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Profili costituzionali del fine vita

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Una paradossale attualità da assenza di attualità

Il presente lavoro si propone di analizzare alcune delle tematiche inerenti alla materia del fine vita, pur nella consapevolezza che nemmeno la più autorevole dottrina, nei suoi più voluminosi trattati, ha la pretesa di esaurire tutti gli aspetti che possono venire in considerazione quando si affrontano problemi così eticamente connotati e giuridicamente complessi. Basti a proposito pensare che da qualsiasi prospettiva si osservi il problema – penale, civile, costituzionale, comparatistica, filosofica ecc. - non vale ad alleviare la sensazione di incompiutezza il conforto dei limiti segnati dalla singola branca del diritto né, del resto, per coglierne adeguatamente il senso più profondo, pare ragionevole procedere per compartimenti stagni.

Tutto ciò doverosamente premesso, con questa tesi si è inteso trattare principalmente i profili costituzionalistici toccati dall’irruzione della tecnica nella medicina. Questo processo, allo stato attuale, mostra conseguenze alle volte aberranti per quanto riguarda quello che è stato definito come il diritto al governo del proprio corpo.

Di fronte al portentoso incedere del progresso medico, in grado di offrire soluzioni terapeutiche che fino a pochi decenni fa sarebbero state

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semplicemente inconcepibili, il malato si trova a vivere paure che suonano come naturalmente incomprensibili: se infatti nel passato si poteva considerare come la peggior fine possibile quella della morte apparente, oggi la situazione si è completamente ribaltata, ed il paziente può realisticamente trovarsi a temere di non riuscire a morire, vedendo il suo corpo ostaggio della tecnica e trascinato indefinitamente ben al di là dei confini della propria coscienza e volontà, oltre che della stessa natura. E’ riguardo a queste paure che il Diritto è chiamato ad interrogarsi e a dare risposte. E’ di fronte ai drammi in cui può ritrovarsi qualsiasi cittadino, che è chiamato a presidiare i diritti fondamentali della persona, proprio nei momenti in cui questi svelano nella maniera più percepibile la loro funzione, e in cui divengono nella maniera più assoluta irrinunciabili ed incomprimibili.

Si osserva purtroppo, a riguardo, come non tutti i formanti del Diritto abbiano saputo offrire una risposta adeguata. Se infatti da un lato è possibile scorgere un file rouge nell’opera di definizione e concretizzazione dei diritti coinvolti realizzata da una giurisprudenza la quale, pur tra mille difficoltà e ripensamenti, è riuscita a seguire una propria rotta, quella della immediata precettività delle norme costituzionali rilevanti, capace di garantire quantomeno una tutela minima alle esigenze del malato, lo stesso non si può certo dire riguardo al legislatore. Su temi quali la consistenza del diritto alla salute specie nel suo risvolto negativo, sugli assetti da rispettare e garantire all’interno

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della relazione di cura, sul valore del consenso all’interno della stessa, sull’irragionevolezza dell’attuale impianto sanzionatorio, gli interventi legislativi sono stati frammentari e altalenanti, così che quello che si percepisce è perlopiù un perdurante silenzio.

Rivolgendo uno sguardo al recente passato, da alcune censurabili iniziative legislative ad altre apprezzabili proposte prematuramente abortite, si può tentare di avanzare una prima conclusione, che è forse allo stesso tempo anche premessa: paradossalmente, è proprio la relativa non attualità della tematica del fine vita a renderla tremendamente attuale.

Quello che si vuole suggerire con questa espressione è che l’assenza di quel clima sfavorevole, rappresentato nel passato dai drammatici e prolungati casi Englaro, Nuvoli, Welby, così come, seppur in maniera minore, dalle vicende provenienti da oltreconfine, potrebbe segnare un momento particolarmente propizio per tentare un ragionamento costruttivo, che sappia avvicinare le diverse posizioni, individuando un terreno di valori condivisi sui quali si possa fondare quella tutela giuridica che un ordinamento maturo deve saper offrire ai propri appartenenti.

Troppo spesso, infatti, in concomitanza con i casi appena citati, caratterizzati da così vasta eco mediatica, le posizioni che hanno avuto accesso al dibattito si sono rivelate irrimediabilmente polarizzate,

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perdendo di vista la prospettiva giuridica che dovrebbe sempre e comunque rappresentare il fondamento di ogni decisione del legislatore.

Il risultato osservato è stato troppe volte quello, sconfortante, di una strumentalizzazione delle vicende umane di questi soggetti, sconfinando addirittura in vere e proprie prevaricazioni, come nel caso del ricorso alla decretazione d’urgenza negli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro.

L’obiettivo a cui tendere, col conforto finalmente della norma positiva, pare allora inevitabilmente essere quello di restituire alla morte una dimensione umana, intima ed individuale, che ciascuno sia messo in grado di vivere conformemente al proprio sentire, ed al riparo da scelte che discendono da morali altrui.

La speranza quindi che si associa a questo contributo è quella che si possano finalmente affrontare in maniera onesta e senza preconcetti, in maniera laica verrebbe da dire, i temi legati al fine vita. La speranza, cioè, che se finora non si è riusciti, è solo perché, come insegna la dottrina anglosassone, hard cases make bad laws.

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CAPITOLO PRIMO

L’EUTANASIA NELLA STORIA E NELLA FILOSOFIA

1. L’ eutanasia nella storia e nella filosofia

L’attuale accezione di eutanasia altro non è se non l'ultima tappa dell'evoluzione storica di un concetto antico. Difatti, nel corso dei secoli, il lemma è stato associato ad una moltitudine di aggettivi che ben riflettevano il sentire dei diversi popoli e delle diverse epoche con riguardo alla vita (e quindi alla morte) ed al rapporto tra il singolo e la collettività. Il punto di partenza di questo succedersi di etiche, di morali, di politiche, spesso così diverse da potersi definire tra loro inconciliabili1, può probabilmente esser fatto risalire alla Grecia antica. Qui ha infatti avuto origine il termine, sintesi delle parole εὔ e θάνατος, traducibile, letteralmente, come “buona morte”.

Il percorso di avvicinamento all'attuale accezione del termine, ossia l'eutanasia pietosa, rappresenta allo stesso tempo l'occasione per una opportuna selezione dei caratteri irrinunciabili che il concetto deve presentare per poter essere oggetto di trattazione nel presente lavoro.

1 Così ad esempio M.CHARLESWORTH, L'Etica della Vita. I dilemmi della

bioetica in una società liberale, Donzelli, Roma, 1996, pp. 146 ss., che contesta alla

radice l'utilità dell'utilizzo del termine, dati i significati assolutamente contraddittori che le sono stati attribuiti nel tempo.

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Il primo, fondamentale, discrimen a cui si deve fare riferimento è la natura del rapporto tra individuo e collettività. I fenomeni eutanasici possono infatti essere ricondotti tanto a motivazioni individualistiche, quanto a utilità programmate collettive, quindi eteroimposte.

Potrà allora apparire sorprendente constatare come l’evoluzione del senso e del contenuto del termine “eutanasia” abbia seguito uno sviluppo niente affatto lineare, osservandosi, paradossalmente, una contiguità concettuale spesso inversamente proporzionale alla distanza nel tempo.

Nella Grecia antica infatti, la morte era considerata come la firma in calce alla propria biografia, e sovente la bontà della prima era misura della qualità della seconda.

Poteva allora trattarsi tanto di una morte serena, rapida ed indolore2, quanto invece prescindere da quest’ultimo carattere, purché si rivelasse foriera di onori, come ad esempio quella avvenuta nel compimento di eroiche azioni sul campo di battaglia3.

Ancor più vicino al sentire odierno l'accezione del termine che Svetonio attribuisce ad Augusto. Dalle parole del grande imperatore, si evince il desiderio per sé, e l'augurio per i suoi cari, più volte confessato, di una morte dolce, rapida, priva di inutili sofferenze. Non casualmente

2 Il poeta comico Posidippo di Cassandra parla di una morte “dolce e facile” in A. BAILLY, Dictionnaire grec-français, Hachette, Parigi, 1935, alla voce εὐθανασία 3 Può citarsi in proposito, il modello di morte ideale riferito da Erodoto, nel dialogo

tra Solone e Creso. Qui, Solone indica Tello come l'uomo più felice che abbia mai incontrato, in quanto ha vissuto una vita serena, agiata, ricca di soddisfazioni sotto ogni aspetto, conclusasi poi nella maniera più gloriosa, cioè sul campo di battaglia, cosa che gli valse gli onori dei compatrioti e schiuse al suo autore la memoria eterna. ERODOTO, Le storie, Sansoni, Firenze, 1951

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Augusto era solito riferirsi ad un simile trapasso utilizzando proprio il termine Eutanasia.

Si può allora facilmente osservare come sia saldo il contatto tra una simile visione e quella dell'odierna eutanasia pietosa. Entrambe, infatti, si collocano in una dimensione individualistica ed umanitaria.

La concezione greca e latina sottende un’idea della dipartita come qualcosa di cui è artefice principale proprio il morente, come ultima occasione offertagli per l’affermazione della propria personalità. Le parole di Svetonio ci raccontano infatti l’assenza di medici attorno al capezzale di Ottaviano.

Collocando un simile pensiero nella contemporanea società della tecnica, in cui spesso la morte da evento diviene processo, ecco allora che l'eutanasia si caratterizza quale invocazione, diritto personalissimo dell'individuo di decidere il tempo ed il modo in cui abbandonare questo mondo4.

Si accennava in precedenza all’assenza di linearità nell’evoluzione del termine. Numerosi sono infatti, nel corso dei secoli, i casi in cui la parola eutanasia è stata accostata ad aggettivi che valgono a collocarla in una dimensione marcatamente utilitaristica e collettivistica.

4 C. TRIPODINA, Il diritto nell'età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Jovene, Napoli, 2004 pp.26-27

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Gli esempi in questo senso possono farsi risalire sino alle culture più arcaiche, come documentato in civiltà post-neolitiche5, e spingersi fino a giungere agli orrori dell'Euthanasieprogramm nazista.

Il collocare l'individuo, il suo benessere e le sue esigenze, in una posizione subordinata a quella della collettività è stato quindi costume frequente nel corso dei secoli.

Neppure l'avvento del cristianesimo può dirsi di per sé sufficiente a superare questa concezione, radicata forse più a livello politico che morale. Se non stupisce, nel pre-cristianesimo, assistere a fenomeni in questo senso, come il costume spartano di gettare dal Taigeto i neonati deformi, o il riconoscimento giuridico da parte del diritto romano dello ius vitae ac necis del pater familias sui propri filii, interessante è invece notare come una subordinazione del bene-vita dell'individuo rispetto al superiore interesse della società sia ancora assai evidente in epoche in cui il cattolicesimo rappresentava l'etica ampiamente dominante.

Il cristianesimo censurò sì qualsiasi pratica di eutanasia eugenetica ed economica, sull'assunto che la vita umana ha un valore in sé che trascende la contingenza sociale in cui si svolge 6, ma non valse a scardinare definitivamente il modello sociale utilitaristico che vede il singolo come strumento della società.

5 Gli studi effettuati sulla tribù antropofaga dei Batak dell’isola di Sumatra hanno fatto emergere l’uso di cibarsi dei componenti più deboli o indesiderati della comunità.

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Chiara testimonianza è data dagli scritti di un fondamentale pensatore cattolico, come Tommaso Moro, il quale ancora, nel XVI secolo, teorizzava per la sua isola di Utopia un ricorso sistematico ad una forma di eutanasia economica per quanti, ormai incurabili ed inetti a qualsiasi compito, semplicemente sopravvivano alla propria morte, gravando sulla parte vitale della nazione. 7

Passaggio altrettanto fondamentale per l’evoluzione del termine è quello segnato da Francesco Bacone, grazie alle cui analisi, contributo al processo di naturalizzazione e sconsacrazione dell’esistenza all’epoca in corso, fa sì che la tematica dell’eutanasia entri a tutti gli effetti nel campo dell’etica medica. Tre infatti sono i compiti che egli attribuisce alla medicina: mantenere o far recuperare la salute, lenire le sofferenze ed i dolori, ed infine offrire all’incurabile una morte che assomigli ad un “piacevole e benigno addormentarsi” 8

7 T. MORO, Utopia, Laterza, Bari, 1982, pagg. 97–98 “I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gl’incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole; altrimenti chi si dà morte per motivi non giusti agli occhi dei sacerdoti e del senato, non lo ritengono degno di esser seppellito o cremato, ma viene ignominiosamente gettato senza tomba in qualche pantano”.

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Nella sua opera Bacone rivolge anche sferzanti accuse alla condotta dei medici, a suo modo di vedere troppo passivi dinanzi alle sofferenze del malato. Recuperando infatti gli insegnamenti ippocratici sul triplice ruolo della medicina (eliminare le sofferenze del malato, attenuare la violenza delle malattie, non toccare coloro nei quali il male è più forte), sottolinea come nella sua epoca i medici siano sproporzionatamente ligi al terzo insegnamento a discapito degli altri due, che imporrebbero loro, invece, di attivarsi per offrire il miglior comfort al paziente incurabile. Non è questione di facile interpretazione se Bacone intendesse promuovere la diffusione di una “terapia palliativa ante litteram”, o se addirittura intendesse accogliere l’idea di un intervento attivo dei medici per la soppressione compassionevole della vita del malato terminale. A prescindere da quale possa considerarsi la più corretta interpretazione del pensiero baconiano9, risalta comunque il suo fondamentale contributo nella medicalizzazione dell’eutanasia.

Volendosi poi individuare il momento in cui l’evoluzione del concetto di eutanasia ha cominciato a muoversi su quella che in retorica si definisce una “china scivolosa”, probabilmente non sarebbe azzardato rivolgere lo sguardo all’opera di Auguste Comte, padre del positivismo. Il filosofo francese infatti giunse a teorizzare un “mortalismo sistematico sociale”, grazie al quale, sotto la direzione di un gruppo di sociologi,

9 J. Y. GOFFI, Pensare l’eutanasia, cit. pp.15-18 offre convincenti argomentazioni in favore dell’interpretazione più mite, ossia offrire al malato quelle che oggi

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fosse possibile programmare e controllare l’intero ciclo vitale dell’uomo, ottimizzandolo in funzione delle esigenze della società. La china fu poi percorsa a passi sempre più rapidi a cavallo dei secoli XIX e XX, sulla scia delle teorie darwiniste, le quali si spinsero ad affermare che alla vita degli esseri umani fosse possibile attribuire un valore proporzionale all’apporto che fossero capaci di fornire alla società, di modo che l’esistenza di ignoranti, anziani e donne, dovesse collocarsi ad un livello inferiore rispetto a quella degli uomini nel pieno vigore, concludendo che la morte nelle categorie più deboli fosse irrilevante per la collettività, se non addirittura auspicabile10.

Abbandonando il piano filosofico e guardando all’applicazione pratica del concetto di eutanasia, è a questo punto immediato osservare come nella storia, si sia assistito alla soppressione di vite nel perseguimento degli interessi di volta in volta ritenuti preminenti, e come questi interessi, tradotti in aggettivo, siano valsi a caratterizzare la vasta fenomenologia del termine in questione. Esempi di queste utilità programmate dalla società, cui subordinare l’esistenza del singolo, e più segnatamente le sorti ultime dell’ampia categoria degli indesiderati, possono essere il miglioramento della razza (è questo il caso della eutanasia eugenetica); o l'eliminazione di soggetti incapaci di contribuire al benessere o alla potenza della collettività, rappresentanti piuttosto un 10 C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica, cit., p.23-24

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fardello in termini economici per la parte produttiva (è appunto il caso dell'eutanasia economica); ancora, la soppressione di soggetti ritenuti socialmente pericolosi (eutanasia criminale)11 o affetti da malattie epidemiche (eutanasia profilattica) 12.

Carattere comune a tutte queste forme eutanasiche è la eteroimposizione, e ciò vale assolutamente a distinguerle dall'attuale concezione dell'eutanasia operata perché, mossi dalla compassione, si vuole risparmiare a chi ne faccia richiesta le inutili sofferenze di una morte che tarda a giungere, così come a delimitare il confine tra ciò che sarà trattato all'interno di questo lavoro e ciò che non potrà esserlo.

E’ di immediata percezione come la forma che prenderemo in considerazione per una più approfondita analisi si differenzi radicalmente da tutte le distorsioni che del termine sono state fatte nel corso della storia13, tanto sotto il profilo teleologico quanto sotto quello assiologico. Il ribaltamento della prospettiva, ad oggi esclusivamente incentrata su un 11 Ossia nient’altro che la pena di morte, tuttora ammessa in larga parte del mondo, la

quale peraltro può spesso realizzarsi attraverso metodi tutt’altro che indolori. T. CHECCOLI, Brevi note sulla distinzione tra eutanasia attiva e passiva, in www.forumcostituzionale.it, 2008, p.3

12 C. TRIPODINA, aggiunge alla schematizzazione già dovuta a R. ROMBOLI ,

Commento all’articolo 5 del codice civile, in A. SCIALOJA – N. BRANCA (a cura

di), Commentario al codice civile, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 301, il caso della distanasia. Su quest'ultima, tuttavia, l'autrice ammonisce circa l'ambiguità del suo utilizzo nelle diverse dottrine.

13 E’ interessante notare come ai tempi del nazismo vi fosse in buona parte della scienza medica la consapevolezza di tale distorsione. Durante il processo di Norimberga del 1946 lo psichiatra e storico della medicina, prof. Leibbrand, chiamato a testimoniare, sottolineò come molti medici fossero ben consapevoli dell’utilizzo del termine in una accezione assolutamente snaturata, fondata su una concezione, più politica che scientifica, dell’essere umano quale portatore più o meno sano di qualità biologiche. Così J.Y. GOFFI, Pensare l’eutanasia, cit., pp.21-23

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sincero individualismo umanitario, ha fatto sì che il problema dell’eutanasia non abbia più a che fare con la “protezione della società dalla conturbante presenza di malati”, ma al contrario con “il diritto del soggetto ad essere protetto ad opera dello Stato contro la sua stessa malattia”14. In altri termini, non si discute oggi se uno Stato possa imporre la morte ad una persona, quanto invece se possa imporgli la vita.

2. L’eutanasia oggi: quale eutanasia pietosa?

Si è dunque appurato come l'odierno dibattito sull'eutanasia verta solo ed esclusivamente sulla forma c.d. pietosa, ed è assolutamente auspicabile che l’esperienza abbia definitivamente insegnato che cosi debba essere. 15

Tale affermazione, tuttavia, non risulta affatto concludente dal momento che al suo interno la stessa presenta ulteriori e fondamentali distinzioni.

14 F. D’AGOSTINO, Eutanasia, diritto e ideologia, cit, p.300

15 Sebbene, parte della dottrina abbia acutamente sottolineato come ancora sopravviva una forma di eutanasia non pietosa, quale la ricorrente pratica delle esecuzioni capitali nei paesi in cui questa è tuttora ammessa, classificata come eutanasia criminale. Così R. BARCARO, L’eutanasia. Un problema paradigmatico della

bioetica, Franco Angeli, Milano, 1998; R. ROMBOLI , Commento all’articolo 5 del codice civile, cit. p.301; C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica, cit., p.

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Molti sono stati i tentativi di definizione prima, e di classificazione poi, operati da numerosi autori, sempre purtroppo oscillando tra i due estremi problematici della eccessiva inclusività o, viceversa, della esclusività16.

Un apprezzabile equilibro può rinvenirsi nella seconda definizione fornita nel 1996 da T. L. Beauchamp secondo la quale “una morte sarà considerata come un’eutanasia, di qualunque tipo essa sia, se, e soltanto se, siano (congiuntamente, nda) soddisfatte le seguenti condizioni:

(i) quella morte è voluta [intended] da almeno un’altra persona diversa da quella che muore, che contribuisce, con la sua azione a cagionarla;

(ii) la persona che muore è afflitta da intense sofferenze o è immersa in un coma irreversibile (o lo sarà ben presto), e questa condizione costituisce, da sola, la ragione primaria per cui la morte è voluta;

(iii) le procedure scelte per provocare la morte debbono essere le meno dolorose possibili, oppure deve esistere una ragione moralmente giustificata per la scelta di un metodo più doloroso. 17

16 Per un excursus dei vari tentativi di definizione di eutanasia pietosa v. G. PARIS,

Vivere, un diritto o un dovere?, B.I.G., Roma, 1986 pp.119 ss.; Una delle più

autorevoli definizioni nella dottrina italiana è attribuibile a F. MANTOVANI,

Problemi giuridici dell’eutanasia, in Archivio Giuridico, 1970, p. 37 che la

descrive come “l’uccisione indolore posta in essere per un sentimento di

compassione nei confronti del particolare stato in cui versa la vittima”, citato in C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica, cit. p.28, la quale tuttavia ne sottolinea l’eccessiva vaghezza. F. D’AGOSTINO parla invece del

“raggiungimento di un’epistemologia non controvertibile” come uno dei desideri irrealizzabili della bioetica.

17 Citato in J.Y. GOFFI, Pensare l’eutanasia, cit. , p. 19, il quale opera anche una ricognizione dei criteri definitori adottati nella dottrina internazionale. T. BEAUCHAMP, Principi di etica biomedica, Le Lettere, Firenze, 1999

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Poggiando su questa valida definizione sarà forse allora possibile muovere verso una classificazione delle forme dell’eutanasia pietosa. Delle diverse proposte, una metodologia attorno alla quale si attesta un ampio consenso è rappresentata dall’analisi per coppie contrapposte delle categorie che vengono impiegate per descrivere l’atto eutanasico. I criteri che vengono in considerazione riguardano la condotta dell’agente, di modo che si avrà una eutanasia attiva (o per commissione) ed una passiva (o per omissione); i mezzi utilizzati, che se combinati con la precedente distinzione genereranno rispettivamente la contrapposizione tra uccisione diretta e indiretta (per la e. attiva) e quella tra mezzi ordinari e straordinari (per la e. passiva); infine, sotto il profilo della volontà del paziente, si distinguono eutanasia volontaria e non volontaria. 18

Una tale classificazione, lungi dall’avere valenza semplicemente euristica, permette un corretto inquadramento del problema, delimitando il terreno all’interno del quale sarà possibile (ed anzi auspicabile) sviluppare un dialogo tra le differenti posizioni inevitabilmente coesistenti in una società multietica.

18 Classificazione sostanzialmente analoga è proposta anche da J.Y.GOFFI, op. ult. cit, e ripresa da V. PUGLIESE, Nuovi diritti: Le scelte di fine vita tra diritto

costituzionale, etica e deontologia medica, Cedam, Padova, 2009, p.167, nella

quale tuttavia sotto il profilo della volontà del paziente, oltre al caso della eutanasia volontaria e di quella non volontaria, si dà anche quella contro la volontà. Sebbene fornisca un quadro apparentemente più completo, l’apporto pratico risulta pressoché irrilevante ai fini delle successive considerazioni sul piano giuridico e morale, dal momento che tale ipotesi esula dalla categoria dell’eutanasia pietosa per confluire direttamente in quella dell’omicidio tout court.

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È di intuitiva comprensione, infatti, come queste otto possibili forme presentino profili assai divergenti tra loro, tanto sotto il punto di vista etico e morale quanto, e forse soprattutto, sotto quello di una eventuale copertura costituzionale. Considerare infatti monoliticamente il problema dell’eutanasia è probabilmente uno degli errori più diffusi che si possano rilevare nel pubblico dibattito, polarizzando le posizioni attorno a risposte radicalmente favorevoli o contrarie a qualsiasi forma, ed impedendo così di ricercare una base condivisa su cui fondare una soluzione laicamente ragionevole e rispettosa delle diverse esigenze sia de iure condito, che nell’ottica di una opportuna legislazione all’interno della cornice tracciata da una lettura evolutiva del dettato costituzionale.

2.1 Eutanasia attiva e passiva

Si tratta della più basica e risalente delle distinzioni, quella tra l’uccidere ed il lasciar morire o, per dirla con la dottrina anglosassone, tra il mercy killing ed il letting die. Proprio per essere la più netta delle distinzioni è anche quella che trova maggiormente concorde la dottrina,

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tanto nel respingere la liceità della prima, stante la volontarietà dell’azione19, quanto nel sostenerla riguardo alla seconda20.

Nonostante infatti, nell’ordinamento penale italiano viga l’art.40 c.p. che simmetrizza, a determinate condizioni, le conseguenze giuridiche di azione e omissione, nell’ambito dell’eutanasia l’operatività di tale articolo potrebbe risultare inibita in virtù della necessaria attuazione del secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione.

Sebbene una dottrina assolutamente apprezzabile contesti alla radice la validità di tale distinzione, argomentando sulla base della discriminazione che si produrrebbe nei confronti di coloro i quali versano in condizioni tali da non poter procedere autonomamente a porre fine alla propria sofferenza (il tetraplegico che non ha bisogno di terapie ma semplicemente di una assistenza sanitaria/infermieristica di base), l’utilità delle due categorie rimane salda dal punto di vista espositivo e sistematico.

Sotto questo aspetto, piuttosto, paiono essere più destabilizzanti le osservazioni che ampia dottrina avanza ormai da tempo, tali da evidenziare una zona di grossa ambiguità in cui si collocano forme ibride di condotta. Se, fino ad un passato relativamente recente la morte si

19 La dottrina dominante infatti non è propensa ad accettare la giustificazione della particolare natura del fine, né della peculiarità dei presupposti (ineluttabilità della morte insopportabili sofferenze, consenso della vittima, ecc.) così, ex multis, F. MANTOVANI, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in G. PARIS (a cura di),Vivere, un

diritto od un dovere?, cit., p.75 ss, ; P. RESCIGNO, La fine della vita umana, in Rivista di diritto civile, 1982,p, 649 ss.

20 Cosi, ad esempio, R. ROMBOLI, Commento all’articolo 5 del codice civile, cit., p. 302 ss. ; F. MANTOVANI Aspetti giuridici dell’eutanasia, cit., p. 106 ss.

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poteva considerare come un evento subitaneo, e la differenza tra la forma attiva e quella passiva era facilmente apprezzabile, allo stato attuale delle possibilità medico-scientifiche il decesso ha acquistato sempre più le sembianze di un processo che l’uomo può controllare quasi ad libitum, e la distinzione in questione ha visto progressivamente sbiadire i propri confini.21

E’ stato rilevato, ad esempio, come ciò che tradizionalmente viene fatto rientrare nelle ipotesi di eutanasia attiva, ossia il cagionare l’ uccisione, possa ben attuarsi mediante condotta omissiva (eutanasia attiva per omissione) 22, e per converso fuoriesca dall’alveo delle forme tradizionali di eutanasia passiva quella in cui sia comunque necessario un’azione dei sanitari per interrompere la terapia e causare il decesso (eutanasia passiva per commissione).23

21 La problematica, già segnalata da R.ROMBOLI, op. ult. cit., pp.306-307, è ripresa anche da C.TRIPODINA, op. ult. cit., 28-30 la quale considera questa ambiguità tale da far ritenere opportuno il superamento della tradizionale distinzione tra attiva e passiva, in favore di quella, ritenuta autonoma, tra eutanasia per omissione ed eutanasia per commissione. Altra apprezzabile critica alla distinzione in parola proviene da T. CHECCOLI, Brevi note sulla distinzione fra eutanasia attiva e

passiva, in www.forumcostituzionale.it 2008, passim, il quale, pur salvandone

l’utilità espositiva e metodologica, non la esime da critiche sul piano sostanziale, riconducendola ad una tendenza, per altro comprensibile, di depenalizzazione per via dottrinale prima, e giurisprudenziale poi, delle forme di eutanasia ormai largamente ritenute moralmente accettabili, quando non addirittura doverose. Sottolinea però l’autore come per conseguire tale scopo, si accettino alle volte delle forzature concettuali (si parla apertamente di “finzioni”) non indifferenti.

22 Si veda il caso dell’astensione del medico dal curare, mediante presidi terapaeutici del tutto ordinari sicuramente efficaci, complicazioni acute letali insorte durante la fase terminale della malattia. Tale forma di eutanasia è a volte indicata con il nome di ortoeutanasia.

23 Si fa riferimento a tutte quelle situazioni in cui vi è una condotta materiale attiva del medico per la sospensione delle terapie in corso, come ad esempio “staccare la spina”. Tale forma va anche sotto il nome di paraeutanasia.

Riguardo a quest’ultima distinzione, autorevole dottrina ha accolto con favore l’equiparazione delle due forme desumibile dalla soluziona del caso Welby/Riccio, giacché, grazie ad essa, “si è pervenuti alla conclusione [...] che non può né deve esserci differenza tra la condotta di chi provvede a sospendere la somministrazione

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2.1.1 Ulteriori e conseguenti all’interno della forma passiva: il criterio della proporzionalità dei mezzi

Come già accennato, non ogni ipotesi di omissione di un atto che possa impedire l’esito infausto può e deve essere trattato specularmente alle ipotesi di condotta attiva. Appare ad esempio oggi pacifico come la determinazione del paziente a non iniziare o, il che sarebbe equivalente secondo la dottrina dominante, a non proseguire il trattamento medico24, varrebbe di per se stesso ad escludere la doverosità dell’azione del medico, imponendone anzi l’astensione.

Tale uniformità di vedute non si riscontra però riguardo a tutti quei casi, che la prassi medica ci suggerisce essere la grande maggioranza, in cui si giunge al momento di dover decidere quanto la terapia debba

di un farmaco e quella di chi provvede a staccare la spina. G.M.FLICK, Dovere di

vivere, diritto di morire, oppure…?, cit., p. 14.

24 Così, ex multis, L. D'AVACK, Sul consenso informato all'atto medico, in Diritto di famiglia e delle persone, 2008, p. 770 e ss., secondo il quale è assai arduo rinvenire “una differenza moralmente significativa fra non avviare o interrompere misure di sostegno vitale”. Tali condotte, infatti, “se si guarda al risultato finale, non presentano alcuna differenza: conducono entrambe inesorabilmente alla morte del paziente”; A. MORACE PINELLI, Libertà di curarsi e rilevanza delle decisioni di

fine vita, in M.BIANCA (a cura di) Le decisioni di fine vita, Giuffrè, Milano, 2011;

M.B. MAGRO, Eutanasia e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 153 ss.; R.ROMBOLI, La libertà di disporre del proprio corpo, op. cit., p.306; Paiono invero piuttosto sconcertanti le argomentazioni di dottrina relativamente recente, sebbene isolata, secondo le quali, nel caso di trattamenti salvifici volontariamente iniziati, il malato “è entrato sua sponte in una sfera di azione professionale finalizzata alla sua cura, sicché entra in gioco una forma di socialità che supera la volontà empirica dei singoli medici, impone di tener conto della funzione istituzionale della relativa categoria e impedisce di accollarle un obbligo che contraddirebbe tale funzione”. Così G.CARLIZZI, Forma e valore della decisione

giuridica. Spunti di riflessione a partire dal “caso Welby/Riccio”, relazione

all’interno del ciclo di seminari “Il diritto come prassi: i diritti fondamentali nello

Stato costituzionale. Caso Welby e bilanciamento di principi”, S.Maria Capua

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insistere per procrastinare il momento della morte. Il criterio che si invoca come dirimente per rispondere a simile quesito è quello della proporzionalità dei mezzi, intendendosi tali quelli a cui, sulla scorta di fondate ragioni di opportunità terapeutica, non dovrebbe ricorrersi con riferimento a quel determinato paziente25.

L’uso indiscriminato di ogni possibile mezzo terapeutico non solo è incompatibile con una buona pratica medica, ma è anche un atto contrario all’etica26. E’ sicuramente incoraggiante constatare come su questa conclusione convergano le opinioni degli schieramenti sia laico che cattolico27. In una versione, si potrebbe dire, moderata della teoria della sacralità della vita, hanno infatti accesso, più o meno clandestinamente, e proprio in virtù del criterio della proporzionalità dei mezzi, considerazioni relativa alla qualità della vita del malato.

25 Altra parte della dottrina preferisce utilizzare una diversa terminologia,

distinguendo mezzi ordinari e mezzi straordinari (così ad es. TRIPODINA, op. ult.

cit, p.39 e ss.). Le due distinzioni sono in realtà solo parzialmente sovrapponibili.

Quella fondata sulla ordinarietà, infatti, dipende inevitabilmente dallo stadio della scienza medica, mentre quello fondato sulla proporzionalità è da riferirsi ai benefici attesi per quel determinato malato. Potranno quindi ben darsi mezzi ordinari il cui utilizzo risulta sproporzionato, così come il viceversa. Per questa ragione si è preferito utilizzare il riferimento alla proporzionalità, maggiormente plastico dinanzi al caso concreto.

26 J.Y. GOFFI, op. ult. cit. p.77

27 In questo senso possono intendersi la Dichiarazione sull’eutanasia, ad opera della CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE del 1980, il documento del PONTIFICIO CONSIGLIO, "COR UNUM", Questioni etiche relative ai malati

gravi e ai morenti (1981), l'Enciclica Evangelium Vitae (1995) di GIOVANNI

PAOLO II (in particolare ai nn. 64-67), la Carta degli Operatori sanitari, redatta dal PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PASTORALE DELLA SALUTE (1995).

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2.1.2… ed all’interno della forma attiva: eutanasia diretta ed indiretta

Avendo invece riguardo all’eutanasia attiva, non si può ignorare la decisiva distinzione tra la forma diretta ed indiretta. Oggetto su cui verte sono le intenzioni dell’agente, per cui si avrà uccisione diretta laddove la morte sia prevista e voluta come fine primario della propria condotta, mentre nel caso dell’eutanasia indiretta la morte non è prevista dall’agente o, se anche prevista, non è comunque perseguita intenzionalmente, bensì accettata come possibile effetto collaterale rispetto al fine principale di lenire le sofferenze de paziente.

La differenza, de iure condito, potrebbe in molti casi risultare assolutamente dirimente dal momento che le due forme godono di una qualificazione giuridica, e per ciò di conseguenze, diametralmente opposte: sempre vietata la prima, sovente giustificata, quando non doverosa, la seconda.

Tale giustificazione, sviluppata soprattutto nella filosofia morale di matrice cattolica, affonda le proprie origini nel Principio delle azioni a doppio effetto, la cui prima formulazione è tradizionalmente attribuita a San Tommaso D’Aquino e vale, a determinate condizioni, a giustificare la condotta dell’agente che causa un male nel perseguimento di un bene, alla cui realizzazione è finalizzata la propria azione.

Sebbene sia assolutamente positiva l’ulteriore convergenza del mondo laico e di quello cattolico riguardo al tema delle terapie palliative,

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sicuramente riconducibili all’ambito dell’eutanasia indiretta, non può non rilevarsi come tale distinzione tra aiuto a morire ed aiuto nel morire non vada esente da numerose critiche in dottrina. Diversi autori hanno sottolineato infatti come tanto l’esito, quanto la sequenza causale, in entrambi i casi, siano esattamente gli stessi28, spingendosi ad accusare la dottrina della doppia azione di essere semplicemente un paravento dietro al quale mascherare la sua insita ipocrisia.29 Effettivamente, una distinzione fondata sulla sola disposizione dell’animo dell’agente presta il fianco a numerose obiezioni. In primo luogo il foro interiore è terreno spesso insondabile, cosicché accertare l’animus necandi del medico che somministrasse analgesici conscio di condurre inevitabilmente alla morte del paziente, pur con l’intenzione di accompagnarlo nel modo più confortevole possibile al trapasso, potrebbe rivelarsi una probatio diabolica30. In secondo luogo, raffrontandolo al caso di una massiccia sedazione che si riveli letale, magari in una singola somministrazione, non sfugge la possibile uguaglianza di motivazione, ossia liberare il 28 Tra i vari, recentemente, S. AGOSTA, Bioetica e Costituzione, Le scelte esistenziali

di fine-vita, Giuffrè, Milano, 2012, p. 50

29 In questo senso la critica sferzante di I. KENNEDY, Il diritto di morire, in C.M. MAZZONI (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, il Mulino, 1988, p.217 e ss. secondo cui in simili casi nascondersi dietro la dottrina del doppio effetto equivarrebbe a dire “sappiamo tutti cosa stai facendo, ma ricordati di usare la formula magica, ‘lo faccio solo per dare sollievo dal dolore’ e tutto andrà bene” 30 Inoltre è doveroso sottolineare come le figure di dolo previste dall’ordinamento non

si limitano a quello diretto, ma includono sicuramente anche quello cd eventuale, al quale parrebbe assolutamente riconducibile la palliazione terminale che si tenta di giustificare con la dottrina del doppio effetto. S.AGOSTA, Bioetica e Costituzione.

Le scelte esistenziali di fine-vita, Giuffrè, 2012, pp. 47-48. Lo stesso autore nelle

pa1gine successive si pronuncia circa la dubbia fondatezza (ed eventuale utilità) di un qualsiasi tentativo di classificazione dei differenti fenomeni eutanasici. Tali distinzioni, infatti, già di per sé piuttosto traballanti nelle ricostruzioni dottrinali, perderebbero qualsiasi significato all’interno delle corsie ospedaliere.

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malato dalle sue ultime, inutili sofferenze. In conclusione, preso atto di una simile equiparazione nel giudizio morale della condotta31, la differenza finirebbe per misurarsi semplicemente in centimetri cubici.

3. Etiche a confronto

Considerate le evidenti e spesso drammatiche implicazioni etiche, pretendere di trattare un tema come l’eutanasia su di un terreno filosoficamente neutro sarebbe a dir poco illusorio. A questa conclusione (e premessa allo stesso tempo) si giunge a prescindere dall’angolo visuale fornito dalla disciplina scientifica di partenza, ogni qualvolta ci si approcci alla tematica del fine vita. Prestigiosa dottrina penalistica, ad esempio, afferma che “qualsiasi tipo di disciplina, nella misura in cui implica scelte e bilanciamenti tra valori influenzati da concezioni della vita e del mondo, esprime inevitabilmente una qualche filosofia. […] Non esistono spazi liberi dalle pregiudiziali filosofiche, etiche, ideologiche” 32

L’argomento in questione potrebbe così considerarsi quello attorno al quale si manifesta nella maniera più aspra il confronto tra i due principali 31 Per una critica della dottrina del doppio effetto da un punto di vista segnatamente

filosofico, spiccano le osservazioni di J. RACHELS, Active and passive euthanasia, in The New England Journal of Medicine Vol. 292, 9 Gennaio 1975, pp. 78-80, successivamente riprese dallo stesso autore in Quando la vita finisce. La

sostenibilità morale dell’eutanasia, Edizioni Sonda, 2007, passim.

32 G. FIANDACA, I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione

punitiva, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, LIV, n 4, 2011, pp.

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complessi etici ed assiologici, quello laico e quello cattolico, da declinarsi per l’occasione rispettivamente nell’etica della “qualità della vita biografica” ed in quella della “sacralità della vita biologica”.33

Come più sopra enunciato, la disamina della variegata fenomenologia dell’atto eutanasico ha lo scopo di segnare i confini all’interno del quale è possibile, eventualmente ed auspicabilmente, realizzare una convergenza di opinioni tra i due poli morali coinvolti, stante che l’errore frequente, spesso causa di naufragio sul nascere di ogni tentativo di dibattito costruttivo sul tema, è proprio quello di considerare il fenomeno dell’eutanasia come un monolite, da accettare (o respingere) in toto.

Così come numerose e differenti sono le forme che può assumere l’eutanasia, intesa in senso lato, altrettanto lo sono le posizioni che i diversi autori assumo in seno anche allo stesso schieramento.

3.1 L’etica cattolica e la sacralità della vita biologica

Sebbene sussistano posizioni estremamente radicali, tali da porsi volontariamente e dichiaratamente al di fuori di qualsiasi possibilità o volontà di dialogo, non sarebbe corretto non segnalare l’esistenza di autorevoli dottrine, sempre in ambito cattolico, decisamente più 33 Per una approfondita disamina del dibattito dottrinale circa la effettiva fondatezza

epistemologica di una tale contrapposizione si veda G. FORNERO – M. MORI

Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto, Le Lettere, 2012, p. 81

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possibiliste, quando non addirittura di aperta critica delle posizioni del magistero pontificio34. Allo stesso modo, potrebbe risultare interessante un approfondimento della posizione di altre dottrine ufficiali, pur ricomprese all’interno della religione cristiana, come nel caso della Chiesa Valdese, da tempo critica rispetto alla assolutezza del dogma dell’inviolabilità della vita 35.

34 E’ ad esempio il caso del teologo svizzero HANS KÜNG, già noto per il suo rifiuto de dogma dell’infallibilità papale. Così ad esempio in La dignità della morte, Datanews, Roma, 2007, p. 46 ss. l’autore argomenta che la Bibbia non conosce, in realtà, il principio dell’intangibilità della vita, né contesta espressamente il suicidio e la libera scelta di darsi la morte per liberarsi dalle sofferenze.

35 A. DE OTO, Eutanasia e Chiesa Valdese: un approccio diverso. L’importanza del

dato pregiuridico nel dibattito in materia, in S. CANESTRARI – G. CIMBALO –

G. PAPPALARDO (a cura di), Eutanasia e diritto, confronto tra discipline, Giappichelli, 2003, pp.49 ss.

Il riferimento va in particolare ad un documento elaborato nel 1998 dal “Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza” nominato dalla Tavola Valdese, dal titolo L’eutanasia ed il suicidio assistito, al quale pare doveroso rendere il merito della profonda umanità della riflessione, riportando per intero il punto conclusivo del documento (5.6): “Nell’ambito della pastorale si parla molto del rispetto della spiritualità del malato. Ma questo rispetto sembra arrestarsi improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di poter morire. Quasi che questa domanda nascesse da un mondo che non gli appartiene. Che cosa impedisce di leggere anche questa domanda come segno di una spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue promesse? Con quale autorità spirituale posso io contrastare la libertà e responsabilità di un altro di decidere il tempo della sua morte quando il vivere è un’umiliazione quotidiana senza speranza? Qual è la fonte dell’autorità che mi impone di costringere una persona inguaribile a continuare a vivere una vita di morte? Chi sono io per sottrarre al malato inguaribile questo diritto di poter morire? Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del malato inguaribile l’accoglie all’interno di un lungo processo di cura e di relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni”. Il testo integrale del documento è disponibile al sito www.chiesavaldese.org

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Ad ogni modo, volendo a fini epistemologici ricondurre ad unità le opinioni del mondo cattolico in materia di eutanasia, il filo conduttore sarebbe appunto quello della indisponibilità per l’individuo del bene-vita. Questa infatti sarebbe da considerarsi come un dono di Dio, rispetto al quale l’uomo si atteggia a mero custode36, dotata di un valore in sé che trascende la dimensione umana e le contingenze terrene. Come logico corollario di questo principio, si afferma l’impossibilità di operare una qualsiasi graduazione del valore della vita, anche e, per quanto qui rileva, soprattutto laddove questa sia operata dallo stesso depositario. Ad un simile tipo di ragionamento, infatti, non hanno accesso istanze individualistiche riguardanti la percezione che il malato possa avere della dignità dalla propria attuale condizione, e quindi, in ultima istanza, se la vita biologica che gli resta da vivere sia coerente con le proprie aspettative, le proprie intime convinzioni riguardo a cosa possa considerarsi una vita degna di essere vissuta.

A ben vedere, infatti, secondo la visuale in discorso, il connotato della dignità è ontologicamente connesso all’esistenza biologica: qualsiasi esistenza, in qualsiasi momento, dal concepimento fino alla morte, rimanendo tale anche quando l’esistenza stessa è ormai sfuggita in ogni modo al dominio del suo titolare, come avviene nei drammatici casi di

36 “La vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale fa vivere e morire. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro il suo padrone” TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica, parte II, 2, q, 64.5, Salani, Firenze, 1966, vol. XVII, p.178

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incoscienza irreversibile e prolungata, o nei pazienti costretti nella sindrome locked-in37.

Una tale interpretazione del principio della sacralità della vita, per la rigidità delle sue implicazioni spesso deleteria nelle conseguenze, appare essere tuttavia la sola, all’interno delle dottrine cattoliche, esente da una incoerenza nella logica interna che invece rischia di affliggere le posizioni più possibiliste, nonché raccomandabili all’atto pratico, provenienti dallo stesso Magistero Pontificio. Il Sommo Pontefice ha infatti avuto modo di esprimere in ripetute occasioni alcune fondamentali aperture all’abbandono di certi sforzi terapeutici per il prolungamento della vita, laddove questo sia solamente “precario e penoso”38. In tali condizioni cliniche infatti, è stato riconosciuto più volte come di fronte all’imminenza ed ineluttabilità della morte si possa, in coscienza, rinunciare a “certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia”. Per cui, pur in costanza dell’ “obbligo morale di curarsi e di farsi curare” 37 La sindrome, anche nota come sindrome dell’armadietto o pseudocoma, descrive la

condizione di coloro i quali sono vigili e coscienti, avendo conservato almeno parzialmente intatta la porzione superiore del cervello, sede deputata alle attività di tipo cognitivo, ma risultano impossibilitati a qualsiasi tipo di movimento volontario a causa della lesione di specifiche porzioni del cervello inferiore e del

troncoencefalo. Di conseguenza a tali soggetti è preclusa la possibilità di

comunicare verso il mondo esterno se non, in alcuni casi, attraverso una complessa codificazione dei movimenti oculari o delle palpebre, coadiuvati da appositi macchinari. Ad aggravare tale condizione vi è poi la circostanza che il malato, sebbene abbia scarse capacità propriocettive, può in molti casi continuare a percepire sensazioni dolorifiche.

38 Così Papa GIOVANNI PAOLO II, nella sua Enciclica Evangelium Vitae. 25 marzo 1995, www.vatican.va (65)

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dovendo questo “misurarsi con le situazioni concrete”, si può concludere che “la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia, ma esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte". 39

Altra apertura della Chiesa Cattolica, forse meno significativa in quanto in un certo senso più prevedibile, è quella che riguarda la cd terapia palliativa. In merito Giovanni Paolo II, sulla scia di quanto già sostenuto da Pio XII 40, e poggiandosi sulla ben nota teoria del doppio effetto, afferma che se “può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti” essendo “lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita”.

Tali, apprezzabili mitigazioni della più intransigente dottrina dell’intangibilità della vita umana, prestano a ben vedere il fianco alla sopra accennata critica sul piano logico. In che modo è possibile decidere quando sia opportuno smettere di combattere per la vita ed accettare che la malattia segua il proprio inesorabile decorso, ed anzi, all’occorrenza questo possa essere addirittura accelerato mediante una massiccia 39 Ibidem, (66)

40 PIO XII, Discorso ad un gruppo internazionale di medici (24 febbraio 1957), III: AAS 49 (1957), 147; cfr CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sull'eutanasia “Iura et bona”, III: AAS 72 (1980), 547-548

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sedazione? Ancora, è possibile concepire la distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari senza fare appello ad un criterio qualitativo dell’esistenza residua?

Se infatti la vita è sacra perché dono del Signore, ed il suo valore è infinito, se ne può logicamente, aritmeticamente, dedurre che ogni sua singola frazione abbia a sua volta valore infinito41. Una tale logica escluderebbe alla radice la possibilità di distinguere gli attimi della vita vissuta nella sua pienezza, secondo la responsabilità, la coscienza, la volontà e l’idea di dignità che ognuno concepisce a suo modo, da quelli in cui tutto ciò è oramai scomparso, lasciando il malato a convivere con un’immagine di sé in cui non si riconosce e con l’unica prospettiva di un avvicinamento sempre più doloroso alla morte. Allo stesso tempo, nella sua più rigorosa interpretazione, rischia di sfociare in un vitalismo esasperato, ed assolutamente contrario alle tanto invocate leggi della natura. Si comprende allora come per evitare questa “china scivolosa”, argomento spesso utilizzato invece nei confronti delle istanze della bioetica laica, sia giocoforza ammettere uno spazio in cui operi una valutazione circa la qualità della vita biografica. Nell’impossibilità oggettiva di tracciare un metro di giudizio universalmente valido per la sua misura, risulta arduo trovare un’autorità più idonea a tale giudizio che il diretto interessato.

41 Sul valore infinito in accezione matematica del valore della vita ha argomentato le proprie teorie anti-eutanasiche anche Sir Immanuel Jakobovits, massima autorità dell’ortodossia ebraica in Gran Bretagna. La paradossalità degli esiti di tale argomentazione in particolare, e della non graduabilità del valore della vita umana in generale, è evidenziata da J.Y. GOFFI, Pensare l’eutanasia, cit., 59-61

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3.2 L’etica laica e l’esigenza di relativizzazione

Alla bioetica cattolica, riconducibile alla dottrina comunitarista, si contrappone quella laica, a sua volta derivata da quella liberalista. Quest’ultima visione opera un ribaltamento della gerarchia assiologica tra i due ideali di giustizia e libertà. Se, infatti, nella visione cattolica la libertà individuale deve essere subordinata al perseguimento della giustizia fondata sulla morale insita nelle leggi della natura, la dottrina laica antepone la libertà di autodeterminazione dell’individuo, in virtù della quale è il singolo a determinare responsabilmente ed autonomamente la propria morale42. Di conseguenza l’obiettivo del perseguimento della giustizia così come condivisa dall’intera comunità (una comunità eticamente omogenea) deve recedere dinanzi alla libera determinazione del diretto interessato riguardo le scelte inerenti alla propria percezione di sé, ed in ultima analisi alla gestione del proprio corpo. La dottrina liberale considera l’autogestione del corpo alla stregua di un moderno habeas corpus43, imponendo quindi che i soggetti che detengono il potere legittimo di esercizio della forza per ottenere l’ubbidienza ai loro comandi, rispettino la sfera personale dell’individuo,

42 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit. p. 97 ss secondo il quale entrambe le concezioni parlino della dignità come valore fondante, ma mentre per i cattolici questa è insita nell’idea di giustizia, per i laici, invece, nella libertà cfr

C.TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica, cit. p. 167

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non invadendola e garantendola allo stesso tempo nei confronti di ogni possibile aggressione da parte di terzi. 44

Ad un’attenta analisi, la dottrina della qualità della vita, per lo meno in una delle sue più autorevoli formulazioni, dovuta al filosofo statunitense Ronald Dworkin, non contesta la sacralità della vita in sé, ma contesta l’origine di tale sacralità. In altre parole, mentre nella visione cattolica è preponderante il ruolo di Dio nella creazione della vita umana, residuando all’uomo il ruolo di mero amministratore, nelle teorie laiche la vita è in misura infinitamente maggiore prodotto del suo stesso titolare, quale complesso delle scelte e delle vicende biografiche percorse. In questo senso allora l’eutanasia costituirebbe un ultimo e fondamentale baluardo in difesa della capacità del singolo di decidere in coscienza, conformemente alle proprie convinzioni, circa la sacralità della sua vita45.

Preso atto che, specialmente al crescere del livello di astrazione delle due contrapposte teorie, la soddisfazione di una parte della società vedrebbe la frustrazione delle pretese di quella eticamente antagonista, è forse opportuno chiedersi quale possa essere la via d’uscita tracciata dal diritto costituzionale.

E’ inevitabile rilevare infatti come la tendenza necessariamente assolutizzante della dottrina cattolica veda la propria soddisfazione solo

44 N.BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Simonelli, Milano, 2006, p.9

45 R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale. Edizioni di comunità, Roma, 1994 pp 93-96, 124, 297.

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quando tutte le vite dei membri della comunità sono difese da aggressioni, anche se autodeterminate46. Tuttavia si osserva come la posizione relativizzante sia l’unica compatibile con diversi principi fondanti la nostra Carta Costituzionale. Questo è probabilmente il passaggio cruciale: dal momento che non pare ravvisabile una gerarchia fissa di diritti fondamentali all’interno della Costituzione47, e che tale maniera di procedere mal si addice in generale alla soluzione di conflitti tra princìpi, dovendosi piuttosto preferire il ricorso ad una gerarchia assiologica mobile, assegnare una incondizionata prevalenza alla difesa della vita a discapito di qualsiasi altro valore o diritto eventualmente confliggente pare del tutto irragionevole. Si può semmai considerare come la promozione dello sviluppo della personalità e della vita biografica dell’individuo intrida il testo costituzionale, al punto da far supporre che sia proprio il principio personalista sancito dall’articolo 2 il filtro attraverso il quale leggere la drammaticità dei casi concreti, nel tentativo di rinvenire il giusto equilibrio tra i valori in conflitto. In questo senso paiono potersi leggere anche le parole della Corte, secondo la quale la sfera intima della coscienza individuale rappresenta “il riflesso 46 Secondo C. TRIPODINA, Dio o Cesare? Chiesa Cattolica e Stato laico di fronte

alla questione bioetica. in Costituzionalismo.it, 1/2007, pp.5-7, il problema

accompagnerebbe la dottrina cattolica proprio per il suo essere dottrina religiosa, e quindi dogmatica. In ragione di questa loro caratteristica non è possibile pretendere una loro applicazione mite. La sua verità, in quanto parola di un’entità superiore, è universale, ed in maniera universale deve essere applicata. La frustrazione del precetto della sacralità della vita, anche in una sola occasione, equivale alla sua negazione radicale. Al contrario, la morale laica non pretende né auspica che la scelta autonoma del singolo (quale che essa sia) sia estesa a tutti i consociati. 47 In questo senso A. D’ALOIA, Diritto di morire? La problematica dimensione

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giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana” che circonda i diritti inviolabili del singolo48.

Non è forse allora azzardato avanzare l’ipotesi che una delle condizioni al momento assenti per poter addivenire ad una normativa in materia che sappia essere rispettosa delle esigenze di tutti, è quella di una sincera laicità e di una relativizzazione dei valori49. Proprio il relativismo, additato dalla dottrina cattolica come il primo passo che l’uomo moderno percorre lungo la “china scivolosa”, deve essere considerato il fondamento dello stato di diritto 50 e delle moderne democrazie51, specie quando è evidente la “fine delle grandi narrazioni morali”52 ed il passaggio ormai irreversibile ad una società multietica e multietnica.

Tale condizione, pur frustrando la pretesa di assolutezza applicativa del precetto cattolico della sacralità della vita53, che rappresenta comunque convincimento legittimo e speranza coerente con la natura dogmatica della sua morale, vedrebbe riconosciuta al singolo la possibilità di

48 Corte Costituzionale, sent. n. 467/1991, la quale prosegue affermando che alla coscienza individuale deve essere accordata “una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana.”

49 Sul ruolo della laicità quale principio supremo con valenza superiore rispetto alle altre norme di rango costituzionale, parametro di costituzionalità e profilo della forma di Stato, tra le diverse pronunce della Corte su tutte si segnala la 203/1989 50 G. ZAGREBELSKY, Imparare la democrazia, Einaudi, Torino, 2007, passim.,

secondo il quale la democrazia non ha fedi e valori assoluti da difendere, ad eccezione di quelli su cui essa stessa di basa

51 L. RISICATO, Dal diritto di vivere al diritto di morire, Giappichelli 2008, p. 1-18 52 S. RODOTA’ Modelli culturali ed orizzionti della bioetica, in AA.VV Questioni di

bioetica, Laterza 1993, p.430

53 C. TRIPODINA, Dio o Cesare? Chiesa Cattolica e Stato laico difronte alla

questione bioetica, in costituzionalismo.it, 1/2007; G. ZAGREBELSKY, Il

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decidere per la propria vita, in maniera conforme al proprio complesso di valori, laico o religioso che sia54.

Per concludere, sposare una simile idea di laicità, calibrata sul singolo individuo anziché confinata sul piano della massima astrazione del conflitto tra universi etici autoescludenti55, significa in sostanza operare una scelta improntata al criterio del minimo danno: “posto che pur sempre un’offesa c’è, pare qualitativamente e quantitativamente differente l’offesa (solo morale) che subisce chi vive in un ordinamento che fa suoi valori che egli non condivide, ma senza conseguenze dirette sul suo corpo, dall’offesa (materiale, oltre che morale) che subisce chi vive in un ordinamento che fa suoi valori che egli non condivide, e da ciò fa discendere conseguenze dirette sul suo corpo”56.

54 All’argomento spesso utilizzato dalla dottrina di orientamento cattolico, circa la china scivolosa che condurrebbe alla dissoluzione del fondamento solidaristico della Costituzione, si potrebbe rispondere con le parole di S. RODOTA’, La nuova

legge truffa, in La Repubblica, 15 febbraio 2009, secondo il quale tale fondamento

non è affatto ignorato dalla controparte laica. Infatti “riconoscere l'autonomia d'ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere

liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere "un nuovo soggetto morale".

55 Si tratterebbe insomma di vedere la laicità non come “difesa dello Stato dell’invadenza della Chiesa, ma come difesa di ogni uomo dall’invadenza dei cattivi Stati e delle cattive Chiese”. Così G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1977, p. 117

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CAPITOLO SECONDO

IL DIRITTO ALLA SALUTE

1. La cornice costituzionale: il combinato disposto degli articoli

2, 13 e 32 Cost.

Per una corretta comprensione del quadro costituzionale in cui la discussione si deve sviluppare, non ci si può certamente esimere da una previa ricostruzione del bene-salute, oggetto dell'articolo 32 della Costituzione repubblicana.

Una moderna ed ormai pacificamente accettata nozione di salute, ne offre una visione che ingloba tanto la dimensione fisica quanto quella psichica, tra loro poste in un rapporto di indissolubile interdipendenza. Volendo tracciare la parabola giurisprudenziale attraversata dal diritto in questione in epoche non troppo risalenti, non si può allora prescindere dall’apporto fornito da una fondamentale sentenza del Tribunale di Milano del 1998, nella quale si afferma che “l’idea tradizionale di patologia risulta sempre più distante rispetto a quella di salute, ormai carica di una forte componente soggettiva”. Allo stesso modo, “gli atti terapeutici, secondo una visione allargata di salute, […] non fanno più solo riferimento a una concezione organica della malattia ma tengono conto degli aspetti fisici e psichici della persona e delle sue personali e

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insindacabili aspettative di vita” avendo sempre come punto di riferimento “l'idea che l'individuo ha di se stesso e delle sue aspettative di vita”. Da tali premesse, i giudici concludono, coerentemente, che una negazione della libertà di autodeterminazione dell’individuo per ciò che concerne la gestione del proprio corpo e della propria salute, implichi “un’alterazione in termini obiettivamente fisici del suo generale stato di salute”.57

Sulla stessa scia si collocano anche due sentenze della Cassazione del biennio 2006-2007, tra l’altro accompagnate, almeno nel c.d. caso Englaro58 da una vasta eco mediatica e dall’aspro confronto tra i due contrapposti schieramenti, tanto in parlamento quanto nell’opinione pubblica.

La prima fa ancora una volta propria la ormai quasi settantennale definizione di salute fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, affermando che questa non coincide con il “solo diritto all’integrità fisica, tutelando infatti lo stato di benessere non solo fisico ma anche psichico del cittadino”59. La seconda invece afferma in maniera ancor più coraggiosa come questa “nuova dimensione” del bene-salute coinvolga, “in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti 57 Tribunale di Milano, 14 Maggio 1998. (c.d. caso San Raffaele)

58 Cassazione, 16 Ottobre 2007, n. 21748

59 Cassazione ,SS.UU., 1 Agosto 2006, n. 17461; sulla stessa linea, nell’asciuttezza tipica della prospettiva medica, spesso scettici riguardo ad una eccessiva

soggettivizzazione del bene salute, anche i vari codici deontologici della professione medica succedutisi nel tempo. Per un’analisi della discrepanza di vedute tra diritto e medicina, per il naturale scetticismo di quest’ultima verso il non osservabile v. P. ZATTI, Maschere del diritto, volti della vita, Giuffrè, Milano, 2009, p. 231 ss.

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interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza”60.

Questo traguardo è il frutto di un lungo processo che ha visto il progressivo abbandono del modello dello Stato paternalistico e della visione del cittadino come mezzo. Parallelamente si è andato affermando il principio personalista, che si qualifica come elemento fondante e permeante l'intero testo costituzionale, configurandosi ad oggi come la lente sotto la quale leggere i vari diritti e doveri lì sanciti, tra cui sicuramente anche il diritto alla salute. Il merito di una lettura combinata degli articoli costituzionali 2, 13 e del secondo comma del 32 va riconosciuto anche ad una fondamentale sentenza della Corte Costituzionale che, attraverso il filtro dell’inviolabilità dell’individuo, configura la salute (anche) “come «libertà», nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo”61. L’apporto di tale pronuncia alla delimitazione di una nuova dimensione dell’idea di salute, è da considerarsi indubbiamente quello di aver istituito “un’interazione contenutistica tra salute, libertà e personalità”62.

60 Cassazione, 16 Ottobre 2007, n. 21748

61 Così, al punto 3 del Considerato in Diritto, Corte Costituzionale n. 471/1990 62 Così P. ZATTI, Maschere del diritto, volti della vita, Giuffrè, Milano, 2009, p. 231

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Come ci si propone di argomentare in seguito, una simile accezione del diritto alla salute dovrà allora necessariamente includere il suo contraltare, ossia il diritto a perderla, a non curarsi. Salvo limitate e tassative ipotesi, infatti, si riconosce e garantisce il diritto della persona a non subire trattamenti sanitari contrari alla propria volontà, imponendosi a questi ultimi, ad ogni modo, una ulteriore invalicabile barriera rappresentata dal rispetto della persona umana. Ed è proprio qui che più marcatamente si avverte l'esigenza di leggere l'art 32 alla luce del principio personalista. Escluse le ipotesi di TSO, la cui ratio riposa sulla necessità di tutelare il diritto alla salute degli altri consociati, si impone il rispetto della volontà dell’individuo, quale manifestazione della dignità della persona umana colta nella sua globalità, nella quale appare assolutamente doveroso ricomprendere, “con interpretazione estensiva ma non arbitraria”63, anche le sue “convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”64 che inevitabilmente rappresentano l'inchiostro con cui il singolo scrive la propria biografia e sigla le proprie statuizioni di volontà. In sostanza, e questo sarà l’oggetto dei successivi approfondimenti, il benessere garantito e promosso dal costituente tramite l’art 32, fa si che l’arbitrio dell’individuo circa il trattamento da riservare al proprio corpo possa spingersi fino ad ammettere che il perseguimento di una immagine di sé autonomamente determinata passi anche dalla rinuncia alla salute.

63 Così V. CRISAFULLI, In tema di emotrasfusioni obbligatorie, in Diritto e Società., 1982, p. 562

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