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IV. LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA IV.1. Perché scrivere di sé

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198 IV. LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA

IV.1. Perché scrivere di sé

La parola auto-bio-grafia è una brutta parola, artificiale, senz’anima, spoglia di evocazioni storiche e di risonanze poetiche. Così l’hanno considerata gli specialisti della critica letteraria. Ma questa parola così antipatica ha per lo meno il merito di dire quel che ci dice con rara precisione. Autos, è l’identità, l’io che ha preso consapevolezza di sé e indizio di un’esistenza autonoma; bios sancisce la continuità vitale di tale identità, il suo sviluppo storico, le variazioni su un tema fondamentale […]. Graphé, infine, introduce il mezzo tecnico che consente di scrivere qualcosa di se stessi. La vita personale semplicemente vissuta, Bios di un Autos, è abilitata a una nuova nascita grazie alla mediazione del Graphé.1

Un occulto ardore correva per quei fogli, che io cominciavo ad amare come qualcosa migliore di me, quasi mi rendessero la mia immagine già purificata e mi convincessero ch’io poteva vivere più intensamente ed utilmente. 2

Siamo sempre impegnati nella personale interpretazione del mondo, a partire dalla percezione stessa.

Non esiste esperienza che non sia declinata al singolare unico rappresentato dall’eccezionale incidenza tra esperienza personale e contesto culturale.

I nostri ricordi sono sempre attive rielaborazioni sulla base delle istanze del presente, e tutto quello che sappiamo fare, anche se non ci ricordiamo come lo abbiamo imparato, è la traccia delle vite che abbiamo già vissuto, degli io impegnati nelle diverse fasi della vita a raccogliere le sfide della crescita per farne strumenti sempre più elaborati di posizionamento rispetto agli altri e di autorappresentazione.

Siamo anche in grado di prendere le distanze dal sé percepito attraverso il sé ideale che costantemente guida nella progettualità rispetto al futuro; e, dunque, possiamo, se vogliamo, raddrizzare il corso degli eventi, riscrivendo il nostro corpo o tutta la nostra storia, quando si abbia la sensazione di non riconoscervisi più o che essa sia fonte di pericolo.

1 Gusdorf G., Lignes de vie 2. Auto-bio-graphie, Jacob, Paris 1991, p.10, cit. in Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, p. 160, Raffaello Cortina, Milano 2008 2 Aleramo S. (1906), Una donna, Feltrinelli, Milano 2013, p.86

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199 Ma allora perché scrivere? Quali sono i vantaggi esistenziali nel trasformare un’esperienza comunque non estranea al soggetto (quella appunto della continua rielaborazione del proprio vissuto) in parola scritta?

Se la diffusione di pratiche di scrittura del sé, anche assistita, nella società attuale è da collegare certamente al valore attribuito alla storia individuale dalle scienze sociali per la comprensione di differenti fenomeni complessi (dai meccanismi della memoria, come abbiamo visto, alle relazioni sociali, alla storia delle culture), ma anche alle emergenze borderline della stessa soggettività contemporanea, è altresì vero che l’autobiografia si è affermata come genere letterario ben prima di questa nuova prospettiva.

Il bisogno universale di lasciare un segno della propria unicità, anche oltre la morte, da sempre infatti, accompagna gli individui, legati tra loro proprio grazie alla loro storia, alle loro storie, alla memoria che veglia sul presente e permette di pensare con ragionevole fiducia al futuro, proteggendoli, in qualche modo, dalla loro irriducibile fragilità esistenziale.

Ma è con la nascita della società borghese e la conseguente affermazione dell’individualità che questo bisogno si trasforma gradualmente in un genere vero e proprio; e, prima ancora, è con sant’Agostino che si compie il passo decisivo verso una scrittura-confessione, verso l’introspezione psicologica volta all’autocomprensione ed allo stesso tempo all’autoproiezione sul nuovo cammino; il nuovo sé nasce sulle macerie di quello precedente, che non può però essere semplicemente messo da parte; necessita di essere scandagliato ed anche giudicato perché la trasformazione si compia a tutti gli effetti:

Ma se la confessione a Dio è un rivelarsi a sé medesimi, almeno, poiché Dio già ci conosce meglio di quanto noi ci conosciamo, la confessione che si appresta ora a fare agli uomini quale utilità può proporsi? Certo quella di rendere partecipi i propri fratelli della soddisfazione per il bene impetrato e della preghiera per il bene da impetrare. Non curiosità dunque egli chiede ai lettori, ma carità.3

Durante il Medioevo prosegue lo sviluppo del genere autobiografico, volto a dotare di senso l’esistenza fragile di un individuo sempre più umano, ma è con l’età moderna che l’autobiografia assume il carattere terreno e si dirama in modelli tra loro molto

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200 eterogenei, che vanno dalla testimonianza all’autobiografia immaginaria, o a quella intellettuale, fino alla scrittura della dimensione psicologica del sé.

In epoca moderna e postmoderna infatti il soggetto acquisisce maggiore libertà di pensiero e di azione e può determinarsi attraverso la volontà; anche se abbiamo visto che parallelamente alla nascita della soggettività si accompagnerà gradualmente il senso della sua precarietà e complessità, nonché della sua ineliminabile contraddittorietà. Infatti il soggetto contemporaneo oscilla tra il senso di dominio e di controllo sulla propria vita e l’inquietudine derivante dalla percezione di un’interiorità torbida e scissa; controllo che ha comunque come limite invalicabile la morte, di cui si stenta a parlare. Dopo l’affermazione del soggetto-volontà, del soggetto-cogito, il Romanticismo vedrà l’individuo destinato a fallire nella sua aspirazione all’infinito, mentre successivamente col Naturalismo l’uomo sarà ridimensionato ed alienato dalle catene biologiche e sociali.

Col Decadentismo la soggettività deflagrata diviene questione: l’io è ormai una matassa inestricabile di istanze opposte (volontà e impotenza, sé e altro da sé) non potendo che manifestare la sua nevroticità ed allo stesso tempo il bisogno di dare un senso, seppur provvisorio e precario; incertezza e precarietà che divengono però possibilità di apertura.

Come abbiamo detto è il Settecento il periodo d’oro del genere autobiografico: Vico ripercorre la sua storia ‛intellettuale’, Casanova mette a nudo narcisisticamente la sua esistenza improntata all’avventura, con Alfieri si formalizza un modello maturo di vita come formazione, in cui gli eventi servono a indicare un percorso dotato di senso, volontariamente assunto dallo scrittore; Rousseau riprende il concetto agostiniano della scrittura di sé come confessione, ma non volta alla redenzione, bensì alla rivelazione del suo io più autentico in contrapposizione al personaggio dipinto dalla società: a differenza di Agostino, il dissidio tra l’uomo privato e quello pubblico si esplica nella dimensione psicologica della quotidianità e la scrittura ha lo scopo di affermare la verità dell’io; verità che oscilla narrativamente tra il continuo proposito rivolto al lettore di dire tutta la verità e il mascheramento inevitabile insito nella stessa dimensione narrativa.

In tutti i casi, comunque, al centro c’è un soggetto in crescita, il cui cammino, contrassegnato da eventi più o meno casuali che conducono ad una meta, può essere

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201 trasformato in un processo di formazione solo a posteriori, ovvero a partire dal presente narrativo.

Questo è ancor più valido dopo il Settecento e soprattutto nell’epoca contemporanea, in cui la consapevolezza di potersi definire solo attraverso il divenire e non l’essere, potremmo dire, alimenta il ‛mito della formazione’4.

La scrittura autobiografica si fa sempre meno lineare, dunque, e sempre più ricerca complessa e problematica in cui ricordi, ricerca di senso e tempo si intrecciano indissolubilmente.

La Recherche è l’emblema della multidimensionalità della scrittura autobiografica: la distanza posta dall’utilizzo della terza persona è accorciata dalla coincidenza del nome tra narrante e narratore; e i ricordi si alternano ai pensieri sulla memoria e sui suoi meccanismi. La memoria, setacciata dal filtro dell’arte, consente in forma laica di consegnare la vita all’eternità e la ricerca di senso qui appare come una ricostruzione, in cui la lettura dei segni segue regole precise.

Nel suo utilizzo della terza persona Proust posiziona l’io narrante come un doppio distanziato e quindi oggettivato: un io predisposto a interpretare il contenuto, ma anche la stessa forma della memoria.

Doppio, anzi triplo: l’io narrante che ricerca le regole del vissuto organizzando le tracce di vita sparsa in una logica, l’io di Marcel che a sua volta è rappresentato sottoforma di molteplici io che nel tempo si susseguono attraverso le vicende, una popolazione in conflitto, alle prese con lo spettro emotivo completo (attesa, angoscia, oblio, gelosia…) ben contestualizzata però nella Parigi del suo tempo; e infine l’io dell’autore, lo sceneggiatore mascherato che determina l’assetto interpretativo.

Potremmo dire, con Cambi5, che l’io narrante si occupa della memoria, mentre Marcel protagonista vive, o meglio, rivive, e l’io dell’autore che apparentemente sta fuori dal testo è l’io storico, il pilastro del marchingegno narrativo, quello che pone al centro del racconto la sua vita, ma si posiziona fuori per interpretarla a distanza.

In tutti i casi è l’io narrante che può al contempo raccontare una storia che solo lui conosce e offrire la chiave di lettura alzando il sipario sui retroscena, rivelando le intenzioni e soffermandosi sulla scia emotiva; ma tutto ciò a patto che l’autobiografo

4 Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma – Bari 2002 5 Ibidem

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202 prenda una pausa dalla macchina ruotinaria del giorno, del presente, per porre se stesso come altro da sé, indagandosi e contemplandosi come questione narrativa.

Non importa se l’intreccio sia disposto in forma semplice binaria o tripartita come nel complesso caso della Recherche di Proust: sempre, nel fare autobiografia, c’è un atto di presa di distanza dal proprio vissuto e, con esso, dall’io, o meglio, dagli io che hanno preso parte attivamente agli avvenimenti, per cui l’io posto ai margini ad osservare, distanziandosi, può tentare di interpretare muovendo il suo personaggio tra i ricordi, le domande inerenti l’identità e la consapevolezza stessa che riprende, volendo usare un termine cinematografico che qui può restituire immediatamente la duplice funzione di inquadrare ed allo stesso tempo di tornare indietro, di riappropriarsi di qualcosa che altrimenti potrebbe andare perduto forse per sempre: questo il nucleo dello sforzo proustiano che rappresenta il cuore stesso di qualunque impresa autobiografica.

Proust definisce un vero e proprio metodo per scandagliarsi, legando indissolubilmente il vissuto alla dimensione ontologica, attraverso la macchina filosofica e riuscendo a passare dal piano personale a quello generale, universale.

Anche chi fu favorevole alla mia percezione delle verità che intendevo poi incidere nel tempio si rallegrò che le avessi scoperte “al microscopio”, quando era invece di un telescopio che m’ero servito per scorgere cose piccolissime, è vero, ma per il fatto d’essere situate a una grande distanza, e ciascuna delle quali era un mondo. Mi si chiamava collezionista di particolari, mentre erano le grandi leggi che cercavo.6

Sebbene il contesto storico raffigurato sapientemente possa in certe pagine farci sentire il disagio di non appartenervi, la vita psichica del personaggio, le sue emozioni, le sue sofferenze così audacemente e analiticamente interrogate come se si trattassero di assoluti, cioè non riferibili soltanto al protagonista che le vive, rendono l’opera tuttora significativa e coinvolgente, soprattutto laddove le intermittenze del cuore, suscitate da ricordi involontari, paiono squarciare il tempo per rivelare misticamente i momenti d’essere, rarissimi stati di apertura sensoriale ed emotiva in un’esistenza contrassegnata solitamente dall’abitudine.

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203 Proust ci indica nel pellegrinaggio interiore alla ricerca del tempo perduto una via laica di redenzione: dando senso, attraverso l’arte, al proprio vissuto, il sé e il tempo ritrovato sono salvi.

Il panorama che si apre a chi intenda scrivere di sé abbraccia tutto l’arco temporale, riuscendo a definire le radici, ma allo stesso tempo la direzione della sua particolare esistenza; e di tutto ciò l’unico giudice indiscusso è l’autobiografo stesso.

La scrittura risulta quindi l’unico strumento per fissare per sempre la, seppur provvisoria, definizione di sé, con il vantaggio quindi di poterla poi rileggere.

Già con Rousseau il discorso tutto interiore e comune a tutti acquisisce appieno lo status di morale relativa al soggetto scrivente, che indagando i propri sentimenti e le proprie vicende riesce a delineare una storia sensata e orientata in senso laico.

Dopo Rousseau, a lungo la Francia è stata l’epicentro indiscusso del fenomeno autobiografico (sia come produzione che riflessione teorica) proprio in virtù della centralità attribuita alla soggettività dal contesto culturale a cavallo tra Illuminismo, Rivoluzione, Romanticismo, Naturalismo e poi Decadentismo.

Oltre a Proust, indiscusso caposaldo del genere, possiamo citare solo alcuni esempi nominando Sartre, Yourcenar, Gide, Lejeune e Derrida.

La soggettività come domanda passa attraverso la narrazione e ne esce fatta, formata e dotata di senso, di cui l’unico testimone e giudice è il narratore, cioè il soggetto narrato stesso, scindendosi temporalmente ma anche idealmente tra sé vissuto e sé attuale: l’interpretazione prende il sopravvento sulla narrazione, potremmo dire.

Non è nostra intenzione delineare una vera e propria storia della scrittura autobiografica in questa sede, ma semplicemente intravvedere nel processo storico di un particolare genere letterario l’urgenza di raccontarsi, allo scopo di rispondere alla domanda iniziale – Perché scrivere di sé? – e nel farlo, nominare solo alcuni autori che hanno contribuito a mantenere viva e interessante tale indagine.

Nella disamina della propria avventura esistenziale irrompono questioni extraindividuali, come quella delle classi sociali (vedi Sartre) o quella di genere (come in de Beauvoir): ma si tratta solo in apparenza di tematiche al-di-là della soggettività; in realtà è una questione di prospettive, di messa a fuoco, poiché è indubbio che noi siamo frutto di un determinato contesto culturale e sociale, ma non è detto che sempre il soggetto che si autoindaghi senta la necessità di addentrarsi in tale dimensione.

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204 In Italia possiamo considerare capisaldi della scrittura di sé la Vita di Alfieri, saldata alla tradizione ma anche anticipatrice dello spirito romantico; le Memorie di Goldoni, in cui è l’uomo pubblico ad essere raccontato, in accordo però con la dimensione emotiva più intima; le Memorie di Casanova che intrecciano ambizione, spirito avventuriero e fallimento sapientemente ibridati, temperati, dalla distanza temporale della narrazione; e l’Autobiografia tutta intellettuale di Vico.

Dopo il Settecento in Italia la scrittura come confessione perde terreno in ambito letterario e conquista spazio nelle scritture minori e non destinate al pubblico, per poi esplodere col Decadentismo: D’Annunzio riporta la scrittura alla natura sfuggente del sé, una scrittura non lineare ed allo stesso tempo complessa con al centro l’inquietudine ineliminabile dell’io.

Con lui si apre propriamente la stagione autobiografica novecentesca che si ramificherà in modalità variegate: dal Contributo alla critica di me stesso crociano, tradizionale, sia nella forma che nella sostanza, e serena ricostruzione della sua esperienza di uomo intellettuale, ad espressioni più connotate dalla dimensione psicologica di dissidio interiore, come ad esempio l’Uomo finito di Papini, per arrivare a testimonianze fortemente contraddistinte dal genere e dalla prospettiva femminile (si pensi a Una donna di Aleramo).

Modi e temi differenti di raccontarsi non solo conquistano l’ambiente letterario, ma irrompono in contesti eterogenei, dall’indagine psicologica e sociologica alla prospettiva pedagogica dell’autoformazione, per cui fermarsi e ritagliarsi del tempo per mettere a posto la propria vita può innescare nel soggetto la fiducia nelle proprie capacità ed allo stesso tempo il desiderio di progettare il futuro, anche quando, in età senile, la tentazione potrebbe essere quella di lasciarsi andare ad un’immanenza stretta tra il balsamo dei ricordi della vita passata e l’attesa della morte.

L’esplosione della scrittura di sé anche in ambito non letterario è da collegare indubbiamente nei paesi occidentali all’alfabetizzazione di massa che ha permesso di conquistare la parola come strumento di affermazione dell’io individuale, di farlo emergere dalla nebulosa sociale.

Sono nato dalla scrittura: prima, c’era solo un gioco di specchi; a partire dal mio primo romanzo, seppi che un bambino s’era introdotto nel palazzo di specchi. Scrivendo, esistevo, mi sottraevo alle persone grandi; ma non esistevo che per

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205 scrivere, e se dicevo: io, ciò significava: io che scrivo. Non importa: conobbi la gioia; il bambino pubblico si fissò privati appuntamenti.7

Ma la narrazione di sé può celarsi, come abbiamo visto, attraverso l’utilizzo della terza persona ( si pensi a Svevo che, attraverso Zeno, la maschera, riesce a definire il proprio dissidio) o nelle corrispondenze.

Seppure in forme differenti, dal vitalistico e pulsionale D’Annunzio, passando per il contemplativo Croce e il nihilista Papini, per poi giungere alla psicanalitica ricerca d’identità di Svevo e alla voce femminile nel senso più profondo della D’Aleramo, tutti questi autori si affacciano al Novecento con il bisogno di definirsi come soggetti, proprio quando viene sancita la morte del soggetto-coscienza, fiero e monolitico.

In tempi più recenti (dopo la lunga scia di narrazioni ispirate anche alle tematiche proustiane e freudiane) si assiste alla produzione di scritture più sperimentali, in stile americano si potrebbe dire, sulla strada, come nel caso di Altri libertini di Tondelli, ritratto di una generazione ottantottina arrabbiata.

Seppure in forma minore rispetto alla Francia, anche in Italia la scrittura di sé ha condotto ad una legittimazione del romanzare il proprio sé precario e frammentario, fatto che si è legato, come detto più volte, alla nuova centralità attribuita alla soggettività dalle scienze sociali.

L’io non è più un dato, una certezza, ma si fa attraverso il racconto: la riflessione prende il sopravvento sull’immediatezza e l’unico modo per farsi è accogliersi, ascoltarsi e cercare di comprendersi (nel duplice senso di prendersi in carico e dotarsi di senso): una ricerca filosofica sul senso della propria vita.

[…]– nessuna narrazione può dar luogo a una forma qualsiasi di verità oggettiva – è, semmai, il riscatto della soggettività che essa tenta di perseguire. Ciascuno può al massimo comprendere quel che di sé ha scritto, nulla più, e, al contempo, si arricchisce poiché è una descrizione (un’autodescrizione) infinita.8

Lo sforzo di rivelare la propria unicità dotata di senso permette di scoprire al contempo le assonanze con le vite degli altri, e conseguentemente di comprendere gli altri, di divenire più aperti al mondo e alle sue sfide:

7 Sartre J.-P. (1963), Le parole, tr. it. de Nardis L., Milano 2011, p. 106

8 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, p.434, Raffaello Cortina, Milano 2008

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206 […] non intendo perciò di permettermi delle risibili lungaggini accennando ogni minuzia; ma intendo di estendermi su molte di quelle particolarità, che, sapute, contribuir potranno allo studio dell’uomo in genere; della qual pianta non possiamo mai individuare meglio i segreti che osservando ciascuno sé stesso. […]. Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di questa opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di sé stesso? Quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare, di più addentro conoscere, di più esattamente pesare, essendo, per così dire, nelle più intime di lui viscere vissuto tanti anni?

Quanto poi allo stile, io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto quest’opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno; e che sola può convenire a così umile tema.9

Inoltre la scrittura consente al soggetto che intraprenda questo percorso di scoprire il potere narrativo che permette di sceneggiare il proprio vissuto inquadrando solo ciò che valuta opportuno, sia dal punto di vista della condivisione sociale che da quello narrativo stesso, lasciando fuori dal campo tutto ciò che ritiene debba rimanere segreto: non inquadrato, ma percepito dal soggetto.

Nel faticoso cammino che porta l’aspirante autobiografo a trasformare ombre e voci in un racconto organico, come sostiene Demetrio10, la prima sosta è rappresentata dalla pratica autologica, endofasica, da cui successivamente si giunge alla seconda tappa importante e consistente in brevi pensieri scritti su sé, autografia, grazie a cui poter ricomporre pezzi di vita, autobiologia da dotare di senso e di intimo afflato in quella che diviene l’autobiografia vera e propria.

Autobiografia che, nel dare un senso agli accadimenti, tentando di riportarli al sé, alla sua volontà, alle sue emozioni e motivazioni, può essere definita una storia psicologica che, nel delineare una personalità coerente da sé per sé, contemporaneamente deve essere plausibile e leggibile anche per gli altri.11

In questo ‛da sé e per sé’ possiamo scorgere il processo cognitivo della bi-locazione, che permette all’individuo, scindendosi tra l’io attuale e l’io passato, di distaccarsi dall’immanenza ontica dell’esserci per comprendersi e, nel comprendersi, anche negarsi, ipotizzarsi, pensarsi altro da sé12: nella creazione necessaria del

9 Alfieri V. (1806), Vita, Mondadori, Milano 1987, p.43

10 Demetrio D., Pedagogia della memoria. Per se stessi con gli atri, Meltemi, Roma 1998

11 Farello P., Bianchi F., Laboratorio dell’autobiografia – Ricordi e progetto di sé, Erickson, Torino 2001

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207 interprete/attore/personaggio della propria storia si scopre di essere e di poter essere tanti Io.

Secondo Gargani raccontarsi ha il valore ulteriore di sigillare il proprio passaggio nella storia13: infatti, se da una parte scrivendo di sé si cerca di comprendersi, dall’altra si forma la convinzione che ciò che si va narrando possa essere un lascito, una testimonianza degna di essere raccolta dagli altri, soprattutto in una prospettiva intergenerazionale.

La bilocazione autobiografica, oltre a far luce sul passato a partire dal presente, offre l’opportunità di decifrare il presente a partire dal passato, scorgendo ciò che nel tempo è rimasto costante, ciò che si è desiderato e si continua a desiderare, ciò che ha perso fascino e ciò che è rimasto in sospeso; e questo in virtù dell’oscillazione costante tra l’io narrante e il lui/lei protagonista della narrazione, tra il presente ed il passato (ma anche il futuro) e tra rimuginare interiore ed esteriorizzazione, quindi socializzazione, verbale; e da ultimo, ma non per importanza, tra amore narcisistico di sé e senso di perdizione. Lo scrivere di sé non può quindi non avere risvolti interessanti anche in ambito didattico, non per forza allo scopo di scandagliare la psiche, ma anche solo limitato al gusto e all’impegno di costruirsi, e nel farlo scoprirsi più forti e interroganti, e non semplici macchine acquiescenti e acconsententi: per essere liberi bisogna innanzitutto essere, o meglio, farsi, definirsi, altrimenti l’esercizio della libertà si limita all’impressione della scelta.

E per farlo occorre molta pazienza, la capacità di rallentare il passo ed una sorta di pietas: virtù che paiono stridere con la frenetica routine quotidiana in cui tutti, sin da bambini, siamo stritolati.

Ma proprio per questo possiamo dire che, se per scrivere di sé è necessario darsi tempo, la pratica autobiografica diviene anche uno strumento sociale per dissociare la propria soggettività dalla macchina produttiva, per fermare il tempo cronologico, quello che regola il lavoro e la responsabilità sociale.

Eppure, sottraendosi alla routine sociale per flettersi su se stessi, nel lasciare una testimonianza scritta della propria autoindagine, si compie un gesto profondamente sociale, poiché nel raccontarsi emerge lo sfondo, su cui si stagliano gli altri, il proprio

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208 tempo, la cornice storica; e ciò può essere interessante ed importante anche per la collettività.

Per riuscire a tessere la trama della propria esistenza non è possibile eludere interrogativi cruciali: ciò impegna il soggetto narrante in un estenuante ma benefico esercizio di presa in carico del sé, delle proprie ragioni, dei propri sentimenti, da cui non si può che uscire cresciuti. Per questa ragione la pratica autobiografica riveste sempre maggiore importanza in ambito pedagogico, e questo soprattutto perché la scrittura permette di veicolare con calma e con metodo quello che abitualmente si fa, ragionando tra sé e sé.

Scrivendo, inoltre, siamo costretti a finalizzare i ricordi utilizzati nella narrazione allo scopo di convincere, oltre a se stessi, anche gli altri nella dimensione del presente, uscendone così cambiati insieme ai ricordi stessi.

Di nuovo dobbiamo affermare che in gioco non c’è la veridicità del narrato, quanto lo sforzo emotivo e cognitivo del narratore alla ricerca di se stesso.

Ma perché la pratica autobiografica acquisisca tale compito nella vita degli individui, è sicuramente necessario che in ambito educativo ne sia riconosciuto il valore e che quindi ci si assuma la responsabilità di educare i soggetti in formazione a non avere timore ad indagarsi, fornendo loro gli strumenti necessari per farlo.

Attraverso la scrittura (grafia), infatti, il bios viene interrogato, ordinato, interpretato in modo autonomo (auto) senza cioè l’intervento di una figura esterna che se ne assuma l’onere. E attraverso questa operazione l’io ne esce modificato, più consapevole della sua storia, ma anche delle sue capacità.

Nel ricomporre le schegge del passato in un quadro compiuto, le esperienze vissute vengono guardate da una nuova prospettiva, che è quella della continuità e del senso. Parlare di sé riveste un’importanza cruciale nei diversi periodi di vita: il bambino, attraverso la propria storia, si differenzia sempre di più rendendosi conto al contempo delle sue capacità e dei suoi limiti; l’adolescente, spaesato e senza punti di riferimento, può tentare di definirsi, di darsi un’identità; gli adulti e gli anziani hanno la possibilità di vedere un’opera quasi compiuta, da cui trarre spunti per il futuro, in cui non bisogna mai smettere di investire.

Nello scrivere della propria vita si scopre anche una qualità particolare del ricordare eventi lontani: il tempo stempera la rabbia o il rimorso per i torti subiti o agiti, una sorta

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209 di amnistia, e stempera anche il dolore per tutte le cose care andate perdute (persone, luoghi); può dominare la nostalgia che però è un sentimento caldo, che permette la risonanza emotiva con quello che si va raccontando.

Al termine dell’impresa autobiografica si ha sempre l’impressione di aver sigillato un io che non si è più, riuscendo a distanziarsi da sé e a guardarsi con occhi diversi, come se appartenessero a qualcun altro.

Il distanziamento creato dall’asse narrativo io narrante-egli narrato facilita l’autocomprensione, indispensabile per la rielaborazione del materiale esistenziale:

E poi, mi sdoppiai. L’anno prima, quando “facevo il cinema”, recitavo la mia precisa parte, mi buttavo a corpo morto nell’immaginario e ho creduto più d’una volta di sprofondarmici completamente. Ora che ero autore, l’eroe ero ancora io, proiettavo in lui i miei sogni epici. Ma in effetti eravamo due: lui non portava il mio nome, e io non parlavo di lui che in terza persona. Invece di attribuirgli i miei gesti, gli plasmavo con parole un corpo che ebbi la pretesa di vedere. Questa “distanziazione” improvvisa avrebbe potuto spaventarmi: e invece mi affascinò; fui felice d’essere lui senza che egli fosse del tutto io.14

La scrittura offre poi, come abbiamo già accennato, un duplice vantaggio: lo sforzo di scrivere si traduce in uno sforzo di chiarezza, che avrà come conseguenza un’aumentata sensibilità analitica; inoltre, la possibilità di rilettura consente al soggetto di avvicinarsi al proprio testo (alla propria vita come testo) con gli strumenti acquisiti negli anni rispetto alla comprensione testuale in generale.

Scrivere di sé è anche affermare e difendere la propria irripetibilità all’interno della dimensione sociale: l’esperienza creativa della scrittura consente di crogiolarsi positivamente nel proprio mondo interiore, in una dialettica sana con quello esteriore (pur non dimenticando che in questo crogiolarsi tutto interiore in realtà è presente la dimensione culturale di appartenenza).

Il filo rosso di qualunque scrittura autobiografica è quello che cerca di rintracciare la continuità dell’io nella discontinuità rappresentata dallo sviluppo e dai cambiamenti ad esso connessi: si può prediligere mettere in risalto l’uno o l’altro aspetto, ma in ogni caso, anche nel cambiamento, emerge un’identità: ovvero, pur cambiando, siamo sempre, in qualche modo, gli stessi.

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210 E, d’altro canto, pur volendo privilegiare la continuità, nel testo autobiografico non possono non comparire momenti di rottura, di svolta, che consentono al racconto di aderire ad un piano narrativo generico in cui il personaggio principale deve incontrare degli ostacoli, rendendo così la sua storia avvincente ed unica, fuori dal comune.

Il teatro della vita si dispiega grazie ai racconti più che agli eventi raccontati. Le storie non sono semplici ‛cronache’, verbali di riunioni redatti da un segretario, scritti per riportare esattamente ciò che è successo e in quale momento. Le storie riguardano meno i fatti e più i significati. Nella narrazione soggettiva e arricchita del passato, viene costruito il passato, viene fatta la storia.15

A differenza del semplice sfogo, della confidenza orale che lenisce il dolore o rende più chiara una situazione momentaneamente, quello scritto è “un insieme di cuciture durevoli”16 dal taglio artistico che consente non solo al sé scrivente, ma anche agli altri di potersi identificare nella storia.

Parlare di sé, fare autobiografia, era stato allora anche tentativo di consumare il passato nella comunicazione di quanto diversamente poteva restare al ricordo, a quella memoria che si perde nell’abbandono del segreto individuale, nell’usura di tutto quanto, taciuto, continua a esistere e contare come durata a noi stessi. Scrivere la propria vita poteva essere insomma un modo per dettare la propria lapide cercando di persuadersi dell’innegabile unicità entro la tipicità umana; poteva identificarsi col tentativo di trovare un silenzio vero, nato e fabbricato da un’eccezionalità bruciata al contatto, in grado di portare alla saggezza della distanza – conquistata dall’intelletto come prima imposta dal cuore – e con quella alla speranza di bene morire.17

La “felicità autobiografica”18 sgorga dal piacere di ritrovare nei ricordi situazioni che ci hanno procurato benessere, gioia; ma anche dalla consapevolezza della propria crescita, in caso di ricordi di situazioni negative e dolorose: il bilancio non può che essere positivo e lo sguardo distaccato dalla propria vita si fa clemente e soddisfatto.

L’utilizzo della parola, soprattutto della parola scritta, porta l’esplorazione di sé ad un piano maggiormente riflessivo in un processo autoeducativo e autoformativo fondato sull’introspezione e la retrospezione.

15 McAdams D.P., The Stories We live by: Personal myths and the making of the self, New York: Morrow, 1993, cit. in Ciambelli M., Memoria ed emozioni, Liguori, Napoli 2004, p.28

16 Demetrio D., Raccontarsi-L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1995 17 Alfieri V., Vita, cit., p. 17

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211 L’io-cogito/coscienza/essenza è morto e rinato sottoforma di io-incarnato fluido e connotato narrativamente, per cui la parola è l’unico vero strumento di autoposizionamento nel mondo e di scambio con gli altri.

La scrittura è gratificante nella misura in cui riporta il mondo alla dimensione individuale, un mondo da decifrare in chiave soggettiva, in cui definire le interconnessioni percepite sulla propria pelle.

Le pratiche di scrittura personale – di questo sono ormai convinto e non sono il solo – tanto più se stimolate, incoraggiate e assistite, costituiscono una possibilità assolutamente soggettiva di reazione alle forze oscure della depressione, della sfiducia in se stessi, dello smarrimento più devastante.19

Oltre alla scoperta di essere soggetti capaci di fare da sé per sé, la scrittura autobiografica consente di prendere le distanze da situazioni affettive fagocitanti caratterizzate dalla dipendenza, ed allo stesso tempo di sciogliere nodi che hanno irrigidito determinati rapporti, consentendo riavvicinamenti insperati.

In un circolo virtuoso, ciò che all’inizio appare uno strumento strano ed estraneo (la scrittura) necessario per autocurarsi, diviene, attraverso la disciplina e la sempre maggior sicurezza, una sorta di protesi indispensabile al proprio naturale riflettersi: solo scrivendo, superando il timore di non riuscire a farlo, si impara a scrivere.

“Il male, scrivendo, lo avvolgiamo in una rete di parole; come in un bozzolo che così ci portiamo appresso per svolgerlo (rileggerlo e sopportarne finalmente la natura) in un tempo diverso.”20

E dal proprio male, attraverso la scrittura, scopriamo l’attitudine filosofica di interrogare la vita in generale, e non solo la nostra: questo è il piano più alto del processo autoformativo, poiché, se è legittimo cercare conforto e senso per sé nella scrittura, è altresì vero che il mondo è radicato in noi, anche quando in solitudine ci flettiamo su noi stessi; e dunque allargando l’orizzonte sulla scorta di nuovi impulsi esplorativi possiamo scoprire regole generali che possano ancor più confortare la propria esperienza unica e irripetibile.

19 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, cit., p. IX 20 Ibidem, p. XI

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212 Mi affezionai molto a questa degna signora che mi impartì insegnamenti e consigli assai saggi: se ne avessi fatto tesoro e li avessi seguiti, la mia vita non sarebbe stata tanto tempestosa, ma in questo caso ora non la reputerei degna di essere scritta.21

La scrittura, abbiamo detto, consegna l’io all’immortalità; è una sorta di antidoto laico all’incedere del tempo, alla caducità e infine alla morte: “La scrittura sutura l’unica ferita veramente inguaribile che è quella del tempo finito.”22

Volendo sintetizzare i benefici della scrittura autobiografica possiamo dire che innanzitutto il necessario sdoppiamento io-egli narrativo rafforza il dialogo interiore; alla scoperta della propria precarietà è possibile dare un senso, seppur provvisorio, in grado di lenire il dolore esistenziale; ancorandosi ai ricordi, la scrittura autobiografica ci consente di riconnetterci col nostro mondo più intimo, fatto di affetti e collocato in una comunità; nello scrivere siamo costretti a tessere una trama significativa e coerente dal punto di vista formale e a soffermarci sulle parole più adeguate, sforzo che implica una maggior capacità di far luce su ciò che si va indagando; e, non da ultimo, la scrittura autobiografica consente di sganciare provvisoriamente l’io fondato sulle sue motivazioni dall’io spesso troppo definito socialmente.

La scrittura autobiografica

È una mossa astuta per evitare che i ricordi si disperdano in un pulviscolo di neuroni moribondi e in coma irreversibile […]; è un trucco per eludere, oltre che gli scherzi della memoria, ogni tentativo di abbandonarsi al presente […]; è un accorgimento per ricapitolare la propria vita fin dove i ricordi possano arrivare, sia quelli personali sia quelli che altri possono avere di noi. Per ripassarne le fasi e i passaggi, per dirsi, con soddisfazione e malizia, “sono sopravvissuto fin qui”.23

L’utilizzo della scrittura, che obbliga attraverso le convenzioni sintattiche e fraseologiche a trasformare pensieri confusi in concetti chiari, almeno al sé scrivente, va intesa anche come rivendicazione della libertà di esprimersi e nel contempo del diritto di essere rispettati, come soggetti dotati di pensieri e di vissuti propri, unici ed irripetibili.

Se l’impresa appare impossibile da soli, è possibile essere accompagnati nell’avventura narrativa che consente di scendere a patti con la propria memoria, perché anche laddove

21 Casanova G.G., Memorie scritte da lui medesimo, Garzanti, Milano 2015, p.45

22 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, cit., p.33 23 Ibidem, pp.59-60

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213 il viaggio ci conduca in luoghi da cui vorremmo tenerci alla larga, scopriamo che siamo capaci di sopportare il dolore ed è la penna il balsamo lenitivo.

“E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico: chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo; […].”24

Ma spesso si crede che la soluzione alla sofferenza sia cancellarla, non contemplando il fatto che assieme ad essa si cancella il sé sofferente, il nostro sé, impedendosi così la possibilità di crescere attraverso il dolore, dunque grazie al sé sofferente.

La scrittura nel momento in cui, come nei frammenti precedenti, opera un’inevitabile reinteriorizzazione dei vissuti è un agente impareggiabile perché il processo di carattere riabilitativo possa compiersi in quanto revisione di vita, riprogettazione esistenziale. […] restituzione del soggetto a se stesso.25

Scriver-si è anche scoprire di amarsi e contemporaneamente di riuscire a dominarsi e così rifiutarsi di vivere in superficie disperdendosi nella quotidiana ricerca banale e non autentica dello stare bene attraverso la soddisfazione di desideri effimeri ed estranianti. Requisiti indispensabili per riuscire a portare a termine l’impresa autobiografica sono dunque la disponibilità a dedicarvisi con costanza, ad accettare il materiale mnestico, tutto, che via via viene riaffiorando da metter in relazione con il presente; infine a delineare l’interlocutore, il destinatario del prodotto finale.

Non vi è promessa di guarigione, né di pienezza, né di riappacificazione in quel gesto simbolico vergato attorno al proprio io; che ogni autobiografia consegna al suo autore. Ma, almeno, guardando quel carteggio – leggendo di malavoglia quel presunto ordine che ci lascia insoddisfatti -, si respira un istante di fragile certezza di non essersi percepiti, mai prima fino a quel balenio di coscienza, più in possesso di se stessi. Se la scrittura ha adempiuto a questa missione, quell’io può – allora sì – concedersi di cancellare quel cerchio di parole di sé, che per artificio, per gioco, per esilio volontario, si era costruito tutt’attorno, per tornare – più sapiente – dentro l’informe della vita. Per ricominciare a scrivere.26

IV.2. Cura di sé e autoformazione

24 Aleramo S., Una donna, cit., p.79

25 Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, cit., p.147 26 Ibidem, p.444

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214 Temo chi fa qualcosa per me senza di me27

Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e dalla mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliarda d’ogni altra, l’amore di me medesimo; quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti; ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono. Ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell’uomo proviene, allor quando all’amor di sé stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno. 28

Nell’età adulta ricordare equivale ad avere la consapevolezza di avere vissuto e non di avere tutta la vita davanti: questa consapevolezza può portare o al desiderio di non pensarci, cercando di dimenticare, per eludere sentimenti come rimpianto, rimorso e fallimento; oppure, all’opposto, darsi lo spazio necessario per fare dei ricordi un racconto sensato attraverso la scrittura autobiografica, proprio per curarsi, rendendo armonico ciò che apparentemente appare cacofonico.

Ma come abbiamo precedentemente affermato, se si attribuisce valore alla narrazione di sé, ciò si deve tradurre in ambito educativo in una precoce iniziazione all’autoindagine, poiché se l’adulto può trasformare il vissuto in una storia dotata di senso, allo scopo di riappacificarsi con sé e il mondo, per il bambino ed il giovane, che hanno tutta la vita davanti, raccogliersi e scriversi può aiutare a diradare la nebbia che aleggia sul futuro, delineandolo in termini di progettualità e di scopi da raggiungere.

Coltivare pedagogicamente la memoria non ha quindi lo scopo di coltivare nostalgicamente il passato, ma di mantenere vivo l’atteggiamento più propriamente umano e vitale che è quello dell’esplorazione e del desiderio, nel presente e nel futuro, in stretta interconnessione con gli altri e gli altrui sogni e progetti.

Ma a chi narro questi fatti? Non certo a te, Dio mio. Rivolgendomi a te, li narro ai miei simili, al genere umano, per quella piccolissima particella che può imbattersi in questo mio scritto. E a quale scopo? All’unico scopo che io ed ogni lettore

27 Canzone tradizionale greca, cit. in Scrivo dunque sono- Esercizi di scrittura e progetti di vita,

http://old.cgil.it/Archivio/formazionericerca/Formazione%20permanente/report%20naz.%20Auser-%20Scrivo%20dunque%20sono-%2022%20maggio%2009.pdf, p.48

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215 valutiamo la profondità dell’abisso da cui dobbiamo lanciare il nostro grido verso di te.29

La cura di sé implicita nella scrittura autobiografica è relativa sia all’io passato, che viene valorizzato, risarcito e giustificato, ponendo gli eventi che lo hanno visto attore principale su una linea di concatenazioni causali e necessarie, facendone emergere le motivazioni ed i sentimenti connessi, sia all’io presente, che attraverso l’autorappresentazione narrativa, ne esce maturato e più consapevole.

Dal punto di vista educativo stiamo dunque parlando di uno strumento dal valore inestimabile, poiché il soggetto, in modo autonomo e libero, pone la sua soggettività al centro della sua ricerca, una ricerca che oscilla tra passato, presente e futuro e in cui la soggettività è allora strumento e scopo del percorso autoformativo.

Il presupposto teorico-filosofico sottostante il sostegno della pedagogia alla natura autoformativa della scrittura autobiografica è che ci sia uno stretto collegamento tra formazione e costruzione del sé, un sé connotato psicologicamente ed esistenzialmente: in questa dialettica si fa il soggetto, in un percorso personale e non determinato a priori, un percorso non lineare ma problematico, reso significativo e sensato dall’esperienza della scrittura.

C’è, inoltre, un aspetto secondario legato al narrare tout-court che diviene un ulteriore strumento di crescita: il soggetto scrivente deve fare appello alle sue abilità cognitive per organizzare il racconto; i fatti devono essere analizzati, classificati, spiegati, talvolta poetizzati per essere enfatizzati.

E quindi, parallelamente all’aumentato amore per sé, si registra un miglioramento delle abilità cognitive stesse messe in campo nel progetto autobiografico.

Lo psichiatra americano Polster ha individuato nella sua indagine sul racconto orale, l’elemento di distensione emotiva connessa all’utilizzo della parola30: ci sono stati emotivi forti (come la rabbia, la paura, ma anche l’euforia) che necessitano di essere esternati per scaricare l’energia divampata e riportare il soggetto al giusto equilibrio emozionale.

29 Agostino, Le Confessioni, cit., pag.36

30 Polster E., Ogni vita merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Astrolabio, Roma 1988, p.53, cit. in Demetrio D. (a cura di), L’educatore auto(bio)grafo – Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’aiuto, Unicopli 1999

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216 “Da allora scrivo quasi ogni giorno e in modo particolare quando sento potenti emozioni sovrastarmi, emozioni cui non so dare nome e che la scrittura mi aiuta a esplorare, nominare, ordinare.”31

Secondo White32 l’esternalizzazione è essa stessa curativa, perché associata all’idea simbolica dell’espulsione, di liberazione dal magma interiore: nel raccontare ci si pone alla giusta distanza che permette di accettare anche le esperienze più dolorose, distanza che può essere amplificata dall’uso della terza persona o dalle metafore, ad esempio.

Dall’estate 2005 sono stato travolto dalle mie vicende personali con la malattia, l’agonia e infine la morte di Giusi, per cui in questi anni per me è stato importante seguire la scrittura della malattia, l’esperienza del dolore e poi l’esperienza della morte, la gestione del lutto nel terremoto emotivo che una perdita così può apportare. In questo periodo ho scritto molto, era un modo per accompagnare me stesso, per poter continuare a vivere.33

L’amore accresciuto di sé è legato alla scoperta che la propria vita è interessante: scoperta che non è affatto scontata, dal momento che solitamente riusciamo ad attribuire tale giudizio più facilmente alle vite altrui.

Non si tratta dunque di un amore narcisistico futile, ma di un rinnovato interesse per sé e per il proprio destino.

Le tracce della passata esperienza danno senso alla quotidianità, arricchiscono gli schemi attuali con cui percepiamo e gustiamo il presente; attraverso la motivazione che induce a integrare le esperienze personali in una narrativa interessante, si sostiene la curiosità per come andrà a finire l’avventura della vita.34

Il pensiero autobiografico si discosta dal generico parlare e raccontare di sé, perché si presenta come desiderio di raccontarsi in modo differente, rispondendo a domande più profonde e radicali legate al senso dell’esistenza stessa e della propria identità; un desiderio che prende uno spazio costante nella quotidianità in cui il sé viene curato.

31, Abissi, in Pedretti A.M.(a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, edizione fuori commercio realizzata e stampata in proprio con il contributo della Banca di Anghiari e Stia, 2009, Sansepolcro (AR) p.115

32White M., La terapia come narrazione, Astrolabio, Roma 1992

33 Lazzarini C., Citttà e paesi in racconto, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, edizione fuori commercio realizzata e stampata in proprio con il contributo della Banca di Anghiari e Stia, Sansepolcro (AR) 2009 p.270

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217 Volendo fissare una data, fu nel 1980, e dunque in età pienamente “adulta”, che mi nacque dentro (naturalmente fu un caso) una specie di “curiosità di esplorarmi”: cominciai a riempire alcuni quaderni con fatti e vicende della mia vita. Non memorie, né diari: storie e riflessioni sulla mia giovinezza all’inizio, poi su alcuni nodi irrisolti delle mie vicende familiari, sentimentali ed esistenziali, sui loro riflessi nel presente. Mi resi conto che mi aiutava, mi faceva capire cose prima misteriose, mi faceva ritrovare orizzonti e coordinate, e stare meglio.35

Pensiero che si trasforma in scrittura autobiografica, di cui il soggetto scrivente è l’unico responsabile e, da autodidatta, impara facendo: il passato che gradualmente fuoriesce dal suo mondo interiore va a dispiegarsi razionalmente sulla pagina bianca, passato che a questo punto non può che essere riconosciuto ed accettato.

Ma flettersi sul passato può essere curativo solo a patto che si trasformi nell’impegno di vivere con maggiore consapevolezza il presente e di guardare con fiducia e voglia di programmare il futuro, accettando la propria inestricabile complessità.

Scrivere la mia autobiografia, vederla riassunta in un piccolo libro, è stato come riviverla, progettarla anche nel futuro, è stato acquisire uno strumento di cura che mi ha reso più potente, più forte che mi ha fatto apprezzare di più me stessa e la vita.

La frequenza alla scuola, la scrittura che ho praticato mi ha permesso di vivere meglio, con più piacere e consapevolezza, i fatti quotidiani, le esperienze che vivevo giorno per giorno, ho la consapevolezza che queste esperienze le posso scrivere, le posso rileggere, le posso modificare.36

Secondo Demetrio i ‛poteri analgesici’37 della scrittura autobiografica risiedono nella ‛dissolvenza’ tipica del ricordare, per cui niente appare compiutamente in modo nitido, fatto che alimenta il distacco necessario per non essere travolti dall’esperienza mnestica; nella condivisione implicita con altri della propria storia, che contribuisce ad un interscambio costruttivo; nella sensazione di ‛ricomposizione’ di un puzzle fino a quel momento presente in pezzi sparsi; nella dimensione creativa della scrittura, per cui il passaggio dalla memoria alla scrittura non è un semplice copia e incolla, ma una vera e propria invenzione in cui i fatti, attribuiti finzionalmente ad un altro-da-sé, seppur sempre il proprio sé, vengono mescolati ai sogni, ai desideri e alle fantasie che al

35 Bellamio D., in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.208

36 Costanzi C., Rinascita, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.538

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218 termine dell’esperienza generano la storia molto somigliante alla nostra, ma non l’unica, certa, assoluta e definitiva versione.

Infine, l’andare oltre la propria storia personale, allargando l’orizzonte di ricerca di significato includendo così il mondo e gli altri, è un ulteriore fattore di consolazione e di ritrovato benessere.

Dal punto di vista pedagogico acquista significato non solo l’atto di scrivere la propria memoria, ma l’arte di coltivare la memoria in sé e per sé, perché solo riconoscendo il valore inestimabile delle esperienze vissute possiamo comprendere, di riflesso, il valore unico della nostra esistenza.

Ho scoperto, così, che quella mia infanzia che avevo sempre pensato solo felice era stata, invece, anche travagliata. Ho cominciato a prendere coscienza che tutti i problemi che avevano afflitto la mia famiglia io li avevo assorbiti, inconsapevolmente, e che mi avevano segnato, in qualche modo: forse stava lì la chiave per capire le mie insicurezze. […]

E, più ricordavo, più sentivo il bisogno di farlo.38

La sapiente ricerca interiore ha una lunga storia:

Le scritture platoniche e agostiniane sono dunque eventi nella cultura occidentale e mediterranea che hanno dato origine alla storia dell’interiorità e anche a due prototipi di cura. L’una dialogica, l’altra decisamente fonologica, ma giocoforza costretta a inventarsi un interlocutore interno: al quale confessarsi, confidarsi, svelarsi. La facoltà lenitiva della parola, la logofilia per sé e con gli altri generò ciò che definiremo retropatia: il sentimento profondo, lo stato d’animo, compagno del ricordo personale, che induce amore di sé, pietas per quanto è per sempre passato ma persiste nella memoria individuale o comune.39

‛Logofilia’ e ‛retropatia’, da così tanto tempo, si sono rivelati strumenti inequiparabili di accettazione responsabile ed amorevole di sé e della propria fragile esistenza; scoperta che è stata valorizzata nella dimensione sociale dalla conquista della parola scritta, attraverso la rivoluzione dell’alfabetizzazione obbligatoria, e dalla comparsa, sia linguistica che sostanziale, del pronome ‛io’.

38 Zaremba C., La Bolla d’Amore, in Pedretti A.M.(a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p.83

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219 Nel distanziarsi da sé, l’autobiografo può ravvedere nel sé-personaggio narrato un qualunque sé, altro da sé, non necessariamente il proprio sé, e questo agevola, come abbiamo visto, il confronto con contenuti scomodi o dolorosi.

Un allontanamento provvisorio, per poi ritrovarsi, alla fine, riuniti in una nuova veste, conciliante ed illuminata dalla ragione ordinatrice.

Ho fatto tante scelte, ho chiuso tante porte. Ma era necessario. Ecco cosa ha creato il lavoro autobiografico in me. Ha riportato in superficie ciò di cui avevo bisogno e mi ha curata! Mi ha aiutata a prendermi cura di me e delle mie paure, delle mie angosce e delle mie difficoltà.

Ecco cosa ha creato in me il lavoro autobiografico: ha creato me.40

Rogers ravvede nel modo ‛fluido’ di vivere l’unico vero atteggiamento adeguato alla sfida esistenziale che richiede un continuo adattamento a nuove condizioni ed imprevisti: la fluidità si esplica nell’accettare il sé che si forma attraverso l’esperienza, e non, viceversa, piegando rigidamente l’esperienza ad un’immagine statica del sé, in modo da divenire “parte inerente e cosciente di un processo costante di esperienza completa”. 41

Ma questo è possibile appunto solo lasciandosi andare alla scoperta e non all’imposizione di sensi possibili dell’esperienza stessa, accettando la natura mutevole del sé.

Non è semplice abbandonare i propri preconcetti che apparentemente ci rassicurano contro l’incessante e non sempre prevedibile divenire, ma in gioco ci sono due tipi di esistenza opposti: da una parte una vita bloccata e impossibilitata a sprigionare l’energia connessa alla continua trasformazione, dall’altra un esperirsi profondamente radicati nel presente, in ascolto vigile del passato e in tensione positiva e fiduciosa verso il futuro; ed indubbiamente la scrittura autobiografica può agevolare l’abbandono della corazza difensiva di un sé statico.

Sia che parliamo di quest’alga marina, o di una quercia, di un verme o di una grande falena notturna, di una scimmia, o di un uomo, dobbiamo tenere presente che la vita è un processo attivo, non passivo. Sia che lo stimolo derivi dall’interno o dall’esterno, sia che l’ambiente sia favorevole o sfavorevole, è certo che

40 Fenoglio D., Il lavoro autobiografico, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p.88

41 Rogers C.R. (1951), La terapia centrata-sul-cliente, Palmonari A., Rombauts J. (a cura di), tr. it. Carugati F., Magistretti M., Montevecchi T., Ricci-Bitti P., Martinelli, Firenze 1994, p.188

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220 l’organismo è teso ad assumere comportamenti tali da mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. È questa la natura propria del processo che chiamiamo vita.42

Rogers conclude la sua affermazione sostenendo che la ricerca di adattamento e miglioramento delle proprie condizioni di vita, comuni a tutti gli esseri viventi, è quella che ci permette di affermare che un organismo è vivo; in caso contrario è morto.

E si può morire anche solo in senso figurativo, rimanendo biologicamente vivi, ma avendo perso l’istinto e il desiderio di apprendere dalle proprie esperienze e dall’ambiente circostante, trincerandosi in un nevrotico autoannullamento costruito su un’autorappresentazione insensibile ai richiami della vita.43

Finora abbiamo tentato di mettere in rilievo l’aspetto curativo della scrittura autobiografica; ora cercheremo di definirne quello autoformativo.

Demetrio racconta che alla base della sua appassionata adesione e diffusione scientifica del metodo autobiografico come cura del sé vi sia stata, ancor prima, la convinzione che nella formazione fosse necessario mantenere condizioni molto prossime a quelle che l’esperienza offre, sia in termini di relazioni, che di emozioni; condizioni che fossero il meno artificiose possibile e che permettessero agli individui di sperimentare la condizione del come se, da cui sviluppare le abilità cognitive richieste nell’apprendimento, dimensione continua dell’esistenza.44

Questo, unito alla riflessione sull’esperienza autobiografica francese (che in termini educativi è iniziata intorno agli anni Settanta del secolo scorso) da cui Demetrio ha tratto la conclusione che la scrittura di sé potesse essere uno strumento notevole di autoaffermazione, ma anche di gestione positiva del dolore, lo hanno condotto sulla via di una costante, accorata e approfondita ricerca e divulgazione della scrittura autobiografica come dispositivo di autoformazione, a patto che il soggetto ne esca cambiato.

Abituato a prendere appunti e fare schede per gli autori che studio e che mi sono più particolarmente cari (donde le parecchie “bibliografie” da me pubblicate), osservo questa pratica anche verso me stesso, che mi studio e, in certa misura almeno, com’è naturale, mi sono caro: sicché il materiale qui mi abbonderebbe e, disposto in bell’ordine, mi darebbe la soddisfazione di un padre e di un nonno, che

42 Ibidem, p.290 43 Ibidem, p.290

44 Demetrio D., Raccontarsi, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.28

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221 contempli intorno a sé larga progenie di figliuoli e nipotini. Ma, se facessi ciò, scriverei quelle “memorie”, le quali non mi sono proposto di scrivere per la semplice ragione che non ne vedo l’utilità e certamente non ne sento l’urgenza, e le quali anzi mi ripugnerebbe scrivere, perché, se non cado nella stravaganza di aborrire me stesso, non ho poi l’animo di parlare di me, quando ciò non mi sembra utile a cosa alcuna. E utile mi è sembrato invece questo tentativo di analisi del mio svolgimento etico e intellettuale, e perciò mi son provato a farlo.45

Questo si è tradotto nella fondazione ad Anghiari della LUA (Libera Università dell’Autobiografia), di cui parleremo più approfonditamente nel paragrafo ad essa dedicata, e che negli anni ha decentrato sempre più il ruolo di supervisione e di organizzazione dei corsi, grazie alla formazione che si andava facendo di semplici aspiranti autobiografi in competenti formatori:

Durante gli anni di supervisione prima, e di conduzione dei seminari poi, ho svolto diverse funzioni dall’alto valore autoeducativo e autoformativo. Introdurre la metodologia autobiografica nei laboratori a me affidati ha sempre significato proporre percorsi concreti nei quali conoscere ed esercitare la mia soggettività per nutrire il potenziale di (auto)formazione insito in ciascuna delle persone incontrate.46

Chi ha partecipato ai seminari e ai gruppi di scrittura autobiografica alla LUA ha acquisito la consapevolezza che alla base di tale approccio ci sia la convinzione che la formazione debba allontanarsi dai paradigmi dell’insegnare e dell’apprendere ed essere più vicini al ‛pensare’ e al ‛pensarsi’47, riuscendo dall’esperienza vissuta a trarre il valore importante di rispettare i propri processi e quelli altrui di conoscenza esperienziale e non preconfezionata.

Frequentare la scuola mi ha permesso di sperimentare fino in fondo la scrittura di sé e la cura, ma anche di mettere in moto il cervello; cioè, come dicevo prima, la costruzione alla fine di un impianto, di una struttura dell’autobiografia, non era passata solo attraverso l’emozione del fatto di aver affidato alla scrittura i miei sentimenti, ma era passata attraverso un’operazione di consapevolezza e di scelta. Io ero stata molto stimolata dalla frequenza della scuola sul piano intellettuale, e questo mi ha permesso di capire che potevo imparare ancora, ricominciando ad

45 Croce B. (1918), Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, Milano 1989, p.67

46 Freddo S., In un caldo e afoso pomeriggio d’estate, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.233

47 Freddo S., Le potenzialità del confronto di storie, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., pp.233-234

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222 imparare ad imparare perché nella vita quotidiana sempre sei sopraffatto dagli impegni di varia natura.48

L’esperienza autobiografica può essere considerata autoformativa sotto diversi aspetti:

Innanzitutto la rievocazione, con il ritrovamento di esperienze che si pensavano perdute per sempre; poi il ricordare, a cui si deve il recupero di passaggi apicali delle esperienze vissute, spesso cariche di emozioni.

In terzo luogo il rimembrare lascia supporre un’operazione cognitiva che ambisce a rimettere insieme le membra dei ricordi; infine il rammentare, a cui si deve il fatto che il soggetto individui nel flusso dei ricordi quelli a cui si attribuiscono effetti sul proprio apprendimento. Proprio in questo alternarsi dei vari momenti il metodo autobiografico è polivalente, perché si situa nella latenza pedagogica delle esperienze vissute.49

Vita come progetto e non come dato, ricerca di un senso proprio e non attribuito dall’esterno, trasformazione attiva del sapere: tutto ciò rivela al soggetto la possibilità di trarre in modo autonomo conoscenze dall’esperienza vissuta in relazione a sé e agli altri. E l’educazione ha senso solo se innesca nell’educando la miccia di voler fare da sé, pensando liberamente e creativamente; la vera scuola è quella che esce dalla scuola, va oltre la scuola, quando si provi il piacere di portare nel proprio vissuto gli strumenti appresi per continuare ad indagare il mondo, arricchendo la personale dimensione interiore ed acquisendo fiducia nelle proprie capacità.

Se in ambito educativo si riesce a perseguire questo scopo, l’individuo sarà dunque più aperto e disponibile ad apprendere da quelle situazioni esistenziali che comunque impongono la ricerca ed il consolidamento di nuove risorse per superare momenti critici e di cambiamento.

L’educatore deve quindi essere fermamente convinto dell’importanza che il flettersi su se stessi riveste per guidare i soggetti nella conquista della propria autonoma attività pensante e nel riconoscimento e rispetto della propria e altrui particolarità esistenziale. “Senza un’educazione che sappia diventare autoeducazione protratta fino alla vecchiaia, la dipendenza dagli altri – quando gli altri si distraggono e scompaiono – è l’assuefazione più atroce.”50

48 Pedretti A.M., Scrivere la propria storia, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.443

49 Farello P., Bianchi F., Laboratorio dell’autobiografia – Ricordi e progetto di sé, cit., p.33

50 Demetrio D., L’educazione interiore – Introduzione alla pedagogia introspettiva, La Nuova Italia, Firenze 2000, p.88

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223 L’autoeducazione, fondata sull’introspezione e sulla retrospezione, non può prescindere dall’esperienza della solitudine, approdo necessario per prendere le dovute distanze dal vissuto e dagli altri, al fine di poter operare autonomamente riflessioni e connessioni mai definitive.

Per trovare un sollievo al vuoto esistenziale, per primeggiare e affinare l’esercizio del potere? Per affermare, al contrario, una nuova democrazia pedagogica fondata sulla disarmante ovvietà che il diritto all’io è un progetto e un rischio individuale; che ciascuno è autore di un testo da correggere e riscrivere all’infinito; che – ancora con Montaigne – stiamo con noi stessi ventiquattro ore al giorno e (quasi) non ci conosciamo; che ogni cambiamento, in assenza di un’educazione precoce all’autoriflessività, è in realtà ripetizione; che le tecniche per cercarsi, raccontarsi, conoscersi non debbono mai servire a fuggire dalla drammaticità del vivere e dalla riscoperta dell’inquietudine come valore e condizione di accesso a nuovi mondi di vita.51

Ispirati anche da chi ha già coraggiosamente intrapreso il viaggio verso se stessi, lascandone un segno duraturo attraverso la parola scritta, scandagliando le vicende e gli attori in esse coinvolti, tentando di dare una spiegazione plausibile che tessa la rete in cui impigliare in modo illuminato i ricordi talvolta sconclusionati, non può che portare ad un nuovo modo di percepirsi: mai finito, mai risolto, ma sempre domanda, interrogativo, a cui tentare continuamente di dare, in un circolo virtuoso, un provvisorio senso che orienti l’asse temporale passato-presente-futuro secondo le istanze più propriamente soggettive.

Allora si scopre che quella che sembrava una vana ricerca del tempo perduto, o un rischioso risveglio di fantasmi dormienti, diventa un processo di riappropriazione di un sé capace di collocarsi nel presente, di dargli un senso, di viverlo con maggiore consapevolezza e senza timore di progettarsi nel futuro; questa è stata per me l’esperienza autobiografica di Raccontarla per vivere.52

Autoformarsi nel senso di attribuirsi provvisoriamente, con un lavoro meticoloso di introspezione, un’identità funzionale alla vita, e quindi all’evoluzione, e non alla mummificazione del sé, ovvero alla sua morte.

Nell’autobiografia una buona osservazione dei comportamenti potrebbe aiutare a non ripetere azioni in risposta a bisogni costruiti nell’infanzia. Il passato si

51 Ibidem, p.168

52 Gozzani G., 1-Raccontarla per vivere, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., pp. 173-174

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224 ricontatta per sciogliere le cristallizzazioni che non permettono di proseguire; amare la propria storia è l’inizio di un cammino evolutivo. Il senso è stato, dunque, riuscire ad amare la mia storia per quello che è.53

Per Foucault54 lo scrivere di sé è la tecnica del processo formativo ed etico attraverso cui il soggetto cerca di comprendersi, di conoscersi e di progettarsi.

“Scopro così un altro modo di essere nella scrittura, un modo consapevolmente pedagogico, conosco mentre faccio, esperisco forme nuove di formazione e l’esercizio quotidiano mi fa da maestro.”55

La decisione di scrivere di sé insorge in un momento di frattura con il sé empirico, ovvero dall’esigenza di riprendersi, riconquistarsi in forma nuova, attraverso una rilettura del proprio vissuto; rilettura che dotando di senso l’esperienza diviene un punto di svolta rispetto alla stessa. Nasce così un io che per il soggetto scrivente è più vero dell’io empirico, formatosi attraverso la scrittura, nelle parole.

Per Demetrio la scrittura autobiografica è da inserire principalmente nell’educazione degli adulti, poiché non può esserci vera maturità senza consapevolezza; consapevolezza che deve attuarsi attraverso la revisione, anche dolorosa, del proprio vissuto, della propria storia.56

Io conosco talmente bene queste trappole, civetterie e scappatoie dei vinti che non so cosa farmene. Non sia detto che nascondo la mia viltà tra i riflessi di un sofisma e che trucco la mia povertà d’animo con una manata di rossetto poetico e patetico. Non sono riuscito perché non volevo né sapevo seriamente riuscire: ecco la pura, nuda e semplice verità. Non son riuscito perché non ho avuto forze abbastanza e perché non ho avuto neppur la forza di voler trovare e creare le forze che mi mancavano e perché non ho avuto sempre in me, come un fuoco centrale della mia vita, come fuoco centrale della mia anima, il sogno ch’io dicevo e magnificavo a parole.57

E nella terza età, quando tutto appare de-finito, diviene ancora più cruciale affrontare quella che può essere la crisi più difficile della vita, con il rischio connesso di non riuscire a sbloccare il presente, rimanendo ancorati in maniera sterile e nostalgica ad un

53 Holzknecht O., Il senso di questa esperienza è dunque trovare un nuovo senso, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., p.575

54 Foucault M., “La scrittura di sé”, tr. it. in Aut Aut, 115, (pp.195-196) , 1973

55 De Filipo C., La scrittura dell’altro, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p.485

56 Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, cit.

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