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1 7.1. La disputa di Valladolid. Stragi, epidemie e lavoro missionario.

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(1)

7.1. La disputa di Valladolid. Stragi, epidemie e lavoro missionario.

“Yo he leido la destrucción de Jerusalén; mas si en ella hubo tanta mortalidad como esta yo no lo sé”.

Bernal Díaz Del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, CLVI.

Come ben sottolinea Diego Mundaca Machuca, “è necessario puntualizzare che, a partire dal

secolo XVI, esiste un movimento intellettuale, iniziato da ecclesiastici e funzionari colti, che

cercarono di regolare la condotta dei conquistadores e dei coloni attraverso principi di

maggiore giustizia”.

1

Nel 1531, l’anno successivo all’abolizione della schiavitù nel Nuovo Mondo da parte

dell’imperatore, il Consiglio delle Indie riceve una missiva da don Vasco de Quiroga, vescovo

della regione di Michoacán, nella quale sono esposte le difficoltà e le miserie in cui si trovano

ancora i nativi. “La Lettera (…) non è una delle tante in cui si riferisce eventi e problemi che

gli toccava affrontare in qualità di membro del tribunale d’appello, ma è un autentico

programma in cui si trovano in forma germinale numerose idee circa la società, sulle quali avrà

poi modo di riflettere più a fondo e che cercherà di tradurre in pratica”.

2

“Perché ce ne sono tanti, che sembra che siano come le stelle nel cielo e la sabbia nel mare, che non si

riesce a tenerne il conto e non si potrà credere alla moltitudine di questi indios, e per questo il loro

modo di vivere è un [tale]caos e una confusione, che non esiste persona che comprenda i loro

comportamenti e le loro abitudini, non possono essere organizzati né educati da buoni cristiani, né si

può ostacolare ubriachezza e idolatria, né altri cattivi riti e usanze che hanno, se non c’è modo di

ricondurli all’ordine e all’arte di popoli ben disposti e regolati, dal momento che vivono sparpagliati,

senza criterio né armonia di popolo, a parte il fatto che tutti possiedono il loro povero pegujalejo

3

di

mais, intorno alle loro casupole, nei campi, dove, senza essere visti né sentiti, possono adorare idoli e

ubriacarsi e fare ciò che vogliono, come si è visto e si vede ogni giorno per esperienza. [...]

E la buona conversione di questi nativi deve essere il principale intento e fine (…) poiché questa gente

non sa opporre resistenza a tutto ciò che si comanda loro e si vuole fare di essi, e poiché sono tanto

docili e adatti naturalmente per poter imprimere in loro la dottrina cristiana (…), perché hanno

naturalmente innata umiltà, obbedienza, povertà, disprezzo del mondo e semplicità, andando scalzi con

i capelli lunghi senza alcuna cosa sulla testa, Amicti sindone super nudo, alla maniera degli apostoli, e,

infine, sono come tabula rasa e cera molto malleabile (…).

(…) E Dio comanda che siamo come quelli della chiesa originaria, dal momento che Dio è potente

adesso come allora, per fare e compiere tutto ciò che è necessario e che fu conforme alla sua volontà,

guidando e favorendo grandemente Sua Maestà e Vostra Signoria e quei signori, come ho detto,

approvandolo e ordinando che così si compia e che le chiese e gli edifici li costruiscano gli indios delle

regioni in cui devono essere costruiti (…) dato che tutto è per loro stessi e per i loro figli e discendenti e

parenti e per il vantaggio e il bene comune di tutti, [chiese e edifici] dove si devono raccogliere tutti gli

orfani e i poveri di tali regioni (…) cosa che sarà una grande opera pia e molto vantaggiosa e positiva

1 Diego Mundaca Machuca, “Vasco de Quiroga en Nueva España (1470-1565). Rasgos de una mentalidad

utópica”, Tiempo y Espacio, 24, 2010,

http://www.ubiobio.cl/miweb/webfile/media/222/Tiempo/2010/VASCO%20DE%20QUIROGA%20EN%20NUE VA%20ESPA%C3%91A%20(1470-1565).pdf. Sito consultato il 12.07.2013. Traduzione dallo spagnolo mia.

2 M. Beucheot, “Filosofi umanisti novo ispani”, art.cit., p. 307.

3 Il pegujalejo, nella lingua moderna pegujal, è una “piccola porzione di terreno che il padrone di un fondo

agricolo concede ad un guardiano o ad un addetto perché la coltivi per suo conto come parte della sua remunerazione annuale”.

(2)

per alleggerire le coscienze degli spagnoli che qui sono passati, dal momento che si ritiene che uccisero

e furono causa di morte nelle guerre e nelle miniere dei padri e delle madri di questi orfani e che li

abbiano lasciati così poveri che vagano per i mercati di bestiame e le strade a cercare il cibo, quello che

si lascia ai maiali e ai cani, cosa così pietosa da vedere e questi orfani e poveri sono così tanti che non si

può crederlo se non si vede”.

4

La costruzione di chiese e altri edifici pubblici, soprattutto ospedali, non assolve solo al

compito di ripulire le coscienze degli spagnoli, ma fa parte di un più grande progetto di cura e

protezione degli indios, incentrato principalmente sull’educazione e sull’insegnamento della

dottrina cristiana.

Quiroga rivede infatti nella semplicità e nell’umiltà dei nativi non solo la chiesa delle origini,

ma anche i fondamenti per la buona riuscita dell’opera di evangelizzazione.

Per abbattere le resistenze degli indios, peraltro pienamente giustificate dalla condotta degli

europei nel Nuovo Mondo, la predicazione deve essere portata avanti “in modo persuasivo e

pacifico”

5

, dando il buon esempio.

6

Eppure anche la policía mixta, la creazione degli hospitales-pueblos, (i primi apprezzati

tentativi di quella che può essere definita come una politica meticcia e di una compresenza

giuridico-amministrativa pacifica e produttiva tra amerindi e spagnoli), seppur finalizzati al

miglioramento delle sorti dei nativi e alla loro conversione, implicano e necessitano una specie

di uniformità: la quotidianità degli indios deve essere regolata e ordinata sulla base delle

disposizioni dei coloni europei.

Le antiche abitudini e usanze che non si confanno alla nuova vita cristiana devono essere

estirpate. E, ancora una volta il riconoscimento sarà riassorbito nell’assimilazione:

“(…) Interessatevi tutti della purezza delle vostre anime e della vostra persona, in modo che tutto si

conformi e appaia all’esterno, nel corpo, la purezza che c’è nell’anima.

E non vestitevi con abiti curiosi

, né troppo costosi, come ho detto sopra, non dipingetevi, né pitturatevi,

né sporcatevi il volto

, le mani e le braccia, in alcun modo, come eravate soliti fare, salvo per

medicamento, utile e necessario, perché, come è lodabile la purezza così è vituperabile la sporcizia

(…)”.

7

4 Vasco de Quiroga, Carta al Consejo del licenciado Quiroga, oidor de aquella Audiencia sobre la venida del

obispo de Santo Domingo al presidente de la misma Audiencia y sobre otras cosas de que habla en su carta a aquel tribunal a 14 de agosto, http:// biblio.juridicas.unam.mx/libros/2/638/7.pdf, pp. 75-77. Traduzione dallo spagnolo mia.

5 M. Beuchot, “Filosofi umanisti novoispani”, art.cit., p. 310.

6 Nonostante ciò, Quiroga ammette la guerra contro gli indios, anche se solo per la difesa della fede cristiana.

Tensioni e opposizioni alla diffusione del Vangelo possono essere risolte con la forza, al fine di pacificare gli animi e abolire regimi tirannici che impediscono l’insegnamento della parola divina. [Cfr. su questo punto M. Beuchot, “Filosofi umanisti novoispani”, art.cit., p. 310].

7 Vasco de Quiroga, Reglas y ordenanzas para el gobierno de los hospitales de Santa Fe de México y de

Michoacán dispuestas por su fondador el reverendísimo e venerable señor don vasco de Quiroga, primer obispo de Michoacán, http://biblio.juridicas.unam.mx/libros/libro.htm?l=638 , p. 237. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio.

(3)

L’intensa attività missionaria ha come obiettivo primario e imprescindibile l’evangelizzazione,

oltreché, soprattutto per gli umanisti più raffinati, un trattamento più umano e dignitoso degli

indios e la forte opposizione alla loro schiavitù.

Tutto viene filtrato attraverso la lente del programma evangelico, alla luce della volontà di

trasformare i nativi in perfetti cristiani.

Ciò non può ammettere eccezioni.

Bisogna purificare e pulire quelle anime semplici ma corrotte, mostrando loro la verità e

indicando la strada da percorrere per salvarsi.

Tutto ciò che per gli spagnoli risulta strano e bizzarro deve quindi essere eliminato, anche se

ciò significa cancellare tradizioni e consuetudini dei popoli americani.

E la dominazione spagnola nelle Indie dimostra che per impiantare una nuova cultura è

necessario distruggere quella precedente, non solo tacitando, ma correggendo e abolendo i tratti

che mal si addicono ai nuovi valori di riferimento, compresi costumi e rituali.

Tuttavia per Quiroga servire la missione significa anche proporre il modello di una più

assennata ed efficiente organizzazione della vita delle città americane: come per Vitoria, anche

per il domenicano di Madrigal, gli spagnoli devono assumere la guida politica, ma la

partecipazione attiva dei nativi è indispensabile per la costituzione di una società moderna, che

si basi sull’interazione di indios ed europei.

La fondazione dell’ospedale di Santa Marta, nel 1543, sarà l’esempio, insieme al collegio di

San Nicolás e di altre istituzioni scolastiche, di questa ricerca tesa alla “fusione della razza

spagnola e di quella indigena”.

8

Ma la politica meticcia di Quiroga e la sua dottrina giuridica saranno osteggiate, così come le

sue teorie inerenti alla struttura e alla pratica del governo delle Indie.

E intanto massacri e atrocità continuano.

I lavori forzati nelle miniere, le malattie e i soprusi consumano corpi e anime.

Gli indios sono costretti ad estenuanti viaggi, lunghi settimane e spesso addirittura mesi, prima

di giungere ai luoghi degli scavi, in cui devono lavorare senza sosta, trasportando carichi

pesanti, sottoposti alle angherie e alle violenze dei sorveglianti spagnoli.

La miniera d’argento di Potosí, sulle Ande, è uno dei modelli che meglio esemplifica il regime

di sfruttamento sistematico che si è ormai regolarmente instaurato nel Nuovo Mondo:

“Abitualmente partono con la moglie e i figli (…).

Ogni indiano porta con sé da otto a dieci pecore e alcuni alpaca per mangiare (…) con queste

trasportano il grano indiano, la farina di patate, le coperte, le stuoie per ripararsi dal freddo intenso

poiché dormono sempre all’aperto. (…)

Questa volta non sono più di trentamila (…).

(4)

Tutto questo convoglio va verso Potosí, lentamente, impiegando due mesi per percorrere circa cento

leghe, dato che il bestiame non può procedere più velocemente, come del resto anche i bambini di

cinque o sei anni. Di queste persone e dei beni che lasciano Chuquito, ne ritornano circa duemila e gli

altri cinquemila, in parte muoiono, in parte rimangono a Potosí. [...]

Su sei mesi ne passano quattro nelle miniere, lavorando dodici ore al giorno, scendendo a

quattrocentoventi e persino settecento piedi di profondità, dove regna la notte perpetua e si lavora

sempre a lume di candela (…) il continuo sali e scendi è reso ancor più pericoloso dal pesante sacco

ripieno di metallo appeso alla schiena e si muovono lentamente impiegando circa quattro ore, sapendo

che il minimo passo falso potrebbe farli precipitare per centinaia di metri; giunti alla superficie vengono

accolti da continui rimproveri o per l’eccessiva lentezza o per l’insufficienza del carico trasportato, e

per la minima ragione vengono rispediti in basso”.

9

Il servizio della mita è massacrante.

10

9 Alonso Messía, Memorial sobre las Cédulas de servicio personal de los Indios dado al Señor Don Luis de

Velasco, Virrey del Perú, por Alonso Messía, in Collección de documentos inéditos relativos al descubrimiento, conquista y colonización de las posesiones españolas en América y Occeania, Madrid, 1864-1884, vol. VI, pp. 118-173; cit. in Salvador de Madariaga, The Rise of the Spanish American Empire, New York, Macmillian, 1947, (trad.it. di Cristiana Barzan, Ascesa dell’impero ispano-americano, Milano, Dall’Oglio, 1965, pp. 145-146. Corsivo mio).

Cfr. anche David E. Stannard, American Holocaust. Columbus and the Conquest of the New World, Oxford, Oxford University Press, 1992, (trad.it di Carla Malerba, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 161).

10 La mita è un’antica istituzione precolombiana, una specie di corvée secondo la quale, annualmente, parte del

lavoro della comunità indigena spetta come tributo al cacicco.

“Questo sistema tornò perfettamente a vantaggio degli spagnoli, che lo adottarono per canalizzare il surplus di manodopera indigena. Secondo le disposizioni spagnole, la mita fu stabilita come un’istituzione di lavoro coatto, per cui, a rotazione, in base ad un tempo prefissato, ogni tributario doveva svolgere una certa quantità di compiti nell’agricoltura e nell’allevamento, nella miniera e nelle costruzioni, in cambio di un salario deciso dall’autorità. [...] [Nel Nuovo Regno di Granada] (…) il lavoro nelle miniere occupava un ruolo fondamentale nel lavoro forzato, dal momento che in quello erano riposte le speranze di ricchezza del territorio. (…)

L’oro predominava nella valle del Cauca, mentre l’argento si trovava nelle terre più elevate, a Pamplona e Mariquita e gli smeraldi a Muzo. (…)

Nessuna manifestazione individuale della mita può essere paragonata a quella di Potosí, per la sua importanza numerica per le caratteristiche della sua posizione e del suo sviluppo. [...]

La miniera di Potosí la istituì il viceré Toledo, ma non la fondò lui.

Anche per Toledo pesarono di più le questioni economiche, diremmo oggi, che quelle sociali. Certo non poté immaginare il risultato finale e il prezzo così elevato.

Ma, il viceré aveva istruzioni di ottenere i maggiori e i migliori risultati economici.

Toledo cercò, con ogni mezzo, di stabilire il sistema meno dannoso, prendendo ogni tipo di misura protettiva nei confronti dei mitayos. Tuttavia, nulla fu sufficiente a limitare il degrado (…).

[...] Il viceré Toledo pensò, in buona fede, che il ricorso alla mita potesse essere governabile e, in ogni caso, sarebbe stato provvisorio fino a che ci fosse stata sufficiente manodopera volontaria.

Si sbagliò in entrambe le ipotesi (…). La mita e le sue conseguenze non si poterono controllare, anche se la manodopera volontaria superò quella dei mitayos o coatta. (…) Toledo fissò l’ammontare della mita, regolò il suo funzionamento, la percentuale da inviare da ogni villaggio, i salari, la distribuzione degli indios mitayos nei diversi incarichi ecc. Fissò la prima mita nel 1572, nel suo viaggio da Cuzco a Potosí, per un totale di 9.500 mitayos, divisi in due gruppi, per lavorare alternativamente ogni settimana.

Poiché la domanda continuò ad aumentare, nel 1575 fissò per la mita, ad Arequipa, un numero più alto, intorno agli 11.500. (…) Nonostante ciò, nel 1578, a partire da Lima, determinò la mita in poco più di 14.000 mitantes”. [J. B. Ruiz Rivera, “La mita en los siglos XVI Y XVII”, Temas Americanistas, n. 7, 1990, pp. 1-2; 16-20. Traduzione dallo spagnolo mia.] Toledo, pur avendo denunciato al re gli abusi e le vergognose violenze subite dalla popolazione indigena, non considera gli indios al pari degli spagnoli.

Dal momento che gli indios sono stupidi e paurosi, non sono evidentemente in grado di difendersi da soli e quindi devono essere tutelati. Come sottolinea John Hemming, “il severo viceré (…) protesse gli indios senza provar compassione: la sua fu la sollecitudine condiscendente di un superiore illuminato.

«So benissimo che gli indios non sono liberi, a causa della loro debolezza e imbecillità e del grande timore che hanno degli spagnoli… perciò è mio dovere, come loro protettore, badare a che non vengano truffati nel loro lavoro». [JOHN HEMMING, The Conquest of the Incas, London, Macmillan, 1970, (trad.it di Furio Jesi, La fine degli Incas, Milano, Rizzoli, 1975, (3° ed. 1979), p. 389].

(5)

Come scrive

Ruiz Rivera, n

onostante gli sforzi del viceré Toledo, la paga dei mitayos, costretti a

vivere lontano dai loro villaggi, è così bassa che essi devono lavorare anche nei giorni di pausa,

pur di guadagnare di più:

“Dal momento che la paga non bastava per sopravvivere a Potosí – guadagnavano 65 pesos l’anno e ne

servivano 200 – il mitayo, nelle settimane di ‘riposo’, doveva farsi assumere come volontario o

‘minga’, ricevendo un compenso molto superiore a quello del mitayo”.

11

La situazione non migliorerà neppure sotto il viceré Luis de Velasco, che nel 1595, riceve

denunce molto serie riguardo al trattamento dei nativi:

“Grandi sono le offese e i danni che, secondo quanto abbiamo appreso, soffrono gli indios nelle loro

persone e proprietà, essendo oppressi dagli spagnoli, frati, chierici e governatori, per ogni genere di

lavoro in cui possono sfruttarli per trarne vantaggio, senza che, da parte loro, ci sia resistenza né difesa,

sottostando a tutto quanto si ordina loro, come gente tristissima, e i magistrati che dovrebbero difenderli

e impedire che siano offesi e caricati eccessivamente di lavoro, non lo fanno, perché non sono a

conoscenza delle loro pene, (cosa che non si può e non si deve credere), poiché sono obbligati a saperlo

Le leggi e le norme, orientate alla protezione dei nativi, non sono elaborate sulla base di un diritto che parta dal riconoscimento di una sostanziale uguaglianza che accomuna gli uomini e che ne difenda le libertà e i bisogni. Toledo, fedele e integro servitore della Corona, si limita, infatti, ad eseguire gli ordini del re e a farli rispettare, cercando di porre un freno alla corruzione e alla dissolutezza di conquistadores, encomenderos, corregidores e oidores. Dalla frode alle ruberie, dalla difesa delle bambine e delle fanciulle da uomini depravati e immorali all’istituzione di difensori speciali e alla strutturazione del tessuto giuridico delle diverse località, l’attività legislativa di Toledo è volta a modificare una situazione di instabilità e di caos generale, sottraendo il governo delle province a uomini, disonesti, avidi e senza scrupoli, ormai fuori controllo e irrispettosi dell’autorità. Nonostante le attenzioni e lo zelo del viceré, la madrepatria, sempre più indebitata, necessita continuamente di altre ricchezze e metalli preziosi. La legislazione a tutela dei nativi deve far posto agli interessi di Stato. “Tutti gli sforzi di Toledo furono annullati e schiacciati dalle voraci richieste delle miniere.

Il viceré tentò invano di conciliare le due forze contraddittorie: la protezione degli indios e il disperato bisogno di manodopera nelle miniere.

Quale coscienzioso funzionario pubblico, Toledo doveva garantire che il tesoro peruviano continuasse ad affluire in Spagna. E gli indios riluttanti e ostinati dovevano essere costretti a scavare il mercurio e l’argento - se

necessario, con la forza. Subito dopo aver raggiunto il Perù, Toledo convoca una Junta speciale per discutere se era morale obbligare gli indios a lavorare nelle miniere. (…)

Nell’ottobre 1570 si concluse all’unanimità che il lavoro nelle miniere era di interesse pubblico: e pertanto la coercizione poteva essere tollerata senza scrupoli di coscienza”. [Ibid., p. 394]

Stabilita la legittimità della procedura, tocca a Toledo adoperarsi per farla eseguire, benché siano già noti a tutti gli effetti disastrosi del lavoro nelle miniere.

“Con la coscienza alleggerita da questo voto, Toledo legalizzò l’uso del lavoro forzato nel servizio pubblico. Gli incas avevano in passato obbligato gli indios a lavorare per il bene comune con un sistema detto mita. La parola mita venne ora ripresa per designare il lavoro forzato nelle miniere – per il bene comune della ‘madre patria’ dall’altra parte del mondo”. [Ibid., p. 395]

Il ligio viceré, che avrebbe in seguito contribuito alla distruzione della cultura inca per favorire l’innesto di quella spagnola, cercherà comunque di operare correttamente nella gestione dei mitayos, aumentando la paga dei lavoratori giornalieri, limitando le ore di lavoro, ma ciò non arresterà sfinimento e prostrazione.

La legislazione che prima aveva tutelato le popolazioni locali dallo sfruttamento e dall’approfitto dei coloni, adesso passa a veicolare altri interessi, quelli di un mondo lontano, sconosciuto e inaccessibile, dal quale provengono sopraffazione, brutalità e disperazione.

Come sottolinea Ruiz Rivera, l’istituto incaico della mita, non ha niente a che vedere con quello che gli spagnoli ne faranno al momento del loro arrivo nelle Indie.

In origine, la mita, compatta la popolazione e ne rinsalda i vincoli, ma rientra in un più complesso ordinamento sociale, politico e religioso al vertice del quale si trova l’Inca. “La mita, sotto il dominio spagnolo, perse tutto il suo significato religioso e politico. Ed inoltre, si convertì nello sfruttamento di un individuo da parte di un altro. (…) Chiaramente la mita spagnola somigliava in poco a quella incaica. (…) L’unica cosa che [l’indio] vedeva erano gli azogueros”, (i proprietari delle miniere), “avidi e pretenziosi, spietati”. [J. B. Ruiz Rivera, “La mita en los siglos XVI Y XVII”, art.cit., p. 20. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio.]

(6)

e a porvi rimedio, oppure, cosa ancor più certa, sono soliti tollerare e consentire ciò per i loro fini

personali, interessi e profitti.

Tutto questo (oltre ad essere contrario ad ogni ragione morale e politica e ad ogni legge divina ed

umana) è ugualmente contrario alla conservazione di questi regni e province per cui tanto bisogna

adoperarsi”.

12

I nativi impiegati nelle miniere che non muoiono durante il tragitto o a causa del lavoro

possono sopravvivere al massimo tre o quattro mesi, prima di essere sfiniti dal mal de la mina.

David Stannard osserva che

“per le truppe spagnole di prima linea (…) la rimanente popolazione indigena rappresentò solo

un’immensa e brutale forza lavoro che poteva essere impiegata per estrarre l’oro e l’argento dalla terra.

Inoltre (…) il terrorismo della tortura, della mutilazione e del massacro di massa era il modo più

semplice per indurre gli indiani a lavorare; e per la stessa ragione - la riserva apparentemente infinita di

popolazione altrimenti superflua- il modo più economico per massimizzare i profitti, per i conquistatori,

era far lavorare gli schiavi indiani fino allo sfinimento.

Sostituire i morti con nuovi prigionieri, che a loro volta avrebbero potuto lavorare fino alla morte, era di

gran lunga più conveniente che nutrirli e occuparsi a lungo termine di una popolazione di schiavi”.

13

Gli europei credono infatti di poter contare su un numero pressoché illimitato di schiavi, ma la

realtà è ben diversa.

I continui trasferimenti forzati, la ricerca, o, per meglio dire, la caccia a coloro che cercano di

mettersi in salvo, insieme al diffondersi di malattie prima sconosciute, mietono sempre più

vittime.

14

12 Instrucción al virrey del Perú, Don Luis de Velasco, de san Lorenzo, 22.07.1595, in Richard Konetzke,

Collección de Documentos para la Historia de la Formación Social de Hispanoamérica, 1493-1810, Madrid, Instituto Jaime Balmes, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 1953- 1958, (ed. 1968), vol II, pp. 26-27, cit. in J. B. Ruiz Rivera, “La mita en los siglos XVI Y XVII”, art.cit., p. 9. Traduzione dallo spagnolo mia. Già vent’anni prima, nel 1575, alcuni religiosi dell’università di San Marcos, in Perù, avevano scritto

all’imperatore, convinti che fosse all’oscuro delle condizioni inumane dei lavori forzati, pregandolo di prendere provvedimenti immediati.

“Riteniamo che la Maestà Vostra non sia stata informata di ciò, giacché non avete ordinato che venisse posto un rimedio. Poiché è contro la legge divina e naturale che uomini liberi vengano forzati e costretti a tale eccesivo lavoro, così dannoso alla loro salute e alla loro vita”. [Il testo proviene dal volume di Rubén Vargas Ugarte, Historia del Perù. Virreinato (1551-1600), che raccoglie molte lettere, non pubblicate, dell’Archivo General de Indias, (Lima, 310-; 314). Cit., in J. HEMMING, La fine degli Incas, op.cit., pp. 396-397.]

Naturalmente, anche quest’appello, rimase inascoltato, dal momento che la corona, sempre alla costante ricerca di sostanziose entrate per ripianare i debiti, non poteva rinunciare alle cospicue ricchezze derivate dall’intensivo sfruttamento dell’istituto della mita.

13 D. E. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit., 2001, p. 347. 14 La situazione non è molto diversa in Brasile.

Infatti ogni due o tre anni si ripresentano puntualmente ondate di malattie, portate dagli europei e da loro già conosciute, che incidono però sugli indios in maniera più violenta e acuta, proprio perché le popolazioni americane non hanno mai contratto simili infezioni.

Se l’influenza o la dissenteria stremano e sfiniscono i malati, la peste e il vaiolo completano l’opera di distruzione. Nella zona del Río de la Plata, nel 1563, centomila indios moriranno a causa delle epidemie.

I pochi sopravvissuti, resi adesso ancora più inermi da fame e infermità, si arrendono volontariamente ai loro persecutori, per essere fatti schiavi e avere così almeno la speranza di procurarsi del cibo.

“Se la schiavitù aveva indebolito gli indiani rendendoli più vulnerabili alle terribili malattie, la distruzione del loro stile di vita compiuta da schiere di microbi invisibili li predispose alla schiavitù (…).

[...] Nel corso di un trentennio, almeno il 90 per cento degli indigeni di questa regione fu annientato”. [D. E. STANNARD, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit. pp. 165-166)].

(7)

Già nel 1494, durante il secondo viaggio di Colombo a Hispaniola, in pochi mesi, più di

cinquantamila indios avevano trovato la morte incrociando le loro armi con gli spagnoli.

Dopo appena ventisei anni dalla scoperta dell’isola, i morti saranno più di sette milioni.

Durante la marcia verso México, gli spagnoli arrivano a Cholula, una delle più potenti città

alleate degli Aztechi .

Con l’aiuto di alcuni gruppi di indios Cempoalani e Tlaxcaltechi, le truppe di Cortés

massacrano cinquemila abitanti e bruciano il tempio, saccheggiandone i resti, sostenendo di

essersi difesi dai nativi che tramavano contro di loro.

15

L’indebolimento dei nativi, causato dalle malattie, viene riaffermato anche da Stephanie True Peters, che analizza, nello specifico, il livello distruttivo del vaiolo nelle Americhe: “Il vaiolo sembra avere ucciso metà della

popolazione azteca, in meno di sei mesi, lasciando un impero, un tempo molto potente, assai indebolito. [...] Nell’agosto 1521, dopo tre mesi di assedio, Tenochtitlan cadde nelle mani degli spagnoli.

Cortés aveva battuto gli Aztechi dall’esterno. Il vaiolo li aveva sconfitti dall’interno. Demoralizzato, spopolato e completamente distrutto, l’impero azteco collassò. [...]

Nel 1522, voci di un vasto impero lungo la costa occidentale del Sudamerica raggiunse Francisco Pizarro. (…) Gli ci vorrà più di un decennio per raggiungere il suo obiettivo di conquistare gli incas.

Le spedizioni nel 1524 e nel 1526 fallirono, perché le ridotte forze di Pizarro erano troppo deboli per combattere l’enorme esercito degli inca.

L’impero inca copriva quello che è ora [il territorio di] Perù, Ecuador, Bolivia, Nord del Cile e parte

dell’Argentina. Gli storici stimano che, in questa vasta regione, vivessero circa sedici milioni di persone. [...] Uccidendo per primo l’imperatore e, in seguito, il suo erede scelto, il vaiolo aveva trascinato gli incas in una guerra civile, che durò per cinque anni. (…) Si crede che più di 200.000 persone siano morte a causa del vaiolo. (…) Senza un capo, Cuzco cadde facilmente. Pizarro prese il controllo della città nel 1533.

Lo stesso anno, il vaiolo colpì Quito. La colpì di nuovo nel 1535. Entro quella data, l’impero inca era saldamente nelle mani degli spagnoli. Gli incas, così come gli Aztechi, non ripresero più il controllo. [...]

Il vaiolo continuò a perseguitare il centro e il sud America. Le epidemie colpirono il Perù nel 1558 e ancora nel 1585”. [STEPHANIE TRUE PETERS, Epidemic!Smallpox in the New World, New York, Marshall Cavendish, 2005, pp. 17- 21. Traduzione dall’inglese mia].

John Hemming, nel suo monumentale lavoro di ricostruzione della storia dell’impero inca, riesamina il ruolo, seppur notevole, delle epidemie, all’interno del processo di spopolamento delle Indie.

Per quanto terribili e devastanti, esse non sono alla base della continua e costante diminuzione dei nativi. Gli europei, infatti, si sono dimostrati ben più distruttivi dei virus.

“Le malattie erano dunque importanti, ma non costituivano la causa principale del netto declino della popolazione durante i primi quarant’anni della dominazione spagnola.

La ragione fondamentale andava ricercata piuttosto nel profondo trauma culturale e nella caotica

amministrazione”. [JOHN HEMMING, The Conquest of Incas, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1970, p. 339 (ed. italiana a cura di Furio Jesi, La fine degli Incas, Milano, Rizzoli, 1998)].

Moltissimi indios, inoltre, non potendo tollerare le sofferenze e le ingiustizie di una vita sconvolta e lo sradicamento causato dai trasferimenti forzati e dai pesantissimi e disumani lavori nelle miniere, preferiscono uccidersi o lasciarsi morire, arrivando addirittura a togliere la vita anche a bambini appena nati, pur di evitare loro le orribili conseguenze della schiavitù.

15 Secondo McCafferty, il massacro di Cholula sarà “uno degli eventi chiave della conquista”.

[GEOFFREY G. McCAFFERTY, “The Cholula massacre: Factional Histories and Archaeology of the Spanish Conquest”, The Entangled Past: Integrating History and Archaeology, Proceedings of the 30 th Annual Chacmool Conference, Alberta, University of Alberta, 2000, p. 348. Traduzione dall’inglese mia]

Cholula era una delle più grandi città mesoamericane, fiorente centro di scambi commerciali, con una popolazione mista di origine tolteca e olmeca, che raggiungeva i 30.000-50.000 abitanti.

“In due ore furono uccise più di 5000 [persone], le principali abitazioni furono saccheggiate e i templi dati alle fiamme”. [Ivi, p. 352. Traduzione dall’inglese mia].

Meta di pellegrinaggio, “el santuario de los indios”, era noto per i suoi grandi templi, soprattutto per quello di Quetzalcoatl, ritenuto “il fondatore della città”. [F. LÓPEZ DE GÓMARA, Historia general de las Indias, Barcelona, Red Ediciones Sl, 2012, p. 135. Traduzione dallo spagnolo mia].

Secondo López de Gómara, l’attacco degli uomini di Cortés sarebbe avvenuto in seguito al tradimento degli abitanti di Cholula, che intendevano ucciderli.

(8)

Nell’assedio di Tenochtitlán, gli uomini di Cortés stermineranno quarantamila persone al

giorno, bruciando e saccheggiando la città, terrorizzando la popolazione, lasciandosi dietro

l’orrore di migliaia di cadaveri ammucchiati per le strade e le grida disperate di donne e

bambini.

“[Gli spagnoli] si comportarono in maniera corrispondente al conflitto in cui si trovavano e in due ore uccisero più di seimila [persone]. Cortés ordinò che non uccidessero né bambini né donne.

Combatterono cinque ore, perché, dal momento che gli abitanti erano armati e le strade [avevano] delle barriere, erano ben difesi. Bruciarono tutte le case e le torri [di coloro] che opponevano resistenza. (…)

Non calpestavano che cadaveri. (…) La città fu saccheggiata. I nostri presero il bottino di oro, argento e piume, mentre i nostri alleati indios molti abiti e sale, che era ciò che più desideravano, e distrussero quanto fu loro possibile, finché Cortés non ordinò che smettessero”. [Ivi, p. 134. Traduzione dallo spagnolo mia]. Anche Camargo sostiene la versione spagnola della difesa, facendosi burla del dio Quetzalcoatl, che non era riuscito a salvare il suo popolo: “Entrati poi nella provincia di Cholula, in tempo assai breve essa fu distrutta a causa delle gravissime azioni degli abitanti di quella città (…).

I Cholultechi avevano talmente tanta fiducia nel loro idolo Quetzalcoatl, che pensavano che non ci sarebbe stato alcun potere umano in grado di conquistarli o di fare loro del male (…).

[...] Dicevano queste e altre cose simili (…). Lo dicevano soprattutto i banditori del tempio di Quetzalcoatl, (…) ma dopo aver visto (…) che i nostri spagnoli gridavano a Santiago e cominciavano a bruciare i templi degli idoli e a raderli al suolo, profanandoli con grande determinazione, e poiché non vedevano che accadeva nulla, né

cadevano raggi [dal cielo], né si alzavano i corsi d’acqua, compresero l’imbroglio e si resero conto di quanto tutto fosse falsità e menzogna, si fecero animo, poiché, come abbiamo detto, ci fu, in questa città, un tale massacro e una tale strage , che non si può immaginare (…). [...] Alla fine, in questa guerra, la maggior parte di loro morirono, suicidandosi, disperati.

Terminata la guerra di Cholula, i Cholultechi compresero e conobbero che era più potente il Dio degli uomini bianchi e che i suoi figli erano più forti. [...] Distrutta Cholula, in questo primo ingresso che si effettuò, e morta una tale moltitudine di gente, i nostri eserciti passarono oltre rapidamente, seminando grande paura e terrore ovunque andassero, finchè la notizia di una simile distruzione arrivò a tutta la terra e la gente (…) fece grandi congetture, con abbondanti sacrifici e offerte, perché non accadesse lo stesso anche a tutti gli altri, (…) senza comprendere da dove venisse un castigo così grande da parte di questi dèi.

E così, da qui in poi, vivevano con attenzione (…) e nascondevano i loro figli, le loro donne e i loro beni nell’oscurità e nel fitto delle foreste”. [DIEGO MUÑOZ CAMARGO, Historia de Tlaxcala, (1552), ed. Alfredo Chavero, México, Oficina Tipográfica de la Secretaria de Fomento, 1892, http://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/historia-de-tlaxcala--0/html/1b8b1fa4-b981-4eff-8e8e-29bba72dbdc8_41.html, pp. 208- 210; 213- 214. Sito consultato il 10. 10. 2013. Traduzione dallo spagnolo mia].

Las Casas, invece, non crede affatto all’idea del complotto ordito dai Cholultechi e, con la sua consueta efficacia narrativa, rappresenta chiaramente la dinamica del massacro: “Gli spagnoli, in ogni contrada dove entrano, ed è utile saperlo, fanno per prima cosa un crudele e memorabile massacro, per incutere timore tra quegli agnelli mansueti.

Così fecero convocare ogni signore e ogni nobile della città e delle terre vicine, oltre al signore principale. (…) Avevano poi chiesto cinque o seimila indiani per portare i loro carichi; questi arrivarono rapidamente e li fecero radunare in un cortile in mezzo alle case. (…)

Quando furono riuniti tutti nel cortile, insieme anche ad altra gente, vennero chiuse le porte e vi si collocarono spagnoli armati a vigilarle, e subito dopo misero mano alle spade e alle lance e uccisero quegli agnelli, senza che neppure uno riuscisse a fuggire. Dopo due o tre giorni molti indiani ancora in vita e coperti di sangue, che si erano nascosti e protetti sotto i morti (che erano tanti) andarono in lacrime al cospetto degli spagnoli implorando misericordia, e che non li uccidessero. Ma non trovarono misericordia né compassione, perché furono fatti a pezzi a mano a mano che uscivano.

Riguardo i signori, che erano più di cento e che erano legati, il capitano comandò di brucirali vivi avvinti a dei pali piantati nel terreno”. [Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de la destrucción de las Indias, (1552), (trad.it di Paolo Collo, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Firenze, ECP, 1991, pp. 65-66. Corsivo mio].

Gli scavi archeologici hanno portato alla luce numerosi frammenti ossei di corpi fatti a pezzi, a conferma delle molte testimonianze della letteratura e degli stessi documenti visivi Aztechi .

Nel Lienzo de Tlaxcala, appare uno spaccato del tempio di Quetzalcoatl, attaccato da un soldato spagnolo, agli ordini di Cortés, che sopraggiunge a cavallo, lancia in resta.

Al suo fianco, la Malinche indica in direzione del tempio, osservando impassibile gli sviluppi della matanza, da lei abilmente orchestrata.

L’ipotesi di McCafferty, che la donna di Cortés abbia avuto un ruolo attivo e determinante nella strage di Cholula, sembra infatti confermata dal dipinto, che mostra il suo gesto sicuro e risoluto.

(9)

Così Bernardino de Sahagún descrive la matanza del Tóxcatl, la strage del grande tempio,

avvenuta durante le celebrazioni in occasione del Tóxcatl:

“I primi spagnoli che iniziarono a combattere attaccarono improvvisamente i musici che stavano

suonando per i cantanti e i danzatori.

Mozzarono loro la testa e le mani e quelli caddero a terra morti.

Poi tutti gli altri spagnoli iniziarono a tagliare teste, braccia e gambe e a sventrare gli indiani.

Ad alcuni fu tagliata la testa, altri furono tranciati a metà, altri furono sventrati, alcuni morirono

immediatamente, altri trascinarono le loro viscere fino a quando non caddero riversi al suolo. (…)

La strage fu così grande che rivoli [di sangue] scorrevano attraverso il cortile come l’acqua durante una

pioggia abbondante.

Nel cortile lo strato di fango e viscere era così spesso e l’odore così nauseabondo che lo spettacolo era

agghiacciante e terribile.

Quando ebbero ucciso tutti, gli spagnoli andarono in cerca di quelli che si erano arrampicati sul tempio

e di quelli che si erano finti morti, uccidendo quelli che trovavano ancora vivi”.

16

Frutto di tutto questo scempio e della distruzione della città azteca, il bottino che Cortés prende

per sé, pari a un quinto del totale complessivo, consta di tremila schiavi, destinati ai lavori nelle

miniere, ventitremila servitori personali e un incredibile tesoro, in metalli preziosi, monili e

suppellettili, stimato superiore al valore che avevano dieci milioni di dollari nel 1990.

17

In poco meno di quarant’anni, nell’area di Panama, gli spagnoli annientano circa due milioni di

indios. Le truppe guidate da Pedro de Alvarado, in quindici anni, ne massacrano dai quattro ai

cinque milioni.

Nei territori andini saranno cancellati sei milioni e mezzo di abitanti.

Le popolazioni del Messico rischiano di estinzione: nel giro di un secolo, infatti, lo sterminio

sistematico raggiunge una media del 92,4 per cento, con punte del 95 per cento, nel caso

dell’etnia acaxee e del 97 per cento per gli abitanti del Golfo.

A sessant’anni dalle invasioni, nell’area occidentale del Nicaragua, sopravvive solo l’1 per

cento dei nativi. Stannard aggiunge:

“Ben prima che il secolo finisse, solo un milione di peruviani erano ancora vivi.

16 Bernardino de Sahagún, Conquest of New Spain, 1585, cit. in D. Stannard, Olocausto americano. La conquista

del Nuovo Mondo, op.cit., pp. 142-143.

Lo stesso Cortés, nel racconto di una delle giornate della presa di Tenochtitlán, vantandosi delle sue prodezze contro gente innocente, stremata e priva di armi, annota: “poiché molti erano solo disperati in cerca di cibo, in maggioranza donne e bambini, erano disarmati.

In tutte le strade che riuscimmo a raggiungere uccidemmo e distruggemmo con tale foga che i morti e i prigionieri furono più di ottocento”. [HERNÁN CORTÉS, Cartas de relación, Siviglia, 1522, ed. inglese a cura di Anthony Pagden, Letters from Mexico, New York, Grossman Publishers, 1971, p. 252-253, cit.in D. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit., p. 145. Corsivo mio].

17 Per queste stime e per quelle successive si rimanda a D. Stannard, Olocausto americano. La conquista del

Nuovo Mondo, op.cit., p. 148. Ovviamente Cortès non è il solo ad arricchirsi: molti riescono a fare fortuna nelle Indie, saccheggiando, depredando e consumando città, villaggi e miniere. Sembra addirittura che un altro condottiero, Gaspar de Espinosa, rientrato in Spagna nel 1522, abbia accumulato, dopo aver trascorso otto anni a Panama, ricchezze per un milione di pesos d’oro. [Cfr. a questo proposito D. STANNARD, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit., p. 346].

(10)

Almeno il 94 per cento della popolazione era morta, una cifra compresa tra otto milioni e mezzo e

tredici milioni e mezzo di persone”.

18

Nonostante la rapidità dei massacri, non mancano episodi di resistenza, ma gli scarsi successi,

tutti temporanei, scatenano una furia se possibile ancora più grande.

19

Otto anni dopo la lettera al Consejo de Indias di Quiroga, nel 1539, Pascual de Andagoya,

regidor della città di Panama dal 1521, scrive:

“Il peggio è (…) che gli indios venfono totalmente distrutti. Una persona – un funzionario di Vostra

Maestà – mi ha detto che 50.000 indigeni sono morti a Cuzco, e non perché combattessero per l’una o

per la’ltra fazione. Essi, con una croce, imploravano cibo, per l’amore di Dio; e quando videro che non

veniva loro concesso nulla, gettarono a terra la croce. [...] Gli indios vengono lasciati senza più alcun

seme da piantare, e poiché non hanno bestiame, né possono ottenerne, finiranno certamente per morire

di fame”.

20

Gli spagnoli non si fermano neanche davanti alla croce e a nulla valgono suppliche e preghiere.

L’ossessione per oro e argento, l’avidità e la furia bestiale dei coloni segnano le cronache della

conquista, soprattutto quelle redatte dai nativi.

21

18 D. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit., p. 157.

19 Basti ricordare il coraggio di Caonabo, cacicco dell’isola di Hispaniola, marito di Anacaona, che respinge gli

uomini di Colombo, difendendo il suo popolo, lo scontro tra il principe Tecum Umán e Pedro de Alvarado, la rivolta dell’Inca Manco II e dei suoi guerrieri contro gli spagnoli a Cuzco o la tenace opposizione dei Maya, che lottano strenuamente, resistendo ai conquistadores in più occasioni e riuscendo ad allontanarli, anche se per poco, nel 1638. Particolarmente interessante è la lunga resistenza, fondamentale per la storia del Brasile, di Ajuricaba, capo della tribù dei manao, stanziati nell’area del fiume Haroá o Hasará, affluente del Río Negro.

Per contrastare l’invasione delle truppe portoghesi e cercare di arrestare il descimento (rovina), cioè la deportazione degli indios lontano dalle loro terre per inviarli ai lavori forzati, Ajuricaba, nel 1723, assale una divisione proveniente da São Luis.

Il giovane capo manao, figlio del cacicco Huiuiebéne, organizza le diverse tribù amazzoniche in una

confederazione da lui guidata, creando una vigilanza permanente dei territori che si estendono dal Río Negro al Río Branco. La sua strategia guerriera ottiene un successo tale che João da Maia da Gama, governatore del Maranhão e del Gran Paraná, si vede costretto a rivolgersi a Lisbona, chiedendo l’invio di altre truppe. Nonostante ciò, anche il nuovo reggimento, comandato da Belchior Mendes de Moraes, si trova in grande difficoltà e deve essere affiancato da un altro gruppo, quello del capitano João Pais do Amaral. Non riuscendo ad avere la meglio sugli uomini delle tribù di Ajuricaba, i portoghesi, grazie ai rinforzi giunti da Belém, richiamandosi ai principi della ‘guerra justa’, basata su una vecchia legge del 1665 poi abrogata, attaccano gli indigeni, uccidendone quindicimila. Negli scontri, Ajuricaba perde il figlio Cucunaça e, con l’intento di vendicarlo, si scaglia contro i suoi assassini, ma viene catturato, insieme ad altri trecento indigeni.

Sebbene sia stato fatto prigioniero, il capo manao non si arrende: dopo aver cercato di ribellarsi, durante il trasferimento dal Río Negro a Belém, Ajuricaba, piuttosto che continuare la sua esistenza come schiavo, sceglie la morte, gettandosi nel fiume. La figura di Ajuricaba rappresenta ancora oggi il fiero spirito di orgoglio e

indipendenza dei popoli dell’Amazzonia, testimoniando il forte desiderio di libertà e di riconoscimento della propria autonomia. A riprova della sua importanza, il capo manao è stato scelto come protagonista di uno degli speciali di approfondimento della serie documentaria Construtores do Brasil, dedicata alle personalità storiche più significative per il paese - selezionate dal presidente della camera dei deputati Aldo Rebelo - realizzata, a partire dal 2006, dalla televisione brasiliana TV Câmara, in collaborazione con la Biblioteca Nacional e l’Universidade de Brasília.

20 Pascual de Andagoya, Despacho, Panama, 23.07.1539, Cartas del Perù, Collección de documentos inéditos

para la historia del Perù, III, (ed. Raúl Porrás Barrenechea, Lima, Edición de la Sociedad de Bibliófilos peruanos, 1959, p. 371), cit.in J. Hemming, La fine degli Incas, op.cit., pp. 340-341. Corsivo mio.

21 Anche il cronista Bernal Díaz del Castillo, conferma quanto riportato dalle testimonianze e dai testi indigeni sui

massacri della conquista: “Dalla Castiglia e dalle isole erano giunti molti spagnoli poveri, affamati e avidi di ricchezza e di schiavi”. [BERNAL DÍAZ DEL CASTILLO, Historia verdadera de la Conquista de la Nueva España, por Bernal Díaz del Castillo, edición de Genaro García, México, 1907, vol II, cap. 212, p. 513].

(11)

L’anno successivo, nel 1540, Andagoya scrive una lettera all’imperatore, accusando i coloni e

rivelando atrocità e massacri inimmaginabili:

“Riscontrai, quando entrai in questo paese, che in esso non si conosceva Dio Nostro Signore né Vostra

Maestà; questi nomi non erano conosciuti dai nativi.

Da questa città a quella di Popayán vi sono ventidue leghe, a monte di questo grande fiume. (…)

Quando qui entrarono i primi spagnoli v’erano in queste trentadue leghe all’incirca centocinquantamila

case; non v’era palmo di terra che i nativi non avessero seminato; non v’era casa, una di fianco all’altra,

che non avesse quattro uomini, senza contare le donne e i bambini.

Tuttora si trovano in questo territorio, quattromilanovecento indi, forse meno che più (…).

Questa città ne ha ancor meno, poiché da qui a Popayán non v’è un indio, mentre prima lungo la strada

sorgevano villaggi di mille case

(…).

In tutto l’insediamento di Popayán nessuno cammina se non su strade lastricate di teschi e di ossa

: non

posso trattenere le lacrime di fronte a una così grande strage e a tanto male

. [...]

Sarebbe impresa ardua voler raccontare tutte le crudeltà e i misfatti che han distrutto questo paese.

Dirò soltanto che si arrivò ad aprire a Popayán una macelleria pubblica

, con carne di indio da dar da

mangiare ai cani

, e si concesse di andare a caccia con codesti indi, utilizzandoli come esca e cibo”

.

22

Gli spagnoli non sono ancora soddisfatti: oltre a distruggere e saccheggiare i territori degli

amerindi, arrivano addirittura a vendere carne umana come cibo per cani.

Non esiste né pietà né vergogna.

Se i nativi non sono esseri umani, ma sono considerati al pari delle bestie, possono essere

trattati come tali: uccisi, smembrati, fatti a pezzi, mutilati, dati in pasto ai cani, senza alcuno

scrupolo. L’arrivo di Pedro de Alvarado tra i quiché del Guatemala e le sue stragi di indios per

procurarsi metalli preziosi sono riportati nelle cronache locali:

“Poi venne l’Adelantado Don Pedro de Alvarado con tutti i suoi soldati e entrarono a Chuaraal.

Si portavano dietro duecento indios tlaxcaltechi e chiusero i fossati e le buche che avevano fatto e

preparato gli indios di Chuaraal, e perciò gli spagnoli uccisero tutti gli indios di Chuaraal, ed erano in

tutto tremila gli indios uccisi dagli spagnoli

; i quali conducevano in catene duecento indios di

Chuaraal

, e tutti li incatenarono e tutti li torturarono perché dicessero loro dove tenevano l’oro. [...]

Ma il giorno dopo un grande capitano chiamato Tecum mandò a chiamare gli spagnoli dicendo che era

molto offeso perché gli avevano ucciso tremila dei suoi coraggiosi soldati. (…)

E l’Adelantado disse a questo capitano Tecum, se voleva consegnarsi con le buone.

E il capitano Tecum gli rispose che non voleva, anzi che voleva vedere il valore degli spagnoli.

Allora cominciarono gli spagnoli a lottare con i diecimila indios che questo capitano Tecum aveva con

sé. (…) Lottarono per tre ore e gli spagnoli uccisero molti indios.

Non si sa il numero di quanti ne uccisero

, e non morì nessun spagnolo, ma soltanto indios di quelli

portati dal capitano Tecum

, e scorreva molto sangue di tutti gli indios che gli spagnoli uccisero, e

questo accadde a Pachah.

22 Pascual de Andagoya, Carta al Emperador, (1540), cit., in A. Albònico, G. Bellini, Nuovo Mondo. Gli

spagnoli, 1493-1609, op.cit., pp. 437-438. Corsivo mio)].

Testimonianze di questo tipo sono tutt’altro che insolite nei resoconti o nelle lettere provenienti dalle Indie. John Hemming riporta le amare considerazioni di Vicente de Valverde, domenicano e fervente predicatore attivo in Perù, che rimpiange gli antichi fasti di questa terra: “Ho attraversato buona parte di questo paese e ho constatato in esso terribili distruzioni. Avendo visto il paese com’era nel passato, non posso far a meno di provare grande tristezza. Lo spettacolo di tali desolazioni muoverebbe chiunque a profonda pietà”. [ “Despacho de Valverde”, Cuzco, 20 marzo 1539, Libro primero de cabildos de Lima, ed. Enrique Torres Saldamando, Pablo Patrón y Nicanor Boloña, vol. III, p. 44, Paris-Lima, 1888-1900. (Cit. in J. Hemming, La fine degli Incas, op.cit., p. 336. Corsivo mio)].

(12)

Allora il capitano Tecum si alzò in volo e veniva, fatto aquila, pieno di penne, che da lui stesso

nascevano, non erano posticce. (…) Quando si accorse che non aveva ucciso l’Adelantado, ma il

cavallo, si alzò di nuovo in volo verso l’alto per scendere poi ad uccidere l’Adelantado.

Allora l’Adelantado lo attese con la sua lancia e lo trapassò nel mezzo questo Tecum. [...]

Ma quando gli altri indios videro che gli spagnoli avevano ucciso il loro capitano, si dettero alla fuga.

E allora l’Adelantado Don Pedro de Alvarado, vedendo che i soldati del capitano Tecum fuggivano,

disse che anch’essi dovevano morire.

E subito i soldati spagnoli rincorsero gli indios dando loro la caccia e li uccisero tutti

, e non se ne

salvò alcuno

. Gli indios che uccisero erano tanti che si formò un fiume di sangue, quello che oggi è

l’Olintepeque

.

Per ciò gli fu dato il nome di Quiquel

, perché tutta la sua acqua scorreva fatta di sangue e anche la

luce del giorno si colorò per il molto sangue quella volta

”.

23

Guamán Poma de Ayala narra le modalità, tutt’altro che inusuali, dell’omicidio di Apo

Huamanchaua e di altri dignitari indigeni:

“Don Francisco e Don Diego de Almagro e gli altri cristiani mandarono a imprigionare Sua Eccellenza

il Signor Cápac Apo Huamanchaua, il rappresentante dell’Inca, che era vivo ma molto vecchio, e altri

grandi signori.

I Conquistatori, avidi e assetati di oro e di argento, lo imprigionarono chiedendogli oro e argento.

Gli appiccarono fuoco e lo bruciarono, spensero la sua vita e nello stesso modo uccisero i detti inca e

tutti i grandi signori e capitani generali e i capi di tutte le province del regno, torturandoli in vario

modo, chiedendo loro oro e argento.

Li facevano prigionieri e li punivano molto crudelmente, legati con catene di ferro e di cuoio di vacca

ritorto e collari anch’essi di cuoio di vacca. (…)

Così molti dei signori più importanti, per paura della tortura, dissero che erano indios poveri, affinché

non li torturassero e non li facessero soffrire in questo regno”.

24

Le violenze insensate, perpetrate da troppo tempo e ormai intollerabili, non possono più

continuare. Di fronte alle ormai sempre più palesi ingiustizie e atrocità perpetrate nel Nuovo

Mondo, nonché alle denuncie presentate al Consejo de Indias e alla corte, Carlo V non può più

23 Títulos de la Casa Ixquin-Nehaib, Señora del Territorio de Otzoyá, in Crónicas Indígenas de Guatemala,

Guatemala, Editorial Universitaria, 1957, pp. 85-92, cit. in Miguel León Portilla, El reverso de la Conquista. Relaciones aztecas, mayas y incas, México, Joaquín Mortiz, 1964, (trad.it. di Giuliana Segre e Gabriella Lapasini, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, Milano, Adelphi, 1974, pp. 98-101. Corsivo mio).

24 Felipe Guamán Poma de Ayala, El Primer Nueva Crónica y Buen Gobierno, 1615, folio 397, ed. de Paul Rivet,

1936, cit.in Miguel León Portilla, Il rovescio della conquista. Testimonianze azteche, maya e inca, op.cit., p. 151). Per gli spagnoli, le Indie sono un luogo in cui è possibile accumulare grandissime fortune in poco tempo.

Il miraggio dell’oro e delle altre ricchezze è allettante e la bramosia scatena gli istinti più brutali e inumani: “Tutta la Castiglia era in grande fermento, e di giorno e di notte, sognando, tutti dicevano «le Indie, le Indie, oro, argento, oro e argento del Pirù» [...]

Che, se la regina lo avesse permesso, credo che l’intera Castiglia sarebbe partita a una nuova così ricca e agognata: oro e argento. [Si credeva] che la gente era vestita tutta d’oro e d’argento e che tutto il suolo che calpestavano era tutto d’oro e d’argento massicci, e che ammucchiavano l’oro e l’argento come pietre.

Ancor oggi dura quel desiderio d’oro e d’argento e si ammazzano gli spagnoli e spogliano i poveri indios e per l’oro e per l’argento è già spopolato parte di questo regno, i villaggi dei poveri indios, per l’oro e l’argento”. [Ivi., p. 135. Corsivo mio.].

Pedro Cieza de León, riporta le misere condizioni di alcuni pueblos inca, in seguito alle scorribande spagnole, insistendo però sulla scarsa collaborazione tra gli abitanti: “In verità, io ho visto dei villaggi, ed erano villaggi molto grandi, ridursi dopo un solo passaggio dei cristiani spagnoli in uno stato tale che sembrava fossero stati consumati dal fuoco; e, dato che gli abitanti non erano molto saggi, non si aiutavano gli uni con gli altri, così che morivano poco dopo per fame e per malattia, perché tra loro c’è poca carità, e ciascuno è signore in casa sua e non vuole saperne altro”. [PEDRO CIEZA DE LEÓN, El señorío de los Incas, (1545), capp. XII-XIII, (ed. a cura di Manuel Ballesteros Gaibrois, Madrid, 1985, cit., in Aldo Albònico, Giuseppe Bellini, Nuovo Mondo. Gli spagnoli, 1493-1609, Torino, Einaudi, 1992, p. 582. Corsivo mio)].

(13)

tacere né indugiare oltre. L’imperatore promulga infatti nel 1542 le cosiddette Leyes Nuevas,

l’ennesimo tentativo di mettere ordine negli affari delle Indie attraverso decreti reali, frutto

dell’influenza e dell’insegnamento degli intellettuali salmantini.

L’obiettivo non è solo difendere gli indigeni dai soprusi e dalle angherie che continuano a

subire, ma anche ridimensionare lo strapotere di coloni e encomenderos.

“Dal momento che il nostro principale intento e volontà è sempre stato ed è la conservazione e

l’aumento degli indios e che siano istruiti e addottrinati nelle cose della nostra santa fede cattolica e che

siano ben trattati, come persone libere e nostri vassalli, quali sono; incarichiamo e ordiniamo a quelli

del suddetto nostro Consiglio che abbiano sempre grande cura e particolare attenzione soprattutto della

conservazione e del buon governo e del buon trattamento dei suddetti indios (…).

[...] Poiché una delle cose più importanti (…) è avere una particolare attenzione per il buon trattamento

degli indios e la loro conservazione, ordiniamo che [i nostri suddetti presidenti e giudici] si informino

sempre degli eccessi e del cattivo trattamento che è o è stato fatto dai governatori o persone precise (…)

e di ciò in cui si sia ecceduto o si eccederà da qui in poi, e abbiano cura di rimediare, punendo i

colpevoli con ogni rigore, secondo giustizia (…). Ordiniamo e comandiamo anche che da qui in poi, per

nessuna causa di guerra né alcun altro motivo, anche qualora fosse ribellione, né per riscatto o altro

modo, si possa fare schiavo un indio e vogliamo che siano trattati come nostri vassalli della [reale]

corona di Castiglia, come sono.

Che nessuno si serva degli indios mediante naboria, né tapia, né alcun altro modo, contro la loro

volontà.

25

Come abbiamo ordinato di provvedere che, da qui in poi, in nessun modo si facciano schiavi gli indios,

così quelli che fino ad ora sono stati fatti contro ragione e diritto e contro i provvedimenti e le istruzioni

date, ordiniamo e comandiamo che i tribunali, chiamate le parti, (…) li lascino liberi, se le persone che

li presero come schiavi non mostreranno il diritto con cui li tengono e li posseggono legittimamente; e

perché, in mancanza di persone che richiedano quanto detto sopra, gli indios non rimangano schiavi

ingiustamente, ordiniamo che i tribunali incarichino persone che seguano questa causa per gli indios,

che siano uomini fidati e scrupolosi, e che si scontino le pene [previste] dalla Camera

26

.

[...] Altresì ordiniamo a tutte le persone che presero degli indios senza averne il diritto (…) che li

lascino [liberi] e li pongano sotto la nostra corona reale. [...]

Altresì ordiniamo e comandiamo che, da qui in poi, nessun viceré, governatore, tribunale, esploratore né

alcun altra persona, possa encomendare indios per nuove ordinanze, né per rinuncia, né donazione,

vendita né alcun’ altra forma, modalità, (…) né eredità, ma che, una volta deceduta la persona che

aveva i suddetti indios, essi siano posti sotto la nostra corona reale; e in seguito i tribunali si facciano

carico di informarsi attentamente della persona che morì e del suo valore e dei suoi meriti e servizi e di

come trattò gli indios che aveva, se lasciò moglie e figli o altri eredi (…). Ordiniamo e comandiamo

anche che i suddetti nostri presidenti e giudici abbiano molta cura che gli indios siano molto ben trattati,

istruiti nelle cose della nostra santa fede cattolica e come nostri liberi vassalli; e che questa deve essere

la loro principale preoccupazione (…)”.

27

25 La naboría è un particolare sistema di “distribuzione in uso in America, all’inizio della conquista, assegnando

un certo numero di indios, in qualità di servi, per il servizio personale”. [Diccionario Real Academia Española,

http://lema.rae.es/drae. Traduzione dallo spagnolo mia]. La tapia invece è una “misura di superficie che a Madrid era 49- 50 piedi quadrati”. [Diccionario Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae. Traduzione dallo spagnolo mia]. Probabilmente il testo si riferisce ad una specie di encomienda di 50 piedi quadrati all’interno del quale devono vivere e lavorare gli indios.

26 Il testo fa riferimento alle diposizioni prese dalla Cámara de Indias, un “tribunale composto di ministri del

Consejo de Indias, che esercitava, rispetto ai domini d’oltreoceano, le stesse funzioni della Cámara de Castilla rispetto alla penisola”. [Diccionario Real Academia Española, http://lema.rae.es/drae. Traduzione dallo spagnolo mia].

27 Leyes y ordenanzas nuovamente hechas por S.M. para la gobernación de las Indias, y buen tratamiento y

conservación de los indios, http:// www.uv.es/correa/ troncal/leyesnuevas1542.pdf. Traduzione dallo spagnolo mia.

(14)

Le ordinanze reali sono chiare e il malcontento dei coloni non tarda a manifestarsi, dal

momento che la schiavitù nelle Indie, oltre ad essere l’unica risorsa che permette alla

madrepatria di accumulare ricchezze di cui ha sempre maggiore bisogno, è la principale fonte

di reddito degli spagnoli che vi abitano.

28

Carlo V, cercando di mettere ordine nella spinosa e sempre più confusa questione, ordina di

fermare l’espansione e la conquista di nuovi territori e decide di convocare, nel 1550, a

Valladolid, uno speciale consiglio, composto da quattro dei teologi più illustri del regno -

Domingo de Soto, Melchior Cano, Bartolomé Carranza e Bernardino de Arevalo - nove

membri del Consiglio delle Indie e un membro del Consiglio di Castiglia, per stabilire quale sia

la migliore strategia da adottare nella gestione del Nuovo Mondo.

7.2. Il dibattito: legittimità o condanna di un genocidio?

“Vidi crudeltà tanto grandi che mai furono viste né immaginate da esseri viventi”.

Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de la destrucción de las Indias.

La controversia spagnola è chiamata a risolvere due ordini di problemi strettamente connessi:

stabilire “che cosa giustifica la guerra contro gli indios” e contemporaneamente “come

dovrebbe essere intrapresa questa giusta guerra”.

29

28 La Spagna è sempre più dipendente dai beni provenienti dalle Indie.

Le casse della Corona sono vuote e lo Stato è pieno di debiti, che aumenteranno progressivamente fino a toccare cifre enormi. “In questi anni – soprattutto dopo che fu scoperta la favolosa «montagna d’argento» degli inca di Potosí, (…) – in Spagna giunsero ricchezze immense.

All’inizio del xvi secolo, tra il 1503 e il 1505, la Spagna importò dal Nuovo Mondo ricchezze per un valore di 445.266 ducati; tra il 1536 e il 1540 quella cifra era aumentata di più di dieci volte raggiungendo i 4.725.470 ducati; tra il 1571 e il 1575 era più che triplicata fino a 14.287.931 ducati; e alla fine del secolo, tra il 1596 e il 1600, si era di nuovo quasi triplicata raggiungendo i 41.314.201 ducati, quasi cento volte quello che era un secolo prima. Ma queste ricchezze, appena arrivavano in Spagna, finivano nelle tasche dei creditori europei del paese. Con l’andare del tempo, la situazione peggiorò, aggravata in gran parte dalla visione imperiale – e, quando tutti i debiti furono saldati, dal borsellino vuoto di Carlo V e del suo successore Filippo II.

Durante il XVI secolo, in Spagna si verificarono continui aumenti delle tasse (…) nel tentativo di sostenere la crescita eccessiva dell’impero; (…) verso la metà del secolo, quando Filippo divenne re, ereditò un debito di settanta milioni di ducati. Al termine del suo regno, due terzi delle rendite della Corona erano destinate al pagamento degli interessi e in più occasioni Filippo era stato costretto a convertire i debiti a breve termine in debiti a lungo termine semplicemente perché non riusciva a pagare. (…)

Tuttavia, (…) la Spagna del tempo considerava assolutamente essenziale alla sua salute economica la ricchezza delle Indie e delle Americhe e perciò la inseguì con la stessa cupidigia dei conquistatori più avidi e rozzi”. [D. STANNARD, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, op.cit., pp. 344-345. Corsivo

dell’autore]. Gli encomenderos, continuano ad ignorare le disposizioni provenienti dalla corona e a tormentare i nativi, privandoli della loro libertà e costringendoli a lavori gravosi ed estenuanti.

Infatti, sebbene non abbiano alcuna potestà giudiziale sulle terre da loro occupate, dalle quali ricavano immense ricchezze, i coloni intendono mantenere l’ “indiscusso controllo dei loro indios”. [J. HEMMING, La fine degli Incas, op.cit., p. 345]. Hemming sottolinea inoltre come, in molte zone del Perù, essi si siano addirittura sostituiti alla figura dell’Inca, approfittando della loro posizione per usufruire di tutti i privilegi che spettavano solo al sovrano indigeno, creando un piccolo stato personale, circondati di servitori e dipendenti.

29 Lewis Hanke, Aristotle and the American Indians. A Study in Race Prejudice in the Modern World,

Bloomington and London, Indiana University Press, 1959, (2°ed. 1970), p. 43. Traduzione dall’inglese mia. Corsivo mio.

(15)

Ma, per legittimare le politiche di espansione, bisogna prima determinare e definire la natura

dei popoli americani: una volta chiarito che cosa sono, sarà poi possibile organizzare una

adeguata colonizzazione.

Infatti, come ben ricorda Lewis Hanke, “l’argomento più allarmante trattato a Valladolid,

certamente il più energicamente discusso” è “‘la naturale rozzezza e inferiorità’ degli indios”.

30

Al cospetto dei giudici nominati da Carlo V, Juan Ginés de Sepúlveda, probabilmente il

maggiore intellettuale spagnolo e il frate domenicano Bartolomé de Las Casas, missionario

delle Indie e vescovo del Chiapas, si affrontano in una battaglia dialettica, che avrebbe dovuto

decidere le sorti degli abitanti del Nuovo Mondo.

Come ben sottolinea Lewis Hanke, per Las Casas, prendere parte attivamente e in prima

persona alla disputa è un grande atto di coraggio, non solo perché il suo avversario è un erudita

aristotelico abituato al confronto negli ambienti universitari, ma anche per il grande prestigio di

cui gode alla corte spagnola e in Europa.

Ma Las Casas è forte di quella che in tempi molto più recenti sarà chiamata ‘l’esperienza sul

campo’, dopo aver passato circa quarant’anni nelle Indie e aver dedicato la sua vita alla causa

dei nativi, descrivendo le atrocità commesse ai loro danni.

Probabilmente, egli, nel 1542, aveva già presentato a Carlo V una prima versione della sua

Brevísima relación de la destrucción de las Indias, della quale in seguito fornirà, come gli era

stato richiesto, un testo più conciso.

31

Las Casas vuole che l’imperatore sia correttamente informato su ciò che accade nelle Indie,

ormai da troppo tempo, in modo che possa prendere gli opportuni provvedimenti.

Con uno stile semplice ed efficace, egli narra ciò che sembra impossibile narrare, restituendo la

voce agli innocenti di tutte le stragi di cui ha conoscenza, denunciando l’orrore e lo sterminio,

la paura e il dolore, l’offesa e la vergogna:

“Entravano nei villaggi e facevano a pezzi tutti, come se fossero agnelli negli ovili, senza risparmiare

bambini e vecchi, e squartando le donne, pregne o puerpere.

Facevano scommesse su chi sarebbe riuscito a tagliare in due un uomo con un solo fendente, a tagliargli

la testa con un solo colpo di picca, oppure a sventrarlo.

Strappavano i neonati dal seno delle madri, e tenendoli per i piedi ne fracassavano il cranio contro le

rocce. Altri li gettavano dietro le spalle nei fiumi, tra risa e burle, e vedendoli cadere in acqua dicevano

«corpo di mille diavoli, guarda come si agita!» ; altri infilzavano con la spada i bambini insieme alle

madri, tutti quelli che trovavano sul loro cammino”.

32

30 Ibid., p. 44.

31 “In ogni caso passeranno dieci anni prima che, data alle stampe – quasi segretamente – dal suo autore, la

Brevísima uscisse dal suo ristretto circolo ufficiale per cominciare, a poco a poco, a diffondersi fino a diventare un libro pubblico (…)”. [ANDRÉ SAINT-LU, Introducción, in Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de la destrucción de las Indias, Madrid, Cátedra, 1987, (tercera edición), p. 21. Traduzione dallo spagnolo mia].

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