• Non ci sono risultati.

TRACCIA PARERE N. 19

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "TRACCIA PARERE N. 19"

Copied!
75
0
0

Testo completo

(1)

81 TRACCIA PARERE N. 19

A causa di frequenti e persistenti dolori alla mano destra, Tizia si recava presso lo studio del noto medico Caio per risolvere la problematica.

A seguito di apposita ecografia, Caio diagnosticava a Tizia una grave forma di tendinite risolvibile unicamente con un apposito intervento chirurgico.

In data 25 giugno 2017, Tizia si recava presso la clinica Beta, di cui Caio era dipendente, per effettuare il predetto intervento chirurgico. Terminata l’operazione, Caio comunicava la perfetta riuscita della stessa e preannunciava la totale guarigione nell’arco di cinque giorni.

In data 1° luglio 2017, nella fissata visita di controllo post-operatorio, nel togliere le bende alla paziente, Caio scopriva un principio di necrosi dei tessuti della mano di Tizia. Disposto immediatamente un nuovo ricovero della donna, Caio effettuava l’amputazione dell’indice della mano, interessato interamente dal fenomeno necrotico.

In data 2 settembre 2017, dopo aver esperito il tentativo di conciliazione previsto per legge, Tizia notificava nei confronti di Caio e della clinica Beta atto di citazione al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni sofferti per l’esito infausto dell’intervento alla mano.

Al fine di costituirsi in giudizio e difendere il proprio operato, Caio si rivolge al vostro studio legale rappresentandovi che la necrosi del dito non era a lui imputabile essendo derivata da una evoluzione fibro-cicatriziale più abbondante dell’usuale.

A conferma di ciò sottolineava come nell’atto di citazione parte attrice si fosse semplicemente limitata a fornire la prova del rapporto intercorso e del danno subito.

Caio, infine, vi informava di aver stipulato, in data 20 luglio 2017, con la compagnia assicuratrice Alfa, un contratto di assicurazione professionale, nel quale però era espressamente negata la risarcibilità dei danni antecedenti alla stipula del contratto.

Il candidato assunte le vesti di legale del medico Caio:

a) premessi brevi cenni sull’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di responsabilità medica, rediga parere motivato sulla vicenda;

b) rediga l’atto ritenuto più opportuno per salvaguardare al meglio la posizione del medico Caio.

(2)

82

SOLUZIONE PARERE 19: RESPONSABILITA’ MEDICA DOPO LA LEGGE GELLI-BIANCO.

Viene richiesto parere motivato da parte del medico Caio in merito alla possibile strategia difensiva da assumere nell’ambito del giudizio promosso nei suoi confronti dalla paziente Tizia al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni sofferti per l’esito infausto di un intervento alla mano.

In particolare, Tizia addebita alla responsabilità professionale di Caio la necrosi dei tessuti della sua mano, manifestatasi dopo l’operazione per tendinite eseguita dal sanitario nella clinica Beta e determinante la successiva amputazione dell’indice della mano, interessato interamente dal fenomeno necrotico.

L’azione veniva esperita comunque dalla paziente, nonostante Caio le avesse rappresentato – anche in sede di mediazione - che la necrosi del dito non era a lui imputabile essendo derivata da una evoluzione fibro-cicatriziale più abbondante dell’usuale.

Considerato lo scarno supporto probatorio su cui si fonda l’azione dell’attrice, limitatasi a fornire semplicemente la prova del rapporto intercorso e del danno subito, idonea tutt’al più a sorreggere una contestazione per responsabilità contrattuale di Caio, la principale questione giuridica da affrontare per fornire una risposta alla richiesta di parere è quella di stabilire se la responsabilità del sanitario debba ricondursi nell’alveo della responsabilità aquiliana ex art.

2043 c.c. ovvero in quella contrattuale ex art. 1218 c.c..

Evidenti sono al riguardo le conseguenze che deriverebbero dall’adesione all’una o all’altra categoria, sia in termini di prescrizione (decennale per la responsabilità contrattuale;

quinquennale per quella aquiliana) sia dell’onere della prova sulla colpa e sul nesso di causalità (presunte nella contrattuale; a carico del danneggiato in quella extracontrattuale).

A tal uopo si rende necessario un breve excursus sull’evoluzione normativa e giurisprudenziale registratasi in tema di responsabilità medica.

Con riferimento alle novità normative che hanno interessato la materia, ricordiamo come su di essa siano intervenute, prima la Legge n. 189 del 2012 (cosiddetta Legge Balduzzi) e poi la Legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta legge Gelli-Bianco).

Per comprendere la portata innovativa di tali interventi legislativi è opportuno preliminarmente analizzare la posizione assunta dalla giurisprudenza nel tempo, suddivisibile in tre distinte fasi.

La prima fase, nonché quella più risalente nel tempo, è stata caratterizzata da una sostanziale immunità del medico ritenuto responsabile solo in casi marginali in cui l’errore professionale assumeva le caratteristiche della macroscopica incompetenza.

La seconda fase basata sulla regola “res ipsa lòquitur” (il fatto parla da solo), in cui con riferimento ai casi di interventi cosiddetti di routine si affermava una presunzione di colpa del

(3)

83

medico per cui non serviva più la prova del paziente danneggiato.

La terza fase, il cui inizio si è soliti farlo coincidere con la cosiddetta sentenza “Segreto” n.

589 del 1999, nella quale la Suprema Corte ha qualificato la responsabilità del medico come

“responsabilità da contatto sociale”, trasformando un obbligo di prestazione in un obbligo di protezione, con conseguente sussumibilità di tale forma di responsabilità, non più in quella extracontrattuale ma nella responsabilità contrattuale.

Secondo tale filone giurisprudenziale, pur mancando un contratto tra il medico e il paziente, attraverso l’affidamento del singolo paziente da parte della struttura sanitaria al medico, si instaura un contatto sociale qualificato che, in virtù del semplice rapporto di fatto, diventa fonte di obblighi di protezione ex art. 1173 del codice civile, la cui inosservanza produce responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 del codice civile.

Infine, ad aggravare ulteriormente il sistema della responsabilità medica ha contribuito la posizione della giurisprudenza sul principio di causalità, valutato diversamente rispetto all’ambito penale e basato ha sulla teoria del “più probabile che non”, alla luce del quale per la responsabilità civile è sufficiente la probabilità relativa.

Il descritto quadro di estremo aggravamento delle condizioni in cui il medico si trovava ad operare ha spinto il legislatore, a distanza di pochi anni, al duplice intervento normativo di cui sopra.

Già la Legge Balduzzi aveva provato a cambiare le cose, ma si è trattato di un intervento normativo per molti versi ambiguo e fonte di gravi incertezze interpretative.

In particolare, la giurisprudenza ha dovuto fare i conti con l’art. 3 della Legge Balduzzi n.189/2012 con il quale il Legislatore ha tentato maldestramente di riportare la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità aquiliana, non riuscendo però nell’intento a causa dell’ambigua formulazione del comma 1, secondo cui “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art 2043 del codice civile”.

Come si può ben notare, anche sulla base di una lettura superficiale della norma, la stessa sembrava voler dire che solo nelle ipotesi in cui si tratti di colpa lieve si applica il disposto di cui all’art. 2043 c.c..

Ciò ha fatto dire alla Cassazione che nulla era cambiato, perché non poteva ipotizzarsi un diverso titolo di responsabilità a seconda del diverso criterio di imputazione della colpa, continuando, nella sua vigenza, a considerare la responsabilità medica come “da contatto sociale” e perciò una ipotesi di responsabilità contrattuale.

Ecco allora che, a distanza di cinque anni dalla legge Balduzzi, ha visto la luce la legge Gelli- Bianco, tra i cui obiettivi ha avuto quello di alleggerire la responsabilità civile del medico, che

(4)

84

con l’art. 7 co. 3 viene ricondotta esplicitamente nell’ambito dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c..

La legge Gelli codifica, in realtà, un sistema a doppio binario: responsabilità aquiliana per il medico e responsabilità contrattuale per la struttura.

Al centro del sistema della responsabilità civile non c’è più il medico, ma c’è la struttura sanitaria, cioè il soggetto che governa il fattore di rischio, le risorse, le strutture, le persone che operano nell’ambito della struttura medesima.

Alla luce del nuovo quadro normativo sopra rappresentato, nel caso di specie, essendo avvenuti i fatti nella vigenza della Legge Gelli-Bianco, troverà sicuramente applicazione il nuovo regime di responsabilità aquiliana introdotto da tale riforma.

In virtù di ciò emerge, in maniera evidente, l’assoluta carenza di prove addotte dall’attrice Tizia nel giudizio “de quo”, nel quale si sarebbe dovuta preoccupare di dimostrare sia l’elemento soggettivo della colpa di Caio sia il nesso di causalità tra l’operazione alla mano per tendinite e la successiva amputazione del dito per l’intervenuta necrosi.

In proposito, in verità, anche nell’ipotesi in cui si fosse trattato di responsabilità contrattuale, la responsabilità del medico Caio sarebbe stata comunque esclusa proprio dall’assenza di un collegamento causale tra l’operazione per tendinite e la necrosi del dito, causata invece da una comprovata ed imprevedibile evoluzione fibro-cicatriziale più abbondante dell’usuale.

Ferma restando, dunque, la buona probabilità di non subire alcuna condanna nell’ambito del procedimento civile avviato da Tizia, si deve valutare allo stesso modo l’opportunità da parte di Caio di coinvolgere nel suddetto giudizio anche la compagnia assicuratrice Alfa, con la quale ha stipulato un contratto di assicurazione per la responsabilità professionale, al fine di essere manlevato da un eventuale accoglimento della domanda attorea.

Sul punto è però doveroso valutare la possibile incidenza della clausola, contenuta proprio nel contratto di assicurazione, per cui è espressamente negata la risarcibilità dei danni antecedenti alla stipula del contratto.

In particolare, si deve considerare se procedere comunque alla chiamata in causa del terzo sulla base della inefficacia di detta clausola in virtù della disposizione contenuta nell’art. 11 della Legge Gelli-Bianco secondo cui “La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza”.

Certamente, alla luce di tale precetto normativo imperativo, potrà sostenersi in giudizio l’invalidità, ai sensi dell’art. 1418 c.c., della suddetta clausola in quanto convenuta tra le parti successivamente all’entrata in vigore dell’art. 11 della Legge Gelli-Bianco ed in evidente contrasto con lo stesso.

(5)

85

Nel senso dell’inefficacia della clausola, potrebbe inoltre richiamarsi (sebbene riferita ad ipotesi fattuali diverse da quella di specie) la giurisprudenza sviluppatasi in tema di clausole claims made secondo cui “La clausola "claims made" inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un’azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura esclusiva è prestata solo se tanto il danno causato dall’assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell’assicurazione, è un patto atipico immeritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c., atteso che realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell’assicuratore, e pone l’assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione” (Cassazione civile, sez. III, 28 aprile 2017, n. 10506).

Secondo quanto argomentato, dunque, si consiglia al Dott. Caio di costituirsi nel giudizio civile introdotto da Tizia sostenendo la assoluta infondatezza della pretesa attorea alla luce – anche – delle novità introdotte dalla Legge Gelli e chiamando altresì in causa l’Assicurazione Alfa, con richiesta di accertamento della nullità della clausola di esonero da copertura assicurativa anzidetta.

(6)

86 TRACCIA PARERE N. 20

Tizio, titolare di un conto corrente bancario, ordinava, alla propria banca, il trasferimento di valori mobiliari, pari ad euro 241.000,00, sul conto corrente della propria convivente Mevia.

Qualche giorno dopo tale operazione bancaria, Tizio decedeva. Aperta la successione legittima, Sempronia (la figlia di Tizio) agiva in giudizio davanti al Tribunale di Trieste nei confronti della beneficiaria del trasferimento, chiedendo, per la quota di un terzo spettante all'attrice sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari.

In particolare, l'attrice deduceva la nullità del negozio attributivo, in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.

Mevia si difendeva rilevando che l'attribuzione doveva essere considerata, in parte, adempimento di obbligazione naturale, giustificata dal legame affettivo che ella aveva instaurato con il de cuius e dalla cura e dall'assistenza prestate nei suoi confronti durante il corso della malattia che lo aveva portato alla morte; in parte, donazione indiretta.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda dell’attrice, riconducendo la fattispecie nell'ambito della donazione indiretta, considerando l'ordine dato dal disponente all'istituto di credito idoneo a veicolare lo spirito di liberalità.

Il candidato, nelle vesti del legale di Sempronia, rediga parere motivato circa la possibilità di impugnare vittoriosamente la sentenza di primo grado.

(7)

87

SOLUZIONE PARERE 20: DONAZIONE INDIRETTA TRAMITE OPERAZIONE DI BANCOGIRO.

Viene richiesto da Sempronia parere motivato in merito alla possibilità di proporre appello avverso la sentenza che la vede soccombente, emessa dal Tribunale di Trieste a conclusione del giudizio instaurato nei confronti di Mevia, convivente del defunto padre.

In particolare, Sempronia chiedeva che venisse accertata la nullità, per difetto dei requisiti richiesti per la donazione, del trasferimento di valori mobiliari per circa 240.000,00 euro, effettuato dal padre in favore di Mevia, semplicemente mediante ordine alla banca presso cui aveva in essere un rapporto di conto corrente.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda dell’attrice, riconducendo la fattispecie nell'ambito della donazione indiretta, considerando l'ordine dato dal disponente all'istituto di credito idoneo a veicolare lo spirito di liberalità.

Dunque, per fornire una completa risposta alla richiesta di parere occorre stabilire se l'operazione attributiva di strumenti finanziari dal patrimonio del beneficiante in favore di un altro soggetto, compiuta a titolo liberale attraverso una banca chiamata a dare esecuzione all'ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisca una donazione tipica, identificata dalla definizione offerta dall'art. 769 c.c., o sia inquadrabile tra le liberalità non donative, ai sensi dell'art. 809 c.c., ossia tra gli atti (molti dei quali aventi una propria disciplina) che, secondo una accreditata definizione dottrinale, possono essere impiegati per attuare in via mediata effetti economici equivalenti a quelli prodotti dal contratto di donazione.

Più precisamente, occorre domandarsi se la stabilità del trasferimento di ricchezza attuato donandi causa a mezzo banca sia subordinata all'adozione dello schema formale - causale della donazione o se l'attribuzione liberale a favore del beneficiario rappresenti una conseguenza indiretta giustificata dal ricorso ad un'operazione trilaterale di movimentazione finanziaria con l'intermediazione dell'ente creditizio.

In proposito è bene ricordare come il contratto tipico di donazione, definito dall'art. 769 c.c., è l'atto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione.

Le liberalità diverse dalla donazione (dette anche donazioni indirette o liberalità atipiche), contemplate dall'art. 809 c.c., sono liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione stessa, le quali hanno in comune con l'archetipo l'arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell'altro, ma se ne distinguono perché l'arricchimento del beneficiario non si realizza con l'attribuzione di un diritto o con l'assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso.

(8)

88

Evidentemente la riconduzione all'uno o all'altro ambito ha conseguenze sul piano della disciplina applicabile. Infatti, il codice civile estende alle liberalità diverse dalla donazione tipica le disposizioni riguardanti la revocazione per causa di ingratitudine e per sopravvenienza di figli e quelle sulla riduzione per integrare la quota dovuta ai legittimari (art. 809), e le assoggetta alla disciplina della collazione (art. 737), ma al contempo prevede l'applicabilità delle norme riguardanti l'atto per mezzo del quale la liberalità è compiuta, senza che occorra l'assolvimento dell'onere della forma di cui all'art. 782.

In particolare, il regime della forma solenne (fuori dai casi di donazione di modico valore di cosa mobile, nei quali, ai sensi dell'art. 783 c.c., la forma è sostituita dalla traditio) è proprio della sola donazione tipica in quanto risponde a finalità di tutela del donante: il legislatore, infatti, ha scelto di circondare di particolare cautele la determinazione con la quale un soggetto decide di spogliarsi, senza corrispettivo, dei suoi beni al fine di evitargli scelte affrettate e poco ponderate.

Per la validità delle donazioni indirette, invece, non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l'art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c., ossia la disposizione che prescrive l'atto pubblico per la donazione (su punto si veda Cass. Civ., Sez. 1a, 5 giugno 2013, n. 14197).

Sulla specifica questione relativa all’inquadramento nell’una o nell’altra categoria del trasferimento per spirito di liberalità, a mezzo banca, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli in amministrazione del beneficiante a quello del beneficiario, è sorto un acceso dibattito giurisprudenziale.

Secondo parte della giurisprudenza, la collocazione nella donazione indiretta della suddetta operazione muove dalla considerazione che l'accreditamento nel conto del beneficiario si presenta come il frutto di un'operazione, sostanzialmente trilaterale, eseguita da un soggetto diverso dall'autore della liberalità sulla base di un rapporto di mandato sussistente tra beneficiante e banca, obbligata in forza di siffatto rapporto a dar corso al bancogiro e ad effettuare la prestazione in favore del beneficiario. Non vi sarebbe nessun atto diretto di liberalità tra soggetto disponente e beneficiario, ma si sarebbe di fronte ad un'attribuzione liberale a favore del beneficiario attraverso un mezzo, il bancogiro, diverso dal contratto di donazione.

Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, l'operazione bancaria in adempimento dello iussum svolge in realtà una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all'altro. Si è di fronte, cioè, non ad una

(9)

89

donazione attuata indirettamente in ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione tipica ad esecuzione indiretta.

Come infatti si è sottolineato in dottrina, da una parte gli strumenti finanziari che vengono trasferiti al beneficiario attraverso il virement provengono dalla sfera patrimoniale del beneficiante; dall'altra il trasferimento si realizza, non attraverso un'operazione triangolare di intermediazione giuridica, ma, più semplicemente, mediante un'attività di intermediazione gestoria dell'ente creditizio, rappresentando il bancogiro una mera modalità di trasferimento di valori del patrimonio di un soggetto in favore del patrimonio di altro soggetto.

A dirimere il suddetto contrasto sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Cassazione secondo cui “Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l'esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell'attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell'atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l'ipotesi della donazione di modico valore” (Cassazione civile, Sez. Un., 27/07/2017, n. 18725).

Alla luce di tale presa di posizione delle Sezioni Unite, si ritiene di suggerire a Sempronia di appellare la sentenza del Tribunale di Trieste ed insistere per la declaratoria di nullità del negozio attributivo, in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.

(10)

90 TRACCIA PARERE N. 21

Tizio, libero professionista, in data 15 luglio 2018, di rientro a casa dopo una lunga giornata di lavoro, come tutti i giorni prendeva l’ascensore per rientrare nel proprio appartamento sito al quarto piano del condominio Gamma.

Al momento di uscire dall’ascensore però, inciampava a causa del dislivello formatosi tra il pavimento della cabina ascensore e quello del piano di arresto. Egli cadeva rovinosamente a terra e riportava lesioni personali che determinavano una inabilità lavorativa di 40 giorni.

A causa dell’occorso sinistro, inviava al condominio Gamma intimazione di pagamento dei danni subiti.

In risposta a tale intimazione, il condominio Gamma inviava una propria missiva a Tizio con la quale respingeva qualsiasi tipo di responsabilità, rappresentando che:

- il dislivello tra l'ascensore ed il piano di calpestio, di soli 5 cm, non poteva rappresentare un'insidia, ma anzi rappresentava una situazione ricorrente e probabilissima;

- la causa del sinistro andava individuata piuttosto nella condotta distratta della vittima, perché era suo onere verificare il piano di calpestio che andava ad impegnare;

- l'ascensore non presentava anomalie;

- la vittima conosceva tutte le caratteristiche dell'ascensore, in quanto inquilino del fabbricato.

A seguito dell’esito negativo dell’esperito tentativo di mediazione, Tizio si rivolge al vostro studio legale al fine di ottenere parere motivato sulla vicenda.

(11)

91

SOLUZIONE TRACCIA 21: RESPONSABILITA’ DA COSE IN CUSTODIA.

Viene richiesto parere legale da parte di Tizio in merito alla fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del condominio Gamma e totalmente respinta da parte di quest’ultimo, in relazione all’incidente occorso al professionista in data 15 luglio 2018.

In particolare, si discute dei danni subiti da Tizio a causa della rovinosa caduta nei locali condominiali, determinante lesioni personali con connessa inabilità lavorativa di 40 giorni, dovuta al dislivello formatosi tra il pavimento della cabina ascensore e quello del piano di arresto.

A propria discolpa il condominio Gamma adduce, invece, che: il dislivello tra l'ascensore ed il piano di calpestio, di soli 5 cm, non poteva rappresentare un'insidia, ma anzi rappresentava una situazione ricorrente e probabilissima; la causa del sinistro andava individuata piuttosto nella condotta distratta della vittima, perché era suo onere verificare il piano di calpestio che andava ad impegnare; l'ascensore non presentava anomalie; la vittima conosceva tutte le caratteristiche dell'ascensore, in quanto inquilino del fabbricato.

Stanti i suddetti reciproci addebiti, al fine di fornire una completa e valida risposta alla richiesta di parere, bisogna interrogarsi sulla natura della responsabilità da cose in custodia, ex art. 2051 c.c., e sul concetto di imprevedibilità del caso fortuito.

Costituisce opinione consolidata, infatti, quella secondo cui il condominio, quale custode dei beni e servizi comuni dell’edificio, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie volte ad impedire che le cose comuni rechino pregiudizio ai condomini o a terzi, in caso contrario essendo tenuto a rispondere dei danni procurati, ai sensi dell’art. 2051 c.c..

Circa la natura giuridica della responsabilità da cose in custodia, al risalente orientamento che ravvisa nella fattispecie in esame una responsabilità per colpa presunta, il cui fondamento sarebbe pur sempre il fatto dell'uomo (venuto meno al suo dovere di controllo e di vigilanza), si contrappone quello più recente e minoritario, in virtù del quale la responsabilità del custode è considerata di tipo oggettivo, e affinché si configuri è sufficiente che esista il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che venga in considerazione la condotta del custode.

A prescindere dall’adesione all’una o all’altra tesi, è però pacifico come l’art. 2051 c.c.

stabilisca che la responsabilità del custode, per i danni causati dalla cosa che è in sua custodia, è esclusa quando questi dimostri "il caso fortuito": ed è proprio questo che tenta di fare il condominio Gamma nel caso di specie, individuando nella distrazione di Tizio il fattore interruttivo del nesso causale tra il fatto ed il danno-evento.

In altre parole, la questione di fondo da approfondire è se la distrazione del danneggiato, in presenza di una cosa inerte, valga ad escludere la responsabilità del custode ed eventualmente

(12)

92 a quali condizioni.

Sebbene il codice civile non dia la definizione di "caso fortuito", per consolidata tradizione giuridica viene inteso come l'evento che non poteva essere in alcun modo previsto o, se prevedibile, non poteva essere in alcun modo prevenuto.

"Caso fortuito", dunque, per il nostro ordinamento è quell'evento che non poteva essere previsto (ad esempio, un terremoto). Ed al caso fortuito è equiparata la forza maggiore, ovvero l'evento che, pur prevedibile, non poteva essere evitato (ad esempio, un evento atmosferico).

Alla luce di tale definizione, dunque, la condotta della vittima d'un danno causato da una cosa custodia, in tanto può escludere la responsabilità del custode, in quanto possa reputarsi "caso fortuito"; e può reputarsi tale quando sia imprevedibile da parte del custode (tra le più recenti sentenze, in tal senso, Cassazione Civile, Sez. 3, Sentenza n. 18317 del 18/09/2015).

Ciò non vuol dire però che una condotta imprevedibile della vittima sia necessariamente una condotta colposa, o viceversa.

I giudizi di "negligenza" della vittima, e di "imprevedibilità" della sua condotta da parte del custode, non si implicano a vicenda.

Il primo va compiuto guardando al danneggiato e comparando la condotta da questi concretamente tenuta con quella che avrebbe tenuto una persona di normale avvedutezza, secondo lo schema di cui all'art. 1176 c.c..

Il secondo va compiuto invece guardando al custode, e valutando con giudizio ex ante se questi potesse ragionevolmente attendersi una condotta negligente da parte dell'utente delle cose affidate alla sua custodia.

Potremo dunque avere condotte del danneggiato prudenti e imprevedibili, prudenti e prevedibili, imprudenti ed imprevedibili, imprudenti e prevedibili.

Le prime due ipotesi non escludono mai la colpa del custode; la terza ipotesi la esclude sempre;

la quarta ipotesi può escluderla in parte.

Tale eterogeneità tra i concetti di "negligenza della vittima" e di "imprevedibilità" della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode.

L'esclusione della responsabilità del custode per colpa della vittima, pertanto, per essere validamente eccepita esige un duplice accertamento: che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; che quella condotta non fosse prevedibile (intendendosi per tale quel comportamento eccezionale, inconsueto, mai avvenuta primo, inatteso da una persona sensata).

In questo senso, di recente, si è già espressa di recente la Cassazione, stabilendo che la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini di cui all'art.

(13)

93

2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa (Sez. 3, Sentenza n. 13222 del 27/06/2016).

Nel caso di specie, per valutare la fondatezza o meno delle contestazioni mosse dal condominio, oltre alla condotta potenzialmente negligente di Tizio, bisogna esaminare se quella condotta potesse effettivamente ritenersi imprevedibile, eccezionale od anomala da parte del custode.

In un caso simile a quello in esame, infatti, la Suprema Corte ha chiaramente statuito che “La condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia può costituire un "caso fortuito", ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell'art. 2051 c.c., quando abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode” (Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017, n. 25837).

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, e fermo restando che l’impercettibilità del dislivello (di appena 5 cm) tra l’ascensore ed il livello del piano permetterebbe di per sè di escludere la qualificazione del comportamento di Tizio in termini di negligenza, là dove si indaghi sulla prevedibilità della sua condotta da parte del custode, si deve semplicemente rilevare come:

a) senza il dislivello tra il pavimento dell'ascensore ed il terreno circostante la caduta non si sarebbe mai potuta verificare;

b) tale eventualità fosse ampiamente prevedibile da parte del Condominio.

In virtù di quanto esposto, dunque, il carattere non negligente della condotta di Tizio e la sua indiscutibile prevedibilità da parte del condominio evidenziano l’assoluta pretestuosità ed infondatezza delle eccezioni addotte da quest’ultimo a propria discolpa, con conseguente opportunità che Tizio intraprenda dinanzi alla competente Autorità giudiziaria la preannunciata azione di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in conseguenza della caduta.

(14)

94 TRACCIA PARERE N. 22

Separatosi con la moglie Mevia nel 2010, nello stesso anno Tizio intraprendeva una relazione con Caia. Dopo pochi mesi di conoscenza i due decidevano di andare a convivere in un appartamento di proprietà di Tizio. La convivenza proseguiva felicemente fino a quando, nel marzo 2018, all’improvviso Tizio moriva a causa di un incidente stradale.

Qualche mese dopo, Caia riceveva una richiesta da parte di Mevia e della figlia di Tizio di rilascio immediato dell’immobile in cui Caia continuava ad abitare.

Per comprendere la fondatezza o meno della pretesa delle eredi di Tizio, Caia si rivolge al vostro studio legale chiedendovi parere motivato.

Il candidato, premessi brevi cenni sugli istituti coinvolti e sulle novità normative introdotte dalla L. n. 76 del 2016, rediga il richiesto parere.

(15)

95

SOLUZIONE TRACCIA 22: CONVIVENZA MORE UXORIO E DIRITTO DI ABITAZIONE.

Viene richiesto parere legale da parte di Caia in merito alla possibilità di contrastare la pretesa della moglie e della figlia del deceduto compagno Tizio, di rilasciare immediatamente l’immobile adibito a luogo stabile della loro convivenza.

In particolare, Caia rappresenta che nel 2010, successivamente alla separazione con la moglie Mevia, Tizio intraprendeva con lei una relazione e, dopo pochi mesi di conoscenza, entrambi decidevano di andare a convivere in un appartamento di proprietà di Tizio. La convivenza proseguiva felicemente fino a quando, nel marzo 2018, all’improvviso Tizio moriva a causa di un incidente stradale.

Qualche mese dopo, Caia riceveva una richiesta da parte di Mevia e della figlia di Tizio di rilascio immediato dell’immobile in cui Caia continuava ad abitare.

L’indagine giuridica da compiere, al fine di stabilire la fondatezza o meno della pretesa delle eredi di Tizio, è quella sulla reale consistenza ed ampiezza dei diritti e dei doveri reciproci dei conviventi more uxorio, con specifico riguardo al diritto di abitazione del convivente superstite nella casa adibita a residenza comune.

A tal uopo è necessario ripercorrere brevemente l’evoluzione giurisprudenziale e normativa in materia di convivenza more uxorio, sino ad arrivare all’attuale regolamentazione prevista dalla L. 76 del 2016, nata proprio dal bisogno di positivizzare, una volta per tutte, i diritti dei conviventi.

A dire il vero, pur in assenza di riferimenti normativi puntuali, ma sulla scorta della copertura costituzionale fornita dall’art. 2 della Costituzione, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato negli anni un valido sistema di tutele in favore della c.d. “famiglia di fatto”, equiparando per molti aspetti la figura del convivente more uxorio a quella del coniuge.

Si pensi, ad esempio, alla tutela accordata al convivente more uxorio, analogamente a quanto accade per il coniuge, nell’ambito della successione mortis causa nella titolarità del contratto di locazione, ovvero al riconoscimento degli strumenti di tutela possessoria nei confronti dei terzi.

Ai fini della sua individuazione la si definiva “quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale”.

Proprio alla stregua di tali indicazioni giurisprudenziali, nell’introdurre un quadro legislativo organico di tutele, il Legislatore ha definito la convivenza more uxorio come la condizione di

"due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da

(16)

96

matrimonio o da un'unione civile" (art. 1, comma 36, Legge n. 76/2016).

In presenza delle suddette modalità di costituzione, la Legge riconosce espressamente una serie di diritti ai conviventi, tra i quali emerge per novità (e rilevanza ai fini del presente parere) quello di cui all’art. 1, comma 42 della L. 76 del 2016, in virtù del quale “Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni”.

Al fine, dunque, di stabilire se nel caso di specie sia applicabile tale normativa, bisogna preliminarmente verificare se, temporalmente e sostanzialmente, l’unione tra Tizio e Caia rientri tra quelle espressamente individuate dal Legislatore del 2016; al contrario si dovranno analizzare le garanzie elaborate in casi simili dalla giurisprudenza.

Quanto al profilo temporale, si ritiene che, pur essendo la convivenza tra i due iniziata molto tempo prima dell’entrata in vigore della legge “de qua”, la stessa è però proseguita per ben due anni sotto la vigenza del novum normativo, determinando tale circostanza l’auspicata copertura legislativa.

Quanto, invece, alla possibilità di sussumere la condizione di fatto di Tizio e Caia, nella definizione di cui al citato art. 1, comma 36, l’unico elemento ostativo che si potrebbe configurare è quello collegato allo stato di “separato” di Tizio.

Un interessante interrogativo che si è posto, al momento dell’entrata in vigore della Legge 76/2016, è stato quello dall’esatta interpretazione del co. 36, nella parte in cui stabilisce che per conviventi di fatto s’intendono persone “non vincolate da matrimonio o da un’unione civile”.

Secondo parte della dottrina, infatti, tale espressione precluderebbe, a coloro che non si siano definitivamente e formalmente svincolati da un precedente legame, di godere delle garanzie introdotte dalla nuova normativa. Seguendo la presente tesi, nel caso di specie, non si potrebbe applicare la nuova disciplina a causa della persistenza del vincolo matrimoniale tra Mevia e Tizio al momento della sua morte (essi risultavano semplicemente separati e non divorziati).

Secondo altra interpretazione, invece, l’espressione “non vincolate da matrimonio o da un’unione civile”, andrebbe letta unitamente agli altri divieti (“non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione”) che limitano evidentemente il campo di indagine ai rapporti tra i due conviventi e non tra gli stessi e i terzi.

Tale ultima lettura, più in linea con la definizione giurisprudenziale di convivenza more uxorio sedimentatasi nel tempo, consentirebbe a Caia di godere del diritto di continuare ad abitare nella stessa almeno per altri 2 anni (se si considera la convivenza dall’entrata in vigore della Legge: 2016) oppure per altri 5 anni (se si considera la data di effettivo inizio della stessa:

(17)

97

2010), ai sensi dell’art. 1, comma 42, L. 76 del 2016.

Nell’ipotesi in cui, però, a livello giurisprudenziale dovesse prevalere la prima delle due tesi, oppure non si dovesse ritenere applicabile temporalmente la L. 76/2016, Caia non resterebbe totalmente priva di tutela, potendo godere delle garanzie accordate dalla giurisprudenza al convivente, in casi simili a quello di specie.

Secondo alcune pronunce di legittimità, infatti, “Il convivente è detentore qualificato dell’immobile ed esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l’altro convivente, che assume quindi la posizione di comodante” (Cassazione civile sez. I, 11/09/2015, n.17971).

Ed ancora “La convivenza "more uxorio", quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio” (Cassazione civile sez. II, 21/03/2013, n.7214).

L’unico limite di tale interpretazione è dato dal fatto che, essendo inquadrato il rapporto del convivente con il bene in termini di detenzione qualificata, tale detenzione del convivente non proprietario è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente proprietario- possessore, si estingue anche il relativo diritto.

A tal proposito, però, la Cassazione ha espressamente affermato che la complessità dei rapporti in gioco impone di fare ricorso ai principi di correttezza e buona fede che prescrivono a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere al convivente non proprietario un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa.

In particolare, sul punto la Suprema Corte ha affermato che “La convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, ma non incide, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull'immobile, sicché tale detenzione del convivente non proprietario, né possessore, è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del

(18)

98

convivente proprietario-possessore, si estingue anche il relativo diritto; ne deriva che, in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato), restando a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere a quest'ultimo un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza” (Cassazione civile sez. III, 27/04/2017, n.10377).

Alla luce di tale ultima lettura ermeneutica, anche nel caso in cui non si dovesse ritenere applicabile al caso in esame la normativa di cui alla L. 76/2016, le eredi di Tizio non possono comunque pretendere l’immediato rilascio dell’immobile, stante il dovere di concedere a Caia un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza.

(19)

99 TRACCIA PARERE N. 23

A causa di forti dolori addominali, Mevia veniva ricoverata presso l’ospedale Beta.

Diagnosticata una lieve diverticolite, la paziente prestava il consenso per il trattamento chirurgico mini-invasivo in laparoscopia. Il medico Tizio, tuttavia, in sede operatoria preferiva procedere con un diverso intervento più invasivo. L’operazione si concludeva positivamente e portava nel giro di qualche giorno alla guarigione completa di Mevia. Dopo l’intervento, scontenta per la cicatrice presente sull’addome, Mevia si rivolge al vostro studio legale lamentando di non aver potuto scegliere in autonomia il trattamento sanitario al quale essere sottoposta. Il rammarico era ancora più forte in considerazione del fatto che avrebbe potuto ottenere il medesimo risultato anche con l’intervento in laparoscopia al quale aveva prestato il proprio consenso.

Il candidato rediga parere motivato sulle possibili azioni che Mevia potrebbe proporre a tutela dei propri diritti.

(20)

100

SOLUZIONE PARERE 23: RESPONSABILITA’ MEDICA E CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE.

Viene richiesto parere legale da parte di Mevia in merito alle possibili azioni da esperire nei confronti della struttura ospedaliera Beta e del medico Tizio, responsabili di aver eseguito un intervento diverso da quello da lei autorizzato preventivamente.

In particolare, Mevia rappresentava che, dopo essere stata ricoverata presso l’ospedale Beta per una diverticolite, prestava il consenso per il trattamento chirurgico mini-invasivo in laparoscopia. Nonostante ciò e sebbene non vi fossero ulteriori ragioni cliniche, il medico Tizio, in sede operatoria, preferiva procedere con un diverso intervento più invasivo, il quale portava alla sua guarigione ma lasciava sul suo addome un’evidente cicatrice.

La principale questione giuridica da affrontare, per determinare la tipologia di azione da intraprendere, attiene all’esatto inquadramento della natura della responsabilità medica - a seguito delle novità introdotte dalla Legge Gelli Bianco - nei casi in cui vi sia stata violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, sottoposto ad intervento diverso da quello per cui aveva prestato il consenso informato.

In particolare, nel caso di specie si dovrà stabilire se la nuova qualificazione in termini di responsabilità extracontrattuale, imposta dall’art. 7, comma 3 della Legge Gelli Bianco con riferimento all’”operato” del sanitario”, sia valida, oltre che per i casi di errata esecuzione della prestazione sanitaria, anche per le ipotesi di lesione del diritto di autodeterminazione.

Come noto, infatti, il consenso informato del paziente costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza la sua preventiva acquisizione, l’intervento è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente, salvi i casi di trattamenti obbligatori per legge o casi di necessità.

Da ultimo regolamentato dalla Legge 22 dicembre 2017, n. 219, che ne ha reso organica la disciplina recependo gli oramai consolidati orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, il consenso informato è inteso pacificamente quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, rappresentando un vero e proprio diritto della persona. Esso trova fondamento nei principi espressi negli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione.

La ratio della nuova disciplina è stata proprio quella di rendere il paziente protagonista di ogni fase del percorso terapeutico che abbia deciso eventualmente di affrontare o che abbia rinunciato coscientemente a compiere.

Ad essere riconosciuto e tutelato non è il diritto di morire, bensì il diritto di non subire trattamenti sanitari indesiderati che non possano essere imposti per legge. A tal uopo, affinché il paziente possa esercitare al massimo grado la libertà che gli è riconosciuta, è necessario che

(21)

101

l’informazione sia fornita in modo chiaro e completo. Altrettanto importante è che l’informazione sia aggiornata e tenga conto dell’evolversi della patologia e della scienza medica, dovendosi prospettare i possibili trattamenti sanitari tra loro alternativi con relativa indicazione del livello di rischio e possibilità di successo.

Sulla base di tali presupposti, la giurisprudenza ha altresì chiarito che la prestazione che forma oggetto dell’obbligo informativo, costituisce una prestazione distinta da quella sanitaria.

Difatti, esso si correla al diritto fondamentale del paziente all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario propostogli.

Di conseguenza, la violazione dell’obbligo informativo assume autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria del sanitario. Esso determina la lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente, mentre l’inesatta esecuzione del trattamento medico- terapeutico determina la lesione del diritto alla salute.

Sul punto la giurisprudenza ha chiaramente affermato che “In tema di responsabilità sanitaria, l'omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario - fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d'urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà - determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest'ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.” (Cassazione civile, sez. III, 28/06/2018, n.

17022).

Può accadere, inoltre, che la lesione della salute sia causalmente collegabile alla violazione dell’obbligo informativo, ciò si verifica nell’ipotesi in cui l’intervento sanitario, non preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, sia stato correttamente eseguito in base alle regole dell’arte ma da esso siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute.

In tal caso, la violazione dell’obbligo non determina soltanto il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé, ma anche il danno alla salute. Questo non è causalmente riconducibile all’inesatta esecuzione della prestazione sanitaria ma alla mancata corretta informazione. In tale ultimo caso è necessario fornire la prova del nesso causale, che invece è implicita là dove il danno-conseguenza corrisponda alla compromissione della genuinità dei processi decisionali fondati su dati alterati o incompleti sotto il profilo informativo.

Ciò chiarito, dunque, si deve stabilire se, ai fini risarcitori, per i danni da violazione del consenso informato, nei confronti del medico si continui ad applicare la disciplina di cui all’art.

1218 c.c., in virtù dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata che qualifica tale

(22)

102

responsabilità come contrattuale, in quanto discendente da contatto sociale, oppure se si debba fare riferimento anche per tale ambito al comma 3 dell’art. 7 della Legge Gelli Bianco secondo cui “L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice

civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.

Evidenti sono al riguardo le conseguenze che deriverebbero dall’adesione all’una o all’altra categoria, sia in termini di prescrizione (decennale per la responsabilità contrattuale;

quinquennale per quella aquiliana) sia dell’onere della prova sulla colpa e sul nesso di causalità (presunte nella contrattuale; a carico del danneggiato in quella extracontrattuale).

Nell’ipotesi in cui, dunque, si ritenga di escludere il rapporto che si instaura tra il medico ed il paziente con riferimento all’acquisizione del consenso informato da quelli disciplinati dalla Legge Gelli – Bianco, anche nel caso di specie troverà applicazione il consolidato orientamento per cui “È onere del medico provare l'effettiva assunzione del consenso informato del paziente, sul presupposto che il trattamento sanitario, anche solo in funzione diagnostica, determina l'instaurazione di un rapporto contrattuale, sicché l'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento – al fine di ottenere il necessario consenso all'esecuzione della prestazione terapeutica - costituisce un'obbligazione, il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l'altra affermi inadempiente. In ogni caso, il rispetto dell'autodeterminazione del paziente - che è ciò che si vuole tutelare con il conseguente risarcimento del danno per mancato consenso - deve essere valutato in concreto, tenendo presenti le reali possibilità di scelta che si ponevano di fronte al paziente, nel caso in cui fosse stato adeguatamente informato. Ne consegue pertanto che la rilevanza causale del mancato consenso sussiste solo allorquando una tale disinformazione abbia comportato una scelta terapeutica che, altrimenti, sarebbe stata, con elevata probabilità, rifiutata o modificata dal paziente stesso” (Cassazione civile, sez. III, 27/11/2012, n. 20984).

Sebbene tale soluzione sia estremamente più favorevole alla sig.ra Mevia, non si può però non rappresentare come la genericità dell’espressione “operato dell’esercente della professione sanitaria” utilizzata dal Legislatore del 2017 per circoscrivere l’ambito di operatività della Legge Gelli Bianco, la cui ratio d’altronde è quella di alleggerire la responsabilità civile del medico, lascia propendere per la sottoposizione a tale normativa anche dei casi di violazione della disciplina del consenso informato.

Tale dibattito non investe l’eventuale azione esperibile nei confronti della struttura sanitaria, in relazione alla quale si applicherà comunque il regime della responsabilità contrattuale, essendo previsto dall’art. 7 comma 1 della Legge Gelli Bianco che “La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si

(23)

103

avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte

dolose o colpose”.

Tanto aderendo all’una quanto all’altra tesi, e fermi restando i differenti oneri probatori che graverebbero sulle parti a seconda del regime di responsabilità applicabile, alla luce dei principi consolidatisi in materia di lesione del consenso informato, si ritiene di potere suggerire a Mevia di agire sia nei confronti del medico Tizio sia nei confronti della struttura ospedaliera Beta al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione del suo diritto alla autodeterminazione, ai sensi dell’art. 2059 c.c., e di conseguire il risarcimento del danno alla salute rappresentato dalla permanente cicatrice sull’addome.

Con riferimento a tale ultima voce di danno, così come stabilito dalla giurisprudenza maggioritaria (v. ex multis Cassazione civile, sez. III, 15/05/2018, n. 11749), si dovrà dimostrare che, ove Mevia fosse stata correttamente informata dei rischi e delle complicanze dell’intervento, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi.

(24)

104 TRACCIA PARERE N. 24

Con contratto preliminare del 13 marzo 2016, stipulato dinanzi al Notaio Cicerone, Mevio prometteva di trasferire a Sempronio la proprietà di un proprio immobile ad uso abitativo sito nel comune di Lecce.

Avendo concordemente le parti affidato l’incarico per la stima del bene ad un perito, quest’ultimo in sede di stipula del contratto definitivo comunicava a Sempronio che dalle indagini amministrative svolte era emerso che, in realtà, Mevio non era titolare della piena proprietà dell’immobile, ma vantava su di esso solamente la proprietà superficiaria. Mevio confermava tale circostanza e specificava di aver sempre implicitamente inteso trasferire solo la proprietà superficiaria.

Nello specifico il perito riferiva che l’appartamento in questione era stato costruito da Mevio su un terreno di proprietà del cugino Tizio, il quale aveva costituito in favore di Mevio il diritto di erigerlo e mantenere la proprietà per un periodo pari a 79 anni dalla costruzione, concedendo a lui o ai suoi aventi causa, alla scadenza, di rinnovare detto diritto dietro ulteriore pagamento (e sempre a tempo determinato) ovvero di esercitare il diritto al riscatto del bene. Sempronio rifiutava dunque di stipulare il contratto definitivo, in quanto non interessato ad acquistare la proprietà in forma superficiaria o temporanea. Mevio, al contrario, insisteva nel richiedere a Sempronio di concludere il contratto di trasferimento della proprietà superficiaria in adempimento agli obblighi assunti con il preliminare.

Sempronio decideva, dunque, di rivolgersi al vostro studio legale per tutelare la sua posizione e liberarsi dal vincolo negoziale assunto con Mevio.

Il candidato, assunte le vesti di legale di Sempronio:

- premessi brevi cenni sugli istituti giuridici sottesi, rediga parere legale in merito alle richieste formulate dal cliente;

- rediga l’atto giudiziario ritenuto più opportuno, essendo già stato esperito invano il tentativo di mediazione.

(25)

105

SOLUZIONE PARERE 24: LA PROPRIETA’ SUPERIFICIARIA E L’ISTITUTO DELL’ “ALIUD PRO ALIO”.

Viene richiesto parere legale motivato da parte di Sempronio in merito alla possibilità di liberarsi legittimamente dal vincolo contrattuale assunto con Mevio e vedere tutelata la propria posizione giuridica in relazione alla medesima vicenda contrattuale.

In particolare, Sempronio rappresenta di aver stipulato, in data 13 marzo 2016, dinanzi al Notaio Cicerone, un contratto preliminare con cui Mevio prometteva di trasferirgli la

“proprietà” di un proprio immobile ad uso abitativo sito nel comune di Lecce.

In sede di stipula del contratto definitivo, però, il perito nominato concordemente tra le parti comunicava a Sempronio che dalle indagini amministrative svolte era emerso che, in realtà, Mevio non era titolare della piena proprietà dell’immobile, ma vantava su di esso solamente la proprietà superficiaria.

Nello specifico il perito riferiva che l’appartamento in questione era stato costruito da Mevio su un terreno di proprietà del cugino Tizio, il quale aveva costituito in favore di Mevio il diritto di erigerlo e mantenere la proprietà per un periodo pari a 79 anni dalla costruzione, concedendo a lui o ai suoi aventi causa, alla scadenza, di rinnovare detto diritto dietro ulteriore pagamento (e sempre a tempo determinato) ovvero di esercitare il diritto al riscatto del bene.

A fronte del rifiuto di Sempronio di stipulare il contratto definitivo, in quanto non interessato ad acquistare la proprietà in forma superficiaria o temporanea, Mevio, al contrario, insisteva nel richiedere a Sempronio di concludere il contratto di trasferimento della proprietà superficiaria in adempimento agli obblighi assunti.

Le questioni giuridiche da affrontare per verificare la tutelabilità della posizione di Sempronio attengono all’individuazione delle eventuali differenze ontologiche tra la piena proprietà e quella superficiaria, ed alla conseguente possibilità di ricorrere all’istituto dell’”aliud pro alio”

al fine di poter esercitare vittoriosamente l’azione di risoluzione di cui all’art. 1453 c.c..

Sul punto è opportuno ricordare come, ai sensi del primo comma dell’art. 952 c.c., il diritto di superficie consista nella possibilità del proprietario di un bene immobile di costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri che ne acquista la proprietà. Al secondo comma, la medesima disposizione prevede che modo alternativo di costituzione del diritto di superficie è quello della alienazione della proprietà della costruzione già esistente separatamente dalla proprietà del suolo (o viceversa).

In ambedue i casi, l’esercizio di tale diritto è collegato alla proprietà della costruzione (c.d.

superficiaria) separata da quella del fondo, che rimane in capo al proprietario.

Nell’ipotesi prevista dal primo comma dell’art. 952 c.c., peraltro, la vicenda si svolge in due distinti momenti: in una prima fase nasce il c.d. ius ad edificandum che si trasforma poi nel

(26)

106

diritto reale di “proprietà superficiaria” sull’immobile costruito.

Ai sensi dell’art. 953 c.c., poi, è previsto che il diritto di superficie possa essere costituito a tempo determinato. In tale ipotesi, allo scadere del termine, il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione, essendo nuovamente applicabile il principio generale dell’accessione (art. 934 c.c.), eccezionalmente derogato dall’art. 952 c.c..

Nella casistica di cui all’art. 953 c.c., dunque, è evidente come la caratteristica di temporaneità del diritto di “proprietà superficiaria” la distingua nettamente dalla piena proprietà, la cui peculiarità precipua è, invece, l’assenza di limiti temporali e quindi la perpetuità dell’appartenenza.

Tale differenza sostanziale non può non rilevare nel caso di specie in cui, a fronte dell’obbligo assunto con il preliminare di trasferire la proprietà del bene immobile sito in Lecce, in sede di definitivo Mevio intende invece trasferire la diversa proprietà superficiaria temporanea, quale discendente dalla convenzione stipulata con il cugino Tizio (della durata di 79 anni).

Né la rilevata diversità può essere superata, nel caso in esame, dalla espressa possibilità di rinnovare la suddetta convenzione, essendo siffatta opportunità esercitabile solamente a tempo determinato e dietro ulteriore pagamento.

Appurata tale ontologica difformità tra il diritto oggetto del contratto preliminare di vendita e quello che Mevio vorrebbe trasferire con il contratto definitivo, non resta che individuare quali rimedi siano esperibili a tutela dell’ignaro Sempronio per liberarlo dal vincolo obbligatorio assunto.

In relazione al contratto di compravendita si deve ricordare come, ai sensi dell’art. 1490 c.c., il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.

Il vizio è un’imperfezione materiale che incide sul valore o sulle possibilità di utilizzazione della cosa e dipende da anomalie del processo di fabbricazione, di produzione, di conservazione.

Fermo restando l’obbligo di denunzia dei vizi al venditore entro il termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta e la prescrizione dell’azione decorso un anno dalla consegna, in tali ipotesi il compratore può esercitare le cc.dd. “azioni edilizie”, domandando a sua scelta la risoluzione del contratto (c.d. azione redibitoria) ovvero la riduzione del prezzo (azione estimatoria).

Dal vizio si distingue, poi, la mancanza nella cosa delle qualità promesse ovvero di quelle essenziali per l’uso cui essa è destinata. Qualità del bene sono gli attributi che ne esprimono la funzionalità, l’utilità o il pregio e che, nell’ambito dello tesso genere, influiscono sulla classificazione della cosa in una specie piuttosto che in un’altra.

(27)

107

In questi casi l’art. 1497 legittima il compratore a chiedere la risoluzione del contratto secondo le regole generali sulla risoluzione per inadempimento. Il comma 2 del medesimo articolo, però, subordina il diritto di ottenere la risoluzione alla decadenza e alla prescrizione stabilite per le succitate azioni edilizie.

Vizio e mancanza di qualità si distinguono, infine, dal c.d. aliud pro alio che si configura quando viene consegnato un bene completamente diverso da quello pattuito.

In tale caso il compratore non è tutelato con le azioni edilizie ma in base alla ordinaria azione di risoluzione ovvero mediante l’azione di esatto adempimento, non trovando applicazione né il termine di decadenza per la denunzia né quello di prescrizione dell’azione.

Alla luce della esposta disciplina delle varie azioni esercitabili nell’ambito di una compravendita, le caratteristiche del caso di specie ne impongono l’inquadramento in una fattispecie di aliud pro alio, stante la esposta differenza ontologica tra il diritto di piena proprietà (promesso dal venditore all’atto del preliminare) e quello di proprietà superficiaria (che pretende trasferire in sede di definitivo).

L’evidente inadempimento di Mevio all’obbligo assunto con il preliminare, legittima dunque Sempronio ad esercitare l’azione di risoluzione del contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1453 c.c..

In tal senso, d’altronde, si è di recente espressa la Suprema Corte di Cassazione secondo cui

“in ragione del carattere intrinsecamente temporaneo del diritto, la proprietà superficiaria deve ritenersi un diritto ontologicamente diverso da quello di piena proprietà, cosicché, ove - nell'ambito di un contratto preliminare di compravendita - il promittente venditore si sia obbligato a trasferire al promissario acquirente la proprietà piena di un alloggio del quale abbia soltanto la proprietà superficiaria e pretenda poi di trasferirgli quest'ultima in luogo della piena proprietà promessa, ricorre la figura dell'allud pro alio" (cfr., a proposito di alloggio privo del certificato di abitabilità, Cass., Sez. 2, n. 1514 del 26/01/2006; Sez. 2, n.

24786 del 22/11/2006), che legittima l'azione per la risoluzione del contratto ai sensi dell'art.

1453 c.c.”. (Cassazione civile, sez. II, 9.10.2017, n. 23547).

Da ultimo, si rappresenta la possibilità per Sempronio di richiedere anche il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c., al fine di ottenere quantomeno il ristoro delle spese notarili e di perizia sostenute.

In virtù di quanto detto, si consiglia a Sempronio di rifiutare legittimamente la stipula del contratto definitivo pretesa da Mevio, chiedendo la risoluzione del contratto preliminare ed il risarcimento del danno da inadempimento, in considerazione della configurabilità nel caso in esame di un’ipotesi di aliud pro alio.

(28)

108 TRACCIA PARERE N. 25

I coniugi Mevio e Sempronia, con atto di citazione notificato in data 7.10.2019, chiamavano in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la figlia Caia e il coniuge di questa Tizio per sentire accertare l’avvenuta costituzione in loro favore del diritto di usufrutto sull’immobile di proprietà dei convenuti sito in Milano.

In particolare, gli attori rappresentavano che nel 2015 i convenuti avevano acquistato un appartamento con garage, in relazione al quale avevano poi sottoscritto un documento, denominato "Riconoscimento del diritto di usufrutto", del seguente tenore: "dichiariamo e riconosciamo che sulla porzione immobiliare, sita in Milano alla via Alfa, grava l'usufrutto in favore dei coniugi Mevio e Sempronia, in considerazione del fatto che con denaro proprio hanno contribuito notevolmente al pagamento del prezzo di acquisto della suddetta porzione immobiliare (...) ci impegniamo a sottoscrivere il relativo atto pubblico non appena essi ce ne faranno richiesta".

A sostegno della fondatezza della richiesta, gli stessi deducevano che la suddetta dichiarazione non necessitava di una formale accettazione, dovendosi ricondurre alla disciplina di cui all’art.

1333 c.c.. Sottolineavano, inoltre come la loro accettazione fosse comunque avvenuta oralmente e qualsiasi eventuale contestazione di mancata sottoscrizione fosse altresì sanata dalla produzione in giudizio della dichiarazione stessa.

Ricevuto l’atto di citazione, Tizio e Caia si rivolgono al vostro studio legale sottoponendovi la vicenda e precisando in proposito che:

- la citazione da parte di Mevio e Sempronia, attualmente residenti nell’immobile in questione, seguiva l’intimazione loro inviata, con raccomandata A/R del 2.10.2019, di rilascio dell’appartamento;

- in seno alla predetta lettera di intimazione era stata espressamente manifestata la revoca di ogni precedente proposta contrattuale.

Il candidato, assunte le vesti di legale di Tizio e Caia, premessi brevi cenni sugli istituti giuridici sottesi, rediga:

- parere legale motivato sulla vicenda;

- l’atto ritenuto più idoneo a tutelare complessivamente le ragioni degli assistiti.

Riferimenti

Documenti correlati

Il Poliambulatorio Nurservice ha come obiettivo quello di porre al centro della propria attività le esigenze del paziente e il suo stato di salute, con l’attenzione umana e

Il candidato dopo aver delineato in maniera sintetica le parti del bilancio di previsione, tratti nello specifico delle variazioni di bilancio redigendo un fac simile di un atto

Il terreno di proprietà di Tizia tornava ad una destinazione di zona agricola, perdendo di fatto il maggiore valore determinato dalla destinazione urbanistica proposta

È bene sottolineare come non sia lo strumento tecnico in quanto tale a causare il danno, bensì l’utilizzo della mano in modo scorretto.. A lungo, si può manife-

La prima e più grave delle dimenticanze è in certo senso la più ovvia: il medico si occupa della salute umana, cioè di un diritto umano inviolabile, costituzionalmente garantito

IL RPCT, inoltre, ha evidenziato che il Sindaco del Comune di XX, con atto monocratico, del X/X/2015 e successivo provvedimento del X/X/2106, ha rinnovato al medesimo dirigente,

L’operatore economico XX, secondo graduato nella procedura di gara indetta, nel gennaio 2018, dall’amministrazione YY, per l’affidamento di lavori di manutenzione

Il Comune, quindi, ha richiesto un parere all’ANAC sulla legittimità dell’eventuale riammissione del concorrente escluso e dell’applicazione della normativa sul soccorso