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Il risarcimento del danno da invalidità micropermanenti: rassegnarsi o reagire?

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Academic year: 2022

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Il risarcimento del danno da invalidità micropermanenti:

rassegnarsi o reagire?

Avv. Carlo Di Giacomo*

1 Micropermanente quale conseguenza del sinistro stradale. L'indagine sul nesso di causalità: ruolo del CTU e poteri del Giudice.

E' cosa nota che la gran parte delle controversie che occupa le competenze dei Giudici di Pace ha per oggetto le domande di risarcimento di quanti, coinvolti a vario titolo in sinistri stradali, lamentano danni alla persona con postumi di natura permanente che rientrano nei cinque-sei punti percentuali del "danno biologico": sono le cosiddette "micropermanenti" (per la ricomprensione della menomazione "micropermanente" nel concetto di danno biologico, v. Cass. Civ. Sez. III, n.

80666/93, in Riv. Giur. Circ. 1994, 63; per un’aggiornata analisi del fenomeno ed una rassegna degli orientamenti, v. G. PEYRON, Il Giudice di Pace ed il danno biologico da micropermanenti, in Riv. Giur. Circ. e Trasp, 1997, 527 ss.; D. DE BONIS, Il danno biologico nella giurisprudenza del Giudice di pace, nota a sent. GdP Roma n. 4437/1997, in Riv. Giur. Circ. 1997, 885 ss.).

La prassi insegna come il magistrato, di fronte a tale problema, ed in particolare quando non vi è contestazione sull'an da parte del convenuto, rimetta di fatto all'esito della CTU medico legale la decisione della controversia, che poi si traduce nella (più o meno) corretta quantificazione della domanda risarcitoria.

La casistica riporta, per la gran parte, lamentate "distorsioni del rachide cervicale": il noto

"colpo di frusta". Come è stato ben posto in evidenza (W. BRONDOLO-A. FARNETI, Le micropermanenti, in Il danno biologico patrimoniale morale, Giuffrè, 1995, 283 ss.), questa casistica prende il più delle volte le mosse da un evento infortunistico stradale, regolarmente testimoniato e spesso anche verbalizzato dall'Autorità pubblica, da una diagnosi del pronto soccorso di una struttura ospedaliera, sovente solo confortata da una radiografia del rachide cervicale o del cranio e da visita neurologica. Fa poi seguito una certificazione del medico curante e, non di rado, anche dello stesso ospedale che ha prestato le prime cure: raggiunta la stabilizzazione, viene molto spesso lamentata una sintomatologia ritenuta puramente soggettiva che non è possibile ritenere tecnicamente inaccettabile od incompatibile, e non comprovabile obiettivamente, con l'evento lesivo.

Nella maggior parte dei casi, questa variegata documentazione (non sempre compiutamente presente nei fascicoli di parte), viene assunta dal CTU quale fondamento "storico" della vicenda, così che egli usualmente conclude, e con lui il Giudice, che gli esiti invalidanti di carattere permanente rilevati a seguito dell'accertamento peritale sono "conseguenza" del sinistro dedotto in causa (v. GdP Roma, n. 4437/1997, cit., 891).

E' altrettanto noto che questo tipo di lesione provoca - secondo l'esperienza degli specialisti della disciplina medico-legale - reliquati permanenti nel 25% dei casi. La stessa letteratura specialistica (W. BRONDOLO-A. FARNETI, op. cit.) riconosce però che "non vi è alcun efficace e semplice strumento clinico e semeiologico per distinguere se il singolo individuo rientra o meno in questa fascia" del 25%.

Dobbiamo allora riflettere su alcuni assunti:

* Avvocato, Milano

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a) se vi è un danno (biologico, patrimoniale o altro) che derivi da un evento dannoso, questo va risarcito;

b) ma perché il danno sia risarcibile occorre accertare sì la natura e l'entità di esso (e quindi che si sia prodotta una lesione del bene salute), ma anche e preventivamente il suo collegamento eziologico con l'evento che si ritiene che lo abbia provocato.

Quello che, a nostro modo di vedere, la prassi tende ad omettere o a ridurre nella sua portata, è l'indagine sul secondo assunto, privilegiandosi invece l'approccio di cui al primo punto sub a), per cui: è avvenuto un sinistro stradale di cui si accerta la dinamica; si prende atto del danno descritto dall’immancabile CTU; si liquida quindi il danno sul presupposto che esso sia "compatibile" con il sinistro (v. esattamente in questi ultimi termini, GdP Bologna, sent. 22 dicembre 1997, Piro/Aig Europe Sa, in corso di pubblicazione su Arch. Giur. Circ. Sin. Str.).

Un simile approccio è pericoloso perché rischia di condurre a conclusioni "empiriche" e solo apparentemente dettate (e per ciò spesso ritenute giustificate o giustificabili) dal buon senso (sarebbe troppo dirle sostenute dalla "logica giuridica"). Si pensi, ad esempio, ad un sinistro avvenuto per contatto di due veicoli di massa diversa o, ancorché di massa simile, appartenenti ad epoche di costruzione diverse anche solo di pochi anni e, quindi, più o meno dotate sotto il profilo degli accessori destinati alla sicurezza passiva degli occupanti. Si consideri ancora che a seconda dei punti di urto tra le due carrozzerie (e della velocità dei singoli veicoli coinvolti), l'energia cinetica sprigionata dall'urto si ripercuote all'interno dell'abitacolo con caratteristiche e modalità, e conseguenze particolari per ogni sinistro.

Si consideri ancora che l'età (e l'eventuale attività lavorativa svolta) del soggetto leso possono influire notevolmente (sia in senso positivo che negativo) sulla stabilizzazione delle conseguenze lesive del sinistro.

L'indagine sull'esistenza di nesso di causalità tra sinistro e lesione come danno risarcibile emerge pertanto come passaggio fondamentale nel processo liquidatorio, secondo solo all'accertamento delle responsabilità.

Purtroppo, come si è visto, pare che di tale importante momento gli operatori del settore abbiano scarsa consapevolezza. Ed in questo, ci permettiamo di rilevare, una buona dose di responsabilità può ben essere addebitata agli avvocati, che poco vigilano sul corretto impiego dello strumento processuale della Consulenza Tecnica, in particolare al momento della formulazione del quesito al CTU. Crediamo di potere affermare, come dato di esperienza comune, che ormai presso numerosi uffici giudiziari è invalso l'uso da parte dei giudicanti di sottoporre al CTU medico legale quesiti "standard", addirittura prestampati e "spillati" ai verbali di causa, senza incontrare particolari resistenze da parte dei patroni. Tali quesiti spesso fanno riferimento anche all'accertamento del nesso di causalità tra il sinistro e la perizianda lesione ma, a nostro modo di vedere, non sempre il medico legale possiede le competenze e gli elementi per rispondere con cognizione di causa a tale aspettativa, anche perché non sempre la Consulenza Tecnica viene disposta ed esperita ad istruttoria sul fatto, completamente esaurita.

Come dovrebbe essere ben noto agli operatori, infatti, l'esperimento della consulenza tecnica non costituisce "mezzo di prova" ma lo strumento per valutare fatti già accertati in sede processuale quale risultato dell'attività istruttoria promossa dalle parti ed ammessa dal Giudice.

Ecco allora emergere l'interesse processuale della parte che intende resistere alla domanda risarcitoria (come formulata e quantificata) all'esperimento di un altro tipo di consulenza tecnica, antecedente o contestuale a quella medico legale: la cosiddetta CTU "cinematica", che è l'unica veramente idonea a fornire attendibilmente, attraverso la riconosciuta dinamica del sinistro, gli elementi per stabilire se "quella" lesione può dirsi conseguenza di "quel" sinistro. Giacché, come è stato correttamente rilevato, non è sufficiente a radicare un giudizio di causalità medico-legale

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l'aver verificato un’astratta compatibilità tra evento lesivo e postumi (A. CHINI - M. ROSSETTI, La CTU nel contenzioso civile, in Tagete n. 2/1996, 27), perché un giudizio di compatibilità è normalmente frutto di astratte valutazioni statistiche di dati di esperienza, ben diverso da un’analisi del nesso causale riferita al caso concreto ricostruito nel corretto svolgimento della vicenda processuale.

Quando il ricorso alla CTU si limita all’indagine medico-legale, il corretto espletamento di essa in controversie relative a micropermanenti (ad es. cervicali) assume particolare rilievo per l’esito del giudizio, poiché, per la parte relativa all’accertamento del rapporto di causalità tra il sinistro dedotto in lite e la pretesa lesione, la risposta che l’esperto andrà a rendere dovrà fare riferimento non già a ciò che avviene nella generalità dei casi simili, ma all’evento che si pretende assumere a fonte ed origine della lesione oggetto dell’indagine, attingendo il consulente, per costruire il proprio convincimento, solo a quei fatti che siano processualmente acquisiti e rilevanti, al fine di stabilire se il grado di probabilità appare sufficientemente elevato da permettere di considerare il nesso causale come provato.

E’ peraltro vero che, al momento della decisione, il Giudice avrà comunque modo di apprezzare il risultato della relazione resa dal consulente e, se del caso, e congruamente motivando, disattenderlo. Segnaliamo, tra i non molti casi rinvenuti, in verità, tre precedenti editi in cui il magistrato (seppure con diverse angolazioni prospettiche) ha ritenuto di non aderire alle conclusioni del CTU medico che peraltro aveva accertato la sussistenza del nesso di causalità tra evento e lesioni, e pure aveva quantificato l’entità dei rilevati postumi invalidanti permanenti.

In un caso (Trib. Bologna, 17 aprile 1996, in Resp. Civ. e Prev. 1998, 157) il Giudice, con riferimento alle risultanze processuali sulla dinamica del sinistro e sul comportamento delle parti successivamente ad esso, ha ritenuto che quanto alle lamentate lesioni fisiche, quali riscontrate dalla CTU medico-legale in atti, nella fattispecie concreta non sussista alcuna valida prova circa il nesso causale tra le medesime e l’incidente per il quale è processo, argomentando che poiché l’urto tra i due veicoli fu certamente di modestissima entità, la circostanza (ed altre considerate) contribuiva ad avvalorare il giudizio di scarsa probabilità di sussistenza del nesso causale.

In un altro caso (Trib. Roma, 5 marzo 1996, ibidem, 159), in cui il CTU aveva ritenuto esistente sia il nesso causale tra il fattore traumatico e le lesioni, sia fra le lesioni ed i postumi (3-4% di invalidità permanente), sulla base delle dichiarazioni del periziato, di un referto del Pronto Soccorso emesso due giorni dopo il sinistro e di un certificato del medico curante che prescrive esami radiografici mai eseguiti, il Giudice ha concluso che il CTU aveva posto una diagnosi di cervicopatia in assenza di riscontri medico-legali validi, cioè utilizzabili come prova ragionevole, e sulla scorta unicamente di una dichiarazione del periziato che, nella specie, è anche parte del giudizio e dunque portatore di un evidente interesse alla positività dell’esame peritale.

Il terzo caso (Trib. La Spezia, 7 giugno 1995, ibidem, 266 ss.) è più complesso. In conseguenza di un tamponamento tra una FIAT Uno (tamponante) ed un fuoristrada Suzuki (tamponato), la conducente della Suzuki lamentava lesioni personali con postumi permanenti che dal CTU medico-legale venivano accertate come verosimilmente consistenti in distorsione rachideo- cervicale con reliquati accertati nel 2% di invalidità permanente. Il Collegio, ritenendo il giudizio di verosimiglianza del CTU inevitabilmente approssimativo e neanche adeguatamente motivato, rimetteva la causa in istruttoria disponendo ulteriore CTU al fine di accertare la compatibilità delle lesioni riscontrate con l’evento per cui è causa, avendo cura in particolare di verificare l’effettiva entità delle sollecitazioni subite dal mezzo attoreo e dalla stessa attrice in conseguenza dell’urto in questione nonché le lesioni derivate e/o derivabili alla predetta in virtù di tali sollecitazioni. Alla rinnovata CTU partecipavano un medico-legale ed un perito cinematico.

Mentre quest’ultimo escludeva che dall’urto in esame potessero essere derivate lesioni permanenti, il medico concludeva invece che non vi erano elementi sufficienti per potere

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escludere che la sintomatologia obiettiva e soggettiva rilevata dal primo CTU fosse da mettere in relazione con l’evento traumatico de quo. Il Tribunale, nel rigettare le domande risarcitorie dell’attore per difetto del rapporto eziologico tra lesioni e sinistro, ha disatteso le conclusioni del secondo CTU medico-legale, ritenendole basate su considerazioni del tutto ipotetiche che, soprattutto sul piano giuridico, presuppongono un’inammissibile inversione dell’onere probatorio con riferimento alla precisa sussistenza di un nesso di causalità fra evento materiale e voce di danno di cui si chiede il risarcimento, che nel caso di specie non può che gravare su parte attrice.

Queste pronunce sono state variamente commentate (in senso molto critico) sia dal compianto Gennaro Giannini che da autorevoli esponenti della medicina legale. Questi ultimi, in particolare, rivendicano il primato dell’indagine medico-legale su quella cinematica, adducendo che la valutazione del nesso di causalità materiale può essere affrontata solo da chi ha competenze medico-giuridiche, dal momento che le correlazioni biologiche di un evento traumatico rientrano nell’ambito di non meglio precisate specifiche professionalità, e che la biomeccanica degli incidenti stradali è un settore di ricerca molto difficile perché nessuno dei modelli sperimentali disponibili è del tutto soddisfacente.

A nostro avviso, seppur comprensibili, le resistenze mostrate dagli ambienti medici sull’ingresso delle cosiddette CTU cinematiche o biomeccaniche non sono del tutto condivisibili, poiché abbiamo visto come neppure l’indagine strettamente medico-legale, sulle micropermanenti, sia idonea a condurre a risultati giuridicamente soddisfacenti laddove si faccia abuso di metodi empirici e puramente probabilistici, cattivo frutto della consolidata e tradizionale concezione (sostenuta dai medici e presa per buona da troppe Corti) che in medicina legale il nesso di causalità viene ritenuto esistente quando la sede della lesione e il tempo in cui il danno si manifesta fanno pensare che la menomazione sia frutto “adeguato” del fatto illecito.

E’ indubbio che il cammino verso l’individuazione di più moderni strumenti di indagine, anche interdisciplinari, certo utili a soddisfare l’esigenza di pervenire a risultati compatibili con le regole del diritto è e sarà faticoso, ma non per questo l’operatore ed il giurista devono rinunciare a percorrerlo, magari sulla (errata) convinzione che così facendo si provocherebbe una dilatazione dell’istruttoria che questo genere di cause non merita. Riteniamo che i costi, per chi ha subito il danno e per chi è tenuto a risarcirlo, di una cattiva giustizia siano troppo alti per giustificare anche solo la sufficienza o la passiva condiscendenza, altrimenti tanto varrebbe affermare una volta in più la validità del vecchio detto (ricordato ironicamente anche dal Giannini) per cui la croce di cavaliere ed un mezzo toscano non li si nega a nessuno, e piantarla lì.

2. Natura ed entità della lesione: ma di micropermanente si può……… guarire?

Mettiamo ora meglio a fuoco un aspetto che nel Capo che precede abbiamo volutamente passato in silenzio per farne oggetto di separata, ancorché rapida, trattazione. La domanda che ci poniamo è: ma è credibile che oggigiorno sia praticamente impossibile rinvenire, tra tutti coloro che siano rimasti coinvolti in un sinistro e che abbiano riportato lesioni, un soggetto che sia

“guarito”, cioè che non abbia riportato postumi invalidanti di natura (micro) permanente dalla lesione subita? E sotto una diversa angolazione ci domandiamo ancora se talune accertate micropermanenti (diciamo 2-3%) non siano in realtà da considerarsi alla stregua di più o meno lunghe inabilità temporanee. Ci aspettiamo la risposta: se il medico-legale ha accertato la sussistenza dei postumi non vi è motivo di porsi il problema, poiché si tratta, a quel punto, esclusivamente di risarcire il danno biologico così evidenziato.

Ma la risposta, se è questa, non ci soddisfa. Il procedimento attraverso il quale si perviene all’accertamento del danno da risarcire è segnato da due passaggi fondamentali: il primo, è relativo all’indagine sul nesso di causalità tra sinistro e lesioni; il secondo riguarda invece

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l’indagine sulle conseguenze di quelle lesioni, in termini di durata della inabilità e di eventuali residui invalidanti a carattere permanente legati pure alle lesioni eziologicamente derivate dal sinistro da un autonomo nesso di causalità/conseguenzialità. Autonomo perché deve sussistere in quanto tale, non alterato o addirittura escluso da condizioni soggettive (si pensi all’età dell’individuo, all’attività svolta, alle condizioni di vita) preesistenti che da sole potrebbero giustificare l’invalidità riscontrata e, inoltre, deve possedere un requisito fondamentale: la definitività.

Nel caso di “micropermanenti”, l’indagine del medico-legale (come si è visto in precedenza) si sostanzia in buona parte nella raccolta di dati (dolore, difficoltà motorie o flessorie) forniti direttamente dall’interessato e scarsamente oggettivabili. Allora noi riteniamo che, anche in presenza di un accertamento peritale che esponga postumi invalidanti permanenti a carico di un soggetto interessato da lesioni di lieve entità, il Giudice ha il potere (il dovere?) di valutare la congruità delle conclusioni cui il consulente è pervenuto e, se del caso, di disattenderle (motivando) o di disporre la ripetizione della consulenza.

Emblematico, sul punto, è il precedente costituito dal Tribunale di Firenze (23 giugno 1989, in Assicurazioni, 1990, 190 ss.) in un caso in cui il medico-legale accertava che l’attore, in conseguenza del sinistro all’esame dei Giudici, aveva riportato lesioni tali da determinare una condizione di inabilità assoluta e parziale, e dalle quali erano residuati postumi permanenti che riducevano la capacità lavorativa del 4%. Il Giudice fiorentino, dissociandosi dalla valutazione compiuta dal CTU in ordine alla presunta idoneità dell’accertata invalidità di incidere sulla capacità lavorativa, pur riconoscendo (ovviamente) il diritto al risarcimento della menomazione dell’integrità fisica della persona, rilevava che gli elementi acquisiti nel giudizio consentono di ritenere che nella loro complessiva modestia le limitazioni funzionali che sono residuate siano suscettibili di parziale recupero e di adattamento.

Ancora, la migliore dottrina medico-legale (W. BRONDOLO – A. FARNETI, Le micropermanenti, cit.) avverte che non sarebbe neppure corretto etichettare “permanente” una menomazione transitoria, idonea ad arrecare disturbi, talvolta saltuari, e destinata molto spesso a non lasciare traccia, e rileva criticamente come si sia purtroppo instaurata una prassi valutativa di comodo, che raramente pone in dubbio la soggettività e, quindi, riconosce poco a tutti.

Traendo spunto dall’osservazione che precede ed a conclusione di questo breve Capo (breve non per la minore importanza dell’argomento ma, anzi, per la sua idoneità ad essere trattato come Titolo a sé, con uno sviluppo che, se fatto in questa sede, altererebbe non di poco l’intento volutamente divulgativo della relazione), richiamiamo l’attenzione del lettore sulla rilevanza della terminologia impiegata, laddove si parli di invalidità (micro) permanenti. Vi è chi si è impegnato a fornire una definizione di tale abusato termine, cercando di ricondurre il dibattito nei corretti ambiti del lessico e del significato conseguente. Il Tribunale di Roma, con una criticatissima (si è pure sostenuto che se il principio fosse accolto dalla giurisprudenza finirebbe per introdurre di fatto nel diritto al risarcimento del danno una pura e semplice franchigia) sentenza (17 gennaio 1994, n. 490, in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1994, 853) ha ricordato che si ha invalidità permanente allorquando vi sia una riduzione della integrità e della efficienza psico-fisica dell’individuo definitiva ed irremissibile, che limiti oggettivamente le funzioni vitali dello stesso in modo da impedirgli di condurre l’esistenza che avrebbe altrimenti condotto; concludendo che, ove tale limitazione non venga in concreto accertata, nessuna somma può liquidarsi a titolo di risarcimento danno per tale titolo.

Ecco il punto: la lesione provocata dal sinistro deve dare origine a sua volta ad una menomazione dell’integrità psico-fisica del danneggiato definitiva ed irremissibile. Ciò significa che le cure prestate e le pratiche di riabilitazione cui l’individuo si è sottoposto dopo il trauma (lieve, per definizione, visto l’argomento che stiamo trattando) non hanno dato alcun effetto,

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ovvero non si sono rivelate idonee a procurare la completa definitiva guarigione del malcapitato. E ciò con grave disdoro della scienza medica, che ormai compie “miracoli”, recuperando situazioni disperate e riuscendo a curare quanto si riteneva incurabile, rimette in campo pedatori fragilissimi, e non riesce a salvare nessuno dal “colpo di frusta”!

Quanto dovremo ancora attendere (e quante cause dovremo ancora affrontare) per avere una relazione medico-legale che dichiari con consapevole temerarietà che l’attore ha riportato esiti invalidanti permanenti pari allo … 0%, invece degli incredibili 1-2%?

3. Micropermanenti, inabilità temporanea assoluta e danno morale: o tutto o niente.

Occupiamoci ora della fase identificativa delle voci di danno risarcibili,

allorché ci si trovi di fronte ad un’accertata sussistenza di postumi permanenti ancorché di limitatissima entità (“micropermanenti”), partendo dal presupposto che ogni menomazione dell’integrità psico-fisica, in quanto comunque definibile come “danno”, vada risarcita, ma con l’intento di definire al meglio il “vero” danno risarcibile, evitando duplicazioni o peggio.

Ai fini di una più spedita trattazione, diamo per assodato ed ampiamente accolto il principio per cui le cosiddette “micropermanenti” rilevano esclusivamente sotto il profilo del danno biologico;

così come rientra nel danno biologico l’inabilità temporanea che non abbia comportato una diminuita capacità di guadagno del danneggiato (v. Corte Cost. 14 luglio 1986, n. 184).

Nella prassi, assistiamo abitualmente alla liquidazione di tre voci di danno, diciamo non patrimoniale: il danno da inabilità temporanea (con le varianti di assoluta e relativa, o totale e parziale), il danno biologico vero e proprio per l’accertata sussistenza di postumi invalidanti a carattere permanente, il danno morale. Ci domandiamo se tale tripartizione sia corretta e se sia in ipotesi superabile.

Prima di giungere a delle conclusioni, ci pare opportuno richiamare alcuni tentativi compiuti dalla giurisprudenza di merito per giungere a nuovi criteri di ripartizione.

Il Tribunale di Como, con una sentenza non recentissima (21 giugno 1989, in Arch. Giur. Circ.

Sin. Strad., 1989, 917 ss.) nel respingere una richiesta di danno da lucro cessante per invalidità temporanea, affermava che detto periodo, invero, rileva come l’entità delle lesioni per la quantificazione del danno morale.

Successivamente, il Tribunale di Busto Arsizio (sent. 15 febbraio 1990, n. 90, in Arch. Giur.

Circ. Sin. Strad. 1990), riconosceva un ristoro a titolo di danno biologico per la durata della malattia, mentre liquidava la “micropermanente” con un importo onnicomprensivo di danno biologico e di danno morale, praticamente una liquidazione “a stralcio”.

Entrambe queste decisioni, per la verità non molto soddisfacenti sotto il profilo della motivazione, testimoniano il disagio di certa accorta giurisprudenza di fronte a situazioni difficili da incasellare nei tradizionali, quanto abusati, schemi giuridici, avvertendo la labilità di certi confini concettuali ma non riuscendo a costruirne compiutamente di nuovi: pare però di capire che entrambi i Giudici abbiano percepito quel tipo di danno volgente attorno a micropermanenti dell’1-2-3% come danno essenzialmente morale.

Di recente, il Giudice di Pace di Casamassima (sent. 27 agosto 1996 n. 32, in Arch. Giur. Circ.

Sin. Strad. 1997, 261 ss.) ha dato atto di come oggi più di ieri vi è un rapporto fra la liquidazione del danno morale e quello del danno biologico, con una valutazione che tende a determinare il primo in una frazione, sempre più elevata e distinta (da un quarto ad una metà o più) del secondo;

e, riconosciuto che nella prassi si include ancora nel danno morale il dolore fisico il Giudice ha chiesto al CTU di qualificare con oggettivazione esplicativa, secondo la casistica medico-legale, l’entità dello stesso (danno morale) non sempre ritenuto transeunte, con l’avvertenza di non sconfinare nell’area del danno biologico (il CTU poi definiva tale danno morale “intenso” per la

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persistenza di una sintomatologia dolorosa in determinate posizioni e su pressione)!

Al di là di tutte le prevedibili rimostranze che il giurista potrà muovere avverso siffatte pronunce, rimane il fatto che nell’esperienza quotidiana si avverte la sensazione che i CTU medico-legali rilevino sovente piccole/piccolissime percentuali di invalidità permanenti con l’intento di consentire il riconoscimento di un quid pluris all’infortunato per i disagi sopportati.

E’ condivisibile pertanto l’esortazione del Gussoni (Danno biologico, danno morale e piccole permanenti, nota a Tribunale di Busto Arsizio, 15 febbraio 1990 n. 90, cit.) ad avere il coraggio di dire che, in questi casi, risarcibile è essenzialmente e solo il “patema d’animo” o la “sofferenza per un torto subito” o “un disagio fastidioso” (…), il che significa riconoscere che alle piccole percentuali corrisponde solo un danno morale (per le medesime conclusioni v. G. SCALFI, Esigenze e contenuti di un giudizio equo nella liquidazione del cosiddetto danno alla salute, in Resp. Civ. Prev. 1988, 220), fino a concludere che in presenza di accertate micro invalidità permanenti, oltre al danno biologico per l’inabilità temporanea, pare in effetti liquidabile solo un danno morale o, comunque un’unica somma a stralcio comprensiva sia del danno biologico che del danno morale (per chi legge: non ci siamo dimenticati degli insegnamenti della Corte Costituzionale in argomento, ma stiamo cercando solo di proporre diverse metodologie e stimolanti ipotesi di studio, ben ricordando quante volte la Corte è tornata sui suoi passi reinterpretando i suoi stessi precedenti o adottando nuove elaborazioni rifiutate fino a poco tempo prima, il tutto su sollecitazione di attori processuali tanto attenti al volgere dei tempi e dell’esperienza, quanto consapevoli dell’inerzia del legislatore).

Ma vi è ancora un aspetto da valutare. In presenza di “micropermanenti”, che tipo di inabilità temporanea è da risarcire: l’assoluta, la parziale o entrambe? La risposta è semplice: quella che il danneggiato ha provato ad avere subito. Intendiamo dire che il rilassato e scontato riconoscimento di “inabilità assolute” ci desta numerosi dubbi.

Prendiamo l’esempio del soggetto colpito dal classico “colpo di frusta” cui è stato prescritto l’uso del “collare”. Normalmente il periodo durante il quale viene indossato lo strumento ortopedico viene considerato ai fini della determinazione dell’inabilità temporanea assoluta o totale. Ma quante persone incontriamo ogni giorno per strada, al cinema o dietro il banco del pizzicagnolo che indossano disinvoltamente un simile arnese?

Il concetto di inabilità temporanea ci pare non possa prestarsi a dubbi interpretativi o a fraintendimenti: il danneggiato deve essere in condizione di non potere attendere alle proprie normali occupazioni, altrimenti, se anche solo è in grado di uscire a passeggio, non già di inabilità assoluta si tratta ma di inabilità temporanea relativa o parziale, indipendentemente dalle prescrizioni esibite.

Ecco quindi che da questa seppur breve carrellata si ripropone più che mai viva ed evidente la necessità da una parte, di svecchiare certi comodi schemi e dall’altra, di rendere il momento della liquidazione sempre più coerente rispetto alle reali conseguenze dannose, attraverso concrete indagini probatorie, sempre e soltanto allo scopo di risarcire il danno ingiusto, non anche il danno

… che non c’è.

4. Micropermanenti e Tabelle: risarcimento in via equitativa o conformismo di comodo?

Verso una (quale?) Legge che non servirà.

Non intendiamo qui ripercorrere la lunga marcia di dottrina e giurisprudenza

verso l’individuazione del corretto criterio di liquidazione del danno biologico da micro lesioni permanenti, mentre ci interessa porre in rilievo lo stato più recente del dibattito, confrontando tra di loro varie prese di posizione.

Un principio generale pare ormai certo ed acquisito, e cioè che il danno alla salute deve essere liquidato facendo riferimento al criterio equitativo e non a quello del triplo della pensione sociale,

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come era in uso fino a poco tempo fa sulla base di una particolare interpretazione dell’art. 4 c. 3 L.

26 febbraio 1977 n. 39, che pareva dovesse riferirsi a tutti i casi diversi da quelli in cui si doveva accertare l’incidenza del fatto dannoso sul reddito del danneggiato.

Nell’enunciare il principio anzidetto, la Cassazione (v. Sez. III, sent. 2 giugno 1992, n. 6692, in Foro It. 1993, I, 1953) stabiliva altresì che la liquidazione secondo il criterio equitativo non poteva esimere il giudice dall’obbligo di dare conto in motivazione del processo logico in base al quale è pervenuto alla sua decisione.

Sulla liquidazione delle “micropermanenti” in particolare, ancora la Cassazione, con ripetute pronunce, ha ribadito che i postumi permanenti di piccola entità hanno rilevanza non già come causa di riduzione della capacità di guadagno, ma come menomazione della salute psicofisica della persona in sé e per sé considerata rientrante nel concetto di danno biologico, comportando il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa tenendo presenti gli esiti invalidanti e le limitazioni psicofisiche delle lesioni subite in relazione all’età dell’infortunato, al suo ambiente sociale ed alla sua vita di relazione (Sez. III, sent. 20 luglio 1993 n. 8066; Sez. III, 4 marzo 1995, n. 2515).

Il concetto attorno al quale ruota la discussione è proprio quello del risarcimento in via equitativa in collegamento con il prescritto requisito della congrua motivazione, entro il quale ambito si esplica tutto il potere dei giudici di merito, le cui decisioni in materia, come è noto, non sono censurabili in sede di legittimità. La Cassazione si è cimentata nell’arduo compito dell’individuazione dei contenuti di siffatto metodo, enunciando, a volte, meccanismi che non sempre hanno trovato generale applicazione (v. in particolare, Sez. III, sent. 13 aprile 1995 n.

4255, in cui si stabilisce che costituisce valido criterio di liquidazione equitativa quello che assume a parametro il cosiddetto punto di invalidità, determinato sulla base del valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari concernenti invalidità inferiori al dieci per cento, aumentabile fino al cinquanta per cento al fine di consentire al giudice di rapportare la liquidazione alle accertate peculiarità della fattispecie concreta, e che ottiene l’importo da liquidare moltiplicando il valore così raggiunto per il grado di invalidità accertato in concreto. Il metodo è stato applicato pedissequamente, di recente, dal Giudice di Pace di Roma, Sez. IV, sent. 6 giugno 1997n. 4437, in Riv. Giur. Circ. Trasp. 1997, 885). Altre volte la stessa Corte si è espressa sui criteri di liquidazione con maggior elasticità, ammettendo che il giudice del merito possa ricorrere alternativamente ad una tabella di capitalizzazione ovvero ad un criterio equitativo puro, entrambi insindacabili in sede di legittimità (Sez. III, sent. 12301 del 28 novembre 1995) .

Dal canto suo il Tribunale di Milano, ha da sempre privilegiato il criterio del cosiddetto calcolo a punto, fondato sulla misura percentuale di invalidità accertata dal CTU e sul valore pecuniario del punto, da determinarsi con riferimento alle circostanze specifiche del caso concreto quali l’età dell’infortunato, la gravità delle lesioni, i periodi di ricovero e delle cure (v. per tutte Trib. Milano, Sez. IV, sent. 9 gennaio 1995 n. 37, in Giust. a Milano, 2/95).

Della proliferazione di Tabelle e Tabelline non è il caso di riferire (per i più curiosi si rimanda al riepilogo di G. PEYRON, Il Giudice di Pace e il danno biologico da micropermanenti, in Riv. Giur. Circ.

Trasp., 1997, 530): questa seconda metà degli anni ’90 ha visto praticamente ogni Corte dotarsi di un proprio bareme, dando luogo a curiosi fenomeni di “migrazione” dei giudizi, grazie anche all’uso strumentale dell’art. 19 c. 1 cpc, verso le lande dai costumi più convenienti al danneggiato. Di fatto, i numerosi inviti della Cassazione alla congrua motivazione sui criteri di liquidazione adottati, vengono sistematicamente elusi dai Giudici di merito attraverso una meccanica applicazione delle Tabelle senza altre apprezzabili motivazioni.

Controcorrente si pone invece il Giudice di Pace di Busto Arsizio (sent. 17 gennaio 1997, Fontana c. Garrone e Mediolanum, in Il Giudice di Pace, 1997, 296) che, a fronte di postumi

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stabilizzati da “trauma distrattivo rachideo” ricondotti dal CTU al 4-5% del danno biologico, ha ritenuto che detto tipo di invalidità non possa essere quantificata a punti, stante l’incertezza dei limiti quantitativi dei postumi disfunzionali, pervenendo ad una liquidazione equitativa pura del danno biologico accertato, in L. 6.000.000, in ciò ricomprendendo anche l’inabilità temporanea.

Recentissima (e ci risulta ancora inedita) è una sentenza del Pretore di La Spezia (18 aprile 1998, Vergassola c. Celeri) che in sede di liquidazione di una invalidità permanente accertata del 5%, affronta il problema del metodo di attribuzione del risarcimento muovendo dalla considerazione che la liquidazione del danno biologico, per costante assunto della giurisprudenza, ha base essenzialmente equitativa, in mancanza di una regola legale che fissi le modalità di computo di un tale pregiudizio alla persona. Osserva quindi il Giudice che l’adesione al criterio tabellare è resa ardua dalla mancanza di una Tabella locale, così come di una Tabella nazionale uniforme, e si risolve quindi ad adottare le tabelle risultanti dallo studio del CNR accreditandole di maggiore uniformità e ripetibilità a livello nazionale rispetto a quelle elaborate dagli altri Tribunali nazionali (e quindi di maggior rispetto delle esigenze di uguaglianza), seppur precisando che ovviamente i valori così stabiliti, sulla base dell’età del leso e della percentuale di invalidità, costituiscono soltanto il parametro di riferimento per il risarcimento e sono suscettibili di aggiustamenti giudiziari, onde adeguare il ristoro alle specificità del caso di specie.

In questa stesura, pare quasi di risentire i passi di una recente, ma poco frequentata dai commentatori, sentenza della Cassazione (Sez. III, sent. 16 settembre 1996, n. 8286) secondo la quale il Giudice deve procedere alla valutazione equitativa del danno biologico che sia logica e razionale, ispirandosi ai criteri di uniformità di valutazione a parità di lesione e di adeguamento all’incidenza della menomazione sulla vita specifica del danneggiato, ma nel contempo risalta evidente la gelosa rivendicazione della fondamentale prerogativa della magistratura: la libertà di giudizio, che è libertà di interpretare ed applicare qualunque schema (norma o tabella che sia) secondo il caso concreto e la sensibilità del singolo Giudice.

L’esigenza di rinvenire criteri di liquidazione uniformi è diffusa e sono in molti ad attendere l’intervento salvifico del legislatore. Ma se costoro intendono l’avvento della Tabella per Legge come strumento per limitare l’autonomia di giudizio delle Corti commettono un grave errore di valutazione: perché qualunque magistrato considererà quella Tabella come un punto di partenza (minimo) da cui sviluppare le proprie tecniche risarcitorie. Riflette bene tale prospettiva l’inciso che si ritrova in una pronuncia del Giudice di Pace di Casamassima (sent. 27 agosto 1996 n. 32, cit.) secondo il quale nessuna legge potrà predeterminare l’ammontare pecuniario preciso delle varie menomazioni anche per le infinite ripercussioni negative spesso coinvolgenti la psiche umana, e l’incommensurabile valore uomo.

Vi è da dire che il ricorso al criterio equitativo puro con liquidazione a stralcio può non rappresentare la migliore delle soluzioni, prestandosi troppo, forse, a rendere ancora più caotico (e meno prevedibile) il panorama generale delle liquidazioni delle micropermanenti. Però ha il grande merito di tagliarsi veramente al caso concreto e di rendere possibile il superamento di metodi senz’altro validi per la liquidazione di danni importanti, ma ridondanti e socialmente troppo ed ingiustificatamente onerosi se applicati pedestremente anche alle permanenti di lievissima entità. A nostro modo di vedere una determinazione per legge di Tabelle a punti, valide anche per micropermanenti (1-2-3%) sarebbe la via giusta per alimentare ancor di più il contenzioso ed amplificare oltre misura i costi di tali peculiari danni.

Vogliamo ricordare che un’autorevole dottrina (BRONTOLO, FARNETI, MANGILI, La valutazione medico-legale del danno, Milano, 1990, 100) ha espresso l’opinione che le microinvalidità permanenti, assai sovente, non sono … né vere e proprie invalidità né tantomeno permanentie in realtà la loro valutazione è spesso riferita più alla lesività iniziale che non alle sue conseguenze, suggerendo di contrastare la perniciosa tendenza alla generosa liquidazione non con mezzi tecnici spesso

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inapplicabili (tabelle e simili) ma attraverso il ricorso a microliquidazioni, sul presupposto che una liquidazione molto contenuta può costituire il giusto ristoro di un pregiudizio dell’integrità psicofisica che, di rado, permane nel tempo (BRONDOLO-FARNETI, Le micropermanenti, cit.).

E siamo così tornati all’argomento con il quale abbiamo aperto questo nostro breve intervento:

se vi è un danno, questo va risarcito. Il problema è rinvenire il metodo per una corretta quantificazione e quindi della successiva altrettanto corretta riparazione delle microinvalidità, che non sia speculativo né al rialzo né al ribasso. E noi riteniamo che a microinvalidità debbano corrispondere microliquidazioni, che potranno avvenire attraverso Tabelle (determinate per Legge o su base giurisprudenziale) se queste conterranno consistenti abbattimenti del valore del punto per invalidità non superiori al 5%; ovvero, in mancanza, attraverso una liquidazione equitativa a stralcio che ricomprenda tutte le voci di danno.

Quest’ultima ipotesi riteniamo sia la più stimolante, poiché è la più faticosa da praticare, in quanto costringe gli operatori a concentrarsi veramente sul caso in decisione, superando le comode abitudini assunte in anni di acritiche liquidazioni tabellari; ed anche perché è quella che maggiormente andrebbe ad incidere sul dibattito circa l’effettivo contenuto del danno biologico che, ricordiamoci, è nato come elaborazione del cosiddetto “diritto vivente”; e, se vogliamo che continui a “vivere”, dobbiamo accettare che sia continuamente rivisitato, preferibilmente in modo critico e propositivo, con il coerente contributo dei tecnici (medici ed avvocati) e la colta sensibilità del magistrato chiamato a giudicare il caso.

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