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Argomento 3 La responsabilità delle persone giuridiche

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Argomento 3

La responsabilità delle persone giuridiche

La responsabilità degli enti ex D.Lgs. n. 231/2001: nozione, fondamento e regole generali

La consapevolezza che, nel settore delle attività economiche, taluni illeciti penali sono frutto di precise scelte dell’impresa piuttosto che del mero comportamento dell’imprenditore, ha determinato l’esigenza di superare il tradizionale principio societas delinquere non potest.

Detto principio, invero, non si fondava su una specifica norma che escludesse la responsabilità penale delle persone giuridiche.

Una parte della dottrina desumeva un argomento a sostegno della regola esposta dall’art. 197 c.p., che prevede una obbligazione civile di garanzia in capo alla persona giuridica nel caso in cui colui che ne abbia la rappresentanza o l’amministrazione commetta un reato nell’interesse dell’ente e versi in condizione di insolvibilità.

È stato anche sottolineato che l’art. 27 Cost. escluderebbe una respon- sabilità penale della persona giuridica perché incapace di scelte volitive distinte da quelle delle persone fisiche che ne hanno la rappresentanza ovvero perché l’ente non potrebbe rispondere per fatti altrui (cioè posti in essere dall’amministratore).

Per dare una risposta punitiva alle forme di criminalità economica espressione di specifiche politiche imprenditoriali è stato emanato il D.Lgs.

n. 231/2001 che disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.

La normativa qualifica come amministrativa detta responsabilità, an- corché già nell’art. 1 è precisato che si tratta di illeciti dipendenti da reati.

L’art. 2 del medesimo D.Lgs., inoltre, estende il principio di legalità a questo tipo di responsabilità, sicché l’ente non può essere ritenuto re- sponsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità ammini- strativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressa- mente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. L’art. 3 D.Lgs. n. 231/2001, quindi, contempla la disciplina della successione delle leggi nel tempo, ricalcando la previsione di cui all’art.

2 c.p. La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente, se-

condo la previsione dell’art. 36 D.Lgs. n. 231/2001, infine, appartiene al

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L’area operativa della normativa: la responsabilità degli enti collettivi e le imprese individuali

Un primo problema emerso nell’applicazione delle nuove disposizio- ni riguarda l’ambito soggettivo di operatività delle sanzioni che, secondo l’art. 1 D.Lgs. n. 231/2001, si applicano agli enti forniti di perso- nalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ma non allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

Il tema è affrontato da Cass. Pen, sez. VI, 3 marzo 2004, n. 18941, secondo cui l’ambito soggettivo di applicazione della normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle so- cietà e delle associazioni anche prive di personalità giuridica non può essere esteso alle imprese individuali essendo stato concepito espres- samente solo come strumento sanzionatorio degli illeciti commessi dagli enti collettivi.

«Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 — che ha come rubrica: “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle asso- ciazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settem- bre 2000, n. 300" — costituisce l’esercizio della delega contenuta in quest’ultima leg- ge, che aveva disposto la ratifica sia della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri, sia di varie convenzioni dell’Unione Europea in tema di protezione degli interessi finanziari delle Comunità Europee e di lotta alla corruzione.

In particolare, il legislatore italiano, dovendo stabilire quali dovessero essere gli enti destinatari della nuova disciplina (solo quelli con personalità giuridica o anche altri; solo quelli privati o anche quelli pubblici), ha delegato il Governo ad emanare “un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle per- sone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, ivi compresi gli enti pubblici, “eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri” (art. 11, commi 1 e 2, della legge n. 300 del 2000).

Conseguentemente l’art. 1 del decreto legislativo n. 231 del 2001 — dopo avere significativamente fissato il proprio ambito oggettivo di disciplina nella “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (comma 1) — ha stabilito i confini soggettivi di applicazione della normativa in esso prevista, prevedendo che essa riguarda “gli enti forniti di personalità giuridica” e “le società e associazioni anche prive di personalità giuridica” (comma 2) e che restano fuori dalla sua sfera di applicazione lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (comma 3).

I successivi artt. 5-8 del decreto legislativo n. 31 del 2001 dettano le regole sulla

“responsabilità dell’ente” e fissano i criteri di imputazione all’ente dei reati commessi dai soggetti “di vertice” e dai dipendenti.

Dal conciso excursus normativo contenuto nel punto che precede emerge con chia- rezza che il decreto legislativo n. 231 del 2001, superando il principio societas delin-

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quere non potest, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano un sistema di respon- sabilità di enti collettivi conseguente a reato, espressamente definita amministrativa.

Quale che sia la natura giuridica di questa responsabilità “da reato”, è certo che in tutta la normativa (convenzioni internazionali; legge di delegazione; decreto delegato) e, segnatamente nell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del 2001 essa è riferita unicamente agli “enti”, termine che evoca l’intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali, tanto che, come si è visto, i successivi commi della disposizione da ultimo menzionata ne specificano l’ambito soggettivo di applicazione».

Gli argomenti a sostegno della tesi secondo cui la responsabilità ri- guarda solo gli enti collettivi e non le imprese individuali, in primo luo- go, sono desunti dalla relazione governativa che esplicita le ragioni di politica criminale perseguite dal legislatore con l’introduzione del D.Lgs.

n. 231/2001.

«Sulla riferibilità della nuova disciplina esclusivamente agli enti collettivi è oltremo- do chiara la relazione governativa sul decreto legislativo n. 231 del 2001, nella quale si puntualizza che l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi è stata dettata da ragioni di politica criminale, che consistevano, da un lato, in esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati, e, dall’altro, nella consapevolezza di

“pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa”. In particolare, richiamando testualmente un passo della relazione della commissione G. sul progetto preliminare di riforma del codice penale, la relazione al decreto legislativo n. 231 prende in considerazione l’ente collettivo “quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comun- que nell’interesse dell’ente”».

La Corte, inoltre, aggiunge che la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato non esclude quella delle persone fisi- che che svolgono ruoli amministrativi e di direzione negli stessi enti collet- tivi. Tale responsabilità resta ferma anche qualora le persone giuridiche e le società, dopo il compimento di reati da cui possono derivare sanzioni, siano interessate da vicende modificative tali da portare anche alla loro scomparsa, come le trasformazioni, le fusioni e le scissioni.

«La responsabilità dell’ente è chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, di quella di persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune. Quanto poi alla tematica delle vicende modificative che possono interessare i soggetti di diritto metaindividuali (e cioè le operazioni di riorganizzazione dell’ente o delle sue risorse capaci di incidere in vario modo sulla sua identità, potendone derivare ora una più o meno radicale “trasfigu- razione”, ora addirittura la “scomparsa” dell’ente stesso quale autonomo centro di im- putazione di situazioni giuridiche soggettive, con correlata traslazione dell’universo dei suoi rapporti in capo ad uno o più differenti organismi), le apposite previsioni di cui agli artt. 28 e ss. del decreto legislativo n. 231 puntano proprio ad evitare che tali vicende (che, generalmente, dipendono da libere iniziative degli interessati) si traducano in stru- menti di elusione dei meccanismi sanzionatori di nuovo conio».

La disciplina prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di

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associazioni, anche prive di personalità giuridica, in conclusione, non si applica alle imprese individuali. Tale esclusione non determina una di- sparità di trattamento rispetto agli enti collettivi (persone giuridiche, so- cietà ed associazioni anche prive di responsabilità giuridica).

«Per le argomentazioni svolte deve concludersi che correttamente il Tribunale di Roma ha escluso che l’ambito soggettivo di applicazione della recente normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica potesse essere esteso alle “imprese individuali”.

Deve solo aggiungersi che le situazioni poste a raffronto dal ricorrente (“imprese indivi- duali” ed enti collettivi) presentano spiccati caratteri di diversità, sicché non è neppure ipotizzabile una disparità di trattamento con violazione dell’art. 3 Cost. In ogni caso il divieto di analogia in malam partem impedisce una lettura della normativa in esame che, come prospettato dal Procuratore della Repubblica di Roma, ne estenda le previsio- ni anche alle “ditte individuali”: si tratterebbe, infatti, di una interpretazione evidente- mente contraria all’art. 25, secondo comma, della Costituzione».

La natura della responsabilità degli enti ed i presupposti per l’applicazio- ne delle sanzioni interdittive

Il tema della natura della responsabilità della persona giuridica e quello dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni interdittive sono analiz- zati da Cass. Sez. II 20-12-2005, n. 3615.

La Corte, dopo aver puntualizzato il rilievo del principio di legalità in questa materia, affronta il tema della natura giuridica della responsabilità degli enti per gli illeciti dipendenti da reato. Nonostante la qualificazione letterale di «responsabilità amministrativa» adoperata dal legislatore, la disciplina manifesta i chiari influssi della normativa penale. Viene deline- ato, pertanto, una sorta di tertium genus rispetto alla responsabilità am- ministrativa ed a quella penale, che postula, sotto il profilo oggettivo, il presupposto che il reato sia commesso nell’interesse dell’ente o a suo vantaggio da persone che agiscono al suo interno. L’ente, inve- ce, non risponde delle azioni di persone che rivestono funzioni di rap- presentanza, di amministrazione o di direzione, se hanno agito nell’inte- resse esclusivo proprio o di terzi.

« … vige, in subiecta materia, il principio di legalità, del resto espressamente ribadito dal D.Lgs. 8 Giugno 2001, n. 231, art. 2: previsione probabilmente superflua, perché ripetitiva di enunciazioni di ordine generale già contenute all’art. 2 cod. pen., all’art. 11 disp. gen., alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 (sulla depenalizzazione).

È noto che il D.Lgs. n. 231 del 2001, sanzionando la persona giuridica in via autono- ma e diretta con le forme del processo penale si differenzia dalle preesistenti sanzioni irrogabili agli enti, così da sancire la morte del dogma societas delinquere non potest. E ciò perché, ad onta del nomen iuris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrati- va, dissimula la sua natura sostanzialmente penale; forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango costituzionale (art.

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27 Cost.); interpretabili in accezione riduttiva, come divieto di responsabilità per fatto altrui, o in una più variegata, come divieto di responsabilità per fatto incolpevole. …

Nella ratio ispiratrice della profonda innovazione introdotta dalla L. n. 231 del 2001, l’ente collettivo, al di là di grossolane concezioni antropomorfiche, è considerato il vero istigatore, esecutore o beneficiario della condotta criminosa materialmente commessa dalla persona fisica in esso inserita.

Seppure si debba considerare la responsabilità creata dalla norma come un tertium genus nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e con- cetti propri della sfera penale, la sanzione a carico della persona giuridica postula innan- zitutto il presupposto oggettivo che il reato sia commesso nell’interesse dell’ente da persone che agiscono al suo interno (articolo 5 citato): con esclusione, quindi, dei fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo, per un fine personalissimo o di terzi.

In sostanza, con condotte estranee alla politica di impresa.

Un ulteriore requisito soggettivo della responsabilità in esame, consistente in una sorta di culpa in vigilando, si desume dagli artt. 6 e ss. D.Lgs. n. 231/2001: l’ente è responsabile se non è stato pre- disposto un modello organizzativo, di gestione e di controllo idoneo a prevenire i reati della specie di quelli verificatisi. Nel caso in cui esiste una organizzazione interna tesa ad impedire illeciti, infatti, le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di ammi- nistrazione o di direzione dell’ente possono commettere un reato solo eludendo fraudolentemente i sistemi di controllo. È tuttavia necessa- rio che l’ente verifichi periodicamente i modelli organizzativi ed even- tualmente li modifichi quando siano scoperte significative violazioni delle prescrizioni. Deve essere altresì impiantato un valido sistema disciplinare.

«A ciò il legislatore ha inteso affiancare, in sede di normazione delegata, un ulteriore requisito di natura soggettiva, in qualche modo assimilabile ad una sorta di “culpa in vigilando” consistente nella inesistenza di un modello di organizzazione, gestione o controllo idonei a prevenire i reati — con assonanza ai modelli statunitensi dei “com- pliance programmes” — di cui la Legge-Delega n. 300 del 2000, articolo 11, lettera e), non faceva chiara menzione. Con la differenza, non di lieve momento anche sotto il profilo sistematico, che tali modelli riguardano anche i reati commessi dal personale dirigente: ciò che costituisce un “unicum” nel panorama giuridico comparato, impronta- to, piuttosto, alla teoria della identificazione pura.

Non è stato quindi riprodotto dalla L. n. 231 del 2001, il principio dell’automatica derivazione della responsabilità dell’ente dal fatto illecito del suo amministratore (a differenza, ad es., che in Francia, ove vige la responsabilità riflessa, “par ricchet”), in deroga al principio di identificazione, pur connaturale alla rappresentanza organica, valido, in tesi generale,per ogni rapporto, negoziale e processuale. …».

La decisione in esame, dunque, evidenzia che, nell’impianto della

nuova legge, la responsabilità amministrativa della persona giuri-

dica presuppone che il reato da cui discende sia stato commesso

nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

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« … resta quindi da esaminare, sotto il profilo della logicità della motivazione, la sussistenza del requisito oggettivo dell’interesse o del vantaggio dell’ente, condizione di applicabilità della sanzione.

Al riguardo si osserva,in sede esegetica, secondo la Relazione alla legge, che l’inte- resse, quanto meno concorrente, della società va valutato “ex ante”; mentre il vantaggio richiede una verifica “ex post”. Non sembra quindi da condividere la definizione di endiadi attribuita da parte della dottrina alla locuzione: che diluirebbe, così, in più parole un concetto unitario. A prescindere dalla sottigliezza grammaticale che tale figu- ra retorica richiederebbe la congiunzione copulativa “e” tra le parole interesse e vantag- gio, e non la congiunzione disgiuntiva “o” presente invece nella norma, non può sfuggire che i due vocaboli esprimono concetti giuridicamente diversi: potendosi distinguere un interesse “a monte” della società ad una locupletazione — prefigurata, pur se di fatto, eventualmente, non più realizzata — in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantag- gio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisa- to “ex ante” dall’agente. Concorso reale, quindi, di presupposti, che pone un delicato problema di coordinamento, laddove disposizioni particolari della legge non ripetano entrambi i requisiti, ma facciano riferimento al solo interesse (articolo 5, secondo com- ma, in senso esimente per le azioni criminose commesse nell’interesse esclusivo del rappresentante o dipendente della società o di terzi; inserito con il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, articolo 25 ter, comma 1, per la responsabilità amministrativa da reati societari previsti dal codice civile, se commessi nell’interesse nella società)».

La sentenza, inoltre, precisa che l’applicazione delle sanzioni in- terdittive, secondo l’art. 13 D.Lgs. n. 231 del 2001, ha un presuppo- sto necessario nel conseguimento di un profitto di rilevante enti- tà, che, in caso di truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi, si realizza già con l’accreditamento delle somme erogate.

«… Nella fattispecie concreta in esame trova però applicazione la disposizione spe- cifica di cui al decreto citato, articolo 13, (“Sanzioni interdittive”) in cui il requisito generale del vantaggio viene sicuramente ribadito e ulteriormente qualificato come “pro- fitto di rilevante entità”; ricollegandosi quindi ad una nozione generale consolidata di evento penalmente rilevante. …. il momento realizzativo del profitto coinciderebbe pur sempre con l’accreditamento alla società delle somme dal Ministero dell’Industria, pro- duttivo dell’oggettivo e contabilmente verificabile introito nelle casse sociali del contri- buto pubblico.

Ciò che avviene dopo resta perciò condotta “post factum” — suscettibile eventual- mente di integrare un’eventuale appropriazione indebita da parte dell’amministratore (o anche dei soci) — senza elidere il dato storico del profitto già conseguito dall’ente. E ciò, a prescindere dalla “vexata quaestio” se il filtro della personalità giuridica di una società di capitali valga a esimere da responsabilità per atti eventualmente commessi nell’interesse personale della totalità o della maggioranza dei soci (c.d. abuso della personalità giuridica e conseguente “piercing the veil”). Se dunque il contributo pubbli- co sia entrato materialmente nel patrimonio sociale, confondendosi con le altre risorse pecuniarie, si è verificato il vantaggio oggettivo della società, che storicamente ha visto, per un lasso più o meno lungo di tempo, incrementata la sua ricchezza.

La giurisprudenza di merito avverte che l’accertamento che il reato

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o a vantaggio dell’ente deve essere compiuto in modo rigoroso perché solo in questo modo possono essere sanzionate condotte che sono espres- sione di pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa, nella prospettiva del perseguimento di una politica imprenditoriale.

In questi termini si segnala, Tribunale Milano, 20 dicembre 2004, in Dir. e prat. soc. 2005, f. 6, 69.

«Perché possa configurarsi la responsabilità dell’ente discendente da reato e ne- cessario, come si desume da una lettura sistematica degli art. 5 e 12 del d.lg. 8 giugno 2001 n. 231, che il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, trattandosi di criteri ascrittivi di responsabilità di carattere alter- nativo.

Nei gruppi di società è da escludere, per gli inevitabili riflessi che le condizioni della società controllata riverberano sulla società controllante, sia che i vantaggi conseguiti dalla controllata, in conseguenza dell’attività della controllante, possano considerarsi conseguiti da un terzo, sia che l’attività di quest’ultima possa dirsi compiuta nell’esclu- sivo interesse di un terzo».

La responsabilità degli enti in caso di gruppo societario

La decisione appena riportata affronta il tema delle condotte realiz- zate nell’ambito di gruppi societari. La questione fondamentale è se l’illecito amministrativo da reato commesso da una società controllata possa, e a quali condizioni, involgere la responsabilità della controllante.

L’argomento è stato trattato da Tribunale di Milano, 20-9-2004, in Foro It. 2005, II, 528, secondo cui, nell’ambito di un gruppo di società, l’atti- vità corruttiva posta in essere dall’amministratore della controlla- ta al fine di ottenere l’aggiudicazione o il rinnovo di un appalto di servizi in favore di una controllante, implica la responsabilità am- ministrativa della controllante, in quanto preordinata al soddisfa- cimento dell’interesse di gruppo.

«… Quando l’impresa raggiunge consistenti dimensioni aziendali essa può assumere la configurazione di una pluralità di società operanti sotto la direzione unificante di una società capogruppo o holding.

A ciascuna delle società che compongono il gruppo può corrispondere un distinto settore di attività, una distinta fase del processo produttivo, una diversa zona territoriale di operatività: ma le azioni di ciascuna di queste società appartengono, in tutto o in maggioranza, ad una ulteriore società, detta appunto società holding, alla quale spetta la direzione ed il coordinamento dell’intero gruppo ed all’interno della quale i vari settori sono ricondotti ad economica unità.

La scomposizione dell’impresa in una pluralità di società può portare a separare fra loro, facendone oggetto di separate società, le due fondamentali funzioni imprenditoria- li: l’attività di direzione da un lato e l’attività di produzione o scambio dall’altro. Si dà così luogo ad una società capogruppo — che si definisce in questo caso holding “pura”

— che non svolge alcuna attività di produzione o di scambio ma che si limita ad ammi-

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nistrare le proprie partecipazioni azionarie cioè a dirigere le società del proprio gruppo (società operanti).

In altri casi invece la holding, in forza della propria partecipazione di controllo in altre società, esercita sulle controllate “operative” una attività di direzione e coordinamento, ponendosi così a capo di un gruppo di società. In questo caso la funzione della holding è essa stessa funzione imprenditoriale corrispondente alla funzione di direzione strategica e finanziaria che è presente in ogni impresa. Nelle imprese isolate questa funzione si assom- ma alle funzioni operative. Nei gruppi invece essa si separa dalle funzioni operative dando luogo al fenomeno per il quale l’impresa si scompone in una pluralità di fasi separate, esercitate ciascuna da un soggetto diverso; sicché la holding esercita, in modo mediato, la medesima attività di impresa che le controllate esercitano in modo immediato e diretto.

L’oggetto della holding, in questo caso, non è dunque la gestione di partecipazioni aziona- rie come tali, ma l’esercizio indiretto di attività d’impresa».

La motivazione prosegue richiamando la nozione di «interesse del grup- po»: la società controllante che agisce in ausilio di altra società del grup- po non soddisfa un interesse altrui, bensì ne realizza uno proprio. Que- sto concetto — su cui è ancorato il giudizio di responsabilità della socie- tà controllante per l’illecito compiuto dalla controllata — è di creazione giurisprudenziale: si ritiene, ad esempio, in giurisprudenza che non sia atto di liberalità, come tale revocabile ai sensi dell’art. 64 l. fall., la cessio- ne gratuita di crediti verso terzi da una società all’altra del medesimo gruppo, trattandosi di atto che ubbidisce ad una logica di gruppo, espres- sione di politica imprenditoriale volta al perseguimento di obiettivi che trascendono quelli delle singole società partecipanti. Di recente, la no- zione di interesse del gruppo societario è stata recepita anche dal legisla- tore, che ha riformato gli art. 2497ter e 2947 c.c.

«Sulla base di queste premesse questo Giudice ritiene di dovere affermare che le società controllanti (IH) e (C) hanno esercitato, attraverso le controllate, una propria attività d’impresa ed hanno soddisfatto, sempre attraverso le controllate, un proprio interesse».

Nel panorama delle condotte che possono determinare la responsabi- lità della persona giuridica, infine, si segnala Tribunale Milano, 27-4- 2004, in Foro it. 2004, II, 434. Questa decisione dimostra ulteriormente che i comportamenti puniti consistono sovente nella corruzione di un pubblico ufficiale perpetrata allo scopo di favorire la persona giuridica.

«L’accordo corruttivo diretto al condizionamento dell’attività di un pubblico ufficiale agli interessi di un gruppo economico determinato integra il reato di corruzione propria, senza la necessità di individuare uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, e legit- tima, ai sensi dell’art. 25, comma 5, d.lg. 8 giugno 2001 n. 231, l’adozione di misure interdittive nei confronti dell’ente nell’interesse del quale il corruttore abbia operato».

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