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Paola Vella Giudice Trib. Ancona, I Sez. Civ.

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Paola Vella

Giudice Trib. Ancona, I Sez. Civ.

LA VALUTAZIONE DEL DANNO ALLA SALUTE:

RIFLESSI IN MATERIA DI ONERE PROBATORIO

I) Inquadramento giuridico-sistematico

A più di lenti anni dagli "incunabola" del danno alla salute (di cui è traccia, seppure solo in sede di regolamento di giurisdizione, già in Cass. SS.UU. 9 aprile 1973 n. 999), deve registrarsi il persistere di innegabili zone d'ombra nella sedimentazione concettuale della categoria, pur diacronicamente arricchitasi di pregevoli contributi giurisprudenziali e dottrinali, se ancora oggi si possono leggere richieste di risarcimento danni del tipo: "£. X per invalidità permanente, £. Y per invalidità temporanea" -a titolo di lucro cessante- e £. Z per danno biologico, morale e di relazione".

Il dato è invero sintomatico di un certo disagio degli operatori del diritto, costretti a confrontarsi periodicamente con (pur) apprezzabili costruzioni teoriche, caratterizzate dall'affannosa ricerca di un punto di equilibrio tra le sempre crescenti istanze di tutela di valori costituzionalmente protetti e l'angusto dato codicistico, inevitabilmente "figlio del suo tempo”.

Si può addirittura rinvenire una latente similitudine tra la fattispecie del cosiddetto danno biologico ed un'altra figura, anch'essa rappresentata con altrettanto noto sintagma, quale è la cosiddetta accessione invertita: entrambe frutto di articolate elaborazioni giurisprudenziali e dottrinarie, esse risentono infatti di una sorta di “ambiguità da scollamento” rispetto allo specifico referente normativo (nel primo caso il titolo IX del libro IV del codice civile, nel secondo l'art. 934 c.c.), con inevitabili riflessi sugli istituti giuridici di pertinenza (si veda l’Odissea” della prescrizione per la cosiddetta occupazione appropriativa, il cui termine è stato autorevolmente ritenuto quinquennale da Cass. SS.UU. n. 9286/93 a composizione di un contrasto tra le sezioni civili, tra le quali Cass. n. 10979/92 aveva da ultimo continuato a sostenere trattarsi di termine decennale).

Quanto al tema oggetto della presente indagine, è noto come le maggiori diatribe sull'inquadramento ontologico-normativo del danno alla salute finiscano per involgere l'intero impianto sistematico della responsabilità civile, che la Corte Costituzionale, pur nel palese intento di fornire risposte positive alle istanze sociali di estensione ai rapporti interprivatistici delle garanzie costituzional-pubblicistiche, ha costantemente salvato dalle censure di incostituzionalità da più parti sollevate, a costo di incappare in vere e proprie aporie.

E' singolare osservare come il Giudice delle Leggi abbia:

- dapprima ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 c.c.

(sollevata dal Tribunale di Camerino in riferimento agli artt. 3, 24 e 32 Cost.) sul presupposto che il danno alla salute, in quanto "non suscettibile direttamente di valutazione economica", dovesse trovare tutela attraverso l'art. 2059 c.c. (Corte Cost. 26.7.79 n. 88);

- poi ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. (sollevata dai Tribunali di Genova e Salerno in riferimento agli artt. 2, 3 co.l°, 24 co.l° e 32 co.l° Cost.) sul presupposto che il risarcimento del "danno biologico" scaturisse dall'applicazione combinata dell'art. 2043 C.C.

-diretta o analogica- con l'art. 32 Cost., senza necessità del presupposto della commissione di un reato (Corte Cost. 14.7.86 n. 184);

- infine, seppure in riferimento alla tematica parallela del cosiddetto danno biologico da morte, ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 c.c. e, in

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subordine, dell'art. 2059 c.c. (sollevate dal Tribunale di Firenze in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost.) sul presupposto -peraltro non perspicuo- di un ricorso alternativo all'art. 2043 c.c. (“per analogia iuris”) o all'art. 2059 c.c. (Corte Cost. 27.10.94 n. 372), in base alle inespresse dicotomie "vittima primaria-vittima secondaria" e/o "danno alla salute fisica-danno alla salute psichica" (che appaiono peraltro stravolte se calate in ipotesi-limite, quale può essere il caso della vendetta trasversale, in cui, attraverso l'aggressione alla salute fisica di un congiunto, si intende danneggiare la salute psichica del diretto destinatario dell'offesa).

Anche nell'ambito della giurisprudenza di legittimità può essere individuato un percorso evolutivo, così compendiabile:

- affermazione dell'esistenza di una categoria di danno distinta sia da quello patrimoniale che da quello non patrimoniale, costituita dal "danno cosiddetto biologico", "risarcibile ancorché non incidente sulla capacità di produrre reddito ed anzi indipendentemente da quest'ultima"

(Cass.civ. 6.6.81 n. 3675; ma cfr. anche, successivamente, Cass.civ. sez.III 10.12.91 n. 13292);

- individuazione, nell'ambito del "genus" «danno ingiusto» ex art. 2043 c.c. ("caratterizzato non dal contenuto del danno ma solo dall'ingiustizia di esso"), della “species” <danno biologico>, ontologicamente parificato alle "tradizionali categorie del danno patrimoniale, comprendente le menomazioni del complesso dei rapporti giuridici patrimoniali che fanno capo al soggetto, e del danno non patrimoniale, ristretto alla nozione classica della somma delle sofferenze, fisiche e morali, conseguenti al torto subito e risarcibile nei limiti dell'art. 2059 c.c.", il quale ultimo, stanti le espresse limitazioni di legge, si porrebbe pertanto “in via di eccezione al principio” di cui all'art. 2043 c.c. (cfr. Cass.civ. 6.4.83 n. 2396, 14.4.84 n. 2422, 20.8.84 n.

4661, Sez.lav. 26.11.84 n. 6134, 17.5.85 n. 3025, Sez.lav. 25.5.85 n. 3212);

- superamento della concettualizzazione del "tertium genus" mediante l'esplicita affermazione della natura patrimoniale del danno conseguente a "qualsiasi menomazione dell’integrità psicofisica della persona", in quanto incidente su di "un valore essenziale che fa parte integrante del patrimonio del soggetto (diverso dal "danno non patrimoniale, il quale si esaurisce invece nella mera sofferenza morale, nel turbamento dello stato d'animo della persona"), risarcibile in ogni caso ai sensi dell'art. 2043 c.c. semplicemente perché ingiusto (Cass.civ. 11.2.85 n. 1130);

- ritorno all'applicazione analogica dell'art. 2043 c.c., in mancanza di “una disposizione che sanzioni quell'illecito che, pur non causando danni non patrimoniali nell'accezione che dottrina e giurisprudenza hanno dell'art. 2059 c.c., al tempo stesso non incide in quella tipica sfera economica che tradizionalmente si reputa contemplata nella previsione, sia pure in bianco, dell'art. 2043 dello stesso codice" (Cass.civ. sez.III 13.1.93 n. 357).

Infine, in una prospettiva storica sulla originaria giurisprudenza di merito, cristallizzata nell'epica contrapposizione tra la scuola pisana e quella genovese, si rammenta che il tribunale ligure ricondusse la categoria del danno biologico nell'ambito dell'art. 2043 c.c. -"norma generale che ha stabilito puramente e semplicemente la risarcibilità del danno ingiusto"-, definendola poi "danno extrapatrimoniale" proprio al fine di distinguerla dall'espressione "danno non patrimoniale", con cui veniva correntemente designato il danno morale (Trib. Genova 25.5.74) ed il tribunale toscano, respinta tale configurazione di un "tertium genus" di danno (“accanto e in aggiunta alle due specie -danno patrimoniale e danno non patrimoniale- espressamente previste dalla legge -artt. 2043 in relazione all'art. 1223 c.c. e 2059 c.c.-"), ritenne che non sussistessero "ostacoli a ricondurre il danno alla integrità psicofisica nella sfera di applicazione della regola generale dell'art. 2043 c.c.", stante l'elasticità della formula "danno ingiusto" e la suscettibilità di valutazione economica -attraverso criteri obiettivi- dei danni alla salute, a differenza dei danni morali "che hanno un carattere esclusivamente soggettivo" (Trib.

Pisa 10.3.79).

Con la precisazione che proprio alla scuola pisana risulta informata la più recente giurisprudenza di legittimità.

Anche in merito alla ricostruzione dogmatica della categoria del danno alla salute si registrano talune difformità.

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La vera e propria "rivoluzione" operata da Corte Cost. 14.7.86 n. 184 (la cui stessa data sembra singolarmente rievocare la nota "presa della Bastiglia") - per cui il danno biologico si porrebbe quale "danno-evento", legato da un primo nesso di causalità naturalistica al comportamento illecito lesivo della salute, a differenza del danno patrimoniale e di quello morale, che rappresenterebbero invece "danni-conseguenza", legati “all'intero fatto illecito (e quindi anche all'evento) da un ulteriore nesso di causalità" (con la conseguenza che il danno alla salute, nell'accezione giuridico-costituzionale e non naturalistica, costituirebbe "l'essenza antigiuridica dell'intero fatto illecito, danno presunto, se è vero che non va provato alcun effettivo impedimento delle attività realizzativi del soggetto leso")-, risulta infatti stemperata, anche per il paventato pericolo di una incontrollabile dilatazione delle frontiere del sistema di responsabilità civile (assimilabile, per proseguire l'ardita analogia, al "periodo del terrore"), nella successiva interpretazione che "là dove qualifica come presunto tale danno, identificandolo col fatto illecito lesivo della salute, essa intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità psicofisica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento.

E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato" (v. Corte Cost. 27.10.94 n. 372, iperbolicamente paragonabile, per completare la similitudine storica, alla reazione termidoriana).

In sostanza, l'ottica strettamente civilistica dell'estensore di quest'ultima pronunzia (Mengoni) sembra voler fare ragione della interpretazione fornita dal redattore penalista della precedente sentenza (Dell'Andro), stigmatizzando l'identificazione (pur di carneluttiana memoria) del danno con la lesione -per se stessa- dell'interesse, piuttosto che con le sue conseguenze pregiudizievoli, nella asserzione che l'oggetto del risarcimento non possa consistere "se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva" (sent. 372/94 cit.).

A conclusione di questa rapida panoramica sugli orientamenti giurisprudenziali in tema di inquadramento giuridico-sistematico del danno alla salute, sembra potersi affermare che un più coraggioso intervento della Corte Costituzionale, idoneo a portare ad estreme conseguenze la pregiata elaborazione della nuova forma di tutela apprestata alla persona, avrebbe probabilmente evitato le complicanze gnoseologiche emerse nel corso dell'ultraventennale dibattito scientifico e recentemente recidivate nell'analisi della particolare ipotesi del danno in questione collegata al decesso del danneggiato (d.b. da morte).

Invero, proprio dall'anfibia configurazione di un danno strettamente personale eppure sostanzialmente "patrimonializzato" -sì da escluderne in radice la sussumibilità nella figura dei danni definiti "non patrimoniali" dal più restrittivo art. 2059c.c.- sembra trarre linfa vitale il non sopito dibattito sulla configurabilità di un danno risarcibile “iure hereditario” -o “iure proprio”- in capo a prossimi congiunti (ed altri soggetti conviventi: cfr., per i nonni, Cass. 23.6.93 n. 6938 e, per il convivente "more uxorio", Cass. 28.3.94 n. 2988) del danneggiato deceduto (in dipendenza o meno dell'illecito), sino ad alimentare le raffinate disquisizioni sull'istante infinitesimale di sopravvivenza della vittima ai fini dell'acquisizione nel suo patrimonio, e quindi nell'asse ereditario (ma allora a vantaggio di tutte le categorie di successibili ex art. 565 c.c., compreso lo Stato, come iperbolicamente rilevato, di recente, da Trib. Milano15.4.93 n. 4031 e Trib. Firenze 22.12.92 n.2584), del credito risarcitorio maturato -pur congruamente limitato al danno da invalidità temporanea o, se anche permanente, nei limiti dell'effettiva durata della vita- che, in quanto tale, finirebbe col trascendere la stessa natura personalissima del diritto leso (così come accade in tema di rinunzia, negata per il diritto alla salute ma ammessa per il conseguente credito risarcitorio).

In realtà, la stessa ermeneutica letterale del titolo IX del codice civile mostra evidenti segni di incapienza del sistema bipolare della responsabilità civile rispetto alla "rilettura costituzionale di tutto il sistema codicistico dell'illecito civile", attraverso il combinato disposto della "norma in

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bianco" di cui all'art. 2043 c.c. con i valori personali tutelati dalla Costituzione, come auspica, appunto, Corte Cost. n. 184/86, allo scopo di rendere risarcibili "tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana".

Impostazione, questa, che viene invece paventata da chi (AA.VV., "La valutazione del danno alla salute", a cura di Bargagna e Busnelli, Cedam, 1995) ritiene snaturata la funzione prevalentemente inibitoria e preventiva della Carta Costituzionale dalle "tendenze alluvionali"

manifestate ad ogni livello giurisprudenziale e dalla "ebbrezza creativa" di nuove figure di danno, sol che si tratti di interessi direttamente o indirettamente ricollegabili alla stessa Carta Fondamentale (v., per la lesione del "reciproco diritto di ciascun coniuge ai rapporti sessuali", Cass. 11.11.86 n. 6607; per i "danni patiti dalle vittime di violenze carnali in occasione di eventi bellici", Corte Cost. 18.12.87 n. 561; per il "diritto alla serenità familiare", Trib. Milano 16.5.88;

per il "pregiudizio biologico alla sfera sessuale e relazionale", Trib. Monza 2.4.92; per il "danno conseguenza alla vita di relazione", Trib. Verona 15.10.90; per il semplice fatto storico della morte di un congiunto, Trib. Treviso 5.5.92; per "l'alterazione dello svolgimento della vita familiare", Trib. Milano 1.2.93; per il "turbamento nella sfera emotiva da insistente corteggiamento", Trib. Trento 22.2.93).

Prescindendo, peraltro, dalla valutazione di altri valori costituzionalmente protetti e soffermandoci invece sul diritto alla salute, in quanto diritto nettamente tutelato ed ampiamente ricostruito in chiave privatistica dal diritto vivente, si osserva "de iure condendo" quanto segue.

Se l'art. 2043 c.c. pone effettivamente come presupposto della tutela risarcitoria la sola ingiustizia del danno, l'art. 2057 c.c. fa espresso riferimento ai "danni permanenti alle persone" e l'art. 2059 c.c. pone la stenosi dei “casi determinati dalla legge” solo per il “danno non patrimoniale”, sembra potersi concludere che, in effetti, il referente normativo-operativo per il risarcimento del danno alla salute può ben essere individuato nella regola generale di cui all’art.

2043 c.c. -in relazione alla normativa primaria di cui all'art. 32 Cost.-; in via di riforma legislativa potrebbe invece procedersi al mutamento della rubrica dell'art. 2059 con l'espressione

"danni morali", allo scopo di evitare confusioni terminologiche con il danno personale alla salute, antologicamente non patrimoniale, sebbene tale sino ad ora "lato sensu" qualificato, in quanto “suscettibile di valutazione economica secondo un apprezzamento socialtipico in grado di assicurare una adeguata base di uniformità al risarcimento” (cft. Busnelli, op.cit., pag. 362, in analogia alla previsione ex art. 1174 c.c. di un interesse anche non patrimoniale del creditore all'oggetto della prestazione, che deve invece essere suscettibile di valutazione economica), senza che peraltro appaia cosi nettamente distinguibile dal danno morale, pur esso da valutare equitativamente ma in relazione a specifiche e motivate circostanze (lato sensu inquadrabili nell'icastica figura del "pretium doloris", o "turbatio animi"); potrebbe infine introdursi la risarcibilità del danno morale anche in assenza di reato (ma pur sempre secondo i principi generali dell'illecito civile) in ipotesi di morte (quantomeno istantanea) del congiunto, al fine di apprestare attraverso tale figura una adeguata tutela per le ipotesi diversamente neglette dall'ordinamento (in quanto esulanti dalla funzione satisfattivo/punitiva dell'art. 2059 c.c.), senza però snaturare l'essenza strettamente personale del diritto alla salute, il cui risarcimento ha il precipuo scopo di fornire un equivalente monetario delle utilità vitali perdute ed appare perciò stesso incompatibile con l'evento letale, che rende impossibile qualsivoglia reintegrazione.

II) L'individuazione del concetto di danno alla salute

Prima del parziale "revirement" di Corte Cost. n. 372/94, la Suprema Corte aveva già provveduto con grande lucidità a rielaborare i principi affermati da Corte Cost. n. 184/86, individuando nell'ipotesi normativa generale, accanto all'azione lesiva, cinque ulteriori profili, quali: 1) l'evento biologico, i.e. la “specifica lesione dell'organismo umano”; 2) il danno alla salute, "specificazione giuridica dell'evento biologico", inquadrato nel concreto "contesto

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organico e, in proiezione, nel quadro delle funzioni vitali in cui questo si estrinseca e si realizza";

3) l'illiceità, sussistente “in re ipsa” e discendente, "sotto forma di lesione del diritto della persona alla salute", "dall'antigiuridicità dei precedenti rispetto alle norme fondamentali degli artt. 2 e 32 Cost.11; 4) la responsabilità, attinta, in carenza di disposizioni specifiche a tutela delle norme costituzionali trasgredite, dall'art. 2043 c.c. "per analogia iuris"; 5) la risarcibilità, delineata sempre in via analogica dai successivi artt. 2056, 2057 e 2058 c.c. (Cass.civ. sez.III 13.1.93 n. 357).

Del resto, un profluvio di pronunzie giurisprudenziali e di teoriche dottrinali aveva ormai contribuito alla compiuta elaborazione della nuova figura di danno, detto biologico o meglio alla salute (e.c., Cass.SS.UU. 21.5.73 n.796; Trib. Genova 25.5.74 e 9.3.89; Trib. Pisa 10.3.79 e 16.1.85; Corte Cost. il 26.7.79 nn.87 e 88; Cass. 6.4.83 n. 2396; Trib. Pisa 31.5.86 n. 265; Corte Cost. 14.7.86 n.184; Trib. Roma 25.5.88; Trib. Verona 15.10.90; Corte Cost. nn. 87, 356 e 485 del 1991; Trib. Monza 4.4.91; Cass. 10.3.92, n.2840; Trib. Milano 19.3.92; Cass.civ. 10.10.92, n.11096) ed altre ancora avrebbero continuato ad apportare ulteriori contributi ermeneutici sui vari profili della materia (e.m., Trib. Siena 9.2.93 n. 56; Cass.civ. 18.2.93, n. 2008; Cass.civ.

19.3.93, n. 3260; Trib. Milano 15.4.93 n. 4031; Trib. Piacenza 19.5.93 n. 190; Trib. Mantova 4.6.93 n. 337; Cass.civ. 20.7.93, n. 8066; 14.10.93, n. 10153; 6.12.93, n. 12055; App. Milano 25.1.94 n. 106; Cass.civ. 10.6.94 n. 5669; 18.9.95 n. 9828; 11.10.95 n. 10597; 3.11.95 n. 11453).

Sebbene al nostro ordinamento risulti estraneo il principio anglosassone dello “stare decisis”, può asserirsi che la sedimentazione di tutti i contributi giurisprudenziali, oltre che dottrinali, consenta allo stato di trarre talune conclusioni sulla definizione e sulla valutazione del danno alla salute.

Può innanzitutto ritenersi assodato che l'altrimenti detto "danno biologico" -rectius danno alla salute- consista nella menomazione anatomo-funzionale, definitiva o temporanea, comunque peggiorativa delle preesistenti condizioni psicofisiche del soggetto danneggiato, tale da incidere in senso restrittivo sulle complessive condizioni di vita dell'individuo, con riflessi pregiudizievoli su tutti gli ambiti di esplicazione della sua personalità (culturale, sociale, affettiva, spirituale, sportiva, oltre che produttiva: cfr. Corte Cost. 27.12.91, n. 485), indipendentemente da ogni specifica conseguenza sulla capacità di lavoro e di guadagno del soggetto, e quindi da ogni aspetto reddituale (che peraltro potrà trovare idonea tutela in sede di risarcimento dell'eventualmente contestuale danno patrimoniale emergente o da lucro cessante).

In particolare, si è affermato che “il giudice, anche quando si serve di criteri equitativi, ha il dovere di indicare gli estremi logico-giuridici e fattuali che lo hanno guidato nella liquidazione del danno alla salute conseguente alle lesioni personali riportate dalla vittima, in particolare indicando l'evento biologico, ossia la specifica lesione dell'organismo, ed il danno alla salute, ossia il grado di menomazione dell'integrità fisiopsichica che, avuto riguardo al contesto organico ed al quadro delle funzioni vitali, è stato provocato dalle lesioni, incidendo sulla sfera non patrimoniale d'estrinsecazione dei valori personali vitali, psicofisici" (Cass.civ.,sez.III, 18.2.93, n.2008).

Parimenti consolidato, nonostante sporadiche recrudescenze, può ritenersi l'orientamento che conferisce unitarietà ed onnicomprensività al concetto di danno alla salute, nel quale vanno perciò assorbite le ulteriori voci di danno estetico, alla vita di relazione (secondo Cass. 10.3.92, n. 2840, il danno alla vita di relazione potrebbe essere autonomamente risarcito solo se avesse comportato anche una perdita di carattere patrimoniale, da valutare in concreto), alla cosiddetta capacità lavorativa generica (da ultimo, Cass.civ. sez.III 18.9.95 n. 9828; cfr. anche Cass.

30.5.92, n. 3867; 3.4.90 n. 2761; 23.6.90 n. 6366; 27.6.90 n. 6556 nonché nn. 4243/90 e 5033/88) e persino alla sfera sessuale (in quanto inclusa nell'integrità psicofisica della persona).

Sulla capacità lavorativa cosiddetta generica, in particolare, la Cassazione, alla luce delle indicazioni fornite da Corte Cost. 18.7.91 n. 356 e 27.12.91 n. 485, nonché 11/26.2.93 n. 71, ha

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perentoriamente affermato che “in caso di illecito lesivo dell'integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all'attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, ne sia in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in se considerato, con la conseguenza che l'anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale, in quanto già valutata come danno biologico" (Cass.civ., sez.III, 19.3.93, n.3260).

Eppure, paradossalmente, le stesse citate pronunzie della Corte Costituzionale nn. 356 e 485 del 1991, in materia di surroga o regresso dell’INAIL, ventilando la possibilità che la copertura assicurativa indennizzi "la perdita o la riduzione di alcune soltanto delle capacità del soggetto" - come l'attitudine al lavoro - e che in tal caso sia illegittimo consentire che l'assicuratore "si avvalga anche del diritto dell'assicurato al risarcimento del danno biologico non coperto dalla prestazione assicurativa", hanno di fatto dato la stura a quell'orientamento di merito che procede allo scorporo, dal danno alla salute, del danno alla capacità lavorativa generica, procedendo in via equitativa (in relazione alle ore dedicate giornalmente allo svolgimento di attività lavorativa) alla quantificazione del cosiddetto danno differenziale, ossia non indennizzato dall’INAIL (v.

Tr.Milano 19.3.92; Pr.Parma 31.3.92; Tr.Varete 5.2.94; Pr.Livorno 27.2.91).

Orientamento, questo, che è stato invece respinto da altra giurisprudenza di merito (Tr.

Piacenza 19.5.93 e 22.5.93; Tr. Palermo 13.3.93 e 11.1.93; Tr. Torino 11.12.93; Pr. Parma 15.4.94) e dalla pressoché unanime giurisprudenza di legittimità (v., oltre Cass.civ. 3260/93 cit., Cass.civ. sez.lav. 8.7.92 n. 8325, 23.6.92 n. 7663 e 11.6.94 n. 5683, nonché, da ultimo, 15.9.95 n. 9761), la quale ha perciò confermato che, dopo la declaratoria di parziale incostituzionalità degli artt. 1916 c.c., 10 e 11 d.p.r. 30.6.1965 n. 1124, la limitazione all'azione risarcitoria del dipendente infortunato al cosiddetto danno differenziale non può assolutamente concernere il danno alla salute ed il danno morale, trattandosi di pregiudizi che la menomazione dell'integrità personale apporta nella sfera "non produttiva", teleologicamente estranea alla copertura assicurativa.

III) La valutazione del danno alla salute

Un altro punto fermo che può dirsi ormai raggiunto, grazie alla funzione nomofilattica svolta dalla Suprema Corte “in subiecta materia”, attiene a principi e metodi da seguire nella liquidazione del danno alla salute, sebbene in sede di merito residuino ancora gli epigoni della pregressa congerie di parametri all'uopo utilizzati.

Invero, pur riconoscendosi univocamente la necessità del ricorso alla liquidazione equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c., per la naturale ed evidente difficoltà di "monetizzare" il valore della vita umana (v. per tutte Cass. 11.2.85 n. 1130), nel tempo si è fatto ricorso a svariati criteri per la concreta determinazione del risarcimento: dal reddito nazionale lordo pro capite, al triplo della pensione sociale ex art. 4. L. 39/77 (con capitalizzazione e calcolo tabellare, sulla base di tabelle invero divenute “obsolete”: cfr., recentemente, Trib. Genova 9.3.89), al punto di invalidità determinato dalla media delle somme liquidate in casi analoghi (v. Trib Pisa 19.5.82, che calcolava al l° gennaio 1982 per ogni punto di invalidità permanente ed ogni giorno di invalidità temporanea un valore pecuniario medio rivalutabile rispettivamente di £. 500.000 e £. 20.000, suscettibile di aumento sino alla metà in presenza di correttivi equitativi quali l'età del danneggiato, natura ed entità della menomazione, incidenza sull'attività extralavorativa, future necessità di trattamenti sanitari ecc.), al valore di punto minimo, elevabile attraverso taluni correttivi al massimo del 50% (Corte App. Roma 2.7.86, che fissa per il 1984 il valore minimo di £. 800.000 e massimo di £. 1.200.000, entrambi rivalutabili secondo gli indici ISTAT, sia nel caso di invalidità permanente che di temporanea, con l'alternativa per quest'ultima di

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un'indennità giornaliera fissata tra un minimo ed un massimo, che si tramuta in semplice maggiorazione della invalidità permanente ove questa sia susseguente), al "reddito medio" (Cass.

10.10-88 n. 5465), al sestuplo della pensione sociale con analoghi criteri correttivi (Trib. Milano 12.12.90).

Senonchè, con uno slancio innovativo rispetto alla precedente sentenza n. 102/85, la Suprema Corte ha di recente avallato l'orientamento per cui "nella liquidazione equitativa del danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psicofisica della persona in se considerata, indipendentemente dalle ripercussioni che essa può comportare sulla capacità di lavoro e di guadagno del soggetto, non può essere utilizzato, come parametro di riferimento, il criterio indicato dall'art. 4 coma terzo del D.L. 23 dicembre 1976 n. 857 - convertito in legge 26 febbraio 1977 n. 39 -, che si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale e non può, pertanto, servire a commisurare il danno conseguente alla menomazione degli attribuiti e requisiti biologici della persona, in se e per se considerata. Tale danno, che è indipendente dal ruolo che i predetti attributi e requisiti svolgono o potrebbero svolgere, sulla capacità di reddito della persona, è, invece, legato al valore umano perduto, restando, e, quindi, determinabile solo mediante la personalizzazione quantitativa (con aumenti o diminuzioni) o qualitativa (con scelta tipologica diversa) di parametri di riferimento in linea di principio uniformi per la generalità delle persone fisiche" (Cass.civ., sez.III, 18.2.93 n. 2009; negli stessi termini, da ultimo, Cass.civ. sez.III 13.5.95 n. 5271 e n. 9828/95 cit.; v. anche nn. 2009/93, 357/93, 6692/92).

Conseguentemente la Corte di legittimità, pur non indicando esplicitamente un metodo concreto da seguire nella valutazione equitativa del danno biologico, ha comunque recisamente escluso l'applicabilità di parametri, quale quello ancorato alla pensione sociale, che facciano riferimento al reddito, in quanto ontologicamente contrastanti con la più recente ricostruzione della categoria di danno in esame.

Peraltro, non si ritiene di poter allo stato condividere la tesi del criterio equitativo puro (come Trib. Biella 22.4.89 e Trib. Arezzo 18.7.88) -che pure potrebbe rivelarsi opportuno per le situazioni di malessere che non si risolvono in vere e proprie invalidità, come immissioni di odori o rumori molesti-, in quanto detto metodo sembra porsi in contrasto con le indicazioni della stessa Consulta, la quale suggerisce, si, "elasticità e flessibilità per adeguare la liquidazione del caso di specie all'effettiva incidenza dell'accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l'efficienza psicofisica del soggetto danneggiato", ma il tutto sempre a partire da un'imprescindibile "uniformità pecuniaria di base", poiché "lo stesso tipo di lesione non può essere valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto: è infatti la lesione in se e per se considerata che rileva, in quanto pregna del disvalore giuridico attribuito alla medesima dal divieto primario ex art. 32 Cost. e 2043 c.c." (Corte Cost.

14.7.86, n.184). Del resto, nella medesima pronuncia la Corte ha fatto esplicito riferimento a quel "diritto vivente" rappresentato dalle elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali, cui essa stessa "si richiamava".

Peraltro, come diffusamente rilevato da Cass. 13.1.93, n. 357, "il giudice del merito ha il dovere di motivare in sentenza, anche se si avvalga di criteri equitativi per fini strettamente estimativí. L'equità, invero, opera nel momento di formazione della regola del giudizio liquidatorio del caso concreto, non in quello della doverosa, ufficiale dichiarazione degli estremi logico-giuridici e fattuali, giustificativi della regola stessa nella sentenza.

Da ciò il Supremo Collegio inferisce che, in tema di accertamento e liquidazione del danno alla salute, occorre, tra l'altro, "accertare e descrivere analiticamente" la lesione; inquadrare ''l'evento biologico nel preciso contesto organico e, in proiezione, nel quadro delle funzioni vitali in cui questo si estrinseca e si realizza"; determinare equitativamente un risarcimento del danno che sia “in prospettiva completamente compensativo della specifica offesa che l'evento biologico ha inflitto alla persona (arg. ex art. 2056 c.c.)", correlandolo “alle sfere non patrimoniali di estrinsecazione dei valori personali vitali, psicofisici, eliminati o ridotti, non anche a quelle

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economiche, eventualmente ulteriori (attività lavorativa redditizia, lucri diversi cessanti, ecc.)", nonché rapportandolo "soggettivamente e nel quantum alla misura della partecipazione individuale nell'eziologia giuridica del danno (arg. ex art. 2055 e 1227 c.c.)".

Ciò configura, ad avviso della stessa Corte, “un'operazione giudiziaria complessa, che chiama il giudice del merito ad applicare analogicamente i confacenti principi ordinamentali...ove occorra anche forgiando, con oculatezza e stretta adeguatezza alla rilevanza umana e sociale del fatto dannoso, quei criteri decisori affidati alla sua discrezionale accezione: così nel definire l'equivalente monetario del valore vitale leso (per esempio, riferendosi alla spesa reputata occorrente per surrogare l'attributo personale perdutosi..); così, nella determinazione equitativa del ristoro (per esempio ispirandosi a pertinenti criteri metodologici suggeriti dalla dottrina specializzata o di diffusa applicazione giurisprudenziale, ma, pure in quei quadri dalla basilare uniformità categoriale, facendolo sempre flessibilmente, definendo così una regola ponderale su misura del caso specifico, per la perfetta rilevazione, quindi adeguata valutazione, delle peculiarità individuali, fisiopsichiche, lese); così, infine, nell'identificazione rara ma non escludibile a priori della risarcibilità in forma specifica (per esempio attraverso la reintegrazione psicofisica, la ricostituzione di un requisito somatico, ecc.)".

Il tutto, senza affatto escludere che "il giudice del merito possa dare alla determinazione un riferimento cronologico tale da assorbire la rivalutabilità monetaria e inglobare quella compensatività usualmente affidata agli interessi senza dover precisare le singole componenti" (Cass.cit.; cfr. Cass. 16.5.84 n.2996).

A questo punto, preso atto dell'oneroso compito rimesso al prudente apprezzamento del giudice, chiamato ad individuare parametri valutativi che, pur garantendo una omogeneità di base -in riferimento all'aspetto costante ed indifferenziato (da taluno definito statico) del danno alla salute, costituito dal danno biologico in senso stretto-, consentano però di valutare anche le peculiarità del caso concreto -in relazione alle personali potenzialità e condizioni vitali del singolo (il cosiddetto aspetto dinamico)-, il tutto secondo una regola di giudizio singolarmente improntata all'ossimoro “uniformità elastica”, il Tribunale di Ancona, sin dalla pronunzia n. 536 dell'11.311.4/94, ha ritenuto di poter adottare un criterio -certamente perfettibile- di liquidazione del danno biologico (rivisitando quello originariamente propugnato dalla magistratura pisana), consistente nella predeterminazione di valori, attuali e rivalutabili nel tempo, per fasce di invalidità (se permanente) indicati nel minimo e nel massimo, entro i quali possa discrezionalmente appurarsi l'incidenza di fattori (età del danneggiato, natura delle lesioni, anche in riferimento a specifiche attività svolte dal danneggiato nell'espressione della propria personalità, entità e penosità delle terapie seguite, capacità di recupero dell'organismo, necessità di future cure mediche ecc.) capaci di caratterizzare la menomazione oggettivamente subita, attagliandola alla singolarità ed irripetibilità dell'individuo, con un ulteriore margine di correzione, in più o in meno, del 50%, in presenza di ulteriori, eccezionali, particolarità del caso specifico (segnatamente: quanto alla invalidità permanente, da £. 1.000.000 a £. 1.300.000 per ogni punto di invalidità compreso tra 0 e 5%, da £. 1.300.000 a £. 1.600.000 fino al 10%, da £.

1.600.000 a £. 5.000.000 per invalidità superiore al 10%- quanto invece alla invalidità temporanea, da £.15.000 a £.25.000 al giorno se parziale, da £.25.000 a £.50.000 al giorno se totale; si confronti, sul punto, la previsione legale di £. 50.000 giornaliere a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione).

In senso analogo, del resto, si sono mosse numerose altre Corti di merito; particolarmente motivata risulta la sentenza del Tribunale di Mantova 4.6.93 n. 337, nella quale si adotta, per un individuo di 45 anni, un valore di punto oscillante tra £.800.000 e £. 2.500.000 per fasce di invalidità dal 7% al 30%, da maggiorare progressivamente di 1/5 sino al 35%, di 1/4 sino al 40%, di 1/3 sino al 50% e di 2/5 oltre il 50%; da aumentare del 40, 30 e 20% per chi non abbia compiuto 15, 25 e 35 anni, nonché da diminuire del 10,20 e 30% per i soggetti che abbiano superato 60, 70 ed 80 anni, salva una valutazione forfetaria sino al 7%).

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Assai apprezzabile risulta, inoltre, la divulgazione del contributo della Conferenza dei Presidenti di sezione del Tribunale di Milano (in Guida al Diritto n.8 del 25.2.95), attraverso una tabella recante il valore di ciascun punto di invalidità (da 1 a 100) con differenziati incrementi tra 11 fasce (sul presupposto medico-legale dell'incremento progressivo del danno per percentuali crescenti di invalidità e nell'intento deflattivo del contenzioso tra i valori di fascia contigui) e con un coefficiente di diminuzione, sino al 60%, per le 13 fasce di età indicate (sul presupposto della diminuzione della vita residua), oltre che con la previsione di un compenso giornaliero da £. 50.000 a £. 100.000 per I.T.A. e £. 25.000 per I.T.R.. Contributo, questo, che pur fornendo una significativa risposta all’esigenza di uniformità, risulta fondato su presupposti da un lato abbisognevoli di una oggettiva verifica in sede scientifica, dall'altro non pienamente condivisibili (la tarda età potrebbe infatti addirittura aggravare le conseguenze dannose della lesione per le minori capacità di recupero).

Da ultimo, la Suprema Corte -sent. 28.11.95 n. 12301- sembra aver avallato il ricorso tanto a criteri equitativi puri quanto a tabelle di capitalizzazione per la liquidazione del danno alla salute.

In conclusione, sarebbe auspicabile che, attraverso ponderati interventi normativi o almeno tramite l'indicazione di linee guida elaborate in collaborazione tra scienza giuridica e scienza medico-legale (oltre che informatica), si forniscano strumenti idonei ad evitare le innegabili disparità di trattamento del danno alla salute (addirittura anche all'interno dei singoli uffici giudiziari); il tutto, ovviamente, facendo salva la discrezionalità equitativa del giudice nell'apprezzamento del caso concreto, con il solo (dovuto) onere di una puntuale motivazione.

IV) L'accertamento del danno alla salute: oneri probatori

La prospettiva di una liquidazione di tipo equitativo, unicamente alla non ancora acquisita dimestichezza con le attuali coordinate del dibattito giuridico sul danno alla salute (ma talvolta anche l'effettiva insussistenza di specifici profili da evidenziare), inducono spesso le parti a trascurare l'attività di impulso istruttorio loro rimessa dall'art. 115 c.p.c. (secondo il principio dispositivo per cui il giudice è chiamato a decidere “iuxta alligata et probata”) ed invece ad indulgere prevalentemente sulla sollecitazione dei poteri d'ufficio del giudice (peraltro assai limitati nel rito ordinario), che lo stesso articolo riserva ai "singoli casi previsti dalla legge".

Nel settore (numericamente preponderante) dell'infortunistica stradale, ad esempio, a fronte di un certo fermento istruttorio (di tipo sostanzialmente documentale e testimoniale) in materia di danni patrimoniali (sub specie di danno emergente o lucro cessante) e, al contrario, di una pressoché nulla attività -finanche deduttiva- in merito al danno morale (in realtà parimenti abbisognevole, sia pure in confini più limitati, di concreti riferimenti fattuali), le prove in materia di danno alla salute vengono per lo più flebilmente riversate nella acquisizione ex art. 213 c.p.c.

del verbale e relativi allegati redatti dagli agenti intervenuti (per la definizione della responsabilità nella causazione del sinistro, anche ai fini dell'art. 1227 c.c. richiamato dall'art.

2056 c.c.) nonché nella nomina di un consulente d'ufficio medico-legale, per la quantificazione delle varie forme di invalidità (compresa l'incapacità lavorativa specifica, che comunque ha riflessi di tipo strettamente patrimoniale) prodotte dalla lesione alla salute dell'infortunato.

Eppure, alla luce di quanto sopra esposto è di palmare evidenza che così facendo le parti stesse (rispettivamente in sede di prova diretta e prova contraria) precludono al giudice, anche per il tramite del suo ausiliario (il c.t.u.), di appurare l'effettiva e specifica incidenza della lesione alla salute nella sua componente cosiddetta dinamica e quindi di riscontrare ogni conseguenza concretamente dannosa per il patrimonio “lato sensu” personale del periziato, con evidente pericolo di scollamento tra dato fenomenico iniziale e risultato risarcitorio finale.

Si è visto, infatti, che una medesima lesione dell'integrità psicofisica può comportare differenti conseguenze dannose sul coacervo delle funzioni vitali del soggetto nelle quali si

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estrinseca la sua globale personalità: basti pensare alle preesistenti condizioni di salute (che talvolta potrebbero sfuggire alla pur immancabile analisi anamnestica e che comunque andrebbero documentalmente supportate o almeno verificate -ove possibile- in sede di visita medica), all'età del danneggiato (in casi marginali può capitare che essa non risulti indicata), a quelle sue abitudini di vita (attività sportive, sociali, culturali, ricreative, spirituali) che, sempre al vaglio del giudizio di causalità medico-legale, risultino in qualche modo coinvolte dagli esiti della riscontrata “invalidità”, infine ad ogni altro aspetto seriamente valutabile ai fini dell'apprezzamento concreto delle conseguenze dannose derivanti dalla lesione della salute.

Quanto al momento processuale in cui tali prove andrebbero fornite, appare opportuno distinguere tra vecchio e nuovo rito: se infatti nel vecchio rito civile (cui risulta tuttora informata la maggioranza delle cause pendenti) la sostanziale assenza di decadenze per le deduzioni istruttorie vanifica la scelta di ricorrere alla c.t.u. medico-legale solo ad assunzione avvenuta delle prove in questione, per consentire al medico di valutare ogni elemento ritualmente acquisito in giudizio che risulti utile alla quantificazione complessiva del danno alla salute -il possibile verificarsi di un ulteriore segmento di attività istruttoria potrebbe rendere infatti addirittura necessario un supplemento di perizia-, tale inconveniente pare invece attenuarsi nelle cause trattate con il nuovo rito, in cui il novellato art. 184 c.p.c. prevede termini perentori per le (ultime) deduzioni istruttorie (salva la rimessione in termini ex art. 184 c.p.c., ovvero l'ipotesi di mezzi di prova conseguenti a quelli disposti d’ufficio, ex art, 184, ult.co., c.p.c.), le quali sono peraltro consentite, in ipotesi di regolare e normale svolgimento del giudizio, sino alla quarta udienza (salvi poi i tempi di assunzione delle prove ammesse).

Non sembra perciò imprescindibile la scelta di ricorrere alla c.t.u. medico-legale solo dopo l'esaurimento dell’istruzione probatoria sugli aspetti personalizzanti del danno alla salute;

conclusione, questa, che risulta peraltro corroborata da un'altra considerazione di ordine pratico - ossia la possibilità che all'esito di una c.t.u. tempestivamente disposta le parti addivengano con maggiore sollecitudine ad una conciliazione della lite, sempre possibile in qualsiasi momento dell'istruzione a norma dell'art. 185, cpv., c.p.c.- nonché da una valutazione più strettamente giuridica -cioè la facoltà, rimessa al giudice dal l° comma dell'art. 194 c.p.c., di autorizzare il consulente d'ufficio "a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e ad eseguire piante, calchi e rilievi" di cui lo stesso possa tenere conto nell'elaborazione della risposta ai quesiti (eventualmente formulando conclusioni anche in via ipotetica rispetto alla eventualità di un successivo riscontro giudiziale degli elementi acquisiti nel corso delle indagini), ferma restando, ovviamente, la finale valutazione delle prove da parte del giudice a norma dell'art. 116 c.p.c.

V) L'incarico al C.T.U

All'operatore ed allo studioso del diritto sono noti gli standard dei quesiti -invero apprezzabilmente diversificati- che vengono posti al c.t.u. medico-legale in materia di danno alla salute; una loro lettura diacronica potrebbe realisticamente riflettere la stessa evoluzione della figura: basti pensare che sino a poco tempo fa (e forse ancora oggi in taluni uffici giudiziari) nel quesito era immancabile lo specifico riferimento alla capacità lavorativa generica accanto a quella specifica (variamente inquadrata quale danno patrimoniale o non patrimoniale), al danno estetico ed alla vita di relazione.

Peraltro, il limite più evidente di numerosi di essi consiste nella estrema sinteticità, la quale in tal caso, lungi dal costituire un pregio, nasconde mancanze o incertezze del giudice, impedisce un serio controllo sulle metodologie seguite dall'ausiliario e rimette talora inopinatamente a quest'ultimo inammissibili valutazioni pseudo-giuridiche.

Com'è noto, nella -pur emendabile- prassi giudiziaria le previsioni codicistiche dell'assistenza del consulente “alle udienze alle quali è invitato dal giudice istruttore” e della partecipazione di

(11)

quest'ultimo alle indagini al primo commesse (v. artt. 61 e 194, loco. c.p.c.) rimane pura teoria (non tanto per negligenza degli interessati quanto per il gravoso carico di udienza); sarebbe quindi buona norma che, nel -normalmente- unico contatto tra il giudice ed il consulente (ossia l'udienza di conferimento dell'incarico) avesse luogo tra i due un dialogo chiarificatore sui criteri che il giudice ritiene si debbano seguire -salva ovviamente l'autonomia tecnica dell'ausiliario- nell'espletamento della funzione (ciò tanto più in quanto, correttamente attuando la "rotazione"

degli incarichi attraverso l'albo di cui agli artt. 13 e ss c.p.c., il c.t.u. potrebbe ignorare l'impostazione giuridica dell'ufficio).

Inoltre, al fine di evitare intenti dilatori o comunque inutili ritardi nella trattazione della causa, è bene che il g.i. rammenti al c.t.u. l'obbligo di instaurare il contraddittorio con le parti ed i loro consulenti tecnici nel corso delle indagini e soprattutto l'onere di ricevere le rispettive osservazioni ed istanze, a norma degli artt. 194 e 90 disp.att. c.p.c.. In tal modo, infatti, verrà dato senso alla partecipazione alle indagini dei consulenti tecnici di parte, i quali non potranno più limitarsi ad assistervi passivamente, riservandosi la formulazione di deduzioni critiche solo successivamente al deposito dell'elaborato peritale -con conseguente necessità, il più delle volte, di chiamare a chiarimento il medesimo c.t.u.- ma saranno tenuti a formulare tutte le loro osservazioni nel corso delle indagini, alle quali il c.t.u. potrà puntualmente replicare proprio nella relazione da consegnare al giudice (a tal fine sarà opportuno autorizzarlo a consegnare ai cc.tt.pp. copia dell'elaborato finale prima ancora del suo deposito).

Detta raccomandazione acquista del resto particolare significato alla luce della recente pronunzia con cui il Supremo Collegio ha ritenuto che “l'apprezzamento del giudice di merito circa l'opportunità di chiedere chiarimento al consulente tecnico d'ufficio o di disporre la rinnovazione delle indagini tecniche, costituendo esercizio di una facoltà discrezionale, non può essere sindacato in sede di legittimità, anche se il suo mancato esercizio non viene espressamente motivato, specie tenuto presente che allorquando le conclusioni del consulente d'ufficio sono state contestate da una parte il giudice non è tenuto a disporre una nuova indagine peritale, se ritiene che la relazione tecnica acquisita offra elementi sufficienti di giudizio" (Cass.civ.

sez.II 9.12.95 n. 12630); giudizio questo che, pur quale "peritus peritorum", il giudice potrà infatti più tranquillamente esprimere avendo già a disposizione il chiarimento del c.t.u. sulle contestazioni del c.t.p..

Sempre ai fini di una seria ed effettiva valutazione delle conclusioni peritali, è bene che il c.t.u. sia invitato ad indicare espressamente il metodo di stima seguito, non essendovi univocità in campo medico-legale, ad esempio, circa i criteri di quantificazione del grado percentuale di invalidità.

Senza pretesa di competenza alcuna nella disciplina baremistica, infatti, ci si limita ad osservare come, a partire dal primo storico esempio di barème risalente alla civiltà sumerica (Tavoletta di Nippur, 2050 a.C.), seguito dal più noto Codice di Hammurabi (1750 a.C.), innumerevoli Tabelle e Guide siano state formulate sia all'estero (soprattutto, recentemente, in Francia -L. Melennec: l'Evaluation du handicap et du dommage corporel. Barème international des invaliditès', 1991- e negli USA -American Medical Association: "Guides to the evaluation of permanent impairment”, 1993-) che in Italia (a partire dalla legislazione antinfortunistica industriale del XIX secolo, sino alle "Tabelle per la valutazione medico-legale del danno biologico di rilevanza patrimoniale", 1967, con aggiornamenti e proposte nei primi anni '90), talchè, tenuto conto delle parziali difformità dei criteri da esse espressi (pur se conformemente all'attuale concetto di danno biologico, le Guides dell'A.M.A. facendo riferimento a menomazioni dell'efficienza personale di una o più attività della vita quotidiana ed i barèmes francesi, invece, alla capacità fisiologica, intesa come somma delle possibilità fisiche, psichiche ed intellettuali di un soggetto), uno specifico riferimento consentirebbe quantomeno di salvaguardare l'uniformità di trattamento di casi analoghi. Fermo restando che, in mancanza di obiettive metodiche per la quantificazione di specifiche tipologie menomative, il consulente

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dovrà sopperire con puntuali descrizioni ed argomentazioni, capaci di fornire al giudice adeguati indici valutativi.

In merito, poi, alla finale quantificazione del danno alla salute, il c.t.u., dopo aver proceduto all'indicazione -come di prassi- di un dato numerico percentuale in cui sia sussumibile

l'entità del danno strettamente biologico (ossia l'aspetto "statico" del danno alla salute) dovrà chiaramente esplicare se le specifiche attività che il danneggiato assume di non poter più svolgere (aspetto "dinamico" del danno alla salute) siano state effettivamente compromesse dalla lesione riscontrata (e ciò nell'espletamento dell'incarico originario o successivamente, qualora siano sopravvenute ulteriori acquisizioni istruttorie), così consentendo al giudice di individuare, nell'ambito dei valori di punto -minimo e massimo- delle fasce predeterminate di invalidità, quello più adeguato a fornire, attraverso la moltiplicazione per l'accertata percentuale di invalidità permanente, una completa tutela risarcitoria del danno alla salute.

Un ulteriore riferimento va fatto a quella che può essere icasticamente definita "la Cenerentola" del danno biologico, ossia la cosiddetta invalidità temporanea.

Non sembra opportuna la inclusione (operata da certa giurisprudenza di merito) di tale voce di danno nell'ambito della invalidità permanente; invero, posto che non vanno confuse le conseguenze strettamente patrimoniali eventualmente scaturenti dallo stato acuto di malattia (di regola assenti, se non sotto il profilo di usuali prestazioni lavorative straordinarie o speciali indennità correlate all'effettività della prestazione, per i lavoratori dipendenti) con la personale alterazione della funzionalità organica del soggetto, rientrante a pieno titolo nella categoria del danno cosiddetto biologico, non sembra corretto limitare la portata della invalidità temporanea a semplice fattore correttivo della invalidità permanente, trattandosi di categorie omogenee ma comunque antologicamente (rispetto al dato temporale) e materialmente (rispetto all'entità della lesione) distinte, la prima comportando spesso una ben maggiore compromissione delle funzioni vitali dell'individuo ma, in quanto naturalmente limitata nel tempo, apparendo a rigore inadeguata ad influire sulla quantificazione della I.P., a risarcimento capitalizzato.

E' forse il caso di sottolineare, peraltro, che la recente sentenza della Suprema Corte per cui, in mancanza di specifìci ed ulteriori pregiudizi economici diversi dalla persistente prestazione retributiva da lavoro dipendente, non sarebbe risarcibile il "danno da invalidità temporanea"

(Cass.civ. sez.III 11.10.95 n. 10597) non deve fuorviare, in quanto la formula adottata, qui riferita al danno temporaneo alla salute, attiene lì invece espressamente a pregiudizi a carattere economico.

Pertanto, nell'ambito del quesito peritale sul danno globale alla salute dovrà trovare apposita e distinta previsione l'accertamento della cosiddetta invalidità temporanea.

Va inoltre rilevato che, di regola, mentre il c.t.u. suole riferirsi genericamente e stereotipicamente ad un periodo di invalidità temporanea assoluta (o totale) e ad un periodo di invalidità temporanea relativa (o parziale), i giudici automaticamente ritengono che la seconda sia quantificabile in termini esattamente dimezzati rispetto alla prima (la quale in teoria andrebbe assimilata ad una invaliditá del 100%).

Sarebbe invece auspicabile che il consulente fosse invitato a descrivere in dettaglio le funzioni vitali compromesse durante i giorni in cui si ha una temporanea menomazione psicofisica (magari attraverso appositi indici, come l'ADL, "index of indipendence in Activities of Daily Living, Katz, 1962, in cui si fa riferimento al grado di autonomia fisica del paziente attraverso la combinazione di alcune elementari funzioni, quali vestirsi, spostarsi, fare il bagno, alimentarsi ecc.), così come le terapie e cure rivelatesi necessarie, in regime di ricovero o meno (elementi, questi, che possono trovare analoga considerazione nella valutazione equitativa del danno morale, però solo sotto lo specifico profilo dell'eventuale turbamento psicologico ad esso connaturato sub specie di "turbatio animi"), sì da consentire al giudicante una equa collocazione del relativo danno all'interno del "range" risarcitorio giornaliero di cui sopra.

In conclusione, nella formulazione dei quesiti al c.t.u. costui andrà invitato a:

- indicare previamente la metodologia di indagine seguita;

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-descrivere analiticamente le lesioni riscontrate;

- accertare la compatibilità, secondo un criterio di causalità medico-legale, tra dette lesioni ed il comportamento lesivo risultante dagli atti processuali;

-descrivere le pregresse condizioni di salute del periziando, l'eventuale presenza di precedenti morbosi, la loro incidenza rispetto ai postumi attuali (in termini di "coesistenza” o

"concorrenza", a seconda che interessino o meno funzioni indipendenti da quelle colpite), al fine di appurare la consistenza dell'alterazione anatomo-patologica funzionale, indipendentemente da ripercussioni sulla capacità reddituale;

-accertare, attraverso congrua descrizione delle funzioni impedite, la durata e l'entità concreta della invalidità temporanea;

-accertare inoltre la presenza di eventuali postumi permanenti, procedendo ad una quantificazione percentuale o comunque ad una descrizione esaustiva della loro consistenza, tenendo conto di tutte le condizioni personali dedotte in giudizio, specificando se ed in quali termini esse risultino effettivamente pregiudicate dalla lesione;

-verificare se i postumi reliquati incidano sulla capacità lavorativa specifica del periziando, con riferimento all'attività concretamente svolta o, in caso di assoluta incompatibilità con essa, ad altra confacente alle sue attitudini, quantificando in tal caso il relativo pregiudizio in termini percentuali;

-in caso contrario, evidenziare comunque se la riscontrata incapacità lavorativa specifica richieda un aumento dello sforzo o comporti maggiore usura nell'attività lavorativa svolta;

-verificare la congruità delle spese mediche sostenute ed indicare quelle che si renderanno inevitabili in futuro.

Con la precisazione che in tale ultima ipotesi ed in quella concernente l'incapacità lavorativa specifica la consulenza tecnica è destinata a fornire elementi di valutazione di danni "strictu sensu" patrimoniali, a titolo, rispettivamente, di danno emergente e lucro cessante, salva l'ipotesi di incapacità lavorativa specifica che determini esclusivamente una maggiore usura delle energie lavorative, la quale potrà invece rilevare -influendo sulla scelta del valore di punto analogamente alle altre, condizioni personali caratterizzanti- solo ai fini della liquidazione del risarcimento del danno alla salute sub specie di invalidità permanente.

Peraltro, per l'approfondimento delle tematiche qui appena sfiorate, si rinvia al pregevole contributo degli altri stimati relatori del presente convegno.

Riquadrato

Un sentito e doveroso ringraziamento agli organizzatori del convegno di Ancona la cui perfetta riuscita è stata motivo di soddisfazione per tutti.

In particolare un grazie all’avv. Rodolfo Berti che tanto tempo ed impegno ha

dedicato a questa iniziativa, all’avvocato Paolo Pauri presidente dell’ordine degli

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avvocati, ai dr. Vittorio Liberatore ed Umberto Trevi dell’ACI ed ai relatori che hanno apportato un alto contributo al dibattito in corso in tema di risarcimento del danno alla persona.

Non ultimi ringraziamo la Sai Assicurazioni e la Banca Nazionale dell’Agricoltura che hanno sponsorizzato l’iniziativa ed i giovani procuratori legali che si sono resi disponibili per il successo della manifestazione.

Le apprezzate relazioni troveranno spazio sulla nostra rivista a cominciare dal

presente articolo della dr. Paola Vella.

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