbe a qualificare la condotta contestata come reato di lesioni personali dolose, come tale sottratto alla competenza del giudice di pace ed al relativo trattamento sanzionatorio -, abbia reso soltanto ipotetica la rilevanza della questione.

Ha aggiunto inoltre che lo stesso remittente, chiedendo per il reato in esame (lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale) una pronuncia tale da ripristinare il meccanismo sanzionatorio applicabile prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 274 del 2000, ha invocato un intervento additivo e di sistema in malam partem non consentito alla Corte in forza del principio della riserva di legge in materia penale.

Né, ha proseguito la Corte, può indurre a diverso avviso il richiamo che il rimettente ha fatto dei principi di cui alla sentenza n. 394 del 2006 - che ha ritenuto suscettibili di sindacato le norme penali di favore, ossia quelle che stabiliscono, per determinate ipotesi, un trattamento più favorevole di quello risultante dall'applicazione di norme generali -, non vertendosi, in tale specifica ipotesi.

1.2. La legislazione penale speciale

a) Reati di immigrazione

In tema di immigrazione, con la sentenza n. 21 del 26 gennaio 2009, depositata il 30 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, censurato, in riferimento agli artt. 25 e 35, quarto comma, nella parte in cui punisce chi compie atti diretti a procurare 14

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l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. Quanto alla denunciata violazione del principio di riserva di legge, si è affermato che esso non esclude che il legislatore possa introdurre nella descrizione del fatto incriminato il riferimento ad elementi "esterni" al precetto, con funzione integratrice dello stesso, elementi che possono consistere anche in un richiamo a norme di ordinamenti stranieri. Nella specie, ove una normativa extranazionale concorre all'identificazione della condotta criminosa, sono rispettate tanto la condizione che sia il legislatore nazionale a individuare il nucleo di disvalore della condotta (favoreggiamento dell'ingresso contra ius di un soggetto in un altro Stato), quanto la condizione che risultino adeguatamente identificate le norme straniere chiamate ad integrare il precetto.

Anche il principio di determinatezza non può dirsi leso, poiché è immediatamente percepibile quale sia la condotta repressa, intendendosi colpire chi agevoli in qualunque modo un'altra persona a varcare i confini di altro Stato in violazione delle norme che in esso regolano l'ingresso degli stranieri. Insussistente è, infine, il contrasto con l'art. 35, quarto comma, Cost., posto che la libertà di emigrazione è riconosciuta dal precetto costituzionale con salvezza degli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, fra essi rientrando quelli di rispetto della legislazione del Paese di accoglienza, nel quadro di accordi di cooperazione internazionale.

Ancora, con ordinanza n. 41 del 9 febbraio 2009, depositata il 13 febbraio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma quinto quater, del D.Lgs. n. 286 del 1998. L’autorità remittente, chiamata a giudicare di un cittadino extracomunitario già espulso per non avere chiesto il provvedimento di soggiorno nel termine prescritto e successivamente ritrovato nel territorio dello Stato, aveva in particolare prospettato che detta norma, non contenente, a differenza della previsione del comma quinto ter, la clausola dell’assenza di un giustificato motivo alla base della condotta illecita, collidesse, in relazione ad una situazione di ingiustificata disparità di trattamento e al necessario finalismo rieducativo della pena, con gli artt. 3 e 27 Cost.

La Corte ha tuttavia evidenziato la eterogeneità tra le condotte, da una parte, del reingresso dello straniero già espulso nel territorio dello Stato e, dall’altra, del suo indebito trattenimento nel territorio dello Stato pur a fronte dell’ordine di allontanamento, rimarcando la mera natura omissiva del primo reato e, di contro, la valenza di vanificazione dell’attività amministrativa e giudiziale del secondo. Di qui, sempre secondo la Corte, la non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non attribuire rilievo a circostanze oggettive o soggettive diverse dalle esimenti di carattere generale del codice, tanto più dovendosi tenere conto da un lato della possibilità, per lo straniero espulso che voglia rientrare, di ottenere, in presenza di particolari motivi, la relativa autorizzazione e, dall’altro, della verosimile integrazione, in caso di rientro non autorizzato bensì sorretto da ragioni di particolare cogenza, delle cause di giustificazione tipizzate con conseguente esclusione della rilevanza penale della condotta.

Con l’ordinanza n. 67 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., dell'art. 14, comma quinto quinquies, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall'art. 1, comma sesto, d.l. 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modifiche, in L. 12 novembre 2004, n. 271, nella 15

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parte in cui lo stesso prevede l'arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all'art. 14, comma quinto ter, del medesimo decreto legislativo.

La Corte – evidenziando che un’identica questione è stata dichiarata infondata con la sentenza n. 236 del 2008, sul rilievo della non manifesta irragionevolezza della previsione censurata – ha ribadito che, sotto il profilo della comparazione con fattispecie sottoposte ad identico trattamento, l'art. 380, comma secondo, cod. proc. pen. prevede, in attuazione del criterio «qualitativo» enunciato dalla legge 16 febbraio 1987, n. 81, l'arresto obbligatorio in flagranza anche con riguardo ad ipotesi di delitto tentato per le quali, in forza della diminuzione di pena stabilita dall'art. 56 del codice penale, i valori edittali risultano molto vicini a quelli previsti dall'art. 14, comma quinto ter, del D.Lgs. n. 286 del 1998 e che, per altro verso, deve escludersi l'intrinseca contraddittorietà della norma censurata, posto che la trasformazione della fattispecie di «indebito trattenimento» da contravvenzione in delitto, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni, attuata dalla legge n. 271 del 2004, ha reso possibile l'applicazione di misure cautelari personali nei confronti del soggetto arrestato per il reato in esame, eliminando la contraddizione riscontrata dalla stessa Corte nella sentenza n. 223 del 2004.

Con ordinanza n. 156 del 6 maggio 2009, depositata il 19 maggio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma tredicesimo, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (così come sostituito dall'art. 1 l. 12 novembre 2004, n. 271 e di seguito modificato dall'art. 2, comma primo 1, lett. c), d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.

Il rimettente assumeva che l'inasprimento del trattamento sanzionatorio operato dal legislatore (che attraverso gli interventi normativi suindicati ha progressivamente innalzato il massimo edittale della pena da uno a quattro anni di reclusione) sarebbe stato attuato per finalità di carattere processuale (la legittimazione dell'arresto obbligatorio, reintrodotto con la legge citata), senza alcuna sostanziale modifica del fenomeno criminoso sottostante, e dunque in violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena.

I giudici delle leggi avevano già esaminato (sentenza n. 22 del 2007) gli effetti delle modifiche introdotte dal legislatore del 2004, con specifico riferimento al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di indebito trattenimento, di cui all'art. 14, comma 5- ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, anche in comparazione con quello previsto per altri reati collegati all'immigrazione clandestina. In quella occasione, era stata rilevata, tra l'altro, l'intervenuta parificazione della pena per fattispecie che presentano differenti livelli di offensività, e più in generale la presenza di «squilibri, sproporzioni ed anomalie» nel sistema sanzionatorio delineato dal legislatore, ma erano stati ribaditi i limiti del sindacato di costituzionalità, che « (…) può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio». Al contrario, in difetto di una sostanziale identità tra le fattispecie prese a raffronto, nel caso in cui si rilevi invece una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento della Corte non potrebbe rimodulare le 16

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sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore.

Ed anche con riferimento al prospettato difetto di proporzionalità rispetto al disvalore del fatto, e quindi alla irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma censurata, la Corte ha ribadito che il giudizio di legittimità costituzionale, in assenza di precisi punti di riferimento che conducano a soluzioni costituzionalmente obbligate, non può dar vita ad un nuovo assetto delle sanzioni penali stabilite dal legislatore; per le stesse ragioni, è stata riconosciuta l’inammissibilità della questione prospettata in riferimento all'art. 27, comma terzo, della Costituzione, giacché, come già rilevato nella citata sentenza n. 22/2007, «ogni possibile conclusione cui [la] Corte potrebbe arrivare incontrerebbe il medesimo ostacolo già segnalato con riferimento ai profili presi in considerazione».

Con ordinanza n. 219 del 24 giugno 2009, depositata il 2 luglio 2009, la Corte costituzionale ha infine dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 27, 41 e 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede l’automatica revoca del permesso di soggiorno del cittadino straniero, condannato con provvedimento irrevocabile per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n.

633, e dagli artt. 473 e 474 cod. pen. Secondo l’ordinanza di rimessione, «l’automatismo fra la condanna e la privazione del titolo di soggiorno inciderebbe, limitandola, sulla libertà personale di cui all’art. 13 Cost., in quanto lo straniero «privato del titolo che gli consente di trattenersi in modo lecito sul territorio nazionale», sarebbe costretto ad allontanarsene.

La questione è stata ritenuta manifestamente inammissibile in ragione delle carenze nella descrizione della fattispecie, in particolare circa la condizione di permanenza dello straniero nel territorio nazionale.

b) Guida in stato di ebbrezza e trattamento sanzionatorio.

Con sentenza n. 57 del 23 febbraio 2009, depositata il 27 febbraio 2009, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186, commi secondo e settimo, del D.Lgs. n. 285 del 1992, nel testo sostituito rispettivamente dalle lettere a) e c) del comma primo dell’art. 5 del D.L. n. 117 del 2007, convertito, con modificazioni, nella legge 2 ottobre 2007, n. 160, sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost.

Il Gip del Tribunale di Milano, chiamato ad emettere decreto penale nei confronti di imputato colto alla guida di autovettura in stato di ebbrezza sintomatico in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, rilevava come nelle ipotesi, come quella di specie, caratterizzate da una serie di dati sintomatici indicativi di una grave alterazione psicofisica se non di una vera e propria ubriachezza, l’applicazione, necessitata, ex art. 2, quarto comma, cod. pen., della più favorevole, rispetto al pregresso regime, e più lieve sanzione prevista dalla lett. a) del d.l. n. 117 del 2007, prevista per le ipotesi di minore 17

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allarme sociale, in luogo di quella della lett. c), sicuramente più adeguata, venisse a concretare un vulnus al canone di ragionevolezza consacrato dall’art. 3 Cost. nonché al trattamento rieducativo di cui all’art. 27 Cost., presupponente la necessaria adeguatezza tra entità della sanzione e disvalore del fatto, tanto più considerando che in relazione al rifiuto di sottoporsi agli accertamenti tecnici di cui all’art. 186, comma settimo, era incongruamente prevista una mera sanzione amministrativa.

La Corte, dopo avere ritenuto l’ininfluenza, sulla questione sottoposta al proprio esame, delle modifiche apportate, ai commi secondo e settimo dell’art. 186 Cod. della Strada, dalle lettere b) e d) del comma primo dell’art. 4 del D.L. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008 n. 125 (come noto, infatti, la lettera c) del comma secondo è stata rivisitata nel senso di un inasprimento sanzionatorio mentre al rifiuto di sottoporsi agli accertamenti tecnici di cui al comma settimo è stata nuovamente attribuita rilevanza penale mediante la sanzionabilità attraverso le pene di cui al suddetto comma secondo lett. c), ha tuttavia dichiarato inammissibili le questioni sollevate.

Infatti, entrambi i richiesti interventi avrebbero natura in malam partem e manipolativa e, dunque, non consentita alla Corte ostandovi il principio della riserva di legge (vedi Corte cost. n.394 del 2006 e nn. 324 e 413 del 2008), giacché, con riguardo al primo profilo, si vorrebbe ottenere l’applicazione del trattamento sanzionatorio più grave della lettera c) in luogo di quella, più lieve, della lett. a) e, con riguardo al secondo, si mirerebbe a conseguire, in anticipo sulle determinazioni successivamente assunte dal legislatore (che, infatti, ha nuovamente penalizzato la fattispecie del comma settimo), una “rinnovata criminalizzazione” della fattispecie.

c) -Lottizzazione abusiva e confisca.

Con sentenza n. 239 del 16 luglio 2009, depositata il 24 luglio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Bari con ordinanza del 9 aprile 2008, nella parte in cui la suddetta norma impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti.

Nel prospettare la predetta questione, il giudice rimettente aveva ritenuto non più condivisibile il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva attribuito a tale confisca natura di sanzione amministrativa.

Ad avviso del giudice rimettente, la misura di cui si tratta andrebbe invece considerata quale «sanzione penale/misura di sicurezza», alla luce sia della rubrica dell’art. 44 impugnato (“sanzioni penali”), sia di ragioni di carattere sistematico, sia, e soprattutto, della sopravvenuta pronuncia del 30 agosto 2007 della Corte europea dei diritti dell’uomo sul ricorso n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, con quale, decidendo in punto di ricevibilità, si è ritenuto che la confisca conseguente a lottizzazione abusiva sia una

“peine” ai sensi dell’art. 7 della CEDU (successivamente all’ordinanza di rimessione, tale asserzione è stata definitivamente ribadita con la sentenza, resa il 20 gennaio 2009, che ha 18

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deciso il merito del ricorso sul c.d. caso di Punta Perotti). Una volta affermata la natura penale della confisca, è sembrato alla Corte rimettente di dubbia legittimità costituzionale che essa possa essere disposta «a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di terzi estranei al reato», giacché ciò contrasterebbe con i principi di eguaglianza, di riserva penale di legge e di personalità della responsabilità penale, enunciati dagli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo comma, della Costituzione.

In via preliminare, la Corte costituzionale ha respinto l’eccezione di inammissibilità della questione proposta dall’Avvocatura dello Stato sulla base del rilievo per cui l’ordinanza di rimessione avrebbe pretermesso, fra i parametri del giudizio di costituzionalità, il riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., definito come «unica norma interposta che permette di creare un ponte, tramite il detto rinvio mobile, tra la normativa nazionale e quella delle convenzioni internazionali».

Sul punto, la Corte ha osservato che con l’ordinanza di rimessione erano state adeguatamente proposte censure aventi a parametro gli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione; inoltre, la medesima ordinanza aveva fatto chiaramente riferimento, in vari passaggi argomentativi, al contenuto del primo comma dell’art. 117 Cost., chiedendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, cit. perché, riferendosi alla decisione di ricevibilità CEDU del 30 agosto 2007, aveva ritenuto che la confisca disciplinata dalla norma censurata avesse natura penale e non amministrativa, e che, quindi, ciò contrastasse con i citati parametri costituzionali relativi alla responsabilità penale.

La Corte costituzionale ha invece ritenuto il ricorso inammissibile per una pluralità di altri motivi.

In primo luogo, la Corte ha osservato che il giudice rimettente aveva precluso la possibilità di verificare la rilevanza della questione in quanto aveva omesso una sufficiente descrizione della fattispecie soggetta al suo giudizio, così da dar conto dell’elemento fattuale (l’accertamento del fatto materiale della lottizzazione abusiva), in assenza del quale la confisca non avrebbe potuto, in ogni caso, essere disposta.

In secondo luogo, la Corte ha ravvisato un ulteriore vizio di carente descrizione della fattispecie in quanto il giudice rimettente aveva omesso di precisare se, nel giudizio principale, la confisca avrebbe dovuto essere disposta nei confronti degli imputati prosciolti (nel caso in esame per intervenuta prescrizione) ovvero anche di terzi estranei.

Secondo la Corte, si tratta di due categorie di soggetti non necessariamente omogenee ai fini della risoluzione della questione di costituzionalità, essendo perlomeno dubitabile che, al fine di esprimere un giudizio di personale responsabilità atto a giustificare l’applicazione della confisca, si possano equiparare i terzi estranei agli imputati che, per quanto obiettivamente coinvolti nel fatto della lottizzazione abusiva, siano tuttavia stati prosciolti, non sussistendo le condizioni per pronunciare una sentenza di condanna nei loro confronti. Infatti fra le sentenze di proscioglimento ve ne sono alcune che pur non applicando una pena comportano, in diverse forme e gradazioni, un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo. In particolare, con riferimento alla fattispecie in esame, non si può affermare che un siffatto sostanziale riconoscimento, per quanto privo di effetti sul piano della responsabilità penale, sia comunque impedito da una pronuncia di proscioglimento, conseguente a prescrizione, ove invece l’ordinamento imponga di 19

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apprezzare tale profilo per fini diversi dall’accertamento penale del fatto di reato.

In terzo luogo, la Corte ha evidenziato che il giudice rimettente, al fine di considerare quale misura di natura penale la confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in difformità dalla dominante giurisprudenza di legittimità, aveva utilizzato come fondamentale elemento interpretativo il contenuto della decisione del 30 agosto 2007 della Corte europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, la riconduzione ivi operata della confisca in esame ad una “pena”, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione.

In proposito, secondo la Corte costituzionale, anche volendo prescindere dal carattere autonomo dei criteri di qualificazione utilizzati dalla Corte di Strasburgo rispetto a quelli degli ordinamenti giuridici nazionali, deve notarsi che la decisione del 30 agosto 2007 è stata adottata con riguardo ad un caso nel quale non solo gli imputati non erano stati condannati, ma neppure era stato possibile determinarne in sede giurisdizionale una intenzionalità o colpa; pertanto, il giudice rimettente, per giustificare l’estrapolazione - partendo dal precedente specifico della Corte di Strasburgo - di un principio di diritto che potesse costituire il fondamento del dubbio di costituzionalità, avrebbe dovuto argomentare in modo plausibile la analogia fra quel caso specifico e quello, non necessariamente identico, su cui era chiamato a giudicare.

Infine, la Corte costituzionale ha rimarcato che il giudice rimettente, pur postulando che l’interpretazione dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 debba mutare a seguito della sopravvenuta giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non aveva tratto da ciò alcuna conseguenza nell’esercizio dei propri poteri interpretativi, pur a fronte di una formulazione letterale della disposizione impugnata che, in sé, non appare precludere un siffatto tentativo.

La Corte costituzionale, al riguardo, ha richiamato la propria affermazione secondo cui, in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa. Infatti «al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò è permesso dai testi delle norme»; esclusivamente qualora ciò non sia possibile, ovvero qualora egli dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, il giudice deve investire la Corte costituzionale delle relative questioni di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma Cost. (sentenza n. 349 del 2007, par. 6; analogamente sentenza n. 348 del 2007, par. 5).

Conclusivamente, la Corte costituzionale si è espressa nei seguenti termini: «Spetta, pertanto, agli organi giurisdizionali comuni l’eventuale opera interpretativa dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo; a tale compito, infatti, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità, con esiti la cui valutazione non è ora rimessa a questa Corte.

Solo ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge».

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d) – Privacy e attività giornalistica.

Con ordinanza n. 66 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 15 Cost., dell'art. 137, comma secondo, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) nella parte in cui lo stesso non prevede il consenso dell'interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare «quando esso venga effettuato nell'esercizio dell'attività giornalistica».

La Corte ha ritenuto, che le carenze dell'ordinanza di rimessione in ordine alla descrizione dei fatti oggetto del giudizio principale precludessero l’esercizio del necessario controllo in relazione alla rilevanza della questione (mancata descrizione delle condotte contestate nel capo di imputazione; assenza di indicazioni circa i dati oggetto della divulgazione, né delle modalità con cui la giornalista fosse venuta a conoscenza delle lettere, ovvero se queste fossero state rese pubbliche); in secondo luogo, il rimettente, chiedendo alla Corte l'introduzione - quale ulteriore requisito per la legittimità del trattamento dei dati personali a fini giornalistici - del consenso dell'interessato, invocherebbe un intervento, estensivo dell'ambito dei fatti penalmente rilevanti a fattispecie attualmente non previste, sicuramente precluso alla Corte dal principio della riserva di legge, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., non potendo la Corte adottare una pronuncia additiva in malam partem in materia penale.

e) Condono dei reati tributari.

Con ordinanza n. 109 del 1° aprile 2009, depositata il 9 aprile 2009, la Corte, nel dichiarare manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’art. 15, comma settimo, legge n. 289 del 2002, ha affermato che il condono fiscale con effetti estintivi dei reati tributari non è assimilabile all’amnistia, attesa la intrinseca diversità di presupposti e fini che caratterizza i due istituti, e che pertanto la legge con cui viene adottato non deve necessariamente essere approvata con la maggioranza qualificata indicata nell’art. 79 Cost.

f)- Reati tributari e confisca per equivalente.

Con ordinanza n. 97 del 1° aprile 2009, depositata il 2 aprile 2009, la Corte, invece, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007 che ha esteso la disciplina della confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter cod. pen. ai reati tributari, ha ribadito, richiamando il conforme e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (v. Sez. II 5 giugno 2008, p.m. in proc. Chinaglia, rv 241111; Sez. III 24 settembre 2008, p.m. in proc.

Tiraboschi, rv 241034; Sez. III 24 settembre 2008, Canisto, rv 241033; Sez. II 8 maggio 2008, Pulzella, rv 240910), che la misura ablativa in questione non si applica al profitto dei reati commessi antecedentemente all’entrata in vigore della citata legge, attesa la sua

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natura eminentemente sanzionatoria che ne impedisce la qualificazione come misura di sicurezza.

g) -Detenzione domiciliare e allontanamento.

Con sentenza n. 177 del 10 giugno 2009, depositata il 12 giugno 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47-ter, comma primo, lett. a), seconda parte, e comma ottavo, l. 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell'art. 385 cod. pen. al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall'art. 47-sexies, comma secondo, della suddetta legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all'art. 47-quinquies, comma primo, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione (investita del ricorso avverso una sentenza di condanna per evasione, deliberata nei confronti di una donna già ammessa al regime di restrizione domiciliare in quanto madre di prole di età inferiore a dieci anni, per aver violato l'orario di rientro nell'abitazione di «soli 40 minuti»), che aveva prospettato un’ingiustificata disparità di trattamento, raffrontando le discipline previste per le due forme di detenzione domiciliare dalla legge n. 354 del 1975:

- quella ex art. 47-ter (c.d «ordinaria», introdotta nell'ordinamento penitenziario dalla l.

n. 663 del 1986 e successivamente modificata dalla l. n. 165 del 1998), che prende in considerazione il caso della madre di prole di età non superiore ad anni dieci, con lei convivente, sul presupposto che la pena da scontare abbia durata pari od inferiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena;

- quella ex artt. 47-quinquies e 47-sexies (c.d. «speciale», introdotta dalla l. n. 40 del 2001), che prende in considerazione i casi in cui non ricorra il presupposto di cui all'art.

47-ter (vale a dire che la pena da espiare non sia superiore a quattro anni), ed estende agli stessi la possibilità della concessione della detenzione domiciliare, per «ripristinare la convivenza con i figli», purché la detenuta abbia espiato almeno un terzo della pena, ovvero dopo l'espiazione di almeno quindici anni, nel caso di condanna all'ergastolo.

I giudici delle leggi hanno premesso che la finalità perseguita dal legislatore con le discipline poste a confronto è identica: nell'intento di non penalizzare eccessivamente i minori in tenera età in ragione della differenza di situazione delle rispettive madri, in riferimento alla gravità dei reati commessi ed alla quantità di pena già espiata, il legislatore ha ritenuto di estendere il beneficio della detenzione domiciliare anche alle condannate per delitti gravi, cui manchino più di quattro anni per la completa espiazione della pena, pur escludendo una totale parificazione di tutti i casi (restano, infatti, fuori dalla possibilità di ottenere la detenzione domiciliare le madri detenute che abbiano da scontare più di quattro anni e non abbiano espiato almeno un terzo della pena, o quindici anni, nel caso di ergastolo).

Ai sensi dell’art. 47-sexies, commi primo e secondo, la configurabilità del reato di evasione ex art. 385, comma primo, cod. pen., è limitata all’ipotesi in cui l'assenza della condannata dal proprio domicilio si protragga, senza giustificato motivo, per un tempo superiore a dodici ore, mentre per assenze di durata inferiore la contravveniente può essere proposta per la revoca della misura; diversamente, l’art. 47-ter, comma ottavo, prevede che il reato di evasione debba essere contestato per qualsiasi ipotesi di 22

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allontanamento dall'abitazione, ovvero anche in presenza di un minimo ritardo, secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante.

Ciò premesso, si è ritenuto manifestamente irragionevole che la madre di prole di età non superiore ad anni dieci, che abbia da scontare una pena pari o inferiore a quattro anni, subisca un trattamento sanzionatorio, per l'ipotesi di ritardo nel rientro nel domicilio, più severo di quella che, in uguali condizioni, abbia ancora da espiare una pena di durata maggiore: considerato che la ragione della disciplina più indulgente introdotta nel 2001 è dovuta ad una valutazione specifica delle esigenze nascenti dalla cura dei bambini, la sua mancata estensione a chi deve affrontare gli stessi problemi è priva di giustificazione; e, d’altro canto, il tertium comparationis evocato dal giudice rimettente risultava, come richiesto dalla costante giurisprudenza costituzionale, omogeneo (perché si tratta di situazioni identiche rispetto alle finalità perseguite dalla legge) e pertinente (perché la disciplina evocata in via comparativa ha il medesimo contenuto, anche se variano i presupposti per la sua applicazione).

Peraltro, l'irragionevole mancata estensione della nuova normativa, sul margine di tolleranza del ritardo, alla precedente previsione, riguardante la detenzione domiciliare

“ordinaria”, deve intendersi riferita al sistema costituito dagli artt. 47-quinquies e 47- sexies, che contengono norme simultaneamente introdotte dal legislatore, in obbedienza ad una logica unitaria e indivisibile, che, accanto ad una maggiore comprensione per le esigenze che nascono dai rapporti tra madre e figli in tenera età, pone una maggiore cautela nel richiedere, prima della concessione del beneficio, la formulazione di una prognosi di inesistenza del concreto pericolo che la condannata commetta altri delitti: in virtù di tali considerazioni, i giudici delle leggi hanno ritenuto la necessità di abbinare all'estensione della disciplina più favorevole, connessa alla detenzione domiciliare speciale, anche l'esplicita previsione della ragionevole prognosi di non recidiva.

Del resto, la giurisprudenza di legittimità, pur in mancanza di una previsione letterale in tal senso, ha ritenuto debba ricorrere, anche nelle ipotesi di cui all'art. 47-ter, il presupposto dell'assenza del pericolo di recidiva, escludendo qualsiasi automatismo nella concessione della predetta misura, sul rilievo che la ratio comune a tutte le misure alternative alla detenzione – anche quando sono ammissibili perché rientranti negli specifici limiti previsti per ciascuna di esse – è quella di favorire il recupero del condannato e di prevenire la commissione di nuovi reati (in tal senso si veda da ultima, Sez. I, 18 giugno 2008, n. 28555, Graziano, rv 240600).

h) – Detenzione domiciliare e padre di prole infradecenne.

Con ordinanza n. 211 del 24 giugno 2009, depositata il 2 luglio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 2, 3, 30, primo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede che la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale possa essere concessa al padre di prole infradecenne – qualora la madre sia impossibilitata a prendersene cura – soltanto se «non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» medesimo.

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