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Quarant anni di una nuova vita

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Academic year: 2022

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Quarant’anni di una nuova vita

di S.N. Goenka

Articolo per il quarantesimo anniversario della sua pratica di Vipassana. Igatpuri, India, 1995

La prima e la seconda nascita - Il ritorno a casa Le tradizioni familiari - Il dubbio e la verifica - L’impermanenza negli stati meditativi - La gratitudine -

Conclusioni e auspici

I primi giorni del settembre 1955 furono i più preziosi della mia vita. Seduto ai piedi del mio mae–

stro Sayagyi U Ba Khin, imparai, nella sua forma originaria, l’arte di osservare la verità all’interno di me stesso. Non poteva toccarmi una sorte migliore:

un nobile páramì (atto meritorio) di una qualche mia vita passata produceva un frutto inestimabile. Non avrei mai immaginato esistessero momenti così sa- cri. Fu una nuova nascita.

La prima e la seconda nascita

La mia prima nascita era avvenuta trentadue anni prima. Poi ero rinato e questa mia seconda nascita fu basilare. Un uccello nasce una prima volta dalla madre, racchiuso in un guscio; e la sua vera nasci-

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ta è la seconda - quando, rotto il guscio, viene alla luce. Anche la mia prima nascita - quella biologica - era avvolta nelle tenebre di una profonda ignoran- za. In realtà, mi sono poi reso conto che l’oscuri- tà dell’ignoranza è più cupa del buio all’interno dell’uovo o dell’utero materno.

Nella mia seconda nascita, per la prima volta pe- netravo attraverso lo strato dell’ignoranza e intrave- devo i raggi della autentica conoscenza. Come l’uc- cellino che, emergendo dal guscio, batte le palpebre davanti alla luce solare, anch’io mi trovavo stordito.

Fino a quel momento, non avevo neppure lonta- namente percepito la verità dentro di me. Ma quan- to la sperimentai in quei dieci giorni! (La durata del suo primo corso di Vipassana, n.d.r.) Questo cor- po fisico che avevo sempre percepito così solido e compatto ... ebbene, ogni atomo in esso vibrava. E, risultato più significativo, scoprivo un metodo con- creto e scientifico, per sradicare le impurità mentali.

Man mano comprendevo la relazione tra mente e corpo, cominciavano a sciogliersi i lacci delle im- purità radicate nel profondo. Avevo letto e sentito parlare di preziosi stadi meditativi, ma ora li speri- mentavo. Il mio cuore traboccava di gratitudine per il mio Maestro.

Il ritorno a casa

Tornato a casa, praticai Vipassana mattino e sera, sempre, nonostante i miei impegni pressanti. Ciò operò in me cambiamenti fondamentali e aumentò il senso di profonda gratitudine.

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Vipassana divenne parte della mia vita. La mia mente che aveva bruciato nel fuoco della passione, della collera e dell’egoismo, sperimentava un’incon- sueta pace. Tormentata in passato dalla continua tensione per le responsabilità familiari, professionali e sociali, ora sovrabbondava di felicità e salute. Vi- passana non mi distoglieva dalle responsabilità, ma anzi mi forniva di rinnovata energia, per adempiervi col giusto equilibrio; di conseguenza, aumentò si- gnificativamente la mia capacità di lavoro.

Le tradizioni familiari

Mi ero dedicato per anni a un serio studio delle scritture e, insieme, a pratiche devozionali, parte- cipando con timore reverenziale ai riti di preghiera consueti nel mio ambito familiare. Ciononostante, in me permanevano impurità, che cominciarono a indebolirsi solo attraverso la pratica meditativa.

Fin dall’infanzia, ero stato condizionato dalle cre- denze religiose familiari, secondo le quali il Signore Buddha era la nona e più evoluta incarnazione del dio Vishnu, ma i suoi insegnamenti erano orientati alla magia, e quindi inadatti a veri credenti. Influen- zato da questi pregiudizi, avevo esitato a lungo pri- ma di partecipare al mio primo corso di Vipassana.

Ma avevo anche sentito dire che il Buddha era profondamente compassionevole. Da bambino ave- vo letto la storia in cui suo cugino Devadatta feri- va un cigno con una freccia e il giovane Gotama pietosamente lo salvava. Avevo anche osservato che gli abitanti di Myanmar erano persone semplici e

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sincere. Mi chiedevo: “Se gli insegnamenti del Bud- dha fossero sbagliati, come potrebbero i suoi seguaci essere persone così perbene?”.

La mia mente era influenzata da quanto vissuto da bambino: uno zio con una posizione importante nell’azienda di mio padre, era studioso di sanscrito, e la sua frase chiave nelle discussioni era: “Le scritture dicono così”. Immerso in riti e in cerimonie, dedi- cava al culto delle divinità sino quattro o cinque ore al giorno. I suoi canti sacri mi toccavano profonda- mente e fin da bambino imparai a recitare importan- ti passi scritturali, cosa di cui gli sono tuttora grato.

Mi piacevano queste recitazioni mattutine quotidia- ne, e riecheggiavano a lungo nella mia mente. Inoltre tutta la mia famiglia aveva grande devozione per gli dei Vishnu, Krishna e Shiva; e i miei canti la rafforza- vano. Mio zio era rigido: non rifiutava il Buddha, ma contestava fortemente i suoi insegnamenti. Io, inve- ce, con mio nonno, visitavo spesso il famoso tempio buddhista di Mahamuni a Mandalay, e là provavo una grande pace. Lo zio mi ripeteva: “Tuo nonno è ormai confuso mentalmente, ma tu sei giovane e do- vresti evitare di metterti su una brutta strada”. Cio- nonostante, continuai a recarmi in quel tempio, an- che dopo la morte di mio nonno: me ne attraevano la pace e il decoro. A quel tempo, non sapevo nulla di meditazione, ma ogni volta che visitavo Mahamuni provavo un grande senso di quiete.

Fu solo dopo un colloquio con U Ba Khin, che mi decisi a partecipare a un corso di Vipassana. Le sue spiegazioni, date con profonda compassione e bene- volenza mi fecero capire quanto questa pratica me- ditativa fosse irreprensibile. Il primo corso mi rivelò

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quanto fosse falsa e fuorviante la propaganda che da secoli veniva condotta contro gli insegnamenti del Buddha.

Il dubbio e la verifica

Cosa poteva esserci di sbagliato nella pratica di una meditazione basata sulla legge naturale e in grado di portare la nostra mente selvaggia e indisci- plinata alla più raccolta concentrazione? Cosa c’è di sbagliato nel radicare la mente nella saggezza e nella conoscenza, fondate sulla propria esperienza? Può esserci errore nell’apprendere l’arte di condurre una vita frutto di una mente purificata e liberata dalla negatività e ricolma di benevolenza, compassione, gioia altruistica ed equanimità? Sull’importanza di queste virtù avevo letto e sentito parlare fin dalla fanciullezza. Ora mi dicevo: “Se qualcuno insegna una via sperimentale dell’eterna verità, invece di vuota retorica, come si possono considerare falsi, il- lusori o magici, questi insegnamenti?” Mi resi conto che la pratica di Vipassana era ineccepibile.

Decisi allora di leggere le parole del Buddha, per individuarvi gli elementi falsi e nocivi. Questa let- tura, invece, mi chiarì che l’insegnamento era puro, sublime e di beneficio per tutti.

Mi recai spesso in India per visitare degli ashram (luoghi di pratica spirituale) e incontrare capi reli- giosi: volevo capire se avevo intrapreso un cammino sbagliato, se mi ero cacciato in qualcosa di illusorio;

e inoltre se Vipassana era la strada giusta. Dopo que- ste ricerche, fui persuaso che l’India era diventata

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spiritualmente più povera, dopo la perdita della su- blime nozione dell’insegnamento del Buddha.

Vedevo con chiarezza come in India fossero dif- fuse idee fuorvianti, in base alle quali si venerava il Buddha, ma se ne mettevano al bando gli inse- gnamenti. Mi resi conto con sgomento che le classi colte indiane erano state ingannate, tanto da perdere quello che era l’antico tesoro del paese. Era tempo che l’India si risvegliasse.

L’ impermanenza negli stati meditativi

Oltre alla pratica meditativa quotidiana, ogni sa- bato mattina alle 7 visitavo il mio maestro Sayagyi presso il suo centro di Yangon, per la meditazione di gruppo; e approfondivo paññá, la saggezza espe- rienziale di Vipassana, partecipando a un corso di dieci giorni almeno una volta all’anno; e a volte a ritiri più lunghi e intensivi. Gradualmente, riuscii a capire quale fosse il vero scopo dell’esistenza. La realtà dei sensi, sia a livello mentale che fisico, le loro caratteristiche universali di anicca (impermanenza), dukkha (sofferenza) e anattá (assenza di un io), mi apparivano via via più chiare, sperimentalmente.

Riuscivo a scorgerne la verità con la stessa evidenza con cui scorgevo un frutto nella mia mano.

La totale dissoluzione sperimentata senza sforzo e in modo del tutto naturale, durante il mio primo corso, mi aveva creato l’illusione che questo fosse uno stato permanente, mentre in realtà si trattava di sensazioni fisiche e mentali impermanenti, nell’am-

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bito dell’impermanenza.

Quando, in seguito, percepii realtà più sottili e gli stati a esse collegati, di profonda pace, beatitudine e gioia sublime, capii quanto fosse importante, nello sperimentarli, una sempre maggior vigilanza. Ciò è essenziale per il meditatore, se non vuole rimanere bloccato in un’esperienza elevata, ma illusoria, cioè appartenente al campo di mente e materia. Il prati- cante deve imparare a distinguere con chiarezza se uno stato di beatitudine sia intensa consapevolez- za dei sensi, oppure l’esperienza che li trascende. In quest’ultima, i sensi non sono attivi; diversamente, vuol dire che si è ancora nell’ambito di mente e ma- teria. É un ambito d’esperienza sottile: ne sperimen- tai il sorgere e lo svanire, con una consapevolezza intensificata. Senza la consapevolezza dell’imperma- nenza sarei rimasto intrappolato in questo stato, nel concetto ingannevole dell’ io e del mio, e di un’en- tità permanente, eterna, assoluta. Ecco perché è es- senziale rimanere totalmente consapevoli dell’espe- rienza di anicca, l’impermanenza di ogni fenomeno mentale e fisico.

Con la pratica costante della consapevolezza e l’esperienza dei vari stadi che portano alla totale li- berazione, tutti i miei dubbi gradualmente si dissol- vevano. A ogni mio passo, veniva in rilievo la subli- me purezza del Dhamma e si manifestavano i suoi frutti spirituali.

La gratitudine

Il mio cuore sovrabbondava di sentimenti di grati-

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tudine verso Gotama il Buddha che, attraverso grandi avversità, riscoprì la tecnica di Vipassana, perduta da milioni di anni, la via diretta alla purificazione men- tale e alla completa liberazione. Non soltanto egli ri- cercò il sentiero e liberò se stesso ma, con compassio- ne, condivise la sua esperienza con l’umanità.

Sento anche profonda gratitudine per l’ininterrot- ta tradizione di Maestri e discepoli che preservò co- scienziosamente, nella sua purezza, i fondamenti di questa dottrina, prima in India e poi in Myanmar.

E la mia gratitudine va al mio padre nel Dhamma, Sayagyi, che mi insegnò Vipassana, e consolidò sal- damente in me i suoi aspetti teorici e pratici.

Conclusione e auspici

Quando passo in rassegna gli ultimi quarant’an- ni nel cammino di Vipassana, sento il cuore pieno di soddisfazione e di gioia profondi. In questi qua- rant’anni, nella vita ci sono state tante salite e tante discese, tante primavere e tanti autunni: tanti cam- biamenti; ma la pratica quotidiana di Vipassana non ha mai mancato di darmi l’equilibrio necessario.

La mia vita è pienamente realizzata. La traboccan- te compassione del mio venerato Maestro mi ha for- nito un nutrimento incomparabile, che continuo a ricevere in abbondanza. La medicina del Dhamma, con il suo potere rigenerante, mi infonde il coraggio di andare avanti con fiducia. I suoi effetti benefici continuano ad aumentare in me, e sono di sostegno agli altri. Quando penso a questo, si rinnova la mia gratitudine verso il mio Maestro.

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Mi auguro che il fiume del Dhamma, che comin- ciò a rifluire venticinque secoli fa, grazie agli sforzi e alla compassione del Buddha, possa propagarsi in questi nostri tempi, per merito di Sayagyi U Ba Khin. Che il Dhamma possa liberare tutti coloro che sono incatenati, stanchi e assetati, che soffrono nel corpo e nello spirito.

Che il Dhamma possa aiutare tutti, sostenere tutti - questo è l’augurio che sgorga dal mio cuore.

Pubblicato in:

Patrika (Notiziario Vipassana hindi), Igatpuri, India, 1995/

autunno; Notiziario Vipassana Italia, Cinisello Balsamo, Milano,1997/primavera.

Revisione di Biblioteca Vipassana, 2012.

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