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Il vecchio e il radiologo C 7

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Academic year: 2022

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Il vecchio e il radiologo

Edmondo Comino

Nel suo splendido saggio dal titolo Vivere nel presente, Lionello Sozzi, non so quanto inconsciamente, offre un prezioso quadro dell’anziano nel suo rapporto con il tempo.

Era da tempo noto che gli anziani sono sempre più numerosi e sempre più emargi- nati in un’età in cui il corso degli eventi è sempre più accelerato e sempre più accentuati sono l’attivismo e l’egoismo degli altri, ma poco approfondito era invece il loro rap- porto con il presente, il passato e il futuro. Cosa indispensabile da sapere e ricordare anche per noi medici, che dobbiamo prima conoscerli e comprenderli per poi curarli.

L’anziano, quasi sempre, vive, infatti, nel presente. Cioè “nell’assaporare, come diceva Rousseau, il sentimento dell’esistenza, esistere in armonia con le cose, scoprirsi, come disse Ungaretti, una docile fibra dell’universo. Ma accanto al presente dei momenti pri- vilegiati, estatici, divinamente contemplativi, c’è il presente della sofferenza, dell’assenza, del male fisico, del male di vivere, e c’è il presente dell’insignificanza o il presente sprecato in futilità, la povera vacuità degli spazi temporali che grigiamente s’impaludano. Chi accetta tale grigiore mai risale a pensieri d’eterno né a desideri e struggimenti sempre in qualche modo sollecitati da ricordi di passato, da prospettive di futuro” [1].

È una tristezza che è angosciosa talora, specie in quei molti la cui esistenza non è illuminata e riscaldata dalla Fede e dall’affetto grande e costante di chi è loro vicino e la cui vita che si fugge è stata mirabilmente riassunta da Volney con le note parole “tout en sensations, peu en souvenirs, point en espérances”

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[2].

Nell’anziano malato, che è quello che sempre più frequentemente noi incontriamo, si aggiunge una rassegnazione talora disperata:

“Non chiedo che tu mi guarisca:

offesa sarebbe la domanda che esaudire non puoi.

Chiedo che tu mi salvi, che non mi lasci per sempre soggiacere a questa quotidiana morte” [3].

Credo che la geriatria (e quindi anche il radiologo geriatra) debba rendersi conto di questa situazione non certo nuova, ma che oggi l’invecchiare di più tanti ha reso par- ticolarmente evidente e drammatica. In un suo indimenticabile editoriale, Trabucchi [4] giustamente afferma che “la geriatria - come cultura e come prassi - ha il dovere di compiere un ulteriore passo avanti rispetto al passato per poter continuare a guidare un’e- voluzione che negli ultimi decenni ha portato a un continuo progresso nella qualità

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Tutto in sensazioni, poco in ricordi, niente in speranze

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delle cure prestate alla persona che invecchia”. E aggiunge che è nostro dovere “riap- propriarci della nostra umana capacità di vedere prima l’evoluzione del mondo com- battendo contro una tecnica che ci ha privato di ogni capacità di guida degli eventi, rendendoci ciechi e distratti”.

Sembra un invito, un comando, quasi, rivolto proprio a noi che della tecnologia siamo i paladini e in qualche misura gli schiavi. Anzitutto, è necessaria una domanda.

Che cosa vuole l’anziano e malato da noi e che cosa dobbiamo fare per lui?

Credo che l’anziano, specie se malato, desideri che la sua sofferenza e il suo dolore ven- gano anzitutto riconosciuti e poi leniti. Le malattie cronico-degenerative, la sua sempre crescente fragilità del corpo e dello spirito, le sue stesse condizioni di vita non sempre rendono quindi necessaria e utile una diagnosi “di fondo” con le più sofisticate tecno- logie quanto piuttosto un’attenzione più umana ai dettagli del suo racconto, a un esame (clinico e anche radiologico) più attento di quei particolari per lui essenziali e da noi tra- scurati nell’abituale scarsa e frettolosa anamnesi che sovente porta a inutili indagini.

Per l’anziano ammalato può avere scarsa importanza l’esattezza della diagnosi o il suo approfondimento con le più sofisticate metodiche, come pure il conoscerla nella freddezza dei dettagli; più frequentemente egli cerca di affidarsi senza riserve a un medico che si faccia carico completamente delle sue difficoltà e “che non lo lasci solo di fronte alla sofferenza e all’angoscia, per avere qualcuno cui chiedere aiuto per capire e guarire; o per adattarsi, sopportare, forse infine morire” [5].

Queste poche note sui desideri dell’anziano hanno però molti ed essenziali risvolti nella nostra quotidiana attività che non dovrebbe più soggiacere al nostro vizio ance- strale di “non vedere il paziente né parlare con lui” con il comodo quanto antico alibi che il nostro vero interlocutore è il medico inviante e che le immagini ci parlano di più e meglio del paziente stesso.

Poi, si possono delineare alcune possibili risposte.

L’incontro (l’anamnesi, la visita)

C’è l’anziano che ama raccontare e quello che preferisce “affidarsi” al medico: si richie- de quindi da parte nostra un approccio diverso, ma in ogni caso attivo e personale, evi- tando comunque di delegare ad altri (anche al più giovane collega o al tecnico) questo atto essenziale della nostra professione.

L’ascolto del suo racconto ci permetterà di vedere con grande chiarezza la vita e il male dell’anziano avvicinandoci prodigiosamente alla diagnosi e soprattutto alla compren- sione del suo stato; ci permetterà di portarlo serenamente a ogni anche fastidioso o doloroso intervento diagnostico, se davvero necessario; ci permetterà di instaurare quel rapporto di simpatia e di fiducia indispensabile quando dovremo ottenere un formale consenso o comunicare una diagnosi infelice. Più semplice sarà la situazione quando ci verrà detto “faccia lei, dottore...” con la parola o con un semplice sguardo.

È ancora Trabucchi che insiste sulla necessità del “rito che passa necessariamente

attraverso il contatto fisico” (non sarà legato a questo l’esplodere e il continuo diffon-

dersi dell’ecotomografia?) ricordando che “questi aspetti … con il tempo si sono perduti

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sotto la pressione di un approccio pseudotecnologico che ha improntato, seppure indi- rettamente, anche un atteggiamento culturale di perdita di valore di qualsiasi atto che non fosse di alto contenuto tecnico”.

Un paziente difficile e particolare come l’anziano richiede quindi da parte nostra una tranquilla presenza al suo fianco, breve magari, ma densa di attenzione e di condivi- sione.

La parola (l’informazione e il consenso)

È noto che il Codice Deontologico dispone che il medico “non deve intraprendere atti- vità diagnostica e/o terapeutica” senza avere ottenuto il consenso del paziente espres- so consapevolmente sulla base della “più idonea informazione sulla diagnosi, sulla pro- gnosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle pre- vedibili conseguenze della scelta operata”.

Questa disposizione trova il suo fondamento morale (e giuridico, che credo inutile ricordare) nel diritto all’autodeterminazione riconosciuto dalla legge a ogni soggetto in grado di intendere e di volere, ma nel caso dell’anziano e più ancora dell’anziano mala- to rende necessaria qualche riflessione e qualche riserva.

Risulta infatti evidente che l’età avanzata e lo stato di malattia, le sofferenze e le preoccupazioni possono sovente rappresentare “un inevitabile condizionamento della volontà del soggetto e quindi una ulteriore limitazione del suo potere decisionale. Per- tanto … il suo consenso o dissenso sul programma procedurale comunicatogli dal medico non sarà mai libero … Ed è appunto la consapevolezza della sua incompeten- za e della sua ridotta capacità di autodeterminarsi che induce la persona sofferente ad affidarsi a un competente che gli ispiri fiducia, obbedendo più all’istinto che al razio- cinio e stabilendo perciò con il suo interlocutore una relazione che, per quanto occasionale e contingente, ha una valenza umana più che tecnica e burocratica” [6].

Non è tanto un problema cosa dire e cosa tacere all’anziano, quanto piuttosto quel- lo di come spogliarsi “dell’insidiosa tentazione di comunicare tra pari, come se si trat- tasse di un collega. Occorre vigilare sempre attentamente, con sensibilità, per non rischia- re di imporre più conoscenze di quante siano necessarie, o gradite, all’interlocutore”. Molti anziani, infatti, “non solo preferiscono delegare le decisioni tecniche, ma addirittura vorrebbero affidarsi senza riserve a un professionista che si faccia carico completa- mente delle loro difficoltà e soprattutto della loro angoscia. Taluni rinunciano perfino a capire. Faccia lei, dottore, io preferisco non sapere, ti sentirai dire non appena accen- ni a una spiegazione” [5].

Dobbiamo ricordare che il dovere di informare “che obbliga il medico a fornire l’in- formazione e quindi il paziente a riceverla, contrasta infatti con un principio di liber- tà personale anch’esso compreso nel diritto all’autodeterminazione, qual è quello del rifiuto di sapere per non essere costretti a decidere in proprio dal momento che l’in- formazione, in particolare se di segno negativo e quindi nociva all’equilibrio menta- le di chi la riceve, non può essere imposta ma fornita soltanto su esplicita richiesta dell’interessato” [6].

Una particolare cautela nell’informare e talora la grave quanto necessaria respon-

sabilità di tacere devono quindi guidarci nel quotidiano difficile colloquio con l’anzia-

no malato anche nella talora necessaria richiesta del suo consenso.

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La pietà (l’accanimento diagnostico-terapeutico)

Non intendo tanto riferirmi a quello terapeutico, sovente causa di un dubbio dramma- tico per il medico che deve scegliere fra accanimento e abbandono, entrambi vietati dal nostro Codice Deontologico e soprattutto dalla nostra morale, quanto piuttosto alla più subdola e frequente tentazione, che il medico radiologo incontra sovente nel suo difficile cammino quotidiano, che richiede di giungere a diagnosi sempre più certe e più complete.

Ognuno di noi ha bene in mente quegli occhi sbarrati, quel tenue lamento di anzia- ni che venivano portati in radiologia in stato terminale, o quasi, per un fastidioso cli- sma opaco o per una TC con contrasto: essi chiedevano soltanto di essere lasciati in pace nella loro intimità, e noi dovevamo invece tristemente quanto scrupolosamente tormentarli per tentare di giungere a una diagnosi più esatta, più completa che però non avrebbe forse resa possibile alcuna diversa terapia - la medical futility della recen- te letteratura tedesca e anglosassone [7-10]. Tante volte ci siamo chiesti se tutto questo era doveroso, morale, giusto.

È una domanda che spesso ci assilla e alla quale non è facile dare la risposta poiché, come ha autorevolmente ricordato Pessina [11] nel recente Convegno milanese di Medicina e Persona,“accanto alla sofferenza del paziente c’è anche la sofferenza del medico … In un contesto come quello odierno caratterizzato da cambiamenti culturali molto forti e nel quale disponiamo di strumenti tecnologici particolarmente sofisticati … è necessario fare non solo ciò che è tecnicamente possibile, ma ciò che è moralmente legittimo”.

Facciamoci comunque la domanda in quelle occasioni, sempre, senza nasconderci die- tro il comodo alibi: “è il medico che ci ha chiesto l’esame”.

Ed è anche essenziale ricordare che il medico (radiologo e non) ha obblighi precisi nei confronti del paziente e di nessun altro, evitando quindi con cura indagini, specie se fastidiose o pericolose, se prive di una chiara utilità ai fini della terapia, eseguite sol- tanto perché richieste dall’affannoso e non sempre sincero zelo dei familiari. Colleghi e familiari dovranno conoscere i motivi del nostro rifiuto (o rinvio) di tali pratiche dia- gnostiche di cui la legge e la morale ci fanno i soli responsabili.

Conclusioni

Ho in precedenza proposto tre temi per una riflessione e un approfondimento: l’a- namnesi e la visita, l’informazione e il consenso, l’accanimento diagnostico. Sono tre aspetti del nostro dovere professionale che nell’anziano vanno modificati ed enfatizzati nella luce della bioetica, cioè attraverso la “riflessione morale sui problemi medici, bio- logici e scientifici nel loro rapporto con la vita” [12]. Si tratta di una disciplina da sem- pre latitante nelle nostre scuole di specialità e nella sezione di studio che dovrebbe occuparsene, ma che in geriatria (come in pediatria) acquista un ruolo essenziale.

In geriatria (e quindi in radiologia geriatrica), specialità “trasversale” come la pedia-

tria, non è assolutamente ammesso né quasi possibile dividere l’uomo in apparati e in

parti diverse (difficilmente sostenibile, quindi, la figura del radiologo geriatra “d’orga-

no”), ma l’anziano deve essere considerato nella sua complessità, nella sua peculiare

polipatologia come anche nella sua altrettanto peculiare fragilità umana, nel suo desi-

derio dell’altro come nella sua abitudine alla solitudine, nella sua ansia di condividere

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più ancora che di sapere, nella sua paura di soffrire più ancora che di morire, nella sua pesante quotidianità così splendidamente descritta da Montale:

“Difficile è credere che sia un dono la vita quando si trascina una stanca esistenza e il vivere d’ora in ora ci tortura”[12].

La condivisione e la compassione, come ancora suggerisce Trabucchi, devono quin- di essere alla base del nostro lavoro con l’anziano: “La compassione è capacità di com- prensione del dolore altrui e quindi premessa a un intervento che conosce nel pro- fondo il disagio di chi è oggetto di cura; non deve quindi essere interpretata in senso deteriore, come atteggiamento pietistico di fronte alle difficoltà dell’altro … ma che si esprime al meglio nel rispetto dell’altro (il paziente anziano) che ha bisogno di sentirsi aiutato”.

Diagnosticare le malattie o la loro assenza è oggi molto più facile grazie ai continui progressi della tecnologia, ma ritengo che il vero e decisivo progresso culturale sia quel- lo di portare nel nostro lavoro, specie in quello con l’anziano, quei presupposti etici che ho cercato di ricordare e che penso possano essere la giusta introduzione a questo libro di alto valore scientifico.

Bibliografia

1. Sozzi L (2004) Vivere nel presente. Il Mulino, Bologna 2. Volney C (1864) Oeuvres complètes. Firmin Didot Ed, Paris 3. Turoldo DM (1999) Ultime poesie. Garzanti, Milano

4. Trabucchi M (2001) È possibile un pensiero forte nella cura dell’anziano. G Gerontol 49:263-267 5. Cosmacini G, Satolli R (2003) Lettera a un medico sulla cura degli uomini. Laterza, Bari 6. Ermini M (2002) Il consenso informato tra teoria e pratica. Medicina e Morale 52:493-504 7. Barron JS, Duffey PL, Byrd LJ (2004) Informed consent in frail older persons. Aging Clin Exp

Res 16:79-85

8. Becker G, Blum HE (2004) Medical futility: the doctor between the demands for and the limi- tations of treatment. Dtsch Med Wochenschr 129:1694-1697

9. Mueller PS, Hook CC, Fleming KC (2004) Ethical issues in geriatrics: a guide for clinicians. Mayo Clin Proc 79:554-562

10. Wreen M (2004) Medical futility and physician discretion. J Med Ethics 30:275-278 11. Pessina A (2004) citato da Corticelli A. In: Il malato “critico”: accanimento o abbandono?

www.culturacattolica.it

12. Montale E (1995) Diario postumo. Mondadori, Milano

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