INTRODUZIONE ALLA FISICA MODERNA a.a. 2007-08
Lezione 4
Simmetrie in Meccanica quantistica
La rivoluzione quantistica
Prima di passare all’argomento delle simmetrie in meccanica quantistica, è opportuno passare in rassegna quegli eventi, risultati scientifici e formalizzazioni teoriche che hanno portato ad una delle più grandi, e controverse realizzazioni del pensiero umano: la meccanica quantistica. Il totale cambiamento del cosidetto paradigma, ossia il sistema di pensiero che definisce e delimita ciò che chiamiamo realtà, ci permette di parlare di una vera e propria rivoluzione, i cui effetti hanno travalicato di gran lunga i confini disciplinari della fisica, per arrivare alla filosofia (e la sua distruzione) e financo alla religione, ossia alla parte più riposta dello spirito umano.
Quando osserviamo la Natura, diamo per scontati due principi fondamentali:
1. Che gli eventi accadano dentro ad uno spazio che in qualche modo li contiene, e ad un istante dato in un tempo che fluisce uniformemente e indipendentemente.
2. Che il nostro osservare non disturbi gli eventi, o meglio che la perturbazione
dell’osservazione o della misura possa, almeno in linea di principio, essere ridotta fino ad essere trascurabile, separando così in modo fondamentale l’osservatore dall’osservato.
Ebbene alla fine dell’ottocento ambedue le ipotesi si sono rivelate sbagliate. La prima è stata invalidata dalla teoria della Relatività (Einstein, 1905 e 1916). Della Relatività non parleremo più, se non per ricordare, alla fine di questa lezione, che all’inizio dell’Universo probabilmente Relatività e Meccanica quantistica non erano distinguibili, ma aspetti diversi di un’unica, grande
“teoria del tutto” (Hawking, 1990). La Relatività ha di fatto abolito lo spazio e il tempo come entità indipendenti dalla materia-energia, che invece li creano e ne determinano le proprietà.
La seconda ipotesi è stata invalidata dalla rivoluzione quantistica. Mi chiederete come mai di tutto ciò ce ne siamo accorti sono alla fine del XIX secolo, e perché per secoli la fisica classica, cioè non quantistica e non relativistica, aveva funzionato così bene. Il punto non è il suo
funzionamento, ma la sua assolutezza come teoria. Ossia, le rivoluzioni relativistica e
quantistica manifestano i loro effetti concreti solo per oggetti che viaggiano a velocità vicine a quella della luce, o masse enormi come quelle delle Galassie per quanto riguarda la relatività, oppure per i fenomeni che avvengono sulla scala microscopica degli atomi, molecole e ancor più piccola delle particelle elementari. Anzi in ambedue i casi le nuove teorie prevedono la fisica classica come caso limite, nell’ambito del quale quest’ultima è perfettamente valida.
Però questo non cambia il fatto che fondamentalmente le certezze della nostra visione del mondo furono spazzate via da queste rivoluzioni.
Difficilmente nella storia del pensiero umano si possono trovare eventi che abbiano più radicalmente cambiato la visione del mondo, il rapporto uomo-natura, la nostra collocazione nella storia.
L’osservatore interagisce sempre con l’osservato, e questa interazione può essere trascurata solo quando si osservino fenomeni macroscopici, come quelli della nostra vita quotidiana, che dunque ci appaiono oggettivi, indipendenti da noi che li osserviamo. Questo non è più vero quando vogliamo osservare, dunque misurare, il mondo dei fenomeni microscopici. In questo caso, l’interazione non può essere trascurata nemmeno in linea di principio: osservatore e
osservato non sono più, nemmeno concettualmente, indipendenti: la loro interazione modifica in modo imprevedibile l’evento che dunque potrà avvenire, se ripetuto, con risultati diversi. Questo porta alla fine del determinismo della fisica classica, e all’introduzione di concetti statistici anche nei casi che in fisica classica erano in linea di principio perfettamente determinati. Questi fatti sono il fondamento della rivoluzione quantistica, che ha permesso di capire l’esistenza e proprietà degli atomi, delle molecole, dei loro aggregati sempre più complessi fino a formare i materiali che conosciamo e la stessa materia vivente, da una parte, e dall’altra, le particelle elementari che sono i mattoni fondamentali di cui è costituito tutto l’Universo.
Perché gli scienziati hanno dovuto abbandonare le certezze della fisica classica per imbarcarsi in un nuovo, avventuroso viaggio? E’ stata la Natura stessa che, osservata con sempre maggiore attenzione e dettaglio, a un certo punto ha mostrato eventi e fenomeni che non potevano essere capiti nell’ambito delle teorie conosciute alla fine del secolo XIX. Vediamone alcuni:
1. Le righe di assorbimento e fluorescenza dei gas atomici. La spettroscopia ha rivelato che gli atomi assorbivano la luce solo a particolari e ben definite energie, e non a tutte le energie con avrebbe voluto la fisica classica. Un primo modello quantistico per capire le proprietà ottiche degli atomi fu formulato da Bohr (1910) (il “modello planetario”); funzionava, ma ancora non si capiva perché.
2. L’esistenza stessa degli atomi. Thompson (1892) dimostrò che gli atomi non erano le palline di Democrito, ma avevano una struttura interna: contenevano cioè delle particelle cariche negativamente, gli elettroni, e dato che gli atomi sono elettricamente neutri, dovevano contenere particelle con carica positiva uguale a quella complessiva degli elettroni.
Rutherford (1910) dimostrò poi che la carica positiva era tutta concentrata in un nucleo, di dimensioni circa 10000 volte più piccole di quella dell’atomo che risultò essere attorno ad 0.1 nm (1 nanometro = 10-9 metri). Thompson misurò anche il rapporto e/m fra carica e massa dell’elettrone, e Millikan (1913) determinò la carica dell’elettrone(1.6 10-19
Coulomb). Ebbene, tutto ciò non è possibile nell’ambito della fisica classica. Fu necessario
l’avvento della teoria quantistica vera e propria (Schroedinger, Heisenberg, Dirac (1920-1930)) per dare una sistemazione definiva al problema degli atomi.
3. Sempre connesso con le proprietà ottiche degli atomi è l’effetto fotoelettrico, le cui proprietà sono incomprensibili nell’ambito della fisica classica. In particolare classicamente la
quantità e l’energia degli elettroni emessi dal materiale sotto l’azione della radiazione elettromagnetica dovevano dipendere dall’intensità della radiazione e non dalla sua
frequenza, mentre l’osservazione indicava che se la radiazione non aveva una frequenza che superava una certa soglia non venivano fuori i fotoelettroni, indipendentemente dall’intensità.
Dell’effetto fotoelettrico dette spiegazione Einstein (1905) basandosi sull’ipotesi di quantizzazione del campo elettromagnetico di Planck.
4. Planck appunto (1900) per spiegare un altro fenomeno inspiegabile in fisica classica, lo spettro della radiazione di corpo nero, fu costretto ad ipotizzare che la radiazione potesse essere scambiata solo un quantità discrete, dette quanti. In questo modo riuscì a spiegare perché l’intensità spettrale non divergeva all’infinito con l’aumentare della frequenza, come prevedeva la fisica classica, e a calcolare la formula (di Planck) che con grande precisione riproduce le caratteristiche spettrali del corpo nero, tanto da essere usata anche come standard metrologico.
5. La quantizzazione dell’energia permise di spiegare anche un’altra anomalia (rispetto alla fisica classica): quella dell’andamento del calore specifico dei solidi con la temperatura. Per la fisica classica, doveva essere costante e proporzionale a R, la costante molare dei gas. I fatti invece indicavano che questo comportamento (Legge di Dulong e Petit) era il caso
limite delle alte temperature, mentre se la temperatura veniva abbassata verso lo zero assoluto (-273 °K), il calore specifico andava anch’esso a zero, approssimando un
comportamento di proporzionalità a T3. Questo comportamento fu modellizzato nell’ambito dell’ipotesi quantistica (questa volta applicata all’energia vibrazionale degli atomi che costituiscono il materiale) da Einstein (1907) e Debye (1908).
Fermiamo qui questa carrellata sugli esperimenti più importanti che hanno portato alla rivoluzione quantistica. La descrizione più precisa ed estesa degli effetti e della loro
interpretazione può essere trovata nelle lezioni che riguardano la parte sperimentale del nostro corso.
I fondamenti della meccanica quantistica
Il principio di indeterminazione ( o di Heisenberg)
La base fisica della rivoluzione quantistica è il Principio di Indeterminazione, formulato da Heinberg nel 1924. Il principio si basa da una parte sul fatto fisico fondamentale che osservatore e osservato non sono separabili nemmeno in linea di principio, e dall'altra su alcune
caratteristiche formali delle variabili fisiche della meccanica classica, che valevano anche per le loro corrispondenti quantistiche. Il Principio asserisce che, per specifiche coppie di variabili (osservabili) fisiche A e B, che in meccanica classica sono definite come “coniugate”, deve sempre valere la seguente diseguaglianza:
ΔA · ΔB ≥ ħ
dove ħ = h/2π, h essendo la costante di Planck = 6.63·10-34 Joule secondo. I Δ nella formula stanno ad indicare la precisione con cui viene misurata (osservata) la grandezza A o B. Si vede chiaramente che all'aumentare della precisione per una grandezza, diminuisce in parallelo la precisione per l'altra. O l'una o l'altra in linea di principio possono essere misurate con infinita precisione, ma al costo di perdere qualsiasi possibilità di conoscere l'altra. Questa parte del principio traduce matematicamente il problema interazione osservabile-osservatore. L'altro aspetto del principio è il valore di h, che è così piccolo da rendere trascurabili gli effetti quantistici quando si passa dal mondo microscopico a quello macroscopico. Alcuni esempi di variabili coniugate sono: Energia E e tempo t; quantità di moto p e posizione x; momento angolare J e angolo di rotazione φ.
Le conseguenze pratiche del principio sono grandi e immediate: per esempio, il mostro sacro della Fisica, il Principio di Conservazione dell'Energia, non ha più valore assoluto. In fatti, per poter asserire che l'energia si conserva, devo poterla misurare con infinita precisione ad un ben determinato istante nel tempo; e questo per il Principio di Indeterminazione è impossibile. E' bene ricordare il significato del Δ che appare nel principio. Il valore della variabile osservata A fluttua in modo casuale con un'ampiezza caratteristica che è appunto ΔA; essendo la
fluttuazione casuale, i valori positivi rispetto al valor medio sono altrettanto probabili dei valori negativi, per cui il valor medio è costante nel tempo. Ma questo valore non è quello che viene osservato, e tanto più piccolo è il tempo a disposizione per fare la misura, tanto più grandi sono le fluttuazioni, e dunque la probabilità di trovare un valore di E molto lontano, in più o in meno, dal valor medio.
Stesso discorso per le altre coppie di variabili coniugate; per esempio, dato che p=mv, se misuro con infinita precisione la velocità di una particella, la sua posizione sarà completamente
indeterminata, ossia la potrò trovare con uguale probabilità ovunque. Come vedremo, questo ha importantissime conseguenze su come la meccanica quantistica ha permesso di capire le
proprietà degli atomi, molecole etc.
Come si traduce il Principio di Azione nella meccanica quantistica? Fu Feynman, nell'immediato dopoguerra, a darne l'enunciato. Consideriamo allora tutte le possibili traiettorie per andare da X1 a X2. Classicamente, il principio ci dice che la particella ne seguirà una, che è quella che minimizza l'azione. La traduzione quantistica di Feynman si basa sul fatto
fondamentale (principio di indeterminazione), per cui non è possibile conoscere la specifica traiettoria di una particella. Feynman postulò che la particella le può seguire tutte, ma con probabilità diverse, connesse con le ampiezze:
Ω( x(t)) = exp[ i A((x(t)) /ħ] ,
dove A è l'azione. Per calcolare come il sistema evolverà, si somma (integra) questa ampiezza su tutte le traiettorie. La probabilità di arrivare al punto finale è il modulo quadro dell'ampiezza totale.
E' importante notare che la particella non segue solo una traiettoria, e.g. quella più probabile;
invece, le “segue”tutte, ossia, prima di fare la misura per vedere dov'è, la particella è delocalizzata, proprio come un'onda; ma c'è di più: se io bloccassi in qualche modo qualche possibile traiettoria virtuale, cambierò il risultato che troverò, anche se la particella in quella traiettoria non ci sarebbe mai passata. Quando poi faccio la misura della posizione, allora tutte le traiettorie alternative spariscono. Vedremo fra poco un esempio chiarissimo di questo fatto.
Per ora concludiamo rimarcando che, attraverso la formulazione di Feynman della meccanica
quantistica, arriviamo al principio di azione, che a sua volta ci porta al teorema di Noether, e dunque alle leggi di conservazione che abbiamo già discusso per la fisica classica.
I dualismi della fisica quantistica: onda-particella, particella-onda
E' ben noto che l'energia elettromagnetica si propaga attraverso onde, nel vuoto, delocalizzate nello spazio e nel tempo. L'ipotesi di Planck per spiegare lo spettro della radiazione di corpo nero, l'ipotesi di Einstein per piegare l'effetto fotoelettrico e l'andamento del calore specifico dei solidi, dimostrano inequivocabilmente che la radiazione in certi casi ha tutte le caratteristiche di una particella, cioè un'entità che trasporta energia e quantità di moto localizzate nello spazio e nel tempo.
Viceversa, DeBroglie (1922) suppose che la situazione doveva essere simmetrica, ossia se un'onda poteva avere simultaneamente anche le caratteristiche di una particella, allora anche una particella doveva avere le caratteristiche di un'onda, e assegnò alla particella di quantità di moto p una lunghezza d'onda:
λ=h/p
Un elettrone con un'energia di 1 eV (1.6 10-19 Joule) avrebbe una lunghezza d'onda di de Broglie di circa 1 nm (10 Angstrom). De Broglie in qualche modo credeva all'esistenza di una vera e propria
“onda” che accompagnava la particella nel suo moto. Fu Heinsenberg che chiarì il significato profondo dell'ipotesi di de Broglie: col suo principio di indeterminazione, la delocalizzazione spaziale della particella era naturale: la particella è simultaneamente onda e particella, e manifesta l'uno o l'altro aspetto a seconda delle osservazioni che si fanno. La natura anche ondulatoria delle particelle fu poi dimostrata sperimentalmente da Davidson e Germeer (1928), che evidenziarono l'effetto della diffrazione su un fascetto di elettroni. Da questo esperimento nacque fra l'altro un'importante tecnologia, quella del microscopio elettronico.
Vediamo ora alcuni esperimenti “virtuali” che dimostrano le asserzioni che abbiamo fatto, e quanto sia diverso il mondo quantistico rispetto a quello cui i nostri sensi ci hanno abituato.
L'esperimento delle due fenditure (Young)
Nell'esperimento di Young fu dimostratata la natura ondulatoria della luce, evidenziando le frange di interferenza fra i raggi che traversano l'una o l'altra fenditura. Questo esperimento è diventato un importante strumento per la dimostrazione della dualità onda-particella in fisica quantistica.
Ma la natura squisitamente quantisitca degli effetti la si dimostra se ora, nell'esperimento di Young, immaginiamo di ridurre l'intensità dei fotoni o elettroni a tal punto che al massimo una particella passa attraverso le fenditure per ogni intervallo temporale di misura.
Si vede chiaramente come la proprietà dell'interferenza non sia dovuta alla statistica delle molte particelle che interferiscono. La singola particella interferisce con se stessa! O meglio, prima di arrivare alle fenditure, la particella è delocalizzata, ed è in uno stato che è la sovrapposizione di due stati, che la farebbero passare o dall'una o dall'altra fenditura rispettivamente. E' questo il punto più fondamentale, e controverso, della fisica quantistica.
Continuando con nostro esperimento ideale, immaginiamo ora di chiudere una delle fenditure :
Chiudiamo ora l'altra fenditura:
Cosa vedremo?
Esattamente la stessa cosa di quando avevamo chiuso la fenditura S1, ma ovviamente con la posizione dell'intensità invertita: non c'è interferenza.
Immaginiamo ora di riaprire ambedue le fenditure. Ecco che l'interferenza riappare!
Dunque chiudendo una fenditura, io influenzo il risultato sull'altra: come fanno le particelle che passano dall'altra a sapere che ho chiuso la prima?? La risposta, come vedremo, è che prima di passare attraverso le fenditure, la singola particella è simultaneamente in uno stato (quantico) in cui ambedue i “futuri” sono possibili: è in una sovrapposizione di due stati, uno per il quale passerebbe dalla fenditura S1, l'altro per la S2. Tutto ciò è describibile solo se la funzione che descrive lo stato della particella ha le carrateristiche di delocalizzazione di un'onda.
La funzione d'onda
La formalizzazione matematica dei risultati sperimentali descritti, della dualità particella-onda e, se si vuole, del Principio di Indeterminazione che è alla base di tutto ciò, si ottiene
introducendo la funzione d'onda, una funzione cioè che ci dà la descrizione completa (nel senso che è la massima possibile) del sistema fisico sotto osservazione. Nella fisica classica, tale descrizione si aveva conoscendo, ad ogni istante t, la posizione x e la quantità di moto p della particella, o delle particelle, che costituivano il sistema. Abbiamo visto che questo è impossibile in fisica quantistica. Abbiamo anche visto che ora dobbiamo introdurre un elemento di caos, ossia di non predicibilità, nella nostra descrizione del sistema. Abbiamo visto in particolare che una particella sarà tanto più delocalizzata quanto più la sua quantità di moto è definita. Ma cosa vuol dire “delocalizzata”? Ovviamente non che le sue dimensioni fisiche aumentano a
dismisura. Vuol dire invece, come abbiamo visto nell'esperimento di Young, che se noi
cerchiamo di misurarne la posizione, una volta la troviamo in un punto, una volta in un altro, e la distribuzione di queste posizioni sarà tanto più larga quanto più definita è la quantità di moto.
Da questo discende in modo abbastanza (cioè col sapere di poi) naturale introdurre una funzione che ci dà la probabilità di trovare la particella in un dato punto, se questa è un un dato stato
quantico: nell'esempio che abbiamo fatto per esempio, se ha una data quantità di moto.
Questa funzione si chiama funzione d'onda, e sarà funzione di x e di t, proprio come in fisica classica lo sarebbe stata la traiettoria della particella:
ψ = ψ(x,t)
Come vedremo più avanti, la ψ è una funzione complessa (nel senso dei numeri complessi), e dunque non può descrivere una quantità osservabile e misurabile; inoltre non ha alcune proprietà matematiche che si richiedono per descrivere una probabilità. La più semplice funzione,
connessa con ψ, che abbia le giuste proprietà è il suo modulo quadro
|ψ(x, t)|2 = probabilità di trovare la particella nel punto x al tempo t.
Come vedete, l'interpretazione fisica della funzione d'onda è, appunto, un'interpretazione; ossia non è desumibile da principi primi. E' stata proposta dalla cosidetta Scuola di Copenhagen (Bohr, 1928); questa “arbitrarietà” nei fondamenti della meccanica quantistica è stata sempre un problema, che ha portato molti, malgrado i tantissimi successi della teoria, a ritenerla come una teoria incompleta; ancora oggi molti fisici dibattono su questo, e sono alla ricerca di una teoria più generale. Un'altro problema, che la meccanica quantistica condivide, sebbene da punti diversi, con la Relatività, è che la MQ non rende conto della gravitazione. Dunque la teoria generale che si cerca sarebbe una vera e propria teoria del tutto, la teoria unificata che descrive il tutto, dall’origine e struttura dell'Universo su larga scala, alla materia vivente (inclusi noi), alle più piccole particelle elementari.
Consideriamo ora una particella libera di massa m: questa avrà una velocità v perfettamente definita e costante nel tempo. Il suo stato quantico sarà allora descritto dal valore della quantità di moto p, e sarà stazionario, nel senso che non dipende dal tempo. Quale sarà la sua funzione d'onda? In linea di principio per rispondere a questa domanda dovremo procedere nello stesso modo della fisica classica, dove, per trovare la traiettoria, dobbiamo risolvere le equazioni di moto (F=ma....); in MQ la funzione d'onda la troveremo come soluzione di un'equazione, analoga concettualmente alle equazioni di moto, che viene detta equazione d'onda o equazione di Scroedinger (Schroedinger, 1923). Anche nel caso dell'equazione di Scroedinger si è
proceduto per analogie e interpretazioni dei dati sperimentali; anche in questo caso il successo è stato ed è tuttora impressionante. Vedremo dopo come si può giustificare l'equazione di
Scroedinger e la forma matematica che ha assunto. Qui vorremmo, nel più semplice dei casi, arrivare alla forma della funzione d'onda senza passare per la soluzione dell'equazione d'onda.
Allora, ricordiamo che se la particella ha una quantità di moto perfettamente definita deve essere delocalizzata su tutto lo spazio, ossia la probabilità di trovarla dovunque è sempre la stessa, ossia matematicamente è indipendente dalla coordinata x, e ovviamente anche dalla coordinata temporale. In altre parole, la forma della funzione d'onda deve semplicemente dirci che la particella da qualche parte esiste. Ora, la funzione matematica più semplice che ha tutte le caratteristiche giuste è:
ψ (x) = exp(ipx)
Infatti, descrive completamente lo stato quantico dato che c'è p, la quantità di moto che qui appare come parametro; ha le stesse caratteristiche formali delle funzioni che descrivono onde, come ad esempio quelle elettromagnetiche. Il suo modulo quadro è uguale a 1, ossia ci dà la corretta probabilità di trovare la particella da qualche parte (la particella esiste), e è indipendente da x, ossia la particella è totalmente delocalizzata. Questa è dunque funzione d'onda della
particella libera e, come vedremo, coincide con la soluzione della corrispondente equazione di Schroedinger.
L'equazione d'onda (Schroedinger)
Per arrivare all’equazione di Schroedinger, o equazione d’onda, cominciamo appunto col richiamare
alcune proprietà di un’onda armonica nell’ambito dell’ipotesi quantistica:
la relazione di de Broglie correla lunghezza d’onda e quantità di moto: = h/p; questa può
riscriversi come p = ћk, dove k= 2π/λ, dove k è il vettor d’onda. L’ipotesi di Planck e la successiva elaborazione di Einstein per spiegare l’effetto fotoelettrico portano alla relazione fra frequenza dell’onda e energia dei suoi quanti: E = ћ, dove ω = 2 πν (per la precisione la frequenza, misurata in Hertz, è ν, mentre ω viene detta pulsazione nella letteratura italiana; in quella inglese non si fa distinzione. In ogni caso ω è misurata in radianti/secondo.). Ora, una funzione d’onda ψ(x,t) che descrive una particella che viaggia con quantità di moto determinata p nella direzione x, e dunque con posizione totalmente indeterminata, può avere una delle forme armoniche:
cos(kx- ωt), sen(kx- ωt), exp(i(kx- ωt)), exp(-i(kx- ωt)) o una loro combinazione lineare.
Però il problema è più complesso, nel senso che è necessario arrivare a funzioni d’onda che descrivano la dinamica delle particelle, ovverosia le particelle sotto l’azione di campi di forza.
E’ dunque necessario generalizzare il caso armonico, e per questo bisogna trovare un’opportuna equazione differenziale che ci permetta di ottenere soluzioni più complesse.
Questa equazione dovrà essere lineare, perché le sue soluzioni devono potersi sovrapporre a produrre gli effetti di interferenza (Young). L’equazione poi dovrà contenere parametri
fondamentali come ћ, la massa e carica della particella, ma non dovrà contenere le quantità che descrivono il moto della particella nello specifico, altrimenti non sarà possibile sovrapporre soluzioni diverse (ossia corrispondenti a valori diversi di questi parametri).
Se osserviamo ora che le derivate rispetto al tempo, nelle possibili funzioni d’onda, equivalgono spesso a una moltiplicazione per ω, e quelle rispetto allo spazio a una moltiplicazione per k, e ricordiamo che energia (o frequenza) e vettor d’onda sono correlati da una relazione di dipendenza quadratica, per es. E ≈ k2, se ne deduce che probabilmente la nostra equazione dovrà contenere una derivata prima rispetto al tempo, e una derivata seconda rispetto allo spazio. Possiamo allora scrivere:
∂ψ /∂t = γ∂2ψ /∂x2
Se ora sostituiamo in questa equazione come soluzioni di prova quelle funzioni armoniche discusse precedentemente, troviamo che le prime due non la soddisfano, ma le seconde due si (ma non simultaneamente). Se usiamo la terza (se vi ricordate, l’avevamo già introdotta in precedenza), vediamo che questa sarà soluzione se γ = iћ/2m. Si avrà allora:
i ћ ∂ψ /∂t = (-ћ2/2m) ∂2ψ/∂2x
Questa è una prima espressione dell’equazione di Schroedinger: essa vale per il caso della particella libera in una dimensione. Generalizzando al caso tridimensionale, si ha:
i ћ ∂ψ /∂t = (-ћ2/2m) ψ
Se confrontiamo questa equazione con le relazioni quantistiche fra quantità di moto e vettor d’onda e la relazione classica per la particella libera fra energia e quantità di moto E = p2/2m, vediamo che l’energia corrisponde all’applicazione dell’operatore differenziale
E i ћ ∂/∂ t,
e per la quantità di moto si avrà p i ћ
se vengono applicati alla funzione d’onda. Il grassetto sta ad indicare la natura vettoriale delle quantità.
Ci resta ora da trattare il caso generale di una particella soggetta a forze. Si considera subito il caso