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Olio su tela, cm 160 ca X 90 ca.

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CATALOGO DELLE OPERE.

1- Sacrificio d’Isacco 1745 -50 ca.

Olio su tela, cm 160 ca X 90 ca.

Pisa, collezione privata.

Isacco inginocchiato al centro, raccolto in un drappo rosso; sulla sinistra Abramo a figura intera; nei pressi il capro e il fuoco acceso.

La tela, conservata in una collezione pisana almeno dal XIX secolo, secondo la tradizione orale della famiglia che la possiede reca una attribuzione tradizionale a Giovanni Battista Tempesti.

Da un punto di vista stilistico il dipinto si configura come sostanzialmente estraneo ai modi tempestiani, risentendo semmai di generiche sollecitazioni toscane di primo Settecento, non troppo lontane ad esempio da Ranieri del Pace, integrate da suggestioni cortonesche che a Pisa ebbero una certa diffusione, rinsaldate da una pari attenzione per i volumi e da uno scrutinio teatrale dei gesti.

E’ opera dunque problematica, e perfino non priva di una sua persuasiva e accattivante bellezza, che ci sentiremmo di escludere dal carnet di Giovanni Battista, se non fosse che le nostre conoscenze dell’attività giovanile del pittore sono così scarse, da consigliarci di non scartare con sufficienza le ragioni di una ben strutturata tradizione locale, per giunta di famiglia, tanto più in presenza di un soggetto che verrà più volte ripreso dal pittore (sebbene con esiti diversi da questo).

Per queste ragioni che consigliano cautela, è almeno possibile avanzare l’ipotesi di una autografia tempestiana riferibile ai suoi primi indecifrabili anni di attività, sotto il segno di una discipina che, in buona sostanza, si collocava ancora nell’orbita dei Melani. Non oltre dunque gli anni Quaranta.

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2-Giovanni Battista Basoletti primo Rettore del Seminario Vescovile di Pistoia che presenta i chierici a S. Atto.

1745-50 ca.

Olio su tela, cm 254 X 154.

Pistoia, Seminario Vescovile Nuovo, Aula Magna.

Sulla destra è posto S. Atto pesantemente panneggiato in abiti vescovili, mentre con la mano sinistra presenta alla Vergine col Bambino Battista Basoletti, primo rettore del seminario di Pistoia dal 1693 al 1695. Questi è ritratto inginocchiato con abiti ecclesiastici, circondato dai giovani seminaristi.

I rapporti con Pistoia di Giovanni Battista Tempesti sono totalmente da ricostruire, nel senso che non beneficiano di alcuna tradizione critica o bibliografica, tantomeno documentaria o meramente biografica. Tuttavia, secondo il Tolomei, sull’altar maggiore della cappella del Seminario Vescovile esisteva una tela raffigurante Giovanni Battista Basoletti primo Rettore del Seminario Vescovile di Pistoia che presenta i chierici a S. Atto, dipinta da “Giovanni Tempesti pisano” (Tolomei 1821, p.

123), che sarà senz’altro da identificare in questa. L’indicazione venne ripresa da un secondo cronista ottocentesco, che disciplinatamente segnalò come il “un quadro del Tempesti pisano, nel quale è effigiato il primo rettore Gio. Battista Basoletti, che presenta questi chierici a S. Atto, il quale li offre alla B. Vergine Maria”, fosse stato dipinto in epoca imprecisata, allo scopo di ricordare il trasferimento dei primi sei chierici nel seminario vescovile (Arcangeli 1891, pp. 7-8).

La tela venne menzionata dagli stessi storici come posta nella cappella interna del nuovo Seminario, edificato dal 1783 al 1787, più precisamente sull’altare della chiesa di S. Chiara, inglobata nel nuovo edificio - dove si sarebbero conservate altre due tele del Tempesti, poi disperse (v. più avanti) - , dove venne posta per arricchire con un soggetto assai eloquente la rinnovata sede per la formazione del clero. In epoca imprecisata, l’opera venne poi dismessa dall’altare e posta nell’Aula Magna del medesimo edificio.

Il dipinto venne esaminato per la prima volta in una scheda di catalogo della Soprintendenza di

Firenze e Pistoia redatta da R. Roani il 31 dicembre 1974 (scheda n. 09/00035942), dove la studiosa

lo riferiva ad un ambito fiorentino, proponendo una datazione tra sesto e settimo decennio del

secolo. In epoca recente l’opera è di nuovo stata oggetto di esame, in una postilla dove però la

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proposta della Roani è stata rifiutata, a vantaggio di una retrodatazione della tela al 1715-16, all’epoca comunque dell’episcopato pistoiese di Colombino Bassi (1715-32), allegando una nuova possibile attribuzione al pochissimo noto pittore pistoiese Giovanni Battista Lurchini (Settecento illustre 2009, pp. 186-87, scheda di S. Romagnoli).

Si tratta di un’opera che lascia senz’altro perplessi, e che senza l’attribuzione del Tolomei mai avremmo incluso nel carnet del pittore. La qualità piuttosto corriva e una documentazione fisiognomica che d’istinto ci verrebbe da ritenere ben lontana dalle formule tempestiane (escluso, forse, l’angelo in primo piano, e quello S. Atto), inducono a ritenere l’opera come giovanile, anche per una impostazione macchinosa ed asfittica. Considerati poi i legami assai stretti tra Tempesti e Angelo Franceschi – che in qualità di Arcivescovo di Pisa fu uno dei più severi censori delle posizioni teologiche di Scipione de’ Ricci -, ci sembra difficile immaginare il pittore pisano impiegato in una commissione per il Vescovo giansenista, cui spettò la responsabilità di aver ristrutturato le principali sedi vescovili pistoiesi.

Concludendo. La tela, di qualità modesta, volendo dar credito alle fonti pistoiesi potrebbe essere assegnata ad un Tempesti prima del viaggio romano, tra la fine degli anni Quaranta e gli esordi degli anni Cinquanta, concepita dunque per essere collocata nella vecchia sede del seminario. In questo caso si tratterebbe allora di una delle prime opere dell’artista, ancora piene di echi del Tommasi, e che ci piacerebbe poter indicare come frutto di una committenza legata ai rapporti che erano stati aperti con Pistoia da Giuseppe Melani, autore di uno splendido S. Ranieri per la chiesa di S. Giovanni Fuorcivitas.

Tuttavia l’impostazione sostanzialmente arcaizzante della tela lascia aperta la porta all’ipotesi di una conformazione del figlio agli insegnamenti del padre (e forse anche ad un suo intervento): come sappiamo dalle fonti, Domenico aveva lavorato a Pistoia (Mariti 2001, pp. 114-17), lasciando così aperto l’interrogativo sulla possibilità che la tela sia stato il prodotto di un’opera di collaborazione, sebbene la proposta di leggervi un’influenza del Piattoli sia da prendere in seria considerazione.

Bibl. : Tolomei 1821, p. 123; Arcangeli 1891, pp. 7-8; Settecento illustre 2009, pp. 186-87, scheda di S. Romagnoli.

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3- Madonna col Bambino e S. Gregorio Magno.

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1745-50 ca.

Olio su tela, cm 180 ca X 90 ca.

Pisa, palazzo della Carovana dei Cavalieri di S. Stefano (Scuola Normale Superiore).

Tela centinata nei due lati brevi. A sinistra su un trono di nubi è posta la Vergine, dipinta nell’atto di sostenere il bambino, stante e a figura intera. Questi con la sinistra tocca la penna impugnata da S. Gregorio, situato sulla destra, anch’egli eretto con tiara e piviale, e un volume aperto nella mano sinistra. Alle spalle del Santo vi è una colomba, mentre in basso un putto esibisce un libro aperto.

Il dipinto, che non ci è stato possibile documentare se non nella improbabile foto qui allegata per la sua attualmente impervia collocazione che ne rende impossibile uno spostamento, non è menzionata dalle fonti, e risulta difficile ipotizzarne la provenienza, dal momento che tra le opere d’arte che tuttora arredano la sede della Scuola Normale Superiore, molte sono quelle non originariamente provenienti dalle ricchissime dotazioni dei cavalieri di S. Stefano.

Alcuni elementi stilistici (come l’angelo col volto scorciato posto alla sinistra della Madonna, quasi una sigla morelliana di Giovanni Battista) fanno comunque pensare ad un’attribuzione alla fase giovanile del Tempesti, per l’esigenza di coordinare l’evidente cortononismo della modulazione cromatica (fatta di accensioni e di recessi), con un impianto compositivo affine al Dandini. E’

insomma una tela che lascia intravedere il sostrato più intimo della formazione del pittore:

l’interesse per Pietro Da Cortona filtrato attraverso i Melani, ma soprattutto una relazione vivissima e dichiarata col Tommasi, come ad esempio nella Vergine, quasi un calco di quelle della Natività del Carmine e di Crespina. Semmai ci sarebbe da dire che l’infusione cromatica della scena, qui particolarmente perseguita, lascia intuire l’influenza esercitata sul primo Tempesti da un Pisano presto fattosi fiorentino, ma che fece in tempo a lasciare in città opere significative: Ranieri del Pace.

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4- Sacra Famiglia.

1745-50 ca.

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Olio su tela, cm 220 ca X 118.

Chianni, chiesa di S. Donato.

A destra è collocata la Madonna, seduta di fronte ad un muro e recante in braccio il Bambino. A sinistra vi è S. Giuseppe, in piedi e sorretto dal bastone. Sullo sfondo, a destra, una bassa torre.

La tela non vanta alcuna tradizione critica, neppure recente, ma il parroco della Chiesa – don Ugo Gherardi – garantisce l’esistenza della firma dell’artista (da noi comunque non rintracciata). La collocazione attuale del dipinto, il secondo altare a sinistra nella navata dell’ampia propositura di Chianni, non è però quella originaria, dal momento che l’altare reca la data del 1839, e che la chiesa attuale è il risultato di un rifacimento radicale iniziato agli esordi del XIX secolo. Difficile dire quale sia stata la destinazione originaria dell’opera, ma è necessario ricordare come alla chiesa sia annessa la sede della Confraternita della SS. Annunziata, che tuttora reca consistenti testimonianze dell’attività pittorica del padre di Giovanni Battista, Domenico, che vi affrescò nel 1739 assieme ad Jacopo Donati e a Pietro Forzoni (Leonardi 1994, pp. 158-60).

Le peculiarità stilistiche sembrano comunque confermare l’assegnazione dell’opera a Giovanni Battista, in un momento sicuramente giovanile, non oltre gli esordi degli anni Cinquanta, quando sensibili erano ancora le influenze cavate dalla pittura toscana settecentesca, non estranee al Gabbiani.

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5- Vergine col Bambino e S. Francesco.

1745-55 ca.

Penna e matita su carta, mm 251 X 185.

Firenze, GDSU, inv. 5651 S.

Iscrizioni. In alto a destra, a penna: “SCHIZZO ORIGINALE/DEL PITTOR TEMPESTI”. In

basso, a penna: “GIO. BATT.A TEMPESTI DIPINSE NELL’ORTO DEI CAPPUCCINI DI

PISA”.

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Disegno riquadrato e centinato. Al centro vi è la Madonna, seduta con in grembo un vivace Gesù che accoglie a braccia aperte S. Francesco, posto in adorazione ai piedi del gruppo.

Secondo una nota contenuta in una carta ottocentesca dell’archivio di S. Donnino, nel convento esisteva una strada che “conduce ad una bella capellina (sic) ivi in prospettiva, nella quale è dipinta a fresco una immagine bellissima di Maria ss.ma assieme con quella del nostro serafico Padre S.

Francesco in atto di adorare Gesù Bambino, che li viene presentato dalla Santissima Madre, che viene corteggiata da varj graziosissimi angioli. Opera tutta del vecchio, e famoso pittore Tempesti”

(ASD, Fondazione del Convento di Pisa, c. 81, s. d.).

L’indicazione confermava quanto già sostenuto da uno dei biografi dell’artista, il Grassini, che indicava le cappelle dell’orto dei padri francescani come dipinte da Domenico con l’ausilio del figlio (Grassini 1838, p. 79).

La cappella che conteneva il lavoro di Giovanni Battista venne distrutta nel 1862, quando si pensò di rifarla più grande allo scopo d’inumarvi i cadaveri che erano stati interrati in altre cappelle contigue. Il dipinto tempestiano fu sostituito da una modesta tempera di Ranieri Venturi, ancora oggi esistente (Renzoni 1997, pp. 169-70). Anche delle opere di Domenico non esiste più traccia a causa dei bombardamenti dell’ultima Guerra, che hanno praticamente raso al suolo il complesso monastico, colpevole di essere situato nei pressi della stazione ferroviaria. A nostro giudizio il ciclo dipinto da Domenico nel convento di S. Donnino è però almeno parzialmente documentato da due vigorosi disegni d’identico formato passati in asta in anni piuttosto recenti, raffiguranti rispettivamente Due frati in un eremo e un Paesaggio con figure in primo piano, e attribuiti il primo al padre, il secondo al figlio, sebbene messi in stretto rapporto l’uno con l’altro (Porro 2007, pp. 56- 7, n. 68; Aldega-Gordon 1987, pp. 78-9, n. 37).

Dal momento però che il primo disegno, giusta l’attribuzione di catalogo, era in origine nella collezione di Niccolò Gabburri, non si può pensare che fosse frutto della mano di Giovanni Battista, che alla morte del collezionista fiorentino (1742) aveva solo 13 anni; così neppure il secondo (che in realtà andrebbe identificato in un Paesaggio con figure e un frate cappuccino), eseguito dalla stessa mano dell’altro, può essere riferibile a Giovanni Battista, ma ricondotto semmai a Domenico.

Al massimo si può allora ipotizzare un intervento parziale, da allievo, del figlio in soccorso del padre, ma la circostanza è comunque importante perché la precisazione dell’intervento in S.

Donnino di Domenico rende più logico, e credibile, il successivo impegno del giovane e insesperto

Giovanni Battista, quasi un viatico.

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Dell’affresco eseguito da Giovanni Battista in S. Donnino resta però il disegno preparatorio (dal ductus assai diverso da quelli di Domenico), prezioso non solo perché ci restituisce il profilo di un’opera scomparsa, ma anche perché bene evidenzia tutta la disciplina melaniana del giovane Tempesti (qui particolarmente vicino all’affresco d’identico soggetto di Giuseppe Melani in palazzo Arcivescovile), ben oltre i debiti verso il padre, e orientato in modo franco anche verso Pietro da Cortona, in specie quello dell’Apparizione della Vergine a S. Francesco, conservato nella chiesa della SS. Annunziata di Arezzo.

Opera comunque d’incerta datazione, probabilmente non oltre gli esordi degli anni Cinquanta.

Bibl. : Grassini 1838, p. 79; Ciardi 1990 c, p. 147 n; Da Cosimo III 1990, pp. 105-6, scheda di L. Tongiorgi Tomasi – A. Tosi; Tongiorgi Tomasi - Tosi 1990, p. 307; Ciampolini 1993, p. 172; Renzoni 1997, pp. 169-70.

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6- Fuga in Egitto e S. Giuseppe in Egitto; Sacra Famiglia; S. Giovanni che battezza Cristo nel Giordano; S. Onofrio nel deserto.

1751-55 ca.

Affreschi.

Già Pisa, chiesa di S. Giovanni Spazzavento.

Il ciclo di dipinti, che si trovava nella controfacciata della chiesa, è andato perduto nel corso dell’ultima guerra: per Frosini ne sarebbe sopravvissuto solo un frammento, conservato nel Museo di S. Matteo (Frosini 1981, p. 148), di cui alla scheda successiva.

Per Bellini Pietri (1913, p. 267) il ciclo era composto dalle seguenti scene: Apparizione dell’angelo

a Zaccaria; Battesimo di Cristo; Sacra famiglia; Fuga in Egitto. Da un manoscritto redatto pochi

anni dopo la sua realizzazione, il ciclo era invece articolato nei seguenti momenti: Fuga in Egitto e

S. Giuseppe in Egitto; Sacra Famiglia; S. Giovanni che battezza Cristo nel Giordano; S. Onofrio

nel deserto (ACP, mss, C 214, Ruschi-Cambini 1765 ms, c. n. n.). Secondo la stessa fonte, il ciclo

sarebbe stato eseguito perché l’artista avrebbe fatto parte della Confraternita di S. Giovanni

Decollato, che aveva sede nella chiesa.

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Giudicati dal Da Morrona come affreschi “fatti nella sua gioventù, indicanti il particolar suo genio nell’Arte” (Da Morrona 1793, III, p. 303), eseguiti a 28 anni e dunque “i primi saggi del talento”

del pittore (Da Morrona 1816, p. 183), dal momento che per lo storico pisano il pittore era nato nel 1732, il ciclo sarebbe stato da datare al 1760, che non si concilierebbe con il tentativo di farne i suoi primi lavori. Tuttavia, dal momento che il ciclo non venne citato da Pandolfo Titi nella sua Guida (del 1751, ma redatta l’anno precedente), possiamo concordare nel ritenere il ciclo come antecedente il soggiorno romano dell’artista, presumibilmente eseguito entro la prima metà degli anni Cinquanta.

Non discussi mai dalla critica successiva, che si limitò ad una breve citazione, gli affreschi vennero riesaminato poco dopo l’Unità da Annibale Marianini, che espresse giudizi di temperato apprezzamento: “li affreschi del Tempesti nelle pareti hanno qualche pregio, sebbene fatti da Giovanissimo” (Marianini 2008, p. 72).

Bibl.: Bartoli 1778, p. 222; Descrizione 1792, p. 160; Da Morrona 1793, III, p. 303; Da Morrona 1812, II, p. 547; Serri 1833, p. 233; Grassini 1838, p. 79; Bellini Pietri 1913, p. 267; Marianini 2008, p. 72; Frosini 1978-68, p. 7; Frosini 1981, p. 148.

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7- Madonna e S. Giovanni.

1751-55 ca.

Affresco staccato, cm 200 X 109.

Pisa, Museo nazionale di S. Matteo (depositi).

Iscrizioni. Al centro, a pennello: “ES[T] TEMPESTI/[…] PINXIT”.

L’affresco staccato, a profilo centinato, raffigura la Madonna e S. Giovanni, ritratti in posizione eretta e affrontati. S. Giovanni è in atto d’indicare con la sinistra la Vergine. La superficie pittorica è assai compromessa da qualche lacuna, ma soprattutto da un profondo abbassamento dei toni di colore e da un generale appannamento dei pigmenti pittorici. E’ probabile che il gesto di S.

Giovanni si riferisse ad una Croce, oggi non più esistente (nel qual caso andrebbe identificata in

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quel Crocifisso che nel 1728 venne donato alla Confraternita di S. Giovanni Decollato dai confratelli di Assisi, che veniva portato in processione il giorno della festa del santo).

Il dipinto è da riconoscere in quell’unico frammento del ciclo di S. Giovanni in Spazzavento che Frosini indicava come ancora conservato nei depositi di S. Matteo (Frosini 1981, p. 148).

L’identificazione è consigliata da alcuni elementi: la sicura attribuzione al Tempesti, dal momento che l’opera è firmata sotto il piede destro di S. Giovanni; lo stile ancora acerbo e la non impeccabile qualità esecutiva (legnosa e scolastica, con tratti francamente arcaizzanti), tutti elementi che non contraddicono una probabile redazione giovanile, precedente alle opere tuttora esistenti dell’artista.

Va però segnalato che il soggetto non è tra quelli indicati nel manoscritto dell’Arcivescovile di Pisa (ACP, mss, C 214, Ruschi-Cambini 1765 ms, c. n. n.) e dal Bellini Pietri (1913, p. 267) come dipinti nella chiesa; ma è altrettanto vero che la discorde elencazione e riconoscimento degli episodi da parte delle due fonti, lascerebbe sospettare una non piana ed esatta trascrizione degli stessi. Va aggiunto che nella citata descrizione manoscritta del ciclo di affreschi, si elencavano cinque scene, una in meno di quante indicate nel sopralluogo effettuato in chiesa dall’erudito Francesco Bartoli nell’ottobre del 1778 (Bartoli 1778, p. 222). Circostanza che consente di individuare questa come la sesta scena mancante.

Bibl. : Bartoli 1778, p. 222; Frosini 1981, p. 148.

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8- S. Marco.

1753.

Affresco.

Già Pisa, chiesa di S. Marco alle Cappelle.

Nel 1753 Jacopo Bussagli, imprenditore di marmi e architetto, riscosse il pagamento per aver

eseguito il disegno della nuova tribuna della chiesa di S. Marco alle Cappelle, situata nella prima

periferia della città, e per averne assistito i lavori, conclusi l’anno precedente. La tribuna venne poi

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arricchita in quello stesso 1753 con stucchi di Giovanni Frullani e da un affresco raffigurante S.

Marco, citato in un documento del 23 agosto 1753 con esplicito riferimento al Tempesti come suo autore. Riedificata totalmente la chiesa a partire dal 1787 da Giovanni Andreini, la tribuna venne distrutta e con essa il dipinto tempestiano. E’ possibile – ma non comprovato – che il successivo affresco d’identico soggetto eseguito nella nuova tribuna nel 1789 da Giovanni Stella (allievo del Tempesti) assieme a due ovati con i Santi Pietro e Paolo, abbia ricalcato il prototipo del maestro, ma il giudizio risulta necessariamente sospeso in quanto anche questi affreschi sono andati distrutti, e di essi restano solo delle modestissime fotografie (Renzoni 1995, pp. 155-56).

Bibl.: Renzoni 1995, pp. 155-56; Paliaga-Renzoni 2005, p. 212.

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9- Natività della Vergine; Annunciazione.

1754.

Affreschi, cm 290 X 175 ciascuno.

Pisa, chiesa di S. Bernardo.

La Natività è costruita in un interno, con S. Anna al centro seduta con la Vergine in braccio, sostenuta da una giovane donna, mentre dalla parte opposta vi è S. Gioacchino, pesantemente paludato. Intorno una piccola folla di astanti, sorvegliati in alto dai cherubini.

L’Annunciazione è dominata dall’imponente figura dell’angelo, assiso sulle nubi e indicante con la destra l’Eterno. Dalla parte opposta vi è la Vergine, inginocchiata e sorpresa nella preghiera, il capo rivolto verso l’angelo, e in alto una scenografica tenda sostenuta da angeli.

I due affreschi sono ben documentati, dal momento che si conserva la ricevuta di pagamento di 20

scudi emessa “dalle camerlinghe di S. Bernardo” a favore di Giovanni Battista “per mio onorario

dun (sic) quadro dipintoli nella loro chiesa, rappresentante la Nascita della Madonna”, dove il

pittore dichiarava altresì di essere stato saldato con 15 scudi per l’altro “rapresentante la SS.ma

Nuziata (sic)” il 26 novembre 1754 (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1028, c. 44, alla data

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22.2.1755; ma nello stesso fondo archivistico v. anche: 1017, c. 168, 26.11.1754; 21.2.1755;

11.12.1755; 21.2.1755).

Ricordati per la prima volta dal Da Morrona (1793, III, p. 284), furono da questi correttamente segnalati come dipinti dal Tempesti “prima ch’egli andasse a Roma a perfezionarsi nell’Arte”, ad una età che si dichiarava essere stata di 21 anni (anziché 25, quanti in realtà ne aveva).

Considerando che nella chiesa vi aveva già dipinto Tommaso Tommasi (affreschi ancora esistenti), il breve ciclo tempestiano veniva implicitamente ritenuto come interessante soprattutto per ribadire il legame tra l’allievo e uno dei suoi maestri, facendo implicitamente intendere che forse questo rapporto incoraggiò le monache ad ingaggiare il più giovane pittore.

Analizzati poi da Ciardi, che vi lesse influenze di Luca Giordano e Sebastiano Galeotti - “che sfiorano la citazione precisa” - (Ciardi 1990 c, pp. 111-14), gli affreschi vennero riletti successivamente anche nella chiave di una ripresa non solo di motivi del Tommasi, ma anche genovesi (Ciampolini 1993, pp. 171-72).

Bibl. : Bartoli 1778, p. 234; Descrizione 1792, p. 165; Da Morrona 1793, III, p. 284; Da Morrona 1816, p. 178; Serri 1833, p. 240; Grassi 1838, III, p. 165; Grassini 1838, p. 79; Tabani 1845, p. 224; Bellini Pietri 1913, p. 259; Tolaini 1966; Frosini 1981, p. 148; Ciardi 1990 c, pp. 111-14; Rasario 1990, p. 180 n; Ciampolini 1993, pp. 171-72; Paliaga- Renzoni 2005, p. 156.

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10- Studi per una Annunciazione.

Sanguigna e matita nera su carta, mm 290 X 175.

Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, inv. 41153.

Il foglio disegnato recto e verso è stato posto in relazione alla scena dell’Annunciazione per la

chiesa di S. Bernardo (v. scheda precedente) sebbene in modo dubitativo, dal momento che nessuna

delle soluzioni proposte nel foglio hanno poi avuto esito nell’opera finita. Sul recto vi sono tre studi

per una Vergine annunciata, sorpresa in pose diverse e, in due casi, associata all’Angelo. Nel verso

è disegnata una mezza figura di giovinetto (non autografa), e un angelo in volo. Se riferimento

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all’affresco può esservi, lo si deve intendere solo in senso generale, come sperimentazione su un soggetto e su un tema.

Alcune incertezze grafiche espresse nei disegni, alcune esitazioni di tratto e d’invenzione, hanno fatto credibilmente ipotizzare una loro datazione giovanile, prima del viaggio romano del pittore, e dunque come possibile laboratorio grafico in vista di una loro rielaborazione finale sulle pareti della chiesa (Monbeig Goguel 2005, p. 395).

Bibl. : Acquisitions 1990, pp. 94-5; Tongiorgi Tomasi – Tosi 1990, pp. 308, 328 n.; Monbeig Goguel 2005, p. 395.

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11- S. Ranieri eremita che adora il Crocifisso.

(G. B. Tempesti – N. Mogalli) 1755.

Acquaforte, mm 274 X 199 (269 X 131).

In: G. M. Sanminiatelli, Vita di San Ranieri confessore pisano, Gio. Domenico Carotti, Pisa 1755.

Iscrizioni. In basso: “SANCTE RAYNERI PROTEGE PISAS”.

Appoggiato ad un basso muro è posto S. Ranieri, raffigurato in ginocchio intento ad adorare il Crocifisso. In alto volano degli angeli, mentre in basso, sull’erba, vi sono il bastone da pellegrino, un teschio e un volume recante sulla coperta lo stemma di Pisa.

L’acquaforte, eseguita da Niccolò Mogalli, funge da antiporta alla Vita di S. Ranieri del frate carmelitano Francesco Maria Sanminiatelli, che conobbe notevole successo perché andò ad iscriversi con autorevolezza in quel clima di recupero e valorizzazione della figura del patrono di Pisa, che fu carattere fondamentale del culto locale a partire da Cosimo III (Sanminiatelli 1755).

Opera giovanile del Tempesti, costituisce il primo dei numerosi S. Ranieri che l’artista affronterà

nel resto della carriera, ma che tuttavia conobbe un certo successo nella devozione popolare,

sebbene qualitativamente sia figura piuttosto impacciata e non perfettamente risolta. In città – in un

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vicolo del quartiere di S. Martino - è infatti possibile ancora oggi rintracciare un’edicola dipinta recante una modestissima immagine del Santo ricavata da questa acquaforte, a testimonianza del successo ottenuto nella pietà popolare (Da Caprile-Sassetti-Zampieri 2011, p. 98). Le incertezze della costruzione dell’immagine (individuabili soprattutto in una forma di estenuato patetismo, con il Santo accasciato in uno scorcio non perfettamente risolto), derivano probabilmente dal fatto che questa fu la prima volta che l’artista prestò la propria opera per una traduzione calcografica.

Bibl. : Sanminiatelli 1755; Da Cosimo III 1990, p. 108, scheda di L. Tongiorgi Tomasi – A. Tosi; Burgalassi 2004, pp.

49-50, 177; Davoli 2006, VI, p. 272.

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12- Donna seduta in posizione frontale con bambino alle sue gambe.

1755 ca.

Matita e inchiostro su carta, mm 146 X 116.

Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, inv. RF 41148.

Disegno incorniciato in un ovale, raffigurante la Vergine seduta nei pressi dell’alto plinto di una colonna, mentre sulla destra vi è il Bambino, appoggiato alle gambe della madre mentre esibisce la corona di spine.

Il foglio, che faceva parte della collezione d’Oultremont (acquistata dal Louvre nel 1985), non è riferibile ad alcuna delle opere pittoriche conosciute dell’artista. Secondo una proposta avanzata dalla Monbeig Goguel, potrebbe essere messo in relazione all’Allegoria dell’Umiltà affrescata da Giovanni Battista a Crespina (Acquisitions 1990, p. 93; Monbeig Goguel 2005, p. 393), ma l’indicazione ci sembra priva di reale fondamento, in quanto le assonanze sono genericamente ascrivibili alle sigle del pittore. E’ disegno frutto semmai di una fase di studio e di sperimentazione da parte dell’artista, e non è detto che sia poi confluito in un dipinto. La qualità, modesta, consiglia di pensarlo come esemplare giovanile, precedente il viaggio romano.

Bibl.: Acquisitions 1990, p. 93; Tongiorgi Tomasi – Tosi 1990, p. 328 n.; Monbeig Goguel 2005, p. 393

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13-Natura morta (Vanitas).

1755-57 ca.

Olio su tela, cm 39 X 57.

Pisa, palazzo Blu, collezione Fondazione Pisa, inv. Simoneschi n. 77.

Quadro problematico e di difficile collocazione, dal momento che niente sappiamo sull’attività del Tempesti come pittore di nature morte. Neppure i biografi ne fanno cenno, così come i resoconti d’archivio. Unico indizio su un qualche orientamento del pittore è rintracciabile in certi parerga nelle tele di soggetto religioso: nei Crocifissi sovrapposti ai teschi, su un libro aperto, su qualche desco preparato per la preghiera o per il martirio. Cose obbligate come si vede, corredi necessari per le grandi pitture concepite per il raccoglimento e la concentrazione mistica. Se dunque la iscriviamo nel catalogo del pittore è perché faceva parte di quella collezione di quadri attribuiti al Tempesti posseduta a fine Settecento dal medico Luigi Gherardi, a questi probabilmente donati dallo stesso pittore (Tra Ottocento e Novecento 1989, p. 25, scheda di G. Rasario).

La teletta non è di grande qualità, ma mantiene semmai una scolastica impostazione d’insieme, come se qui Tempesti stesse sperimentando i suoi latinucci. La definizione degli oggetti è raggelata e pure il motivo della Vanitas ricalca luoghi tematici assai diffusi più nel Seicento che non nel Settecento maturo. Il volume reca nella costola il titolo di “Specchio/del/disinganno”, con un’indicazione che sottolinea l’alambicco del doppio riferimento alla vita terrena, come velo e inganno della vera vita, e all’arte come specchio dell’ingannevole natura.

Opera comunque giovanile, cui non disdice una datazione precedente gli anni romani di Giovanni Battista.

Bibl. : Il personaggio s. d. , scheda di G. Rasario; Tra Ottocento e Novecento 1989, p. 25, scheda di G. Rasario.

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14- S. Gerolamo.

1755-57 ca.

Olio su tela, cm 107 X 87.

Mercato antiquario.

All’interno di alcune rovine articolare in due archeggiature è posta la figura di S. Girolamo, il busto nudo panneggiato nella parte inferiore, le mani congiunte in preghiera e sostenute da un macigno, su cui è appoggiata la pietra della penitenza. A destra il teschio e il Crocifisso, con in primissimo piano il cappello cardinalizio.

Passato sul mercato antiquario nel 2000 con una “antica cornice originale in legno sagomato, laccato e dorato”, il dipinto ha beneficiato di una credibile attribuzione a Giovanni Battista (Mobili dipinti 2000, p. 484). E’ opera non citata dalle fonti, ma attribuibile al periodo precedente quello romano, come denunciato dalla scabra tornitura anatomica del santo, che sarebbe difficile collocare in anni successivi la frequentazione della Scuola di Nudo in Campidoglio.

Bibl. : Mobili dipinti 2000, p. 484.

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15. 1 A-B-Doppio studio per Amorino che conduce un carro (recto); Amore e angelo con torce o strumenti musicali (verso).

1755-57 ca.

Matita nera, acquerello grigio, inchiostro grigio, sanguigna su carta, mm 365 X 267.

Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, inv. RF 41141.

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I due fogli fanno parte di una raccolta di 15 carte di disegni tempestiani appartenuti ad Eugene d’Oultremont (1845-1916), ma già in possesso della famiglia – abitante in Toscana - dal Settecento.

Furono acquistati dal Louvre nel 1985 (ma molti altri disegni provenienti dalla stessa collezione sono andati dispersi sul mercato e non è chiarissimo se tra essi ve ne fossero di ulteriori del Tempesti).

Questi disegni non risultano essere preparatori di alcuna opera nota del pittore. E’ stata ipotizzata la loro funzione come studi di complessi pittorici concepiti per una camera da letto o per un’alcova, sul tipo degli affreschi di palazzo Silvatici. Dal punto di vista dell’impaginazione, i disegni sono stati valutati come affini all’Allegoria della Divina Saggezza di palazzo Arcivescovile (Monbeig Goguel 2005, pp. 388-90).

L’insistenza sugli Amorini e su Cupido (risolta tra l’altro in un brillantissimo sottinsù), fanno effettivamente ritenere che i fogli fossero pensati per la progettazione di un’articolata decorazione di una volta, ma è difficile dirne il soggetto e la destinazione. La figura della bellissima donna in volo recante una torcia (ora rivolta in alto, ora in basso), denunciano un probabile aggiornamento del Tempesti su affreschi genovesi, come quelli di Domenico Piola in palazzo Rosso.

I rapporti tra Pisa e Genova erano del resto assai fitti, almeno a partire dal soggiorno in Liguria di Aurelio Lomi, eppoi per l’intenso percorso pisano di Clemente Bocciardo. Legame che non si era mai spezzato, al punto da coinvolgere anche i fratelli Melani, se è vero che sono state notate affinità assai strette tra alcune soluzioni compositive di Giuseppe Melani e la scultura di Filippo Parodi (Franchini Guelfi 1991, pp. 431-32).

Bibl. : Acquisitions 1990, pp. 88-9; Tongiorgi Tomasi - Tosi 1990, p. 328 n. ; Monbeig Goguel 2005, pp. 388-90.

15. 2 A-B- Doppio amorino che conduce un carro sulle nuvole (recto); Studio per un amore e un angelo con una torcia illuminata e testa felina (verso).

1755-57 ca.

Matita, acquerello grigio, tracce di sanguigna, acquerello grigio su carta, mm 343 X 260.

Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, inv. RF 41142.

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V. scheda precedente.

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16- “Contorno” del gonfalone della Compagnia di S. Antonio Abate.

1756.

Tecnica non identificabile (Tempera su stoffa ?).

Già Montione (Cascina-Pisa), Badia di S. Savino.

Secondo un documento di pagamento del 17 aprile 1756 emesso dalla Compagnia di S. Antonio Abate, che aveva sede nella Badia di S. Savino (ancora oggi esistente nella campagna tra Pisa e Cascina), Tempesti venne compensato “per aver dipinto il contorno del gonfalone della nostra Compagnia” (ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo 2504, c. 282). Dopo, niente più sappiamo del gonfalone. La commissione, seppure esigua, s’inseriva in quella più vasta opera di ristrutturazione della Badia che nel Settecento ne trasformò per intero gli interni con stucchi e pitture (oggi totalmente distrutte). Da segnalare che l’intervento di Giovanni Battista aprì la strada ad un ulteriore intervento da parte della famiglia: nel 1760 la stessa Compagnia saldò il padre Domenico “per le pitture fatte nelli sfondi della volta” della chiesa (ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo 2504, c. 308, 17.11.1760), che probabilmente è da riconoscere nel pittore che nel 1761 venne liquidato per tre quadri fatti “per ornamento della sagrestia” (ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo 2504, c. 309, 16.1.1761). Gli stucchi erano stati eseguiti da Giovanni Frullani su disegno di Jacopo Bussagli, entrambi personaggi che avevano già intercettato la carriera artistica di Giovanni Battista, nell’affresco eseguito nella chiesa pisana di S.

Marco.

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17- Trionfo di Paride; Allegoria della Pittura; Allegoria della Poesia.

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1756.

Affreschi.

Pisa, palazzo ‘Alla Giornata’.

Gli affreschi si trovano nella prima stanza a sinistra, al piano terra del palazzo cosiddetto ‘Alla Giornata’, già domus della famiglia Lanfranchi Lanfreducci. Nella volta vi è una vasta scena già giudicata come una Allegoria della Primavera (Frosini 1981, p. 148), ma di recente giustamente identificata nel Giudizio di Paride (Ambrosini 2005, pp. 79-81). Al centro del Giudizio vi è il figlio di Priamo nell’atto d’indicare Venere posta al centro sulle nubi, mentre a destra riposa Giunone.

L’Allegoria della Pittura e della Poesia costituiscono invece altrettante sovrapporte dipinte a grisaglia. Questa reca i simboli della poesia pastorale, lirica ed eroica; quella è arricchita da una maschera con la scritta ‘Imitatio’, ed è ritratta nell’atto di dipingere (Il Settecento 2011, p. 88, scheda di B. Moreschini).

Il dipinto della volta venne realizzato dal Tempesti entro il 1756, dal momento che il 15 novembre di quell’anno il pittore venne liquidato da Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci con L. 140 “per suo onorario d’avermi dipinto lo sfondo della camera lung’Arno a terreno” (ASP, Upezzinghi Rasponi 513, Note di pagamento dei lavori al palazzo, alla data). Terminati i lavori (comprensivi anche delle sovrapporte), entro il 22 gennaio dell’anno successivo nella stanza fu posto il grande dipinto con l’Amor Sacro e Profano di Guido Reni (giudicato oggi opera di scuola), prezioso ed esibito bene di famiglia, giacché quel giorno il nobile patrono annotava la spesa di L. 63.16 occorse

“per mettere in ordine il quadro di Guido Reni rappresentante i due amori Divino e Profano (Id., alla data). Il dipinto del pittore bolognese venne in quella stessa stanza raffigurato dal Tempesti come posto sul cavalletto nella sovrapporta con l’Allegoria della Poesia, in un gioco di rimandi tra la realtà e la sua rappresentazione ancora integralmente barocco.

L’affresco principale è stato giudicato come interprete della tradizione cortonesco-giordanesca e

melaniana (Ciardi 1990 c, p. 114), e Ambrosini ha proposto di giustificare l’eco qui presente

dell’Allegoria di Pisa dipinta dai Melani in palazzo Gambacorti, con “l’ipotesi che il Tempesti

potesse usufruire di sussidi tecnico esecutivi, sul tipo di cartoni, lasciatigli in eredità dai suoi

predecessori” (Ambrosini 2005, p. 81).

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L’unica voce critica dissonante è quella di Ciampolini (1993, p. 172 n.), che ravvisava nelle figure della volta un gusto internazionale affine a Boucher, dunque così aggiornato ed evoluto, da ritenere impossibile si potesse trattare di un’impresa conclusa prima del decisivo viaggio romano del pittore.

Bibl. : Frosini 1981, p. 148; Ciardi 1990 c, p. 114; Rasario 1990, p. 184 n; Ciampolini 1993, p. 172 n.; Ambrosini 2005, pp. 79-81; Il Settecento 2011, p. 88, scheda di B. Moreschini.

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18- S. Antonio Abate; S. Ranieri.

1757.

Affreschi.

Pisa, chiesa dei SS. Jacopo e Filippo in Orticaia.

Affreschi ovali, inseriti entro ampie quadrature architettoniche. S. Antonio Abate è accompagnato da un angelo; S. Ranieri è in preghiera, con un angelo alle sue spalle che indica la croce pisana innestata sul bastone che riposa sul suo petto.

I due ovali non hanno beneficiato di alcuna letteratura, a causa di un generale disinteresse critico degli storici dell’arte per la chiesa che li contiene, sebbene sia stata essa strettamente legata alla presenza pisana di S. Ranieri. Distrutto o disperso l’archivio antico della chiesa, l’unico appiglio cronologico è costituito dal testo di un’iscrizione murata sopra la porta laterale della chiesa, nella parte verso il giardino. In essa si afferma come nel 1757 la Compagnia dei SS. Jacopo e Filippo (che nel tempio aveva sede), soddisfacendo un obbligo contratto nei confronti del defunto confratello Giuseppe Antonio Landucci, avesse fatto eseguire le pitture del presbiterio della chiesa, dove appunto sono posti questi affreschi.

A nostro parere essi sono riferibili al Tempesti per via stilistica (gli occhi trasognati, le fisionomie e

i colori lievi e dati come a pastello, sono tipici della sua maniera), come un congedo prima della

partenza per Roma, agli esordi del 1757.

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Ancora aperta è invece la questione del ciclo di affreschi posto lungo le pareti laterali della navata, prima del presbiterio, composto da quattro riquadri: Ultima Cena, Conversione di S. Ranieri, Tentazioni di S. Antonio, Martirio dei SS. Jacopo e Filippo. Per quanto forte sia la tentazione di attribuirli ad un giovane Tempesti (intorno alla metà degli anni Quaranta), la mancanza di elementi documentari e bibliografici, oltre all’impossibilità di procedere per queste date ad una comparazione stilistica nel percorso del Tempesti, rende l’esercizio attributivo piuttosto accademico. Ad onor del vero occorre però notare che le scene da un punto di vista compositivo (piuttosto impacciato), potrebbero suggerire un’autografia meno colta ma tuttavia interessante:

quella cioè del pochissimo noto Nicola Matraini, pittore pisano compagno di pensionato a Roma del Tempesti, e lì vincitore di premi, ma dalla carriera incerta e arricchita da pochi numeri, e quei pochi dal carattere non indimenticabile (v. La Vergine col Bambino con le anime del Purgatorio, della parrocchiale di Molina di Quosa).

La questione è però resa ingarbugliata da due ulteriori circostanze. Le singole scene sono inframezzate da dei grandi candelabri dipinti, che sono di evidente autografia dell’architetto e scenografo Mattia Tarocchi, abituale collaboratore del Tempesti. Detti candelabri sono assai simili a quelli poi dipinti nella cappella della villa Upezzinghi a Titignano, dove sicuramente lavorerà Giovanni Battista. Inoltre essi sono la prefigurazione grafica di quei finti candelabri di pietra che il Tarocchi disegnerà per il sagrato dell’oratorio annesso alla villa Del Testa al Belvedere di Crespina.

Infine le figure a grisaglia. A fianco delle quattro scene e dei candelabri vi sono anche delle Virtù, costituite da grandi figure monocrome di sapore vagamente melaniano, che potrebbero far pensare ad un intervento precoce di Giovanni Battista. Anche le quattro grandi scene del resto evidenziano un adeguamento alle prove pisane di Domenico Piastrini e di Giuseppe Nicola Nasini, che furono argomento di riflessione per il giovane Tempesti, specie per la vulgata che il primo dette della pittura del Luti. Ma anche qui siamo nel campo delle ipotesi, per questi anni non confortate da valide pezze d’appoggio comparative. Per questi motivi, ci limitiamo per questi affreschi alla riproposizione del problema con qualche elemento cognitivo in più, senza arrischiarne lo scioglimento.

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19- L’Acqua; La Terra.

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1757-58.

Affreschi.

Pisa, palazzo Ruschi.

Iscrizioni. Ne La Terra, sulla roccia a sinistra: “OCEANUS”.

La Terra è organizzata attorno alla figura allegorica dell’elemento, una giovane donna riccamente panneggiata e seduta, mentre una figura femminile (Flora?), gli porge dei fiori. Alle spalle della Terra vi è un albero con putti arrampicati tra i rami, due figure femminili intente a sostenerne il velo e a incoronarla e, in basso, putti, un Leopardo e una tartaruga, mentre sulla roccia vi è la scritta

“Oceanus” (riferimento ai fiumi che arricchiscono la terra). L’Acqua reca al centro la personificazione dell’elemento: una donna nuda trascinata e sostenuto da Tritoni e da Nereidi, nentre il drappo che ne copre parzialmente il corpo è trascinato in alto da tre putti.

La critica moderna ha tradizionalmente aggiudicato al più giovane dei Tempesti le due scene del salone centrale di palazzo Ruschi, raffiguranti la Terra e l’Acqua, ritenute un completamento del ciclo dei Quattro Elementi, iniziato nel 1751 con l’Aria e il Fuoco da Agostino Veracini, dopo che nel 1746 egli vi aveva dipinto la volta con una movimentata e affollata Natura che offre al Sole i frutti delle stagioni (Panajia 2001, pp. 72-3).

In realtà, grazie al risultato di ricerche archivistiche svolte in anni non remoti nell’archivio privato della famiglia Ruschi, è emerso con chiarezza che le due scene in esame furono il risultato dell’intervento di un Tempesti che nelle note spese viene sempre citato come privo del nome di battesimo, segno che era così noto da non temere fraintendimenti. Questa impresa, stando alle carte – assai minuziose – si svolse nel 1758, culmine di una serie d’interventi di più vasto respiro compiuti nel palazzo da “Tempesti”, assieme ad un altrettanto non meglio precisato Donati.

Ci sembra allora affatto logico individuare nei due pittori quelli che furono gli attori di una delle

coppie più consolidate del panorama artistico pisano settecentesco, due artisti che lavorarono così

strettamente insieme da costituire un’autentica impresa commerciale, oltre che artistica: il figurista

Domenico Tempesti (il padre di Giovanni Battista) e Jacopo Donati, allievo dei fratelli Melani e

attivissimo quadraturista, documentato sempre a fianco del più anziano dei Tempesti, e mai –

neppure in imprese secondarie - come collaboratore del più giovane.

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Nel 1758, anno dell’esecuzione degli affreschi, Giovanni Battista era poi a Roma, e questo basta per rivederne l’attribuzione. Del resto già lo stesso Da Morrona, assai informato sulla carriera del suo maestro, nella calibrata biografia che redasse per la Pisa illustrata aveva affermato a chiare lettere che l’autore degli affreschi di palazzo Ruschi era, per l’appunto, Domenico, e non Giovanni Battista (Da Morrona 1812 , II, p. 546).

Il bisticcio nacque invece in epoca ben successiva, quando Augusto Bellini Pietri, pur nel suo sostanziale disinteresse per la pittura locale settecentesca, attribuì con sicurezza gli affreschi a Giovanni Battista, anticipandone l’esecuzione al 1757 (Bellini Pietri 1913, p. 215), con una proposta però che si prestò a dubbi e ripensamenti, se è vero che Frosini, rileggendo il ciclo, pilatescamente ne divise l’autografia tra padre e figlio (e l’onnipresente Donati), ma individuando nelle scene un riflesso delle “forme del Van Loo e del Boucher” (Frosini 1981, p. 149).

L’attribuzione al più noto Giovanni Battista esercitava un’attrazione fatale, e successivamente venne di nuovo accolta dalla Rasario (1990, p. 175), al punto che anche nei citati e benemeriti spogli archivistici, Panajia non trovò di meglio che di sistemare la vicenda dell’identificazione del pittore proponendo quello di Giovanni Battista (Panajia 2001, pp. 31, 59-61; Panajia 2004, p. 123).

Anche Sestieri (1988, p. 316), pur in una esatta lettura della fisionomia del Tempesti legata alla cultura romana dell’epoca, riteneva il ciclo di Giovanni Battista (datato 1757 sulla tracci di Bellini Pietri), segno del classicismo filo romano dell’artista.

Da segnalare infine un fatto che ci sembra assolutamente dirimente. Nelle note biografiche di Domenico Tempesti redatte da Giovanni Mariti (che come è noto sono particolarmente fededegne perché i materiali gli venivano forniti direttamente da Ranieri Tempesti), il defunto pittore venne esplicitamente ricordato come autore della “gran sala della casa Ruschi”, che ci sembra argomento definitivo (Settecento pisano 1990, p. 415). Domenico quindi, e non Giovanni Battista.

A favore di un’attribuzione degli affreschi alla mano di Giovanni Battista per alcuni avrebbe però militato anche una qualche risorsa stilistica e compositiva, prima fra tutte l’evidente desunzione della scena de L’Acqua dalla Galatea di Raffaello (Rasario 1990, pp. 175-76), misurato come l’indizio di una redazione degli affreschi a dopo il soggiorno romano del pittore (Il Settecento 2011, pp. 98-9, scheda di B. Moreschini). Dal momento però che, come è noto, il capolavoro raffaellesco subì una pressoché immediata traduzione calcografica da parte di Marcantonio Raimondi, la desunzione compositiva dall’Urbinate non riveste alcun valore probatorio.

A conclusione di queste note non possiamo però sfuggire al referto stilistico delle due opere, che

indicano una vicinanza di vistosi particolari delle scene alle cose pisane di Giovanni Battista in

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partenza per Roma: i nudi ad esempio (e non solo quelli femminili, ma anche le torniture muscolari delle schiene maschili), rimandano a quelli della volta di palazzo Alla Giornata, e anche il sostanziale cortonismo delle scene (dalla Sala della Stufa di Pitti), non contraddicono certo la segnalata genealogia artistica di Giovanni Battista, segnata ai suoi esordi dal cortonismo di ritorno dei fratelli Melani e del padre. Certe eleganze narrative e compositive (specie nella prima scena), sono poi estranee al linguaggio di Domenico, mentre percorsero con una certa frequenza sin dai primi passi la pittura del figlio, anche prima di diventare una delle sue sigle maggiormente riconoscibili della sua maturità.

Questo può solo significare due cose. Che, come detto nel testo critico, i rapporti tra padre e figlio furono molto più importanti di quanto non si pensasse per la formazione culturale del figlio: non una distratta ‘filiazione’ artistica, ma un discepolato che conobbe momenti di collaborazione.

In secondo luogo significa che assai probabilmente Giovanni Battista prima della sua partenza per Roma fece in tempo a redigere i cartoni delle due opere, che vennero poi tradotti sul muro dal padre. Il ciclo, in questo senso, deve allora intendersi come opra di collaborazione.

Bibl. : Da Morrona 1812 , II, p. 546; Bellini Pietri 1913, p. 215; Frosini 1981, p. 149; Sestieri 1988, p. 316; Rasario 1990, p. 175; Settecento pisano 1990, p. 415; Panajia 2001, pp. 60-61, 72-5; Panajia 2004, p. 123; Il Settecento 2011, pp. 98-9, scheda di B. Moreschini.

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20- Accademia di nudo.

1757.

Sanguigna e gessetto su carta, mm 560 X 420.

Roma, Accademia di S. Luca, inv. B. 45.

Iscrizioni. In basso a sinistra: “GIOVANNI TEMPESTI PISANO”.

Secondo la documentazione – essenziale ma esauriente – conservata presso l’archivio

dell’Accademia di S. Luca, nel giugno del 1757 Giovanni Battista Tempesti, da poco arrivato a

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Roma per il pensionato accademico, partecipò all’accademia di Nudo, ottenendo il primo posto (AASL, vol. 33 bis, cc. n. n. ). Nel mese di giugno direttore del corso di nudo era Domenico Corvi (i direttori duravano in carica un mese), e la circostanza servì probabilmente anche per saldare quei rapporti tra la famiglia Tempesti e il maestro, che poi condurranno il pittore viterbese a dipingere un importante quadro per la Cattedrale pisana, e a intessere rapporti epistolari con Ranieri Tempesti.

Per quanto riguarda invece le possibili attestazioni bibliografiche di questo premio, risulta difficile, nei pur rapidi passaggi delle biografie coeve al pittore o immediatamente successive la sua morte, distinguere questo dal secondo premio di Nudo, vinto l’anno successivo (Ciampolini 1993, p. 166).

L’eccezione ci sembra essere costituita dal Donati, che nella biografia del pittore pubblicata nel 1775 (la prima mai scritta su di lui), nell’accennare al premio Clementino conquistato dal Tempesti nel 1758, sentì il bisogno di amplificare la fama e la bravura del pittore segnalando puntigliosamente come questo non era stato il primo riconoscimento del pittore pensionante nell’Urbe, “avendo già preventivamente nei primi giorni di sua venuta in Roma ottenuto il primo premio nell’Accademia Capitolina per il disegno del Nudo” (Donati 1775 b, p. XLII). E il premio conquistato dall’artista appena messo piede a Roma non poteva essere che questo, a giudicare da una evidente pesantezza di tratto che poi scomparirà nella grafica del pittore, e che può giustificarsi solo ritenendolo un incunabolo del percorso romano dell’artista.

Bibl. : Donati 1775 b, p. XLII; Ciampolini 1993, p. 166.

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21- Ritratto di Christian Josef Lidarti e di Giovanni Battista Tempesti.

1757.

Olio su tela, cm 72,5 X 62.

Londra, già collezione Mellon.

Iscrizioni. Sul retro, la scritta settecentesca: “IL RITRATTO DI G. C. LIDARTI E’ DI DANCE

INGLESE; LA FIGURA DEL PITTORE E’ GIOV.NI TEMPESTI PINTOSI DA A SE’”.

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Al centro è posto il musicista austriaco Lidarti, vestito in abiti pubblici, con una parrucca che ne evidenzia la fronte. Nei pressi, sotto un tendaggio, sono posti una viola, spartiti e calamaio. Sulla destra, da dietro un separé si affaccia Giovanni Battista Tempesti, ritratto con la tavolozza, la destra alzata e lo sguardo rivolto verso lo spettatore.

Il musicista austriaco Lidarti giunse a Roma nel 1757 dopo una sosta a Bologna. Nell’Urbe risiedette per poco tempo, dal momento che già l’anno successivo è documentato a Pisa, dove si stabilì definitivamente, avendone ricavato incarichi importanti, sia come strumentista (era un arpista di valore), che come responsabile della cappella musicale della chiesa dei Cavalieri di S. Stefano (CMBMB, ms. H/60, cc. 61-3, “Aneddoti musicali di Cristiano Giuseppe Lidarti Ac.co Fil.co al Rev.mo P. Maest.o Gio. B.a Martini…”, c. 63; Barandoni 2001, passim; Gaddini 2005 ).

Il dipinto, di altissima qualità e siglato dalla critica come “straordinario” (Meloni Trkluia 1989 a), costituisce uno degli esempi migliori della ritrattistica romana affrontata dal Dance nel corso del suo prolungato soggiorno romano, dove affinò una ritrattistica in bilico tra un gusto alla Batoni per il ritratto istoriato e ambientato, ed una sensibilità tutta inglese per il ritratto fisiognomico.

Nathaniel Dance era giunto a Roma nel 1754 appena diciannovenne e vi restò per ben 11 anni, raggiungendo una discreta fama di ritrattista. Tra le opere romane vi fu anche il Ritratto del musicista Pietro Nardini, del 1759, che a suo tempo è stato – a torto - considerato precedente quello qui in esame (Busiri Vici 1990, pp. 181-83; Petrucci 2010, t. II: p. 525).

Nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna esiste un altro Ritratto di Lidarti, intento a

comporre musica sorvegliato dalla musa Euterpe, che sappiamo essere stato dipinto a Pisa nel 1784

da Giovanni Stella, un allievo del Tempesti, dopo che il maestro si era rifiutato di dipingerlo. Lo

Stella, così dai carteggi, anziché imporre delle sedute al musicista (abitava ormai a Pisa, e la

circostanza sarebbe stata agevole), preferì copiare – secondo le parole del musicista - “un altro mio

piccolo [ritratto], che mi fu fatto a Roma, anni sono, dal Sig. Dance inglese”: che altro non era se

non quello dipinto dal pittore inglese nella tela in esame, come confermato dal confronto tra le due

opere (Casali 1984, pp. 52, 65, 94-5, 121; Mazza 1984, p. 68). La copia fu così esatta, da suggerire

al musicista la malinconica e divertita notazione di non essere ormai più così giovane, come

purtroppo era stato invece raffigurato dallo Stella, che si era per l’appunto basato su di un ritratto di

quasi trent’anni precedente (Frugoni 2003, p. 323 n.). La tela in esame non fu dunque “presumably

painted in Pisa” (The pursuit 1977, p. 70), ma a Roma e non nel 1759, dal momento che, come

sappiamo dallo stesso Lidarti, il musicista nel 1758 era già a Pisa. La datazione va allora anticipata

addirittura alla fine del 1757, a quando cioè Tempesti e Lidarti si trovarono ad abitare

contemporaneamente nella città papale, assieme ovviamente a Dance. Se questa ricostruzione è

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esatta, si deve allora leggere la tela come la prima opera d’invenzione conosciuta tra quante ne fece Tempesti all’arrivo a Roma per il pensionato. Considerando poi il prossimo trasferimento del musicista a Pisa, è legittimo ritenere che al Tempesti i suoi concittadini avessero assegnato il compito di avvicinarlo per convincerlo ad accettare di trasferirsi in Toscana.

Bibl. : The pursuit 1977, p. 70; Casali 1984, pp. 52, 65, 94-5, 121; Mazza 1984, p. 68; Meloni Trkluja 1989 a ; Busiri Vici 1990, pp. 181-83; Ciampolini 1993, p. 184 n.; Frugoni 2003, p. 323 n. ; Petrucci 2010, t. II: p. 525.

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22- Tredici disegni, undici a matita rossa e nera e due a penna “con retro”.

1757-60 ca.

Matita rossa e nera su carta; penna su carta, misure non note.

Già Pisa, Accademia di Belle Arti.

Al periodo della residenza romana del Tempesti risalivano verosimilmente tredici quadretti, undici dei quali con disegni a matita rossa e nera, e due a penna “con retro”, donati da Giuseppe Piazzini all’Accademia di Belle Arti di Pisa nel giugno del 1830 (AOP, Fondo Lasinio 890/3. C. n.n., s. d.).

Saranno da identificare in una parte almeno di quei trenta quadretti (tra disegni, pastelli e acquerelli) che Polloni identificò come “Primi studj” del Tempesti, donati appunto da Piazzini, che si trovavano esposti nella camera cosiddetta “dei Sordomuti” dell’istituto accademico (Polloni 1837, p. 32). I disegni, dal numero come si vede piuttosto instabile, nel 1863, all’epoca del sopralluogo in Accademia del pittore Annibale Marianini, erano diventati sette, tutti colorati e incorniciati (APM, Marianini, n.n. : appendice inedita dell’inventario dei Beni Artistici del Compartimento pisano).

Giuseppe Piazzini (1779-1833), professore di Astronomia, era figura di primo piano dello Studio

Pisano, avendo rivestito il ruolo di Direttore della Specola e di Direttore della Biblioteca

universitaria. La donazione, che allo stato attuale delle ricerche risulta impossibile definire nella sua

identità (gli esemplari risultano infatti dispersi), era costituita da preziose testimonianze del periodo

romano di Giovanni Battista, in quanto era verosimilmente parte di una donazione che l’artista

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aveva fatto all’ingegnere Michele Piazzini – padre di Giuseppe -, come risarcimento per averlo questi economicamente sostenuto durante il pensionato romano.

Della donazione faceva anche parte un quadro con Due teste di vecchi, “dipinto colle dita” sempre dal Tempesti (AOP, Fondo Lasinio 890/3. C. n.n., s. d.), che risulta anch’esso disperso.

Bibl. : Polloni 1837, p. 32; Noferi 2003 p. 250 n.

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23- Due teste di vecchi.

1757-60 ca.

Olio su tela, misure non note.

Già Pisa, Accademia di Belle Arti.

V. scheda precedente.

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24-Accademia di Nudo.

1758.

Matita su carta, misure non note.

Già Roma, Accademia di S. Luca.

Nell’aprile del 1758 Giovanni Battista, incoraggiato dal premio vinto l’anno precedente, si

aggiudicò ancora il premio per l’Accademia di Nudo, nella relativa scuola di piazza del

Campidoglio (AASL, vol. 33 bis, cc. n. n.). Secondo Da Morrona, Tempesti, giunto a Roma, “alla

prima classe di pittura concorrer dovette e ne riportò maggior premio nell'anno 1758, dopo che per

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l'innanzi ottenuto lo aveva per lo squisito disegno del nudo nell'accademia capitolina (Da Morrona 1812 , II, p. 547).

Il disegno non esiste più, e la circostanza è particolarmente dolorosa perché direttore del corso in questa circostanza fu Placido Costanzi, il suo maestro accademico, e sarebbe stato interessante poter valutare, ad un anno dal premio precedente, gli incrementi del pittore pisano sotto la guida del Costanzi, specie sotto l’aspetto dell’adeguamento ad una disciplina più pacatamente classica.

Bibl.: Diario di Roma 1805; Da Morrona 1812 , II, p. 547; Dizionario biografico 1849.

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25- Santissimo Sacramento dell’Eucharistia che fece Nostro Signore nel Cenacolo.

1758.

Matita su carta, misure non note.

Già Roma, Accademia di S. Luca.

Il 7 agosto 1758 l’Accademia di S. Luca bandiva il Concorso Clementino, che nella prova di pittura di prima classe aveva come tema “l’istituzione del Santissimo Sacramento dell’Eucharistia, che fece il nostro Signore nel canacolo”. Dopo il mese di tempo concesso per l’esecuzione dell’opera, il 6 settembre i concorrenti consegnarono i loro lavori, pronti per affrontare il giorno successivo la prova estemporanea, sotto il giudizio e il controllo di Placido Costanzi, Agostino Masucci e Stefano Pozzi (Delle lodi 1758, pp. VIII, XI-XII; AASL, vol. 51).

Principe dell’Accademia era lo stesso Placido Costanzi, che certo non avrà mancato di far sentire la propria voce sul giudizio finale e nell’assegnare il primo premio di prima classe a Giovanni Battista. Tema del concorso fu una scena che presumeva una sapiente e articolata disposizione di numerose figure, con un’attenzione compositiva che stava diventando sempre più urgente in epoca Neoclassica. Il tema risulta purtroppo inverificabile nella declinazione che ne dette Tempesti, perché il foglio è perduto, nonostante che nel primo Ottocento pare che questo, come le altre prove accademiche dell’artista, “si ved[essero] tuttora nelle sale del Campidoglio” (Giuli 1841, p. 487).

La perdita è grave anche perché il foglio documentava la prima affermazione romana di prestigio

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del Tempesti, così rilevante da essere ricordata dai biografi con insistito sussiego. Baldassare Benvenuti ad esempio sostenne che il premio fu così importante per la carriera dell’artista da favorirne “altre opere, per i particolari, che richiedevano i suoi lavori” (Ciampolini 1993, p. 166).

Ma la perdita del disegno è dolorosa anche perché non consente di poter verificare quelle voci che sosterranno come Tempesti se ne fosse poi servito molti anni dopo per dipingere l’Istituzione dell’Eucarestia in Cattedrale a Pisa (Ciardi 1990 c, pp. 116-17; Ciampolini 1993, p. 166).

Nello stesso concorso, l’altro pisano che frequentava l’Accademia di S. Luca assieme al Tempesti, il modesto Niccolò Matraini, si aggiudicò invece il secondo premio di seconda classe (I disegni di figura 1991, p. 9), a testimonianza di come Placido Costanzi, nella sua qualità di Principe accademico, tutto facesse per rendersi grato agli occhi dei Pisani, negli anni in cui stava lavorando all’importantissima commissione del Martirio di S. Torpè per la Cattedrale.

Bibl. : Delle lodi 1758, pp. VIII, XI-XII; Donati 1775 b, p. XLII; Da Morrona 1812 , II, p. 547; Grassini 1838, pp. 79, 80 n. ; Giuli 1841, pp. 486-88; Predari 1867, p. 676; Frosini 1981, p. 149; Ciardi 1990 c, pp. 116-17; Ciampolini 1993, pp. 166, 174 n.

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26-Adamo ed Eva nell’atto di vedere Abele morto.

1758.

Penna e inchiostro marrone, acquerello, gesso nero e rosso su carta, mm 189 X 260.

Mercato antiquario.

Iscrizione. In basso, la scritta antica: “SCHIZZO DELLA PROVA ESTEMPORANEA PER IL PREMIO OTTENUTO DA GIOVANNI TEMPESTI A ROMA NEL CONCORSI DELL’ANNO 1758”.

Al centro Adamo ed Eva, mentre con gesti di dolore e disperazione incontrano il corpo morto di

Abele. La scena è delimitata a destra da una casa, disegnata con tratto leggerissimo, e a sinistra da

un albero.

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Il disegno, ritenuto perduto per gran tempo, è importantissimo per i motivi bene illustrati nella iscrizione che lo correda in basso, che consente di porlo in relazione alla vittoria ottenuta dal pittore nel concorso Clementino dell’Accademia di S. Luca nel 1758, quando il Tempesti fu tenuto come stabilito dal regolamento a produrre una prova estemporanea davanti alla commissione (guidata da Placido Costanzi, e con Agostino Masucci e Stefano Pozzi come custodi), sì da confermare l’autografia del foglio in concorso, raffigurante il Santissimo Sacramento dell’Eucharistia, consegnato il 6 settembre 1758 (Delle lodi 1758, pp. XI-XII). La prova estemporanea si tenne il 7 settembre 1758 nella sede accademica, su un tema che secondo il biografo consisté nel

“ritrovamento da’ nostri primi Padri dell’ucciso Abele”, e Tempesti stupì la commississione perché nonostante avesse a disposizione ben due ore di tempo, “in men d’un ora lo compì, n’ebbe feste, se ne parlò” (Grassini 1838, p. 80 n.).

Secondo la scheda catalografica prodotta in occasione della vendita all’asta del foglio, questo in origine sarebbe stato conservato in una ignota collezione pisana ottocentesca (Aldega-Gordon 2000, pp. 126-27, n. 55): ci chiediamo non si fosse trattato di uno dei fogli portati da Roma dall’artista, e donati alla Pia Casa di Misericordia, che, come abbiamo visto, li espose a lungo nella propria sede.

Bibl. : Delle lodi 1758, pp. XI-XII; Grassini 1838, p. 80 n.; Frosini 1981, p. 149; Aldega-Gordon 2000, pp. 126-27, n.

55.

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27- Carità.

1758 ca.

Olio su tela, cm 118 X 89.

Mercato antiquario.

Il dipinto, passato sul mercato antiquario inglese con un’attribuzione dubitativa al Tempesti

(Phillips 1995, p. 121), è opera problematica. La donna, seduta col seno scoperto ma riccamente

panneggiata, reca un bambino fasciato sul grembo, mentre un’altra coppia di fanciulli le si

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appoggiano davanti e dietro. Sullo sfondo un pesante tendaggio, che lascia aperta la porzione di un balcone.

Stilisticamente l’opera pare effettivamente assegnabile alla mano del Tempesti: i volti dei putti, segnati da un sorriso con una punta di colloquiale umanità, e il rapido scorcio di quello della donna, sono compatibili con il linguaggio giovanile del pittore, quello insomma non ancora fissato nelle sigle della sua attività più matura. L’architettura poi della scena ci sembra vicina alla Sacra Famiglia dipinta dal pittore a Roma, sebbene dal punto di vista più strettamente stilistico la tela non mostri di risentire di Benedetto Luti (altrove invece assai presente) e neppure di Pompeo Batoni, ma semmai di Placido Costanzi (v. Latona e i contadini della Licia nella Collezione Lemme), circostanza che consentirebbe di situare l’opera agli esordi del soggiorno romano del pittore.

Bibl. : Phillips 1995 lotto 114, p. 121.

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28- Ritratto della contessa Strozzi.

1758 ca.

Olio su tela.

Già Monaco di Baviera, collezione Helbing.

Del Ritratto si conserva solo una modesta fotografia presso la Fototeca del Kunsthistorishes Institut di Firenze, dove è indicato come passato alla vendita Helbing di Monaco di Baviera il 7 dicembre 1903. L’unico studioso che se ne è occasionalmente interessato l’ha giudicata come una teletta che non sembrava possedere i requisiti per individuarvi la mano del Tempesti (Ciampolini 1993, p. 184 n.). Ad una rinnovata lettura però il giudizio – per quanto consentito dalla foto – potrebbe risultare più benevolo, al punto da consentire di giudicare il dipinto come di mano dell’artista pisano:

un’opera giovanile ancora sulla scia del padre, ma ancor di più influenzata dalla ritrattistica del

Domenico Tempesti fiorentino, sebbene qui ridimensionata a causa di un’espressione imbambolata

della donna e da una conduzione pittorica non proprio impeccabile. Il fatto però che Giovanni

Battista appena arrivato a Roma sia entrato in contatto col ramo romano della famiglia fiorentina

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