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“Nicht Spiegel, sondern Flamme sein”. La Cellule di Jean [Hans] Weidt

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Academic year: 2021

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“Nicht Spiegel, sondern Flamme sein”.

La Cellule di Jean [Hans] Weidt

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Giugno 1947, Copenhagen. Immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, organizzata da Les Archives Internationales de la Danse (AID)2

sotto la direzione di Rolf de Maré, si tiene la terza edizione del Concorso Coreografico Internazionale, che nel 1932 aveva premiato Kurt Jooss per il suo celeberrimo Der grüne Tisch3 (Il tavolo verde). Evento straordinario in

un‟Europa ridotta a macerie, il concorso cerca di offrire un calendario di alta portata artistica, presentando nell‟arco di cinque serate al Theatre Royal di Copenhagen le opere di ventitré diverse compagnie provenienti da Inghilterra, Finlandia, Francia, Olanda, Svezia, Cecoslovacchia e Danimarca4. A trionfare5,

1“Non volevo essere specchio, ma fiamma” (Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein Lebensbericht, Berlin, Henschel, 1968, p. 19). Questo saggio costituisce una versione sintetica e integrata ad hoc di un capitolo del progetto di ricerca, ancora in progress, sulla figura di Hans Weidt, che chi scrive ha studiato come dottoranda in Studi Teatrali e cinematografici presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell‟Università di Bologna. L‟autrice ringrazia Dominique e Françoise Dupuy per la generosità con cui le hanno donato tempo, ricordi e preziose riflessioni e, per l‟altrettanta gentilezza e disponibilità, Petra Weisenburger, regista del documentario Tanz für

besseres Leben. Der rote Tänzer Jean Weidt, scritto e diretto con Peter Schmitt e Jean-Louis

Sonzogni (La Sept, Lieurac Productions, 1989).

2 Per un‟accurata ricostruzione della storia de Les Archives de la danse si rimanda al volume curato da Inge Baxmann, Claire Rousier e Patrizia Veroli, Les Archives internationales de la danse, Pantin, Centre National de la Danse, 2006.

3 Der grüne Tisch (Il tavolo verde) è il celebre capolavoro di Kurt Jooss che debuttò il 3 luglio 1932 al Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, proprio in occasione del primo Concorso coreografico Internazionale organizzato da Les Archives de la danse. Bruciante atto d‟accusa contro la guerra, ispirata all‟immagine medievale della Danza della Morte, l‟opera ha indubbiamente lasciato un segno, per forza poetica ed estetica, nella storia della danza del Novecento. Per un approfondito studio su Jooss si rimanda alla monografia di Patricia Stöckemann, Etwas ganz Neues muss entstehen. Kurt Jooss und das Tanztheater, München, K. Kieser, 2001.

4 La terza edizione del Concorso, preceduta da quella del 1932 e da un‟altra più agile del 1945, si tenne dall‟1 al 5 Giugno del 1947 a Copenhagen e ospitò come coreografi partecipanti: Birthe Bendtsen e Maggie Hulstrom Carlsen dalla Danimarca; Ernst Berk, Sylvia Bodmer e Lisa Ullmann, Beryl Paul dall‟Inghilterra; dalla Svezia Ivo Cramér e Birgit Cullberg, per la Cecoslovacchia gareggiarono Elmarita Diviskovà, Laurette Hrdinovà, Jarmina Kröschlovà e Boris Milec; per la Finlandia Maggie Gripenberg, Kaarlo Hiltunen, Mirro Karpio, Ester Naparstock e Alexander Saxelin; per l‟Olanda Florrie Rodrigo, senza nazione d‟adozione la coreografa Edith von Bonsdorff e infine, rappresentanti della Francia, parteciparono Mila Cirul, Lina Doni, Madika, Léone Mail e ovviamente Jean Weidt.

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riconosciuto all‟unanimità dalla giuria come capolavoro, sarà lo spettacolo La Cellule, presentato dall‟artista tedesco Hans Weidt, naturalizzato francese Jean, con la sua compagnia parigina dei Ballets des Arts.

Afferma Bengt Häger, segretario generale AID e futuro direttore del Museo della danza di Stoccolma:

Le ballet La Cellule de Jean Weidt, retenait tout particulièrement l‟attention du jury du concours. Il s‟imposa impérieusement par son unité de thème dramatique, sa force de persuasion due à son contenu essentiellement humain, aussi bien que par son exécution technique. Il apparut clairement que c‟était à cette production que le premier prix devait revenir.6

Eppure, nonostante l‟immediato plauso della critica, la memoria dell‟opera e del suo autore non è rimasta che nei ricordi di chi vi ha partecipato o assistito, frammento di quella storia della danza non raccontata, perché troppo intrecciata con la vita e l‟arte di un dopoguerra che la letteratura stessa ha avuto difficoltà a scandagliare. Bisogna d‟altronde riconoscere che l‟incontrastato successo di Copenhagen non si ripete nemmeno a distanza di pochi mesi a Parigi, dove il pubblico accoglie l‟opera con poco entusiasmo, ne rifiuta e forse condanna i significati, fondamentalmente ignora il talento del regista, coreografo e danzatore Jean Weidt.

Legittimo e doveroso chiedersi la ragione di tali differenti risposte di fronte ad un‟opera complessa che, sotto le forme e i modi del balletto, cela intenzioni e afflati molto vicini al teatro di denuncia del dopoguerra tedesco, che di lì a poco avrebbe dato i suoi frutti migliori. Rappresentazione e critica feroce dello stesso pubblico cui si rivolge, la danza di Weidt non accetta di rinchiudersi in mondi di lirica fantasia per offrire svago e conforto, affronta piuttosto con coraggio la sfida di quell‟insopprimibile bisogno di parlare attraverso il teatro che gli si manifesta, non meno impellente della fame e del freddo, in quegli anni come per tutta la vita.

concorso. Per approfondimenti: Erik Näslund, Rolf de Maré. Art collector, ballet director, museum

creator, Alton/Bokfölager Langenskïold, Dance Books, 2009.

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Purtroppo, per la ricostruzione de La Cellule non si posseggono altri documenti che la raccolta di acqueforti di Jean Target, pubblicate in edizione limitatissima7 ma capaci di restituire tutta la forza della danza di Weidt (quasi

paradossalmente, data la morbidezza dei tratti e della coloritura), qualche fotografia, le brevi pagine scritte molti anni più tardi dallo stesso coreografo nelle sue memorie8 e le preziosissime testimonianze dirette di Françoise e

Dominique Dupuy9, membri dei Ballets des Arts, fondati da Weidt a Parigi nel

1946.

Proprio a partire dai loro ricordi, che si sono snodati sempre lucidi durante le conversazioni e le interviste che i due ancor oggi infaticabili danzatori hanno gentilmente concesso, è possibile indagare modalità e pratiche del lavoro dell‟artista tedesco, quindi tentare di ricomporre la struttura drammaturgica e coreografica dell‟opera per comprenderne infine, grazie ad un‟adeguata contestualizzazione, intenti e portata artistica.

Il soggetto per la messa in scena, tratto dal libretto di Mouloudji10, è fornito

dalla triste esistenza di un piccolo borghese: intrappolato nella cella di una vita

7 Jean Target, uomo di cultura appassionato di danza e di pittura, si innamorò a tal punto de La

Cellule, da seguirne tutte le rappresentazioni parigine per fermarne la memoria in una raccolta di

acqueforti. Target decise il numero e riprodusse manualmente le copie delle sue acqueforti: sul frontespizio della raccolta si può leggere questa Justification: “Il a été tiré de cet ouvrage douze exemplaires sur vélin d‟arches à la forme, numérotés de 1 à 12, comportant deux dessin originaux et une suite en noir. Trente-huit exemplaires sur vélin d‟arches à la forme, numérotés de 13 à 50. En outre dix exemplaires numérotés, de I à X sont réservés aux collaborateurs, il a été tiré à part dix épreuves des planches n. I, IV, VIII, XV, XX et XXIV”. Tra i pochi esemplari rimasti vi sono la copia appartenente a Françoise e Dominique Dupuy (per una brevissima nota biografica si rimanda alla nota n. 9) e quella visionabile al Centre National de la Danse a Pantin, alle porte di Parigi.

8 Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein Lebensbericht, Berlin, Henschel, 1968.

9 Françoise Michaud Dupuy, nata nel 1925 a Lione, figlia di Marcel Michaud, appassionato e critico d‟arte contemporanea nonché direttore di una galleria, cresce in un ambiente di grande respiro artistico e inizia a danzare a soli 5 anni per l‟Opéra di Lione. Ben presto amplia e approfondisce la propria formazione seguendo corsi di musica e pittura, corsi di euritmica dalcroziana, danza classica e teatro. Dopo la prima guerra mondiale si trasferisce a Parigi, conosce Pierre Tugal e lavora con Marguerite Bougai, Nicolas Zvereff e Etienne Decroux prima di incontrare Weidt e il futuro compagno d‟arte e di vita, Dominque Dupuy. Dominique Dupuy, nato nel 1930 a Parigi, conosce invece Weidt da bambino, a soli 8 anni, ed è proprio con il maestro tedesco che inizia la sua formazione come danzatore. Cresciuto anch‟egli in una famiglia di borghesi illuminati, amanti dell‟arte e della cultura, Dupuy frequenta ben presto l‟ambiente teatrale parigino, lavorando con Dullin e Marcel Marceau e poi ancora con Weidt, nel 1946, nei Ballets des arts, dove conosce Françoise. Dopo il ritorno di Weidt in Germania, i Dupuy danno vita ad una loro compagnia, continuando e sviluppando un proprio percorso artistico di inestimabile e storica importanza per lo sviluppo della danza moderna e contemporanea in Francia.

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familiare deprimente, intrappolato nella cella dei propri incubi e della propria coscienza e intrappolato, infine, nella cella reale di una prigione per aver commesso un crimine.

Assolutamente significativo ricordare, per quanto apra questioni molto complesse su cui si ritornerà in seguito, che il nome dell‟uomo è quello tedesco di Andreas Kragler - già protagonista del brechtiano Trommeln in der Nacht11 -

almeno per quanto riguarda la versione de La Cellule presentata a Copenhagen (mentre nelle sue memorie, scritte molti anni dopo nella DDR, Weidt chiamerà il suo personaggio col nome francese di Pierre Dubois12).

grazie a lavoretti offerti dalla solidarietà del mondo teatrale parigino. Figlio di un muratore algerino iscritto al Partito Comunista, Mouloudji trascorre l‟infanzia nelle strade del XIX arrondissement della capitale francese e dal 1935 conosce e frequenta il Gruppo Ottobre (una delle strutture più importanti di teatro politico francese). A soli tredici anni è considerato la mascotte di personaggi come Jean Luis Barrault e Roger Blin (entrambi molto amici di Weidt) e, frequentando l‟ambiente teatrale, si avvicina anche alla poesia e alla letteratura sotto la guida di maestri come Marcel Duhamel e Charles Dullin. Per quanto riguarda la stesura del libretto de La Cellule, considerato il modo di lavorare di Weidt, è verosimile ipotizzare che la collaborazione tra i due sia stata molto stretta.

11 Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte) è uno dei lavori giovanili di Bertold Brecht, scritto nel 1918-1920 e rappresentato per la prima volta a Monaco nel 1922. Nonostante non vi siano prove certe di una diretta conoscenza tra Brecht e Weidt, è un‟ipotesi più che mai attendibile che Weidt conoscesse almeno il lavoro del grande drammaturgo tedesco. Nelle sue memorie - sempre molto essenziali e più simili a cronache che a romanzi - cita spesso Helen Weigel (compagna e attrice di Brecht) e Ernst Busch (attore del Berliner Ensemble) come amici e compagni di accese discussioni sull‟arte e, più in generale, Weidt fu sempre molto curioso e partecipe del fervente mondo culturale che animava le città in cui viveva, prima Berlino e poi Parigi, entrando in contatto con quasi tutte le personalità artistiche del suo tempo (da Friedrich Wolf e Erwin Piscator fino a Jean Luis Barrault e Etienne Decroux) . Tornando al dramma brechtiano, come riassume bene Chiusano nella sua Storia del teatro tedesco moderno (Einaudi, Torino, 1976, p. 198), “la scena è in una Berlino da tregenda, nell‟immediato dopoguerra, e il protagonista è un reduce del fronte, Andreas Kragler, che trova la propria fidanzata lì lì per sposare un tale da cui, nell‟incertezza all‟alba il suo breve sogno del suo ritorno, ha avuto un figlio. Disperato, dopo una violenta lite, Kragler vaga per la notte piena di spari e di morti, meditando di combattere a fianco degli spartachisti che stanno per essere stroncati dalle forze governative. Ma da ubriaco si dissolve; la rivoluzione, ormai, non ha più speranze, e Kragler, dopo aver monologato assai espressionisticamente battendo su un tamburo e prendendosela con la luna - che poi si rivela un lampione giapponese - se ne torna a letto con la fidanzata di nuovo sua e si dispone a una vita borghese, nell‟indifferenza e nel cinismo”. Alla luce di questa vicenda che segna e caratterizza in modo inequivocabile il personaggio di Kragler, diventa ancor più interessante la lettura che Weidt offre ne La Cellule del triste destino del personaggio brechtiano. Inoltre, come si vedrà più avanti e a riprova del debito che La Cellule ha nei confronti di Trommeln in der Nacht, le analogie e i rimandi tra le due opere, sia nella struttura che negli espedienti narrativi, sono numerosi ed evidenti.

12 La questione del nome del protagonista de La cellule è decisamente controversa: nelle memorie di Weidt raccolte e curate da Marion Reinisch in Auf der grossen Strasse. Jean Weidts

Erinnerungen. Nach Tonbandprotokollen, Berlin, Henschelverlag, 1984, non compare in alcun

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Come nel dramma brechtiano, l‟azione si svolge nell‟arco di una notte, poiché il tempo dell‟opera stravolge la fabula e gioca sull‟intreccio: il sipario si apre svelando le mura grigie della prigione, una grande tenda verde che copre una gradinata (allestimento che richiama esplicitamente le messe in scena del teatro espressionista, si pensi alle regie di Leopold Jessner13 che Weidt

conosceva sin da giovane) e una brandina sciatta dove Kragler, condotto da due poliziotti, si adagia e poi si addormenta. La prima scena è scarna, non danzata, semplice e crudo prologo per l‟incubo che costituisce l‟intero spettacolo e grazie al quale lo spettatore rivive in un flashback visionario il destino del protagonista.

Interpretato da un Weidt sempre espressivo e potente sulla scena, Kragler viene trascinato nel suo incubo da un gruppo di spettri coi volti coperti da splendide maschere variopinte, interpretati da tutti i danzatori della compagnia14. Queste strane figure si muovono a terra, strisciando e avanzando

come un unico corpo dove il movimento dell‟uno si ripete e continua in quello dell‟altro; “un magma, una materia in fusione”15 da cui spuntano volti

terrificanti, che altro non sono se non l‟incarnazione delle paure, dei pensieri malati, dei sogni proibiti del protagonista. Sono infatti tali fantasmi a guidarlo

Socialistische Einheitspartei Deutschland (SED). Tali successive e forse coatte variazioni del nome non possono tuttavia far dimenticare che nella prima versione dell‟opera, quella francese del 1947 di cui in questo saggio si tratta, il nome del protagonista doveva essere inequivocabilmente quello di Andreas Kragler: lo raccontano i Dupuy, lo testimonia lo scritto di Target a prefazione della sua raccolta di acqueforti e, soprattutto, così è riportato nel programma di sala del Concorso di Copenhagen, che chiaramente riporta il nome dell‟artista accanto a quello del personaggio interpretato, Andreas Kragler.

13 Leopold Jessner (1878-1945), regista e direttore teatrale, iniziò facendo l‟attore in compagnie minori e nel 1911 ad Amburgo esordì nella regia con Il tartufo di Moliére. Dal 1915 al 1919 direttore della Neues Schauspielhaus di Königsberg, passò allo Stadttheater di Berlino nel 1919, dove debuttò con la regia di Guglielmo Tell di Schiller, una messa in scena straordinaria: quasi scomparse le scene, palcoscenico nudo, e sul fondo una scala. Da allora Jessner fu definito il regista “della tenda e della scala”, motivi ricorrenti nei suoi spettacoli che hanno influenzato di certo anche la messe in scena di Weidt.

14 Come riportato dal programma di sala, accanto a Weidt nei panni di Andreas Kragler troviamo: Dominique Dupuy (il figlio), Françoise Michaud (la moglie e la cantante), Eydée Fortin (la scimmia), France Bauvery (la giovane ragazza), Paul Dugnac (il giovane uomo), Matilde Roelens, Sonja Roublicova, Anne-Marie Remy, Maryse Pommier (le cameriere) e Paul Dougnac, Dominique Dupuy, Renaud D‟Ilberte, Robert Baby (i camerieri) e infine La Troupe (fatta eccezione per Françoise Michaud che ricopriva già altri due ruoli) sia nel ruolo de gli spettri che in quello de il pubblico.

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nella ricostruzione in sogno della sua vita, trascinando e risucchiando l‟uomo nelle loro danze.

Dissolvendosi infine con la geometria di qualche abbozzo di composizione coreografata, gli spettri lasciano sul palco uno sgabello: simbolo della vita familiare, cella della monotonia quotidiana. La moglie, interpretata da Françoise Michaud, vi si siede e rimane immobile, poi dondola autisticamente, chiusa nel silenzio sofferente del proprio mondo interiore. Il giovane figlio invece entra spigliato e irriverente, moderno rappresentante di un altro mondo, ancora una volta molto distante dal padre. L‟incomunicabilità tra i due uomini si concretizza sulla scena in una danza che si trasforma in lotta: un passo a due interamente maschile (scelta audace e rivoluzionaria all‟epoca) ed estremamente violento, in cui Weidt e il giovanissimo Dominique Dupuy nei panni del figlio si esibiscono in slanci, salti, cadute ed energiche prese dinamiche16.

A segnare la chiusura di questo primo quadro sono gli spettri che ritornano, come leitmotiv dell‟angoscia, e trascinano Kragler nell‟abisso del sogno-incubo della sua esistenza: il cabaret, luogo del teatro e della danza, del divertimento e della seduzione, dove il piccolo borghese va a cercare magia e conforto per uscire dall‟asfissia della vita reale. Il locale è ancora vuoto, non ci sono che gli attori che si preparano, occupati dalle prove e dall‟allestimento per la serata. I garçons de cafè e le femmes de ménage portano in scena danzando i tavolini del caffè e danno vita a quell‟atmosfera conturbante e seducente tipica del cabaret17.

Kragler, spettatore inaspettato, si trova nella posizione privilegiata di poter osservare quel mondo sconosciuto e affascinante nel momento quasi intimo e segreto delle prove. Sul palco un uomo vestito da scimmia (Eydée Fortin, danzatore eccellente, già nella compagnia di Weidt prima della guerra) prova per un‟ultima volta il numero con la giovanissima France Bauvery, interprete perfetta nel ruolo della fanciulla graziosa. Il passo a due è dolce e violento al

16 Ricorda Dominique Dupuy che per l‟uscita di scena, dopo l‟ultimo slancio contro il padre, Weidt lo scaraventava letteralmente fuori dalle quinte, dove i compagni danzatori erano pronti a sostenerlo al momento dell‟arrivo. La proverbiale forza di Weidt (confermata anche da Françoise che, da danzatrice professionista quale già era, accompagnava solitamente Weidt nei passi a due) è sempre stata una caratteristica del danzatore ed è infatti evidente anche nelle foto e nei disegni che lo ritraggono.

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tempo stesso: l‟aspetto animale di Eydée fa sì che i suoi passi siano profondi affondi in seconda posizione e che le sue forti braccia agiscano da sostegno per l‟esile corpo della ballerina che gli volteggia intorno. Ma la scena presenta un tragico finale, anticipazione di ciò che avverrà poco dopo allo stesso Kragler: l‟uomo-scimmia, rifiutato infine dalla danzatrice, la strangola.

La drammaticità della scena è presto stemperata dall‟arrivo nel cabaret del pubblico: quattro coppie elegantemente vestite riempiono la sala e si dispongono intorno ai tavolini sul proscenio, in prossimità del pubblico reale. Lo spettacolo ha inizio e appare finalmente l‟attrazione principale della serata: la cantante, una meravigliosa Françoise Michaud che scende dalla scalinata in una lunga e morbida diagonale danzata18. Il fascino della cantante è strabiliante

e Kragler ne rimane letteralmente stregato: la avvicina e le chiede di danzare una vecchia polka démodée. La cantante lo guarda, sembra voler rifiutare ma poi invece accetta, per pura derisione, sapendo che, molto affaticato, il suo cavaliere cederà ben presto. Ma la furia inconsueta di Kragler trascina la donna in un passo a due energico e appassionato19, finché non si intromette un

giovane uomo (interpretato dal danzatore Paul Dugnac), probabilmente l‟amante di lei, che la stringe a sé in un languido valzer. Kragler osserva la gioia dei due, mentre collera e gelosia si fanno incontenibili al ritmo disperato di questo nuovo desiderio che l‟uomo non riesce più a domare: colpisce il giovane, attira a sé la donna, colpisce ancora con violenza gli uomini del pubblico che cercano di fermarlo e infine strangola la cantante nello stesso modo in cui la scimmia aveva ucciso la sua amata. Il corpo della donna smette di dibattersi, ogni anelito si spegne e lei crolla a terra lasciando scivolare maschera e parrucca, che svelano così un orribile, raggrinzito, volto da vecchia.

Immediatamente riappaiono gli spettri che sommergono e inghiottono Kragler fino a trascinarlo sulla brandina. L‟incubo finisce, l‟uomo non sopravvive. Torna la scena iniziale: la cella, le mura grigie, l‟uomo disteso; ma i poliziotti che vengono a cercarlo trovano un corpo senz‟anima.

18 Dominique ricorda che Françoise, l‟unica interprete cui Weidt lasciava grande libertà creativa conoscendone le innegabili doti, si fece ispirare per quel pezzo da una cantante realista di origine tedesca molto nota al tempo a Parigi, Marianne Oswald.

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Questa lunga, ma d‟altra parte doverosa, digressione sull‟opera ne rende evidente la complessità della struttura coreografica e drammaturgica. Realizzato nell‟arco di pochi mesi, da febbraio a giugno del 1947, La Cellule si può considerare il momento culminante e sicuramente conclusivo20 del percorso di

Weidt come coreografo: la scelta del racconto e la sua dimensione kafkiana, il ricorso all‟espediente metateatrale, la ricchezza e la varietà delle scelte coreografiche, la maestria nelle transizioni tra i diversi quadri, le musiche realizzate appositamente da Émile Damais21, quindi la cura della messa in scena

in tutti i suoi molteplici aspetti, mostrano chiaramente la maturità di Weidt come artista teatrale. La “forza drammaturgica” e il “senso del teatro”22 sono

sempre stati una componente importante del talento del maestro: sin dai primi spettacoli, pur nella povertà di mezzi, le scelte tematiche così come l‟utilizzo delle maschere e lo studio attento sul movimento, hanno sempre fatto emergere una visione dello spettacolo come opera complessa e drammaturgicamente stratificata.

È evidente, d‟altra parte, che ad uno sguardo contemporaneo, disincantato e analitico, può far sorridere l‟idea di questo articolato balletto con tanto di passi a due, assoli e scene corali, costruito in chiave fortemente espressionista; eppure, non senza qualche ingenuità, La Cellule rientra perfettamente in un

20 L'anno successivo alla creazione de La Cellule, nell'autunno del 1948, Weidt tornerà a Berlino, abbandonata con l'avvento del nazismo, su invito di Friedrich Wolf per dirigere il gruppo e la scuola di danza alla Volksbühne. Racconta lo stesso Weidt nella sua biografia: “Bei unserem Gastspiel in Westberlin im Theater am Kurfürstendamm hatte ich nach vielen jahren ein Wiedersehen mit Friedrich Wolf und nach der zweiten Vorstellung mit ihm auch eine längere Aussprache. […] Friedrich Wolf versprach mir seine und auch die Unterstützung der Volksbühne von Ostberlin” (In occasione della nostra rappresentazione a Berlino Ovest, nel teatro di Kurfürstendamm, ebbi l'occasione di rivedere dopo molti anni Friedrich Wolf e dopo la seconda replica riuscii ad avere con lui un lungo incontro. […] Friedrich Wolf mi assicurò l'appoggio suo e della Volksbühne di Berlino est) (in Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein

Lebensbericht, cit., p. 58). Una volta inseritosi nelle istituzioni della DDR, tuttavia, Weidt non

avrà più quella forza creativa che l'aveva guidato in tutti gli anni di disperato ma assai stimolante vagabondaggio artistico: nonostante la creazione di un gruppo sperimentale di giovani danzatori alla Komische Oper (1958-1966) per cui creerà il pezzo No Pasaran (1960) e con il quale, soprattutto, rimetterà in scena gli spettacoli del passato, l'istinto creativo del coreografo andrà via via assopendosi negli ultimi decenni berlinesi per lasciare sempre più spazio a quello pedagogico e formativo.

21 Allievo di Honegger, compositore giovane ma di grande talento, Damais collabora con Weidt scrivendo e riscrivendo le musiche tutte le volte che il lavoro si trasforma durante le prove in diverse versioni. Molto apprezzato fu anche l‟utilizzo di un particolare strumento, “Ondes Martenot”, un organo elettrico.

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certo gusto dell‟epoca ed è impregnata di un immaginario, anche cinematografico, molto diffuso al tempo nell‟area mitteleuropea.

Si richiamino alla memoria immagini e vicende del cinema anni Trenta, in particolare le celeberrime pose cabarettistiche di Marlene Dietrich ne L’Angelo Azzurro (1930) e in Venere Bionda (1932)23, film che nelle intenzioni dello stesso

regista, Josef von Sternberg, dovevano risultare profondamente connotati dalle atmosfere lugubri e sfatte dell‟avanspettacolo berlinese e, più ampiamente, dell‟espressionismo tedesco. Le scene più note e certamente rappresentative sono quelle che immortalano una splendida Marlene Dietrich24 nelle vesti della

sensuale e maliziosa cantante Lola del cabaret L‟angelo Azzurro, dove - non a caso, verso la fine del film - rischia di essere strangolata per gelosia dal vecchio marito e non più Professore Immanuel Rath; o ancora si pensi all‟intramontabile sequenza dello “spogliarello” dell‟attrice tedesca nei panni di un goffo gorilla, che fa da prologo alla performance canora in Venere Bionda.

Il cabaret come luogo di perdizione, spazio equivoco dove ballerine, strani animali, cantanti e, non da ultimo, lo stesso pubblico si amalgamano in un corpo unico, ipertrofico e occlusivo, che ingloba chiunque si ritrovi a prendervi parte, si presta dunque come ambientazione naturale dello spettacolo weidtiano. Così come l‟idea della cantante ammaliatrice, seducente e ingannevole, attrazione effimera e fatale, risulta particolarmente familiare e immediatamente riconoscibile per il pubblico dell‟epoca.

Ma è anche nello stesso mondo della danza, e proprio in quegli anni difficili intorno alla guerra, che si fanno strada tentativi coreografici non dissimili a quello che Weidt presenta con La Cellule. In particolare, esulando da tutti gli evidenti punti di contatto con altri esponenti dall‟Ausdruckstanz tedesca - senza quindi voler entrare nel merito di discussioni sull‟appartenenza o meno dello stesso Weidt a questo fenomeno25 e rimanendo invece strettamente pertinenti

23 Der Blaue Engel (1930) e Blonde Venus, (1932), celebri film di Josef von Sternberg con Marlene Dietrich realizzati in Germania (il primo) e in America (il secondo) per la Paramount.

24 Si ricorda che la celeberrima attrice tedesca Marlene Dietrich (1901-1992) matura l‟approccio al teatro di rivista (il Tingeltangel, il caffè concerto) a Berlino, nella zona di Friedrichstrasse, dove nei primi anni Venti si potevano contare duecentocinquanta locali di cabaret frequentati da artisti, pittori, registi e scrittori dell‟epoca.

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all‟analisi de La Cellule - non si può non pensare al lavoro coreografico di un artista sperimentatore come Aurel Milloss che lo stesso Weidt di certo conosceva26.

Per quanto inconsueto e, forse, un po‟ azzardato, un parallelo tra certe idee coreografiche e registiche di Milloss e del Weidt più maturo de La Cellule può risultare per molti aspetti illuminante. Si pensi ad un‟opera come Il mandarino meraviglioso, che debuttò alla Scala nel 1942, con la sua vicenda tragicamente emblematica27 e le psicologie complesse dei suoi protagonisti: la Ragazza e il

Mandarino. Anche qui ci si trova di fronte ad un soggetto surreale e simbolico, che dimentica le contingenze terrificanti della guerra per rappresentare invece, attraverso la cura del movimento di personaggi specifici, la poliedricità dei sentimenti umani e forti contrapposizioni di valori. Esotico, estremamente misterioso, quello del Mandarino è un personaggio fortemente drammatico che

consuete problematiche dovute a quantità e qualità delle fonti per la ricostruzione storica del fenomeno, la letteratura scientifica sul tema risente in modo determinante dell‟impronta ideologica di cui i diversi studi si sono fatti portatori (più o meno consapevolmente); si rimanda in proposito all‟approfondito saggio Ausdruckstanz: tradizioni, traduzioni, tradimenti di Susanne Franco in I discorsi della danza, Torino, Utet, 2005. Per quanto riguarda la discussione intorno alla figura di Weidt, in Politische Körper. Ausdruckstanz, Choreographien des Protests und die

Arbeiterkulturbewegung, Münich, LIT, 2004, la studiosa tedesca Yvonne Hardt ricostruisce,

attraverso l‟opera di diversi artisti dell‟epoca, una storia della danza politicamente impegnata a sinistra, che contesta radicalmente la più diffusa interpretazione della danza tedesca come collusa con il regime nazionalsocialista. La Hardt, inoltre, ribadisce e argomenta l‟inclusione della figura e dell‟opera di Weidt nella pratica dell‟Ausdruckstanz (la cui appartenenza viene solitamente messa in discussione proprio per l‟esplicita fede politica dell‟artista), mettendo in luce come anche i movimenti di sinistra della Repubblica di Weimar avessero individuato nell‟Ausdruckstanz e, più in generale, in una pratica di danza corale che andava diffondendosi all‟epoca un mezzo per l' “elevazione culturale” dei lavoratori.

26 “Ich bereite mich auf die Rückkehr nach Paris […]. Major Thompson gab mir noch zwei Wochen Urlaub für Rom. Dort hatte ich Gelegenheit, in der Ballettgruppe der Oper zu trainieren und in der Staatlichen Ballettschule zu hospitieren. Das Ballett der Oper von Rom war zu der Zeit eine prächtige Gruppe, asgezeichnet in der Technik und mig in der Wahl neuer Themen. Der Ballettmeister, Aurel von Milloss, war mir schon von früher her als ein begabter Choreograf bekannt” (Mi preparavo al ritorno a Parigi […]. Il maggiore Thompson mi diede ancora due settimane di vacanza a Roma. Là avevo l‟opportunità di fare training con il corpo di ballo dell‟Opera e di essere ospitato nella scuola del balletto statale. Al tempo il balletto dell‟opera di Roma era un gruppo splendido, eccellente nella tecnica e coraggioso nella scelta di temi innovativi. Conoscevo il maestro di balletto, Aurel von Milloss, da ben prima che diventasse un coreografo di talento) (in Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein Lebensbericht, cit., p. 53).

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si rivela, preceduto da un‟estenuante immobilità, in una danza solistica espressiva che raggiunge il culmine tensivo del balletto28 e a cui l‟assolo

disperato e frenetico di Kragler non può non far pensare. Così come la danza lenta, sensuale eppure elegante, della giovane donna, curiosa e al tempo stesso spaventata, si accosta facilmente alle movenze della cantante interpretata da Françoise Michaud. Ancora, per quanto riguarda il ruolo degli spettri, è evidente il richiamo alle ormai celebri danze macabre espressioniste e non è un caso infatti che lo stesso Milloss, per il suo Coro di morti (sempre del „42), metta in scena quindici danzatori con il volto mascherato che “in vari gruppi si compongono e scompongono in atteggiamenti espressionistici, raggiungendo spesso una tensione drammatica di sorprendente efficacia”29.

Il lavoro registico dunque, pur nelle indiscutibili differenze stilistiche, presenta numerosi punti di contatto: scelte tematiche azzardate, l‟importanza della riflessione sull‟individuo e quindi la sua rappresentazione danzata - anche il labaniano Milloss, come Weidt, considera la libertà espressiva del danzatore fondamentale e per questo esige interpreti di straordinaria personalità drammatica - e ancora la costruzione di una teatralità elaborata, raffinata, in cui tutti gli elementi della scena godono di massima autorevolezza artistica.

Ad ulteriore riprova di una vicinanza estetica e poetica tra i due coreografi - che qui si ha lo spazio e l'intenzione solo di accennare - vale la pena porre attenzione all‟atmosfera che molto probabilmente si respirava all‟epoca e che in qualche modo premeva sulle istanze creative. Non è un caso che Weidt, appena prima di rientrare a Parigi, città d'adozione dopo il forzato esilio dalla Germania nazista, una volta arrivato a Roma30, abbia voluto fermarsi al Teatro

28 “Il Mandarino, seduto e immobile, protende un braccio, una mano che si apre rapace. Poi si ricompone. Finché ad un reiterato avvicinarsi della donna, egli è scosso da un brivido. Il suo corpo si contrae, poi di colpo si estende, così come un soffio d‟aria fa alzare una fiammata da un ceppo quasi spento. Balza in piedi ed inizia ad inseguire la ragazza, che riesce a sfuggirli fino a cadere a terra stremata. Invasato da una vitalità incontenibile, il Mandarino danza uno scatenato assolo: in uno spazio assai limitato, che resta prossimo al punto in cui la ragazza si è accasciata, la sua sete di vivere e di amare erompe selvaggiamente. Le sue braccia sciabolano lo spazio, mentre avanza, gira su se stesso, salta con una tensione dinamica che cresce sempre più sul serrato ritmo della musica” (Patrizia Veroli, Milloss. Un maestro della coreografia tra espressionismo

e classicità, Lucca, Libreria musicale italiana editrice, 1996, p. 240).

29 Goffredo Petrassi, Le mie avventure con la danza, in “Musica”, Firenze, a. I, nn. 3-4, giugno 1946.

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Reale dell‟Opera, dove Milloss, come maître de ballet, era riuscito a ridare dignità al balletto e aveva fatto addirittura aumentare il numero di rappresentazioni ballettistiche nella stagione 1944-45. A Roma Weidt riscopre quell‟entusiasmo che gli è proprio - come ben descrive la danzatrice Lia Dall‟Ara: “Vivevamo in una sorta di esaltazione. Quanto più sentivamo che il futuro poteva non esserci, tanto più eravamo proiettati verso la nostra arte, il ballo. Nel quotidiano c‟era la fame, la paura, l‟orrore, in teatro invece ogni limitazione spariva, tutto diventava possibile. Fuori si moriva, dentro c‟era un fervore straordinario di artisti”31 - in un contesto ben diverso da quello della Germania

prebellica in cui i due giovani danzatori si erano di certo incontrati. Come afferma lo stesso Weidt, la conoscenza con Milloss è di lunga data (ed è assai probabile che risalga agli anni berlinesi, tra il 1928-1929, che ruotano per entrambi intorno alla frequentazione della scuola di Hertha Feist32) e

nonostante le enormi differenze di percorso matura in loro, evidentemente, tra gli anni Trenta e Quaranta, una nuova esigenza di danza teatrale, che sappia essere “interessata alla vita e al tempo stesso faccia nascere interesse per la vita”33e che, come afferma Weidt, “richiede personalità che danzano

completamente consapevoli del fatto che il balletto e la danza moderna avranno un futuro solo se troveranno nelle forme fissate nuovi contenuti, nuovi temi e compiti.”34 Se, d‟altronde, nella Berlino della seconda metà degli

verso Roma prima di rientrare a Parigi, dove si era stabilito prima dello scoppio della seconda guerra.

31 Patrizia Veroli, Milloss, cit., p. 270.

32 Assistente di Laban nel 1922-1923 e, ancor prima, cognata del famoso critico e storico della danza Fritz Böhme e insegnante del metodo Mesendieck, la Feist aveva aperto nel 1923 una delle prime scuole di danza moderna di Berlino: la sua “Schule für Tanz und Gymnastik - Bewegungslehre Laban”. Sempre nelle memorie del maestro (Hans Weidt, Der rote Tänzer, cit., p. 15) si trova scritto: “Durch Hertha Feist, eine Schülerin Rudolf von Laban, bot sich mir endlich wieder die Gelegenheit zu künstlerischem Schaffen. Ihr stand in Berlin-Halensee ein grossräumiges Haus zur Verfügung, in dem sie eine Labanschule unterhielt. Sie ermöglichte es mir, in dieser Schule meine erste Berliner Tanzgruppe aufzubauen” (Grazie ad Hertha Feist, un‟allieva di Rudolf von Laban, mi si offrì finalmente, di nuovo, la possibilità di una creazione artistica. Lei disponeva, a Berlino-Halensee, di una grande casa spaziosa, dove manteneva una scuola labaniana e mi permise, in quella scuola, di costruire il mio primo gruppo di danza berlinese). È dunque più che mai verosimile l‟ipotesi che Weidt e Milloss si fossero conosciuti proprio in quel periodo in cui il giovane danzatore ungherese frequentava di certo e con assiduità la scuola della Feist.

33 Aurell von Milloss, Theatertanz aristocratico e proletario, (1933) in Coreosofia. Scritti sulla danza, a cura di Stefano Tomassini, Venezia, Leo S. Olschki, 2002, p. 55.

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anni Venti, la componente politica permeava la danza di Weidt - come peraltro il teatro di Brecht e Piscator e le opere di Dix e Grosz - mentre il giovane Milloss, di formazione classica, era più affascinato dal teatro totale russo e, in particolare, diaghileviano, dove la danza giocava un ruolo fondamentale, ecco che a distanza di un ventennio, con La Cellule, Weidt si confronta con un‟opera coreografica nuova e si avvicina infine alle proposte millossiane. L‟interesse e la fascinazione per la danza classica e le forme del balletto sono d‟altronde sempre sinceramente dichiarate da Weidt35, ma forse sono proprio le parole di

Milloss, scritte nel 1933 (quindi con tutte quelle connotazioni che a noi oggi possono apparire obsolete), a descrivere meglio di altre cosa stava accadendo ad una certa pratica di teatro di danza:

La danza proletaria offriva nuovi e affascinanti percorsi; ci si chiede dunque come mai non le era concesso di affermarsi definitivamente a teatro. La risposta è semplice: essa rimaneva naturalistica. Sorge dunque una domanda: l‟arte naturalistica è da considerarsi di pieno valore? No! Perché? Perché l‟arte teatrale non mira a fornire un rispecchiamento della vita reale, quanto a presentare un‟espressione simbolica della vita devozionalmente potenziata, della vera vita, ossia di una vita superiore! […] Se dalla vita reale è possibile derivare la creazione di un soggetto proletario, quest‟ultimo deve essere rappresentato in modo non naturalistico, attraverso una complessa lingua artificiale. […] La vecchia danza aristocratica scompare, le sue componenti incontrano quelle dell‟arte proletaria nella moderna rappresentazione di danza teatrale. […] Arte intesa come centro di cultura e non come mezzo di propaganda politica, o come lusso! La grandiosità, il virtuosismo di questa danza è quello di esprimere l‟interiore ricchezza umana in una forma culturale.36

Si fa a questo punto necessaria, per meglio comprendere l‟opera e i molteplici riferimenti e legami con il teatro e la danza dell‟epoca, con la società e il tempo in cui nasce, con il pensiero e l‟intero percorso dell‟artista stesso, una breve ricostruzione della storia personale di Jean (Hans) Weidt e in particolare del periodo francese in cui La Cellule prende vita.

35 “Die höchste Krone tänzerischer Kunst, das klassiche Ballett, das sich durch Formen des modernen Ausdruckstanzes verjüngt” (Il punto più alto dell‟arte coreutica, la danza classica, che si è ringiovanita attraverso le forme della moderna danza d‟espressione) (ibidem).

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Figlio di un tostatore di caffè e di una cameriera, Hans Weidt nasce ad Amburgo nel 1904, dove lavora, studia e si avvicina alla danza sotto la guida di Sigurd Leeder37 e Olga Brandt-Knack38. Dopo l‟avvio nei circoli ginnici, a soli

21 anni, Weidt intraprende la strada di una pratica artistica indipendente: affitta una sala prove dove trascorre tutto il tempo libero dal lavoro (spesso anche notturno: giardiniere di giorno e minatore di notte), fonda una compagnia amatoriale di lavoratori e crea i primi assoli, in cui già delinea uno stile “impegnato” e attento ai temi cari alla classe lavoratrice. “Non volevo essere specchio ma fiamma” 39 afferma, per definire la sua danza come

Weltanschauung, come “mezzo per liberare gli uomini dall‟oppressione delle costrizioni”40 socialmente imposte. Nel 1929 si trasferisce a Berlino, in un

ambiente brulicante di fermenti politici e culturali, incontra con interesse Erwin Piscator e il suo teatro politico, quindi fonda la compagnia Die Roten Tänzer (I danzatori rossi), affermando così il suo legame con il partito comunista (benché ne diventi membro solo nel 1931) e la maturazione di una coscienza politica accanto a quella coreografica e pedagogica. L‟entusiasmo giovanile, che vede nel teatro e nella nuova danza l‟espressione e la salvezza della classe operaia, si struttura sempre più nella direzione tenace e continua dei suoi gruppi di danzatori-operai. Molto vicine al teatro agitprop, pur mantenendo una propria autonomia poetica, le danze di Weidt riescono a portare sulla scena tutta la forza e la verità di un mondo di uomini e donne solitamente esclusi dall'autoespressione. Nel 1933 si reca a Mosca con la compagnia in occasione delle Olimpiadi dei lavoratori ed è poi costretto dall‟avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania a non rientrare in patria e a trasferirsi a Parigi. Nella capitale francese raggiunge Reichmann, un ebreo tedesco emigrato, e

37 Sigurd Leeder (1902-1981), famoso per la lunga e proficua collaborazione con il celebre coreografo tedesco Kurt Jooss, fu tra i primi maestri di Weidt: si conobbero ad Amburgo, quando Weidt, ancora giovanissimo, cominciò ad appassionarsi alla danza entrando a far parte dei circoli ginnici. “Ich lernte in Hamburg Sigurd Leeder kennen, einen jungen experimentierenden Tänzer. Er hatte eine Tanzgruppe und nahm mich als Schüler auf” (Ad Amburgo conobbi Sigurd Leeder, un giovane danzatore di ricerca. Aveva un gruppo di danza e mi prese come allievo) (Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein Lebensbericht, cit., p. 6).

38 Olga Brandt-Knack, insegnante di danza e membro del partito socialista, organizzatrice della Lega per i diritti dei danzatori e direttrice-coreografa di cori di movimento, ingaggiò Weidt come danzatore e gli fornì numerosi esempi e principi coreografici.

39 “Ich wollte nicht Spiegel, sondern Flamme sein”. Hans Weidt, Der rote Tänzer. Ein

Lebensbericht, cit., p. 19.

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sotto la sua direzione lavora come attore principale nel film L'Apprenti sorcier (L‟apprendista stregone), documento prezioso perché l‟unico rimasto fino a noi41, in cui Weidt compare come interprete. Dopo altre brevi e non troppo

felici esperienze nel cinema, nel 1935 viene espulso dalla Francia per le sue attività politiche e le collaborazioni al programma del partito comunista. Quindi, emigrante ed esiliato, viene invitato a Mosca da Erwin Piscator e rimane lontano da Parigi fino all‟autunno del 1937, quando riesce a rientrare trovando rifugio in una piccola sala a Montparnasse. Qui può continuare a danzare e a provare le sue coreografie formando una piccola compagnia di danzatori principianti, Ballets 38, amatori entusiasti, provenienti dalla classe dei lavoratori e simpatizzanti del partito comunista francese. Con questo gruppo Weidt realizza anche una rappresentazione di Parade, che lo stesso Jean Cocteau, nel Programma di sala per la serata alla Grande Salle Pleyel del 1939, definisce “un prodigio”42. Proprio in questi anni avviene anche l‟incontro con il

giovanissimo Dominique Dupuy, grazie alla generosità e alla lungimiranza del padre Roger, che rimane colpito da quell‟affascinante danzatore, già visto ritratto nelle foto di Maywald, che incontra per la strada ad elemosinare. Roger Dupuy invita Weidt a dare lezioni di ginnastica e danza ai suoi figli, tutti i giovedì mattina, nel salotto di casa e lo accoglie come parte della famiglia. Weidt frequenta così la casa dei Dupuy con sempre maggiore assiduità, affascinato dall‟ambiente culturale che gli si offre, e trascorre con loro anche le vacanze estive nel sud della Francia43. Costretto poi a partire a causa della

41 Brani del film, L'Apprenti Sorcier. D'après le conte de Goethe (1933), musica e regia di Paul Dukas, si possono trovare nel documentario scritto e diretto da Peter Schmitt, Jean-Louis Sonzogni, Petra Weisenburger, Tanz für bessseres Leben. Der rote Tänzer Jean Weidt, 1989, prodotto da La Sept, Lieurac Productions.

42 Precisamente Jean Cocteau scrive “Chez Weidt se passe un prodige. […] Je ne connais rien de plus noble, de plus jeune, de plus extraordinaire que cette petite troupe qui saute et tourne et trepigne les rêves qu‟elle devrait demander au sommeil”, estratto da un articolo citato sul Programma di sala dei Ballets 38 alla Grande Salle Pleyel il 7 marzo 1939.

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guerra, Weidt torna a Parigi solo nel 1946 e forma il nuovo gruppo, i Ballets des Arts, chiamando al suo fianco l‟ancora adolescente Dominique e, tra gli altri, la danzatrice Françoise Michaud, che aveva già lavorato con Roland Petit ed Etienne Decroux. Con la nuova formazione dei Ballets des Arts Weidt inizia le prove nell‟autunno dello stesso anno, invitato da Charles Dullin, allora direttore del Theatre Sarah-Bernhardt, ad usufruire di una sala del suo teatro per preparare il primo programma da presentare a dicembre al Théâtre Marigny. Weidt lavora “molto velocemente, con un‟energia formidabile e le idee molto chiare […] poiché negli anni della guerra non aveva mai smesso di danzare ed era rimasto un danzatore magnifico”44. Nel febbraio del 1947 la

compagnia gira in tournée con un programma interamente dedicato alla guerra, attraversando paesi e popolazioni distrutti e arrivando a toccare le terre di una Germania fatta a pezzi. Sarà proprio durante “le grandi rappresentazioni in un mondo di desolante tristezza” (Dupuy), che i danzatori apprendono dal coreografo di essere stati invitati al Concorso Internazionale de Les Archives de la Danse e che inizia quindi il lavoro creativo e concettuale per la nuova produzione richiesta. Dopo anni di esilio forzato, in Weidt si rianima il grande sogno del ritorno in patria. Una patria annientata dal peso del proprio recente passato, che aveva visto l‟artista lottare per tutta la giovinezza contro le ingiustizie sociali e politiche (in spettacoli come Eine Frau, Una donna, 1928; Alte Leute, altes Eisen, Vecchia gente, vecchio ferro, 1929; Krieg, Guerra, 1927 o Die Rückkehr des Soldaten, Il ritorno del soldato, 1926-28 e ancora Passion eines Menschen, Passione di un uomo, 1930 e Postdam, 1932, per citare solo i più noti e dai titoli maggiormente evocativi).

Ma se nel periodo tedesco l‟entusiasmo creativo di Weidt aveva trovato forma in spettacoli limpidamente essenziali, dove a dominare la scena era il corpo del danzatore/lavoratore nella sua ossimorica bellezza di macchina potente e sfruttata, nell‟opera francese del 1947 gli elementi si stratificano in

suit en vacances où que nous soyons, la leçon de dans est de rigueur”. Estratto dalla video-intervista registrata al Centre National de la Danse, Pantin, 26 gennaio 2002. Nel raccontare la vita in vacanza con il maestro, Dominique ricorda anche come, in occasione dei viaggi estivi, (spesso in Provenza, vicino al mare), Roger Dupuy ritraesse Weidt in meravigliose fotografie mentre saltava e danzava sulla spiaggia. Queste sono, oggi, documenti preziosi, custoditi dai Dupuy nell‟archivio personale.

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una composizione molto più articolata e si intrecciano in una visione del mondo più complessa. Per riprendere ancora le parole di Milloss, che ora appariranno di certo più chiare, “l‟arte teatrale non mira a fornire un rispecchiamento della vita reale, quanto a presentare un‟espressione simbolica della vita”45. Ne La Cellule l‟abilità registica si affina e la scena si fa metafora più che

specchio di un‟esistenza, stravolge e codifica in un‟allegorica rappresentazione le sofferenze e le contraddizioni di un‟intera generazione. Il corpo e la vita del lavoratore, del soldato o del proletario, testimonianze concrete e tangibili di una sofferenza quotidiana e logorante, non sono più il centro della rappresentazione, né lo sono le passerelle grottesche di politicanti satiricamente ritratti46: lo spazio della scena rimane luogo di riflessione e critica, ma si fa ora

proiezione di un mondo borghese arido e frustrato, in cui il pubblico è costretto a riconoscersi.

La scelta del personaggio di Andreas Kragler, inoltre, fornisce in questo senso un‟ulteriore e illuminante chiave di lettura, poiché egli è già, nel dramma di Brecht47,

l‟uomo del compromesso e della capitolazione, l‟uomo che si autodefinisce „un porco‟, il soldato che - dopo essersi unito ai gruppi più coscienti del proletariato tedesco, che sta combattendo una battaglia decisiva per l‟avvenire suo e del proprio paese - abbandona la via della solidarietà e della lotta per cercare un tranquillo rifugio nel letto, nel legame con la donna che è tornata a lui […] Kragler è, in un certo senso, un personaggio negativo ma egli impersona concrete forze sociali, il suo atteggiamento e le sue reazioni sono tipici di masse larghissime, di strati quanto mai profondi del popolo, non un portavoce schematico di idee e programmi, ma un personaggio che si stacca dalla sua matrice e vive di vita originale e autonoma (onde, […], riesce più che agevole collocare Kragler in un preciso mondo di uomini, in una precisa società, nella Germania insomma di quegli anni cruciali: ed anzi se ne potrebbe immaginare perfino la sua posteriore evoluzione).48

Ed è esattamente tale evoluzione che Weidt mette in scena: il protagonista de La Cellule è l‟uomo di Brecht dopo la seconda guerra mondiale, quello stesso

45 Aurell von Milloss, Theatertanz aristocratico e proletario (1933), in Coreosofia, cit., pp. 54-56. I corsivi sono dell‟autore.

46 Si fa qui riferimento alle tematiche tipiche delle opere sopra menzionate. 47 Vedi nota n. 11.

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uomo che ha rinunciato alla rivoluzione, che ha sacrificato l‟ideale e la lotta per il bene comune a favore del proprio egoistico interesse individuale. Figura reale, drammatica e viva, nel cui destino Weidt non può che immaginare una profonda e soffocata disperazione, dopo una scelta così terrificante come quella di voltare le spalle ai compagni rivoluzionari, proprio in quella battaglia nel “Quartiere dei giornali” dove si era spenta la loro estrema, eroica resistenza alle truppe della borghesia49. Se il personaggio del giovane Kragler, in quanto

reduce della prima guerra, aveva già ispirato l‟altrettanto giovane Weidt in alcuni assoli degli anni Venti (Die Rückkehr des Soldaten, Il ritorno del soldato, 1926-28, la cui primissima versione, Klage eines Soldaten, Lamento di un soldato, compare già nella prima serata di danza di Weidt del 1925 e continua ad essere rielaborata anche in Krieg, Guerra, nel 1927), nel 1947 il coreografo dà vita ad un altro Kragler, artefice e non più vittima del suo terrificante destino. Sebbene il carattere universale spinga ad intravedere, oltre la condanna, tutte le umane contraddizioni, il cinismo del personaggio brechtiano non potrà che essere punito, nell‟immaginario danzato di Weidt, con il crollo definitivo di quella speranza di salvezza personale che l‟inetto Kragler non saprà mai costruirsi. La donna amata ed il figlio, che in Trommeln in der Nacht rappresentano l‟alternativa - per quanto tutt‟altro che idilliaca: altro non è che il “letto”, come titola significativamente l‟ultimo atto della commedia - preferita dal reduce alla rivoluzione, diventano ne La Cellule simboli claustrofobici di una vera e propria cella familiare. Eppure, nonostante l‟accenno al conflitto intimo tra uomo e donna e a quello intergenerazionale tra padre e figlio, il vero dramma, rispecchiato con attenta precisione anche nell‟opera di Brecht, è essenzialmente quello di natura sociale, dell‟uomo-individuo con il suo ambiente. Ancor di più: uno spettacolo agghiacciante si delinea nel monologo finale del giovane Kragler brechtiano, offrendo un‟ulteriore rivelazione:

KRAGLER (senza guardarla e in viso , gira in tondo, si afferra il collo con le due mani) : Ne ho fin quassù! (Ride rabbiosamente). Teatro! Un teatro qualunque! Quattro assi, una luna di carta e, dietro, l‟unica cosa vera: un banco da macellaio. (Riprende a camminare in giro, le

49 Si fa qui ancora riferimento alla vicenda del dramma brechtiano Trommeln in der Nacht (brevemente riassunta nella nota 11): Kragler vaga nella notte meditando di combattere a fianco dei rivoluzionari dello Spartakusbund nel combattimento decisivo nel cosiddetto

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braccia a penzoloni quasi a terra, e raccatta così il tamburo del piano elettrico di Glubb). Si sono dimenticati qui il tamburo. (Lo percuote). […] La cornamusa suona, i poveretti muoiono nel quartiere dei giornali, gli cascano le case addosso, poi spunta l‟alba, e loro sono stesi sull‟asfalto come gatti affogati, e io sono un porco e il porco ritorna a casa. (Tira il fiato). Mi metto una camicia di bucato, ho ancora addosso la mia pelle, mi tolgo la giacca e ingrasso gli stivali. (Fa una risata cattiva) Finita tutta l‟iradiddio, domani mattina; ma io domani mattina sarò a letto e mi riprodurrò, così almeno non morirò del tutto. (Rullo di Tamburo). Non fatemi quegli occhioni romantici! Strozzini che non siete altro! (Rullo). Succhiasangue! (Ridendo a piena gola, quasi soffocandosi). Brutti vampiri vigliacchi! (La risata gli si mozza in gola, non ce la fa più, muove qualche passo vacillando, scaraventa il tamburo contro la luna che è un lampione, e tamburo e luna cascano nel fiume, che è senz’acqua). Sbornia e baggianate. Adesso viene il letto, il letto grande, largo, bianco. Andiamo!50

Se, dunque, sulle “quattro assi” del palcoscenico la luna è di carta, una volta rivelatasi lampione non può che illuminare, quali uniche verità, le atrocità avvenute nelle strade e gli sguardi romantici e fin troppo comprensivi del pubblico: l‟arte, suggerisce Brecht, non può servire ad altro che a svelare il reale.

Si intrecciano così già nell‟opera di Brecht lo sguardo dell‟uomo, che aveva effettivamente assistito al soffocamento della Repubblica Socialcomunista bavarese nel 1919, e quello dello scrittore e drammaturgo, che scriverà infatti nel 1954, nella prefazione alla raccolta completa dei suoi drammi per l‟Aufbau-Verlag51:

Tra i miei primi lavori teatrali, la commedia Tamburi nella notte è la più ambigua. In essa la ribellione contro una convenzione letteraria da respingere rischiò di coinvolgere nella condanna un grande movimento di rivolta sociale. Se la vicenda fosse stata svolta in modo “normale”, ossia convenzionale, il reduce che aderisce alla rivoluzione perché la sua ragazza si è fidanzata con un altro, avrebbe riacquistato o perduto definitivamente la ragazza, ma in entrambi i casi non avrebbe abbandonato la rivoluzione. In Tamburi nella notte il reduce Kragler riottiene la fidanzata, sia pure “disonorata”, e volta le spalle alla

50 Trommeln in der Nacht in Bertold Brecht. Teatro, Vol. 1, Torino, Einaudi, 1963, p. 113.

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rivoluzione. Questa appare senz‟altro la più infelice di tutte le varianti possibili, anche e soprattutto perché è avvertibile una certa simpatia da parte dell‟autore.

Lo spirito di contraddizione che spinge lo scrittore a portare al limite dell‟assurdo la vicenda è supportato quindi profondamente, sul piano prettamente artistico, dalla volontà provocatoria di porsi contro la

corrente letteratura dell‟epoca, col suo umanitarismo declamatorio, con l‟antirealismo delle sue finte soluzioni, che portava alla ribalta una collettività di uomini „buoni‟ che, con un semplice bando moralistico, avrebbe dovuto porre fine alla guerra, a questo fenomeno complesso, profondamente radicato nella struttura della società!52

Per ritornare ora a Weidt, è chiaro che la sua avversione per la classe borghese è evidente e dichiarata fin dai primi lavori maturati in Germania e tuttavia nei suoi spettacoli precedenti mai l‟aveva davvero chiamata in causa con tale esplicita veemenza, mai si era azzardato a rappresentarla, forse proprio perché lontana, in qualche modo sconosciuta, ancora indefinita. Dopo la guerra tutto è cambiato, gli ardori febbrili dei moti riformisti e rivoluzionari sono ormai un ricordo lontano, l‟avvicendarsi di terribili manifestazioni di crudeltà ha lasciato segni indelebili - sono guerre in cui Weidt combatte in prima persona, viene deportato nei campi di lavoro e alle quali, infine, sopravvive ancora e solo grazie alla sua arte e alla sua inesauribile volontà di sopravvivenza -. I periodi francesi, invece, segnano un avvicinamento al mondo borghese, obbligato ma spesso anche proficuo: l‟ambiente della danza e

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del teatro parigino lo accolgono generosamente e Weidt entra in stretto contatto con figure di grande cultura, cui deve sostegno e ammirazione. Ancor più: è proprio a Parigi che l‟artista viene riconosciuto come tale e al suo lavoro viene riconosciuta una concreta dimensione estetica, quindi è fondamentalmente al mondo e al pubblico borghese che Weidt deve la sua maturazione professionale.

Alla luce di tutto questo, la riflessione weidtiana sul destino di Kragler diventa ancora più complessa e stratificata: oltre alla critica evidente sul piano delle responsabilità sociali di una precisa classe dirigente preoccupata solo dei propri egoistici interessi personali, si può intravedere il tentativo di un‟analisi profonda sullo stato dell‟arte. Se ne La Cellule le celle in cui il protagonista è rinchiuso svelano la desolante tristezza di vite apparentemente felici ma sostanzialmente vuote, è perché esse sono prive di reale affetto nel contesto familiare, prive di reale consapevolezza nella sfera politica e sociale e, soprattutto, volte al mero intrattenimento e all‟illusione di potere nell‟arte. Proprio nella messa in luce di un rapporto malato della borghesia nei confronti delle scelte e politiche culturali può trovarsi, a mio avviso, lo sguardo più lucido dell‟uomo e dell‟artista Weidt, la chiave di lettura più interessante dell‟opera.

Come il giovane Kragler di Brecht si rivolge in quell‟ultima notte di follia rivoluzionaria ad una luna-lampione inveendo contro la finzione del teatro, così il maturo e frustato Kragler di Weidt trascorre la sua ultima notte in un cabaret dove si innamora, cerca di possedere e infine uccide la cantante che si rivela essere, sotto la maschera, un‟orribile vecchia.

La vicenda dell‟uomo borghese (tedesco o francese che sia, in fondo, ha ben poca importanza53), che per uscire dalle frustrazioni della propria inettitudine

cerca distrazione e diletto nell‟atmosfera sfavillante del cabaret, dove si illude di poter ottenere ciò che vuole, determinando vita e morte di una cantante apparentemente stupenda ma in realtà raccapricciante, diventa metafora della reale situazione di un‟arte nelle mani della borghesia. Una borghesia arida e priva di ideali che, una volta abbandonata la resistenza politica per vigliaccheria, gioca a trovare rimedio alla propria povertà esistenziale tessendo

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le fila di un sistema dell‟arte superficialmente affascinante, volto al mero intrattenimento, con un‟anima ormai in putrefazione. Il ricorso allo stratagemma in precedenza meta teatrale, accanto ad altri accorgimenti scenici (il pubblico sulla scena nella medesima posizione e assai vicino a quello in sala), pur non arrivando all‟interlocuzione diretta o al cartello brechtiano, diventa ulteriore occasione per rendere evidente al pubblico quanto è forte la sua chiamata in causa, quanto la rappresentazione cui assiste, come nel caso delle prove cui assiste Kragler, intenda essere rivelazione del reale.

È ovvio che il gioco delle interpretazioni è ampio, vario e possibilista per sua natura, ma quel che ha agitato e agita, e forse è risultato particolarmente fastidioso al pubblico parigino dell‟epoca, altro non può essere che il mormorio della coscienza. Mostrare la guerra e il suo portato di sofferenza (come d‟altronde fecero quasi tutti i coreografi invitati al Concorso del 194754)

sarebbe stato forse meno audace che offrire uno squarcio, simbolico ma così crudamente sincero, del mondo che alla guerra era sopravvissuto. Oltre la desolazione del racconto esistenziale e la rappresentazione terrificante delle due polarità contrapposte che ingabbiano le vite umane55 (la finzione delle

maschere e dei giochi di ruoli da una parte e l‟istintualità bruta e animale del desiderio dall‟altra), Weidt critica così anche il tentativo della politica culturale del tempo di riportare l‟arte a una vuota dimensione di svago e consolazione, mentre la vera forza che l‟artista le ha sempre affidato è quella dello smascheramento, della denuncia e possibilmente anche della trasformazione del reale.

Dirà di nuovo Brecht nel maggio del 1951, in occasione del Congresso culturale pantedesco di Lipsia:

Quando, terminata la guerra hitleriana, ci riaccingemmo a fare del teatro, la difficoltà maggiore consisteva forse nel fatto che tutti quanti, artisti e pubblico, sembravamo ignorare l‟ampiezza della distruzione che aveva avuto luogo. Davanti alle fabbriche ridotte in macerie, davanti alle case d‟abitazione senza tetto era evidente la necessità di uno straordinario sforzo di ricostruzione, ma per il teatro, che pure era distrutto più di quanto l‟attività edilizia potesse

54 Vedi nota n. 4.

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da sola rimediare, nessuno pareva esigere od offrire molto più di una semplice ripresa del lavoro, resa un po‟ più difficile dalla mancanza di pane e di quinte. Per il teatro la decadenza era spaventosa. La rozzezza e la stupidità trionfavano, fermamente decise - lo si vedeva - a sopravvivere all‟epoca della loro fioritura. […] Con un teatro così depravato, in sfacelo tecnico e spirituale, come si potevano allestire le nuove rappresentazioni per i nuovi spettatori? Come si poteva costruire l‟uomo nuovo, di cui il nostro continente ha tanto bisogno? E la grande trama che indicasse i punti nodali dell‟indispensabile cambiamento della società? […] Come ottenere il nuovo atteggiamento critico e costruttivo del nuovo pubblico di chi lavora e produce?

La domanda contiene in sé la risposta. Non si poteva rinvigorire il teatro declinante ponendogli dei compiti particolarmente facili, ma soltanto i più difficili. Quasi incapace ormai perfino di servire al divertimento più superficiale, il teatro aveva un‟ultima possibilità di sopravvivere solo se si dedicava a compiti che non gli erano mai stati posti; inadeguato in sé, in quanto teatro, doveva sforzarsi di cambiare, oltre se stesso, anche il mondo che lo circondava.56

A modo suo, Weidt cerca di rispondere con La Cellule a questa impellente urgenza di trasformare la società e il teatro e, più precisamente nel caso del coreografo, la danza. Il tentativo è quello infatti di realizzare una nuova forma di opera danzata, personalizzando le lezioni di maestri come Jooss e Milloss, cimentandosi con una tematica estremamente problematica e cercando nello stesso tempo un linguaggio capace di superare e amalgamare le diversità degli stili di danza, in nome di una straordinaria potenza espressiva e di una complessiva coerenza teatrale. Con il suo Der Grüne Tisch, d‟altronde, Jooss non aveva solamente vinto la precedente edizione del Concorso, ma aveva chiaramente affermato la sua visione di danza teatrale, facendone un manifesto della sua rivoluzione estetica.

Le scelte stilistiche de La Cellule, pur non prendendo forma in teorizzazioni che l‟artista così “praticamente” impegnato fu sempre riluttante a formulare, si situano esattamente sulla linea di questo “teatro di danza” o “danza di teatro” in cui i grandi maestri del tempo andavano cimentandosi. Sempre Jooss nell‟agosto del 1933 aveva scritto in un articolo apparso su “Dancing Times”:

Penso che il futuro appartenga alla danza drammatica. Questa danza combina tutti gli elementi della danza astratta, non solo la

56 Estratti del discorso di Brecht si trovano pubblicati e tradotti come Premessa a Theaterarbeit.

Fare teatro [di Bertold Brecht]: sei allestimenti del Berliner Ensemble, redazione di Bertolt Brecht e altri,

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pantomima, ma la danza assoluta. Così come i drammi musicali di Wagner hanno rivoluzionato l‟opera a suo tempo, io vedo in questa nuova danza una nuova arte teatrale - un teatro muto. Ciò ci permetterà di esprimere cose che il teatro parlato non può fare.57

L‟invito al Concorso Coreografico Internazionale del 1947 costringe dunque Weidt a sperimentarsi in una regia complessa, aperta a suggestioni provenienti dal varietà e dall‟immaginario cinematografico, capace di giocare con i diversi quadri come in un montaggio filmico, mettendo a fuoco le psicologie dei personaggi e orchestrando danze solistiche e di gruppo in trenta minuti di climax ascendente.

Dato il taglio che si è scelto di dare all‟analisi de La Cellule non è questa la sede per dissertare sulle scelte estetiche di Weidt, sulle quali d‟altra parte è più difficile recuperare documenti data la reticenza dell‟artista a scrivere e l'eterno dilemma della fugacità dell'arte coreutica. Tuttavia, può essere utile a questo punto riportare almeno le parole entusiaste di Françoise Reiss, che, dopo la visione dello spettacolo di Weidt a Copenaghen, scrisse:

Toute la révolte de l‟homme contre la société, toute sa détresse et son désespoir de pantin pitoyable et caricatural sont rendus durement, implacablement, dans une atmosphère bouleversante et sinistre de cauchemar, où le rythme chorégraphique et musical, lancinant, vous pénètre. […] L‟inspiration de Jean Weidt s‟apparente nettement à l‟école expressionniste allemande, qui connut son sommet vers 1920. Mais Weidt a en lui une puissance qui dépasse cette formule périmée, et, d‟autre part, tous les danseurs de sa troupe sont français. Sa technique, comme nous avons pu en juger en assistant aux cours qu‟il donne dans ce studio du théâtre Sarah-Bernhardt, qui fut fréquenté par Diaghilew et Nijinsky, est extrêmement étudiée pour faire travailler tous les muscles du corps dans toutes les direction, sans exclure des mouvements classiques, mais en les adaptant et en les complétant pour un développement harmonieux et total du corps humain, lui permettant ainsi les plus vastes possibilités d‟expression.58

57 Kurt Jooss, The Dance of the Future, in “Dancing Times”, agosto 1933, pp. 453-455, trad. it. di C. Di Giacomo in La generazione danzante. L’arte del movimento in Europa nel primo Novecento, a cura di Silvia Carandini e Elisa Guzzo Vaccarino, Roma, Di Giacomo Editore, 1997, p. 383. 58 L'articolo di Fraçoise Reiss, che riassume le cinque giornate del Concorso di Copenaghen fornendo una preziosa panoramica dei lavori presentati, titolava Jean Weidt fait triompher la

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