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LA MONARCHIA NICA IN ITALIA IVIERIDIOULE

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LA MONARCHIA 13011130NICA IN ITALIA IVIERIDIOULE

I° - INTRODUZIONE

Dalle brume del Nord la guerra dì successione polacca trovava nel 1734 il suo virtuale epilogo nella famosa battaglia di Bitonto pieno Mediterraneo. Era il 25 Maggio : l'esercito di don Carlos di Borbone, duca di Parma e di Piacenza, uomo personalmente nien- t'affatto valoroso e amante della guerra, nella piana di S. Leo vicino Bitonto, a pochi chilometri da Bari, guidato con accortezza e deci- sione del duca di Montemar, sconfiggeva dopo una giornata di aspri combattimenti, svoltisi con episodi alterni, l'esercito asburgico reale ed imperiale comandato dall'inetto principe austriaco di Bel- monte. ,Era la vittoria e la conquista di un trono, che ancora una volta, il diritto patrimoniale delle monarchie, a spese di popoli che nulla dovevano sapere della loro sorte e in nulla potevano interve- nire a modificarla, destinava ad un re sconosciuto di una dinastia potente, ma non amata. Don Carlos di Borbone abbandonò il ducato di Parma e nella pace di Vienna del 1738, cui non partecipò perso- nalmente, venne consacrato « Re di Napoli », città ove egli aveva già fatto il suo ingresso il 10 Maggio 1734 e dove aveva trasferito la Capitale della siciliana Palermo. Era questo un altro duro colpo al vivace spirito antagonistico dei Siciliani nei riguardi dell'Italia Me- ridionale, un motivo di sordo rancore dell'Isola nei riguardi della più fortunata città napoletana. Campanilismo acceso e spiegato, che ha le sue più lontane origini nella fortunata epoca della monarchia normanna, in cui, specie durante il regno di Ruggero II, la Sicilia conobbe un'epoca di vero splendore e reale potenza politica culturale economica. Le alterne sorti dei secoli successivi, in genere, furono sempre tdolorose per la Sicilia, che, nel ricordo della storia passata trovava motivo a rimpiangere la storia presente. Né la monarchia aragonese dal 1302 al 1412 riuscì, in sostanza a darle il regale per duto splendore, anche se rinfocolò il sentimento di autonomia dell'I- sola. E il trasferimento della Capitale del Regno di nuovo a Napoli, riaccendeva sopiti randori, preparava nuovi motivi di odio verso la mo- narchia e poneva le basi di un deciso sentimento autonomistico, col

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il governo dei re borbonici, dei re piemontesi, e dell'attuale repub- blica.

Le condizioni del Regno all'ingresso del Re Carlo erano, almeno dal punto di vista sociale ed economico, quanto di più disumano si si potesse immaginare. La potenza dei nobili, la eccessiva ricchezza del clero, le leggi vecchie, l'esodo straordinario di rendite ecclesiastiche verso Roma, la miseria dilagante nel popolo, la divisione in « ceti » anacronista e ingiusta, una perenne crisi agricola e finanziaria, un fisco feroce e mai sazio, un sovrapporsi di governi ognuno pensieroso di 'spremere quanto più possibile il popolo, egoismo grettezza incapa- cità di governanti, mancanza di una vera classe colta e tecnicamente preparata : tutto faceva del Regno poco meno che un cadavere in ista to di prossima o iniziata decomposizione.

Il 1707 un nobile napoletano, Tiberio Carafa, andò a Madrid per perorare la causa della patria negletta e miserabile : richiesto dal Re di un « parere » scritto, egli lo presentò dopo averlo praticamente im- provvisato in un'intera notte di lavoro. Ma si sentì rispondere dal Re Filippo V che attendeva una « solenne ambasciata dei più qualificati personaggi napoletani », che gli confermasse e discutesse più ampia- mente con lui la cosa: ma che comunque essa venisse col « donativo degno del napoletano Regno ed adeguato a quelle necessità estreme che allora in Barcellona soffriva ». Albori di Risorgimento nel Mezzogiorno d'Italia » di M. Schipa p. 33). Era in atto la guerra di successione spagnola e il Re era costretto a starsene in tale città, mentre la vera capitale era occupata da Carlo III d'Austria (fu- turo Carlo VI). L'episodio è notevole a significare la mentalità che dominava i governi spagnoli, e che mai si era smentita attraverso tutto il secolo XVII. Tra la fine del 1600 ed i primi decenni del 1700 fu tutto un accavallarsi di « Capitoli », di « Grazie », di « Pa- reri », di « Richieste », che cadevano sempre nel vuoto per incuria, insensibilità, disinteresse, incapacità delle classi politiche dirigenti nel paese. In una relazione anonima inviata al Re Carlo di Borbone, pena giunto in Regno, è detto : « Fino in terra di lavoro ad ogni pas- so si incontrano uomini e donne o nudi o mal coperti da cenci schi- fosi, col viso marchiato dalla fame o dal meschino alimento di po- che once di focaccia di granone o di erba cotta senza sale né olio.

Nella buona stagione, quando si trova lavoro, si guadagna un carli- no al giorno, da cui bisogna sottrarre i pubblici pesi. Quando non si lavora, la disperazione porta al mestiere della rapina e dell'omici- dio » (op. cit. p. 43). Ecco le vere ragioni ,del brigantaggio in Italia Me- ridionale, su cui talora si è frainteso, attribuendogli finalità patriotti- che che in realtà non aveva : la vera origine di esso è da ritrovare nel morso della farne, vecchia bestiale senza scampo. Né le cose cambia-

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rovo con l'avvento del dominio austriaco al trattato di Utrecht (1713) anzi peggiorarono tanto che si poteva parlare come di due altri domini regolarmente costituiti dopo quello politico : quello del cler3 e quello del baronaggio. Il baronaggio! Vecchia piaga rimontante agli Angiò, esso rappresentava la prepotenza elevata a sistema, la rapina divenuta legge, la forza elevata a diritto. Ad esso si accoppiava, con le sue collazioni di benefici, il clero, collazioni contro cui già due secoli prima si era scagliato Lutero con tutti i pensatori riformati.

Unica eccezione in tanto marasma di miseria e di malgoverno la città di Napoli, alla cui plebe, al cui popolo minuto fu sempre cura dei vari governi, di non far mancare mai il minimo di farina e di pasta che bastassero a sfamarli e a far dimenticare loro le strettezze e le privazioni da cui erano attanagliati da ogni par- te. Evidentemente la lezione di Masaniello era servita a qualcosa : a far intendere che la capitale é pur sempre il cervello del paese, e che dominare essa, significa in certo modo dominare tutta la na- zione. Strade poche, molti briganti, ad ogni incrocio un ufficio tasse, mezzi di trasporto pochi o nulli, protezionismo che neppur si pote- va chiamare più tale, ridotto com'era all'arbitrio dei funzionari loca- li che agivano di propria iniziativa, travisando e storpiando per loro interesse personale, leggi e decreti. La moneta era scarsa, talché se pur i prodotti della natura, per spontaneo dono della ter- ra, erano sui mercati a disposizione del popolo o della esportazione, non si potevano acquistare per mancanza di moneta che sul momen- to costituisce la base sicura dell'operazione commerciale. La giusti- zia sociale era quanto di più scandaloso si potesse immaginare : per- sino le pene più gravi e pesanti potevano essere riscattate dai ba- roni o dagli ecclesiastici. Abusi, diritti d'asilo estesi non solo alle chiese ma a tutto ciò che fosse di pertinenza ecclesiastica, immunità tributarie, manomorta : tutto contribuiva a creare un'atmosfera di squallore e di pena sociale, che tuttavia trovava da secoli ormai un po- polo sempre pronto a pagare e a soffrire. Ed è ben strana curiosità la notizia che un ambasciatore veneziano presso l'Impero d'Austria, verso la fine del 1500 trovasse il Regno ricco e fertile, bello e accogliente : ma era la naturale prodigalità della natura, la spontanea feracità della

terra, il caldo del Mezzogiorno che avevano colpito il superficiale e disattento visitatore veneziano del Regno. Visitatore, che del resto,

è presumibile, non sarà andato oltre la capitale nella quale, in qua- lità di uomo politico, aveva motivo di sostare. Ma la realtà era ben altra

La proprietà fondiaria era quasi inesistente, essendo le terre del Regno quasi tutte dei nobili o del clero. Su 3 milioni circa di abitanti

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un terzo di tutta la rendita del Regno, avevano nelle loro mani gran parte della ricchezza nazionale, magari immobilizzata in latifondi adi- biti a pascolo; i nobili li seguivano a breve distanza in ricchezza e in privilegi e l'obbedienza dei Napoletani era « incredibile », diceva lo stesso ambasciatore napoletano di cui si è parlato poco prima. E, de- gni compagni dei loro parenti francesi, i re borbonici napoletani sí costruiscono una reggia fiabesca, e pretendono- ad una sovranità di origine divina. Un baronato inetto e protetto si inchina ossequiente, verso di essi, vano ornamento coreografico ad una monarchia che si compiace di vedere ovunque schiere ricurve, cortigiani vili incensieri di inesistenti virtù.

E, come a Versailles il Re costruisce la sua 'Reggia, vive nell'osse- quio perenne (la famosa « journe du roi ») della nobiltà schiava e rimbecillita dalle feste e dalle ricchezze, mentre a Parigi circolano oltre 50.000 pitocchi, così a Napoli, mentre il Re si ritira a Caserta, circolano, petulanti e abbrutiti dalla fame, ben 25.000 poveri in cerca di elemosina. Spettacolo orrendo ove si pensi che Napoli nell'epoca in cui Carlo III entrava in città toccava appena 300.000 abitanti (1).

In conclusione il panorama politico e sociale del Regno ai principi del '700 e verso la metà dello stesso secolo era quanto di più sconfor- tante si potesse immaginare : in un'epoca ormai incamminata verso le conquiste più belle e più alte dell'umanitarismo in genere, cui avviava col suo grido di battaglia la filosofia dei lumi, il Regno di Napoli rap- presentava un punto nero, chiuso « fra l'acqua santa e l'acqua salata », negato com'era al progresso, alle voci del tempo, all'esempio e all'in- citamento della storia.

- CARLO

III

Quando si ebbe la « restituzione del Regno » e i Napoletani entu- siasmati gridavano per le strade : « Grazie a Dio non siamo più pro- vinciali », molte speranze sorsero, tante illusioni si crearono. Una mo- narchia, di qualunque provenienza essa fosse, pareva ai Napoletani dovesse ridar loro, insieme all'indipendenza, (quale indipendenza? o sublime ingenuità del popolo!) il benessere e il toccasana per tutti i mali. E ancora una volta, con quei sogni nel cuore, il popolo rim- boccò le maniche bagnando, non metaforicamente, di sangue e di su- dore l'arida zolla di texra coltivata.

(1) Schipa, op. cit. pag. 42. Ma Croce (Storia del Regno di Napoli pag. 135) parla, con una differenza di notevole rilievo, di una popolazione che già « alla metà del secolo seguente (decimosettimo) superava il mezzo milione di abitanti ».

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Carlo III, terzogenito di Filippo V, nipote di Luigi XIV, della Ca- sa dei Borboni, come si è già detto, fu re personalmente non valo- roso, né di grandi doti intellettuali : ma certo fu animato da molta buona volontà nel rimediare alle tristi condizioni del Regno, di cui di- ventava iRe dopo essere stato duca .di Parma

e

Piacenza, per eredità materna, e della Toscana per maneggi politici. Fu il primo, dopo tan- ti secoli di abiezione politica, reale e vicereale, dagli Angioni agli Ara- gonesi agli Asburgo, a meritarsi le benedizioni dei contemporanei e, qualche volta, ,dei posteri. Ma occorre obbiettivamente notare che egli fu il primo e fu anche l'ultimo dei Borboni che si guadagnò ta- le stima, e la sua opera, meritoria nel complesso, sembrò tuttavia più lodevole di quanto in realtà non fosse, perché attuata in tempi e verso sudditi cui, per le ragioni già esposte, sarebbe sembrato gran dono anche molto meno. E del resto la sua fu pur sempre la classica goccia d'acqua caduta nel mare. La già iniziata resurrezione delle lettere, della filosofia e del diritto (al tempo dell'ingresso del « di- gnitosissimo Carlo » avevano illustrato il Regno già Mario Lama, Francesco Serao, Tiberio Carafa, Raimondo di Sangro, il medico Nico- la Cirillo, alcuni discendenti delle famiglie nobili Palmieri, Caracciolo, Cantalupo de Gennaro, l'abate Conforti assieme al vescovo di Taranto Capecelatro, e molti componenti la Massoneria che ebbe fiorenti logge frequentate da uomini di legge e da persone colte) fu in verità continuata e anzi incrementata dal Re.

Il Vico fu nominato « storiografo regio », il foro napoletano (Giuseppe Cirillo, Francesco Vargas, Nicola Capasso, Carlo Mauri, Giu- seppe de Gennaro ecc...) fu largamente protetto, a Corte furono chia- mati anche Francesco Solimena e l'architetto Vanvitelli : furono con- cessi onori alla memoria di Giannone, furono tolte alcune prerogative ai nobili nel 1738 (ma furono loro riconcesse nel 1744), venne strappa- ta loro la « criminale giurisdizione » ecc. E furono tutte cose buone.

Ma si era ancora nel campo della ordinaria amministrazione : il sovra- no, di indole buona e pacifica (altro che vincitore a Velletri : fuggì tra- vestito da frate dalla battaglia e vinse per gli 'errori dei nemici) tro- vò uno stato in condizioni disastrose e per naturale disposizione, ema- nò alcune leggi che non possono essere ritenute più che ritocchi, men- tre sarebbe occorsa una vera e propria rivoluzione legislativa, che, del resto, neppur nel giro di una lunghissima vita di Re si sarebbe potuta portare a termine.

E un temperamento di grande portata Carlo III non ebbe : affe-

zionatissimo prima alla madre e succubo di essa, (anche la moglie que-

sta gli scelse), fu poi attaccatissimo a questa, cui rivolgeva gran par-

te dei suoi pensieri e delle sue cure. Né ebbe mai forte carattere e

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Fu gran ventura se egli si nominò ministro e consigliere perso- nale l'illuminatissimo Bernardo Tanucci che molte cose buone operò : e, tuttavia le resistenze degli elementi spagnoleschi, che l'energica Elisabetta Farnese, sua madre, gli mise accanto fin dal suo ingresso in Napoli, non furono mai vinte. Molte leggi verso il clero furono sem- pre osteggiate o fatte approvare con accondiscendenza verso la S. Se- de. La politica di rinnovamento fu condotta su due fronti : l'uno quello curiale e vaticano, l'altro nobilesco e baronale. E a condurla fu sempre la nobile turba dei dotti e dei coraggiosi. Il Re lasciava fare; interve- niva, ma nel complesso si dimostrava più uomo di buone intenzioni, che uomo di buone e solide riforme. La classe intellettuale fu da lui ben vista, e fu « amante della magnificenza, delle arti e delle scoperte », anche se fu digiuno « di problemi di economia e di legislazione » (Croce).

« Era tempo felice ai sudditi e al Re », dice il Colletta, e per un popolo come quello napoletano e meridionale, c'è da credere con fa- cilità all'asserzione. Ma la storia è quella che è indipendentemente dal giudizio che l'uomo per interesse o carattere può dare di essa : nel complesso il giudizio dei posteri su Carlo III è ben diverso da quello dei superficiali suoi contemporanei. Fin dalla nascita questo principe fu singolarmente fortunato. Ancora di quattro anni, nel 1720 all'Aia, per il turbamento dell'equilibrio europeo causato dall'Alberoni, già gli era- no assegnati i domini degli avi materni : i Farnesiani e anche quelli Medicei. Fu fortunato nel raggiungere ambedue gli scopi. Poi venne la battaglia di Bitonto, e, se divenne Re, dovette però cedere i seggi ducali già occupati, uno all'Austria, l'altro al granduca di Lorena Francesco III Stefano, rispettivamente Parma e Piacenza e la Toscana.

La sua naturale bonaria indolenza lo portò a non scegliersi subito un numero; e si tenne il numero VII assegnatogli dal Congresso di Vien- na che gli attribuiva il regno dopo tre angioini (Carlo I, il vincitore di Benevento e Tagliacozzo, Carlo II lo Zoppo e Carlo III detto

« della Pace » degli Angioini-Durazzeschi), e tre austriaci (Carlo IV di Boemia, Carlo V e Carlo VI ambedue Asburgo).

Gravissima l'onta che subì il 19 Agosto 1742. La sua totale incapa- cità a penetrare i reali bisogni militari di un paese in pace o in guer- ra, lo portò a non curarsi in alcun modo della situazione militare del regno. Durante la guerra della Successione Austriaca una squadra in- glese si presentò, all'improvviso, nel porto dì Napoli, ove poté libera- mente entrare minacciando il bombardamento della città, se il Re non avesse promesso entro due ore di tenersi neutrale nel conflitto in corso. Promessa che Carlo III dové subito formulare a sua grande vergogna e disonore.

Alla stessa Inghilterra, che nel 1757 lo invitava all'entrata nella

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guerra contro la Russia per la guerra detta poi dei 7 anni, faceva ri- spondere dal suo Ministro a Londra : « Non pretendiamo niente...

manchiamo d'ambizione ». Non si può dire, invero, che mancasse d'am- bizione : benché avesse occupato un regno, con dispiacere lasciò i due ducati; partecipò alla guerra di successione austriaca con l'aperta speranza di riottenere almeno il Ducato di Parma e Piacenza e se ne dolse quando questo ad Aquisgrana fu assegnato al fratello Don Fi- lippo. Tuttavia tale ambizione, che solo un concorso fortunato di avvenimenti riscaldò e mantenne ben viva per parecchi anni, non gli era connaturata; era il risultato di una vita facile, alla quale arrise sempre la Dea Bendata.

Né egli seppe e poté dare la sospirata indipendenza al Regno. In fondo la madre, che era la vera dominatrice in famiglia, e tutta la cor- te madrilena, lo tenevano né più né meno che come un generalissimo o un vicerè, in una dipendenza di Corte. Carlo III (egli si chiamò con tale numero dopo essere passato nel 1759 sul trono di Spagna, 13..r la morte del fratello Ferdinando VI, demente e senza figli), incapace pur a dedicarsi a quello che Luigi XIV chiamava « mestiere di Re », non apprese mai nulla della difficile arte del governo e lasciò sempre ad altri, soprattutto al Tanucci, la cura delle cose del Regno. E anzi fino al 1745 governarono de facto il Regno, due ministri delegati più o meno segretamente dalla Corte Spagnola, alla bisogna. La situazio- ne mutò solo il 1746 quando, a morte di Filippo V, il nuovo Re, suo fratello Ferdinando VI, allontanò dalla 'Corte la Madre, e cominciò una politica più personale. E solo allora si poté dire ebbe inizio il Regno di 'Carlo III.

In effetti provvide al condono ai comuni dei debiti verso lo sta- to, provvide alla proibizione del taglio dei boschi, fissò franchige per terre incolte che passavano a coltura, costruì il porto mercantile di Napoli con moderni criteri, vietò alcuni privilegi al Clero e ai baroni.

favorì il rientro degli ebrei nel Regno, favorì la cultura a Napoli, co- struì 4a Reggia di Caserta, 'migliorò quella di Napoli, costruì il S. Carlo.

Ma resistenze e difficoltà di continuo incepparono la sua azione : e quel poco che tentò, divenne ancor meno. Si pensi poi che le resistenze che incontrava agivano fortemente sul suo animo, già per natura de- bole e incapace. E molte leggi (specie quelle riguardanti limitazioni di privilegi da parte delle classi privilegiate, clero e nobili), avevano ap- plicazione stentata o apparente. Per esempio il catasto fu fondato il 1741, ma quanto poco poté svolgere il suo utile ma immenso compito di catalogazione e ripartizione delle terre del Regno! E il nuovo Codi- ce, o il Supremo Magistrato di Commercio, strano a dirsi, per un complesso di circostanze, rimasero pressoché lettera morta. E gli stessi ebrei, allettati al rientro in Napoli, furono di nuovo espulsi!

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tempo. Il giudizio storico, come categoria del pensiero che valuta e deduce razionalmente, mentre mira ad universalità e obbiettività, non può non risentire della soggettività che nei fatti narrati pone colui che i fatti narra, cercando di porli in una luce di umana obiettività.

Ma, se un giudizio può ragionevolmente al giorno d'oggi essere fissato secondo i criteri di una riflessione storica, chiara nei suoi presupposti di critica e di valutazione, il giudizio su Carlo III non può essere dubbio.

Fu senza ombre di esitazione il migliore dei Borboni di Napoli : ma debole, anche inetto, bigotto e incapace di grandi idee e di altret- tanto grandi realizzazioni; contenne la sua azione entro i limiti di una azione politica non inquadrata in grandi piani, svolgentisi secondo grandi linee prefissate. La sua azione risultò lacunosa e saltuaria, e la sua proclamata bontà di uomo fu quella del signore che getta denaro al popolo mentre passa in carrozza, sfavillante per abiti dorati (co- sì fece al suo ingresso in Napoli il 10 maggio 1734, così altre volte) e non si accorge che considera il popolo non altro che un branco di miserabili da tenere a bada con la distanza e con qualche coreografica elargizione. La sua bontà politica d'altronde si riduce a ben poco sot- to la scorza e la specie del riformismo ampiamente proclamato, poi ridotto solo ad ipocrita miraggio verso un popolo che, nella realtà, ve- niva mantenuto in posizione di voluta inferiorità. ,La figura di Carlo III ridimensionata, acquista la sua vera fisionomia : vissuto nel secolo deì lumi non ne capì la vera e sostanziale importanza, rimase fuori delle correnti vive del dispotismo illuminato e riformistico del tempo. E ogni cosa buona che fece, del pochissimo che fece, fu fatta da lui per pura bontà d'animo e sotto lo stimolo di consigli e pareri di uomini colti e sinceri, che egli aveva il merito in certo senso di sollecitare.

Nella realtà invece nulla faceva con piena convinzione, capacità e originalità personali.

Se la grandezza di un monarèa è, come diceva Federico II di Hoenzollern, suo contemporaneo, nella « capacità, ove c'è una spiga di grano, a farne crescere due », grande non fu di certo Carlo III.

In politica interna non ebbe praticamente meriti, in politica estera non fu nel giro della diplomazia e della politica internazionale da cui, come si è visto, si tenne volutamente lontano.

Nulla ci insegna la sua figura; sovrano mediocre, passò con le lodi dei contemporanei, che abituati a ben peggio, non potevano non sentire e non toccare una differenza fra lui e i governi che l'avevano preceduto : ma non può egli meritare le lodi dei posteri, per la po- chezza morale e complessiva che la sua figura offre allo studioso, a quella distanza di tempo che da sola e giusta garanzia di un equili-

brato giudizio storico. GAETANO GAROFALO

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