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LE PORTE DELLA MEMORIA 2018

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Academic year: 2022

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Comune di Thiene

LE PORTE DELLA MEMORIA 2018

Iniziative per commemorare

il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo

Programma

Giovedì 25 Gennaio

Teatro Comunale – Viale Bassani - Thiene

Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein Conduce la prof.ssa Patrizia Ferronato, docente di storia e filosofia del Liceo F.

Corradini.

Iniziativa riservata agli studenti degli Istituti superiori e CFP di Thiene Venerdì 26 Gennaio

Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene

Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo docente di lettere dell’I.C. di Thiene.

Iniziativa riservata alle classi terze delle scuole secondarie di primo grado di Thiene, Fara Vic.no, Sarcedo e Zugliano

Venerdì 26 Gennaio

Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene PAROLE CHE UNISCONO, PAROLE CHE DIVIDONO.

A cura di Paola Valente, insegnante di scuola primaria, scrittrice e autrice di libri per ragazzi.

Iniziativa riservata agli studenti delle classi V delle scuole primarie di Thiene Sabato 27 Gennaio

Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene

Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein e del regista Dennis Dellai.

Conduce il prof. Daniele Fioravanzo, docente di storia e filosofia del liceo F. Corradini Iniziativa riservata agli studenti degli Istituti superiori e CFP di Thiene

Domenica 28 Gennaio

Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene

16 GIOVANI DELLE BREGONZE DEPORTATI NEI LAGER TEDESCHI - il rastrellamento nazifascista del 26 agosto 1944.

Testimonianza di Antonio Guglielmi, unico dei deportati ancora vivente.

Conduce il prof. Ferdinando Offelli, letture della prof.ssa Valentina Maculan.

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partecipazione di Luciano Zanonato.

Immagini delle Bregonze tratte dalla recente pubblicazione “Bregonze” a cura dei fotografi Giuseppe Stella e Valter e Luca Borgo.

Iniziativa in collaborazione con l’Istituto scolastico S.ta Dorotea rivolta alla cittadinanza – ingresso libero

Giovedì 8 febbraio

Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene

LA TRAGEDIA DEGLI ESULI GIULIANO-FIUMANO-DALMATI

In collaborazione con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.

A cura della prof.ssa Adriana Ivanov, scrittrice e testimone.

Conduce la prof.ssa Nicoletta Braga, docente di lettere dell'ITET A. Ceccato Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori e CFP

A seguire incontro per le classi terze delle scuole secondarie di primo grado di Thiene e Zanè.

C’ERA UNA VOLTA AL DI LA’ DELL’ADRIATICO UN PEZZO D’ITALIA, ISTRIA, FIUME E DALMAZIA. CON LA GUERRA SONO VENUTE LE FOIBE E L’ESODO.

Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo, docente di lettere dell’I.C. di Thiene.

Momenti musicali con il Gruppo Flauto e Coro della Scuola Media Ferrarin diretti da Fiorella Fragnito e Domenico Zamboni.

Venerdì 9 febbraio, ore 15

Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene

IL PASSATO CHE NON PASSA. FASCISMO, COMUNISMO E QUESTIONE NAZIONALE IN EUROPA ORIENTALE NEL NOVECENTO.

A cura del prof. Francesco Privitera, docente di storia delle relazioni internazionali - Università di Bologna.

Conduce la prof.ssa Maria Luisa Nofrate, docente di storia e filosofia del liceo F.

Corradini.

Iniziativa in collaborazione con il liceo F. Corradini rivolta agli studenti di tutti gli istituti superiori e alla cittadinanza – ingresso libero

Venerdì 9 febbraio, ore 20.30

Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene

QUALE SALVATORE: HITLER O CRISTO? Romano Guardini critico dell’ideologia A cura del prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica – Padova.

Conduce Luca Bortoli, giornalista de La Difesa del Popolo.

Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero

Teatro Comunale – viale F.Bassani 18/22 - Thiene (VI) Auditorium Fonato - Via Carlo Del Prete – Thiene (VI)

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Giorno della Memoria – 27 gennaio legge n. 211 del 20 luglio 2000

"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000

Art. 1

1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2

1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati

cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di

riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è

accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi

nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed

oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi

non possano mai più accadere.

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“Istituzione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe,

dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004

Art. 1

1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell'Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano- dalmate residenti nel territorio nazionale e all'estero.

3. Il “Giorno del Ricordo” di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54.

4. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Art. 2

1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l'Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 all'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 alla Società di Studi fiumani.

2. All'onere derivante dall'attuazione del presente articolo, pari a 200 mila euro annui a decorrere dall'anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l' accantonamento relativo al medesimo Ministero.

3. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

Art. 3

1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall' 8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle

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apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell'autorizzazione di spese di cui all'articolo 7, comma 1.

2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento.

3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia.

Art. 4

1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, devono, essere corredate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile, eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui fatti.

2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della commissione di cui all'articolo 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta all'Archivio centrale dello Stato.

Art. 5

1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica e dell'Arma dei Carabinieri, da due rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto designato dall'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell'interno. La partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi dell'articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti efferati contro la persona.

2. La commissione, nell'esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze, scritte e orali, dei superstiti e dell'opera e del parere consultivo di esperti e studiosi, anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull'argomento.

Art. 6

1. L'insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono consegnati annualmente con cerimonia collettiva.

2. La Commissione di cui all'articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla determinazione delle caratteristiche dell'insegna metallica in acciaio brunito e smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma.

3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri.

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l'anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero.

2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

3. Dall'attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

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Alcune recensioni del film Oscar di Dennis Dellai 

Alessandra Dall'Igna VICENZA

Grande emozione ed entusiasmo per la prima ufficiale del film “Oscar”, proiettato martedì sera al Ridotto del Comunale di Vicenza davanti ad una affollata platea di addetti ai lavori e rappresentanti delle istituzioni.

Il nuovo film del regista e giornalista del Giornale di Vicenza Dennis Dellai ha saputo raccontare, attraverso una scrittura, una regia e una fotografia autentiche e non edulcorate per uso e consumo del grande pubblico, un pezzo di storia vicentina sconosciuta ai più, accendendo il vivido ricordo dei rastrellamenti, delle code per la razione di pane, dell'oscurità dei rifugi antiaerei, del cieco odio verso gli ebrei. Ma anche del coraggio e della generosità di uomini e donne qualunque, dimenticati dalla Storia.

Un'opera corale nella quale ognuno dei personaggi possiede una propria personalità e soprattutto una dignità narrativa in grado di trascinare il pubblico dentro al cuore della storia, quella del musicista e jazzista ebreo Oscar Klein che al tempo della seconda guerra mondiale visse ad Arsiero con la sua famiglia per sfuggire alle deportazioni dei nazisti.

E se in un primo momento lo sguardo degli spettatori inevitabilmente vaga per lo schermo alla ricerca di luoghi e volti familiari, l'attenzione viene poi catturata dalla trama che regala lacrime e risate, colpi di scena e profonde riflessioni, e dalla convincente interpretazione del cast, buona parte del quale composta da attori non professionisti.

E questo è probabilmente l'aspetto più sorprendente e miracoloso di “Oscar”, ovvero che ci si trova di fronte ad un film in costume low budget che ha coinvolto 900 comparse, finanziato da una manciata di imprenditori coraggiosi, girato di domenica con telecamere poco più che amatoriali da una squadra di volontari che hanno dedicato sei anni della loro vita a questo progetto, curandone la post produzione e la colonna sonora originale.

«Riguardando il film ho rivissuto una ad una tutte le riprese - afferma Dennis Dellai - e le difficoltà incontrate in questi sei anni di lavoro. Di certo non è un film perfetto, ma mi auguro sia riuscito a trasmettere un’emozione. Ringrazio di cuore chi ha creduto fino alla fine in questo progetto».

L’immagine simbolo di questa serata, e del motivo profondo che ha spinto Dellai e la sua squadra a impegnarsi così duramente, è certamente l'abbraccio sul palcoscenico tra l'Oscar cinematografico - l'attore Leonardo Pompa - e la vera sorella Rosa Marion Klein.

«Io sono figlia di Alessandro e Agnese, sorella di Oscar - dice visibilmente emozionata la

signora Klein dopo la proiezione della pellicola - e a nome loro voglio dire grazie per questo

capolavoro che ha saputo raccontare la nostra vita. La cosa più incredibile è che Dennis,

pur non conoscendoli, ha saputo cogliere l'essenza della mia famiglia, e in particolare di

Oscar». Tanti i camei di personaggi più o meno conosciuti del Vicentino, su tutti un

gioviale giocatore di carte che apre il film: il sindaco di Thiene Giovanni Battista Casarotto.

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Ora la pellicola verrà proiettata al cinema Verdi di Breganze, all'interno della rassegna

“Giornate di cinema 2016”, domenica 17 e lunedì 18 aprile.

“Oscar”, ovvero il coraggio di sognare

di Stefano Messuri     14.04.16  

Summertime è  la  stagione  che  segna  l'inizio  di  questo  racconto:  note  immortali  spezzano  un  silenzio  di  paura  e  salgono  altissime  a  svelare  una  veduta  aerea  di  perfetta  armonia,  come  la  natura  senza  l'uomo,  un  ‘suono'  di  colori;  dalla  stessa  altezza  il  rumore  osceno  dei  bombardieri  rompe  l'incantesimo, mitraglia  inutilmente  una  piazza  vuota  e  costringe  alla  fuga  l'ultimo  uomo,  che suona. 

Forme diverse della stessa materia umana creano il miracolo della musica e producono la follia di  chi vuole zittirla. 

Oscar è questo: un pezzo di vita attraversato dalla forza dei sentimenti; vergogna di leggi razziali e  solidarietà, tradimento e vendetta, amore e distacco, forza del sogno e libertà, musica. 

E necessità della memoria, unamemoria che può esprimersi tutta intera in una sola lacrima. 

Sono  temi  noti,  li  abbiamo  già  incontrati  al  cinema,  sui  libri  e  nei  ricordi,  e  proprio  per  questo  difficili da maneggiare: da un lato funzionali alla presa sul pubblico, dall'altro esposti al pericolo del  già visto, alle lusinghe della retorica. 

Dennis Dellai ha corso questo rischio, ma ne esce vincente. 

Oscar emoziona  lasciando  addosso  un  groviglio  di  sentimenti  che  non va  più  via;  conduce  la  sua  vicenda particolare al significato universale che tutti (ri)conosciamo, con la forza della semplicità; 

l'esatto opposto del semplicismo, o della banalità. 

Raccontare  in  modo  semplice  significa  conoscere  la  materia  che  si  modella,  liberarsi  da  scorie  retoriche  e  ideologiche,  calpestare  la stessa terra  che  si  descrive,  respirare  la stessa aria  di quelle persone, parlare la loro lingua, ascoltarne la voce. 

Ilfilm prende le mosse da una storia vera, ma non sarebbe bastato questo a renderlo “credibile”: lo  diventa  in  mano  ai  suoi  autori  perché  rispetta  il  principio  ineludibile  di  coerenza  interna  del  racconto, mantiene il patto con lo spettatore, la prima regola da osservarsi per chiunque prenda in  mano una penna o una macchina da presa. 

Per riuscirci serviva la collaudata alchimia del duo Dellai‐Turbian, la loro competenza nella scrittura  e  nella  regia,  l'onestà  intellettuale  e  l'umiltà  di  chi  racconta  senza  mettersi  in  cattedra,  di  chi  mostra senza giudicare e senza appoggiarsi al facile puntello del senno del poi. 

La  scrittura  e  la  regia  di Oscar offrono  un  fedele  autoritratto  dei  suoi  autori,  che  firmano  una  sceneggiatura  solida,  antiretorica  e  priva  di  eccessi  o  caricature;  convincente  anche  nelle  figure  chiave  più  difficili,  nei  chiaroscuri  narrativamente  ‘pericolosi'  da  affrontare  in  una  prospettiva  storica  ancora  pulsante.  È molto  efficace,  ad  esempio,  la  descrizione  di  quei  funzionari  in  buona  fede abbandonati a se stessi da uno stato fantoccio, costretti dall'«alleato» all'osservanza di leggi  inconcepibili, fino allora (in parte) mitigate dal buon senso popolare e dalla solidarietà tra simili; 

diventano  quindi  credibili  la  rappresentazione  del  loro  sconcerto,  la  certezza  del  rifiuto  di  ordini  illegittimi e infami. 

Non manca la scena ‘dura', comunque calibrata in funzione narrativa, perché sempre di tragedia 

stiamo parlando; il contrappunto delle sequenze di alleggerimento (la festa in piazza, i momenti di 

allegria, la ‘normalità') evidenzia per contrasto l'assurdità di una guerra incomprensibile alla gente, 

e la pericolosa china assolutoria nei confronti della violenza cui porta ogni conflitto, a prescindere 

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dalle  appartenenze:  “niente  processo  per  i  traditori”.  In  questo  Dellai  conferma  un  equilibrio  di  stile già chiaro nel fortunato precedente di Terre Rosse. 

La sua regia (affiancata dall'immancabile aiuto Davide Viero) è sicura e naturale, mai debordante,  precisa nelle sequenze corali, misurata e rispettosa nei ritratti intimi e nei dialoghi. 

Dellai controlla da professionista la luce e la macchina da presa, rivela di amare il cinema e i suoi  maestri.  Non  sfugge  l'omaggio  a  Spielberg  e  all'indimenticabile  cappottino  rosso  di Schindler's  List [anche Schindler si chiamava Osc(k)ar], qui tuttavia rievocato in funzione salvifica e risolutiva; 

la  colonna  sonora  attraversa  ogni  inquadratura,  una  musica  che  diventa  (anche)  condivisione,  segno di solidarietà che si materializza nel vinile ‘proibito' di Gershwin, simbolo e testimone di un  sogno di libertà e della volontà di perseguirlo. 

Una bella fotografia accompagna e sostiene la linea narrativa, alternando con maestria toni e luci,  il montaggio ‘scompare' abilmente nelle sequenze di azione. 

Il cast è in stato di grazia. Leonardo Pompa e Sara Lazzaro offrono un'interpretazione intensa ed  equilibrata; Piergiorgio Piccoli padroneggia la scena, Anna Zago è all'ennesima conferma, Davide  Dolores,  Guido  Laurjni  e  Loris  Rampazzo  tra  i  ruoli  più  riusciti,  Carlo  Properzi  Curti  crea  un  personaggio difficile da dimenticare. Nel cameo finale l'indiscutibile spessore di Mariano Rigillo. 

«Eravamo pieni di sogni, volevamo solo la libertà di poterli vivere» ‐ dice Oscar. 

Con grande impegno, forza e passione Dennis Dellai ha raggiunto il suo. 

In «Oscar», la storia scritta dalle persone, oltre l'ideologia

Di Luca Bortoli www.difesapopolo.it

Denis Dellai ha completato in sei anni il suo secondo film dedicato all’ultima guerra. Il cineasta amatoriale thienese racconta la vicenda del jazzista ebreo Oscar Klein che, con la sua famiglia, riesce a scampare alla deportazione ad Auschwitz degli internati che erano stati raccolti nel campo di lavoro di Tonezza del Cimone. La soddisfazione e la fatica di girare nei ritagli di tempo mettendo assieme tutti gli attori, tra cui 940 comparse, restando all’interno di un budget davvero ristretto.

È l’inverno del ’43. Un gruppo di partigiani fa irruzione in osteria, all’orario di chiusura. La notte è già scesa sulla Valdastico e copre il rapimento dell’oste Giovanni, trombettista scalzato dalla banda del paese dall’ebreo Oscar Klein. È l’invidia cieca a fare di Giovanni la spia che denuncia all’occupante nazista la presenza della famiglia austriaca di origini giudaiche in paese ad Arsiero:

una denuncia che paga con la morte, giustiziato dagli stessi partigiani.

È in questa scena che si concentra il messaggio più puro di Oscar, la seconda opera del cineasta amatoriale thienese Dennis Dellai, giornalista de Il Giornale di Vicenza che bissa il successo di Terre rosse con un lungometraggio in cui torna a raccontare gli anni bui della seconda guerra mondiale nell’Alto Vicentino.

Oscar, presentato il 5 aprile a Vicenza, tra domenica 17 e lunedì 18 ha ricevuto il tributo del numerosissimo pubblico che ha affollato per quattro proiezioni in due giorni il cinema Verdi di Breganze. «Anche questa volta – spiega il regista – abbiamo scelto di raccontare la storia dei singoli, degli individui, non quella delle ideologie. Emerge quindi la vicenda personale di chi, più che in base alla divisa, ha vissuto e agito a partire dalle relazioni e dalle proprie convinzioni personali».

Il bianco e il nero, con cui siamo abituati a dipingere la storia, nel film di Dellai assumono invece un tono più vero che ripercorre molte delle esperienze che fra il 1940 e il 1945 hanno vissuto i paesi e le contrade venete: su tutte quella del podestà di Oscar, costretto a ubbidire all’occupante eppure compiacente con l’ebreo, amico dei suoi figli.

Già perché il film descrive, romanzandola, la biografia del jazzista di successo Oscar Klein, che con la sua famiglia è scampato al rastrellamento del campo di lavoro di Tonezza (raccontato da Dellai) durante il quale 40 ebrei vennero deportati ad Auschwitz nel ’44 senza far più ritorno. Una narrazione suggerita da Giannico Tessari, anima de “Le porte della memoria” con cui Thiene ricorda ogni anno la

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Shoah e l’eccidio delle foibe, e apprezzata da Rosa Marion Klein, sorella di Oscar interpretata da Eleonora Fontana, che da anni porta la sua testimonianza nelle scuole della provincia.

La soddisfazione di Dellai è palpabile, ma il regista non nasconde nemmeno la fatica. «Abbiamo concluso un’odissea di sei anni – confessa – Girare nei ritagli di tempo, mettere insieme tutti gli attori, tra cui le 940 comparse (una comunità come l’ha definita Stefano Messuri, presidente del Cineforum di Breganze, ndr) è stato tutt’altro che facile. Arduo in particolare mantenere il filo della narrazione e fare i conti con l’evoluzione della tecnologia digitale: abbiamo sostituito quattro telecamere nel tempo, il che ha significato rendere omogeneo materiale molto differente a livello fotografico».

E poi non va dimenticato l’aspetto economico: lontano anni luce non solo dalle faraoniche produzioni hollywoodiane, Oscarè un prodotto da 50 mila euro finanziato da quattro imprenditori locali. «È per quest’atto di fiducia, oltre che per l’“armata Brancaleone” di folli che mi segue in queste avventure che non ho mollato durante la lavorazione».

Nei ricordi di Dellai, assistito da Davide Viero come aiuto regista e dallo sceneggiatore Giacomo Turbian, rimarrà la collaborazione con Mariano Rigillo, grande professionista che con umiltà si è calato in quello che è ben di più di un cammeo, e ha portato con sé sul set anche la moglie e la figlia.

Oscar è in sala al cinema Odeon di Vicenza domenica 24 (ore 20.30) e lunedì 25 aprile (ore 19.30). Alcune proiezioni sono in fase di programmazione anche fuori provincia.

Oscar: quando la musica ti può salvare 

Di Paolo Perlini 

Tanti dubbi e poche ma solide convinzioni, questo è il mio credo. E sono sempre più convinto che in qualsiasi attività artistica siano necessarie due qualità: una buona storia (o una buona musica, un soggetto da ritrarre) e passione, tanta. Tutto il resto è benvenuto ma non necessario. Ne riscontro la prova sempre più spesso ascoltando musicisti sconosciuti che suonano negli angoli delle strade o che si fanno conoscere attraverso il web oppure illustratori, disegnatori che, sempre attraverso la rete rendono pubblici i propri lavori.

La stessa cosa succede nel cinema: se hai una buona storia, la voglia di raccontarla e un gruppo di amici che ti segue, puoi impiegare sei anni per produrre un film, spendere un budget ridicolo e realizzare un’opera che non ha nulla da invidiare ai colossal hollywoodiani.

È questo il caso di "Oscar", secondo lungometraggio del regista Dennis Dellai che torna ad emozionarci dopo "Terre Rosse".

Oscar Klein è un giovane musicista ebreo al confino ad Arsiero, un paese dell’Alto Vicentino. Il suo talento lo scopriamo nei primi minuti, quando una festa di paese viene interrotta dall’arrivo di due aerei militari. La sirena invita tutti a scendere nel rifugio, la piazza resta deserta, con gli strumenti a terra e gli spartiti che svolazzano. Lui passa di lì, vede la tromba, la tentazione è forte e inizia ad intonare Summertime, un pezzo che ci accompagna numerose volte nel film.

Grazie alla musica conquista la simpatia di Vittorio e della sorella Emma, figli del podestà, ed entra a far pare della banda del paese diretta dal parroco don Franco. Dopo l’8 settembre le cose cambiano, arriva l’occupazione tedesca ed Oscar e la sua famiglia sono costretti a fuggire, grazie all’aiuto di Emma, il parroco e una rete di partigiani.

Il regista ama definire il suo come un “cinema di comunità” perché in molti hanno partecipato a questo progetto, gratuitamente e con quello che potevano offrire: la comparsata, un aiuto sul set o nel trasporto dei materiali, la realizzazione delle scenografie, la fornitura di oggetti da collezione, divise e vestiti dell’epoca, nonché le armi. Un film low budget che ha coinvolto quasi mille comparse, girato nel tempo libero, ovvero la domenica perché non vivendo di cinema tutti hanno un altro lavoro che li impegna. Un film che narra una storia vera, con qualche licenza dovuta ad esigenze narrative e la cui realizzazione è un’altra storia a parte.

“Cinque anni di riprese, un anno di post produzione. In tutto questo tempo abbiamo visto i figli crescere” ha detto il regista dopo la proiezione.

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Numerosi sono gli aneddoti che rendono questo film una storia nella storia, perché quando si hanno pochi soldi bisogna ingegnarsi: se ti serve un treno ferroviario per girare una delle scene più complesse e spettacolari, non puoi chiederlo a Trenitalia, il noleggio ti costerebbe quanto l’intero film. Però, se casualmente vieni a sapere che un prete della Bassa Veronese (per chi non lo sapesse, secondo il proverbio i veronesi sono tutti matti, a modo loro e in modalità diversa) tiene in giardino sei vagoni dismessi da Trenitalia diventa logico muoversi, andare a spiare oltre le siepi, consultare sacrestani e perpetue. E alla fine questo prete lo trovano ed è vero quanto si dice, nel giardino non tiene Biancaneve e i Sette Nani ma proprio i vagoni di un treno, che gentilmente mette a disposizione.

Curiose sono state anche le difficoltà per ottenere il visto della censura, giudizio più volte respinto non per la qualità o i contenuti del film ma perché non erano rispettate sciocchezze come la lunghezza dei titoli di coda, inevitabilmente lunghi dato il numero di partecipanti e comparse che avevano lavorato gratuitamente e la troupe intendeva ringraziare.

Un film in cui ci sono omaggi a registi illustri: la sagoma di Vittorio e la storia che gira intorno al disco di Summertime ricorda il trombettista amico del "Novecento" di Tornatore; la bimba con il cappotto rosso richiama "The Schindler List". Citazioni che il regista non nasconde, anzi, le trasforma in un omaggio ai grandi del cinema.

Una storia che commuove, che ci fa capire come siamo tutti uguali e tutti diversi e basta poco per diventare traditori o eroi, nonostante gli sforzi di don Franco, che ai musicisti della banda diceva: “Qui siamo tutti uguali, la musica ci unisce”.

Un desiderio che nel film si è infranto. Nella realtà invece, il trombettista ebreo Oscar Klein, diventato un jazzista di fama, suonerà insieme a Romano Mussolini, jazzista, figlio di colui che promulgò le leggi razziali. Infine un film che ti fa capire quanto una buona storia e tanta passione producano bellezza. Il resto e tutto trucco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La memoria non basta

di Paola Valente

Il ricordo di ciò che ha informato la vita degli esseri umani è scritto nei documenti della storia, insieme alle varie interpretazioni. E’ la memoria oggettiva, fatta di date, di cifre e di avvenimenti. C’è anche un ricordo più profondo, il ricordo del cuore, inciso nella carne di chi è stato protagonista e spesso vittima della storia. E’ un ricordo che si tramanda di generazione in generazione e che non finisce mai di bruciare, iscritto nelle cellule corporee come una mappa del dolore.

Chi non ha vissuto la shoah è un testimone che non sa, ma immagina e la sua sofferenza è appunto immaginativa: si mette in qualche modo nei panni di chi ha perso la vita, la dignità, la famiglia, il senso di appartenenza all’umana congerie e si batte perché ciò non succeda mai più.

I testimoni diretti del massacro operato dai nazifascisti sono quasi scomparsi. Restano coloro che hanno raccolto i loro racconti, guardato le foto, letto i documenti, coloro che desiderano sapere e comprendere come la divisione delle persone in gruppi abbia potuto determinare la sopraffazione dei più deboli.

C’è anche un altro tipo di testimone indiretto. E’ colui che nega la shoah, che la minimizza, che giustifica i torturatori perché, in qualche modo, le vittime se la sono andata a cercare, perché è convinto che esistano razze inferiori che premono ai confini nazionali per minare il suo benessere faticosamente costruito, perché i torturatori

“hanno anche fatto molte cose buone”. Commemorare il martirio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali, delle persone che non appoggiavano il nazifascismo non è sufficiente per ricostruire un rapporto sano con tutta l’umanità.

Mentre da un lato si deprecano i fatti accaduti quando in Europa imperversavano i totalitarismi, dall’altro si erigono muri per difendere ciò che è chiamato “identità nazionale”, senza rendersi conto che tale divisione crea il rischio che tali fatti si ripetano. Mettere un’etichetta a un essere umano definendolo in base al sesso, alla religione, all’etnia di appartenenza, alle idee espresse significa che quell’essere umano non è considerato per ciò che sente e ciò che fa, ma per ciò che il pregiudizio gli attribuisce. Sei un migrante? Ebbene, sei automaticamente uno scansafatiche che ha attraversato il mare con il telefonino in tasca per approfittare della nostra accoglienza.

Sei un rom? Automaticamente sei un ladro. Sei un omosessuale? Automaticamente sei un pervertito. Sei una donna? Automaticamente sei una proprietà del maschio. Sei un musulmano? Automaticamente sei un terrorista. E così via.

Il pregiudizio impedisce qualsiasi dialogo ed è il muro più alto e invalicabile che esista.

“Non sono razzista, ma …” era un tempo il refrain di chi viveva di pregiudizi. Ora il razzista si vanta di esserlo perché ha trovato una valvola di scarico alla propria infelicità. Quando si alimenta dentro di sé l’odio contro qualcuno, si crea un mostro sempre più affamato, che invade la mente con tentacoli innumerevoli. Quando gli odiatori si riuniscono in gruppi, danno forma all’odio, trasformandolo in ideologie e in politica, ideologie e politica che la gente semplice accetta appunto perché sono idee

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semplici, efficaci, divisive. E’ molto più semplice e efficace attribuire pregi e difetti a una categoria che conoscere gli uomini a uno a uno.

I morti nei campi di sterminio avevano una propria, meravigliosa unicità che non ci è più dato di conoscere. Il nazismo si preoccupò, prima di uccidere, di cancellare l’unicità dei prigionieri: ne cancellarono prima il nome, sostituito da un numero; quindi uniformarono i corpi rasando i capelli, vestendoli tutti uguali, affamandoli, sfruttandoli, infine bruciandoli tutti insieme, che si mescolassero in un ammasso indistinto di cenere. Era il loro modo, crudele e inumano, di ribadire come quelle persone appartenessero a un’unica categoria da distruggere senza pietà. Non importava se i bambini subivano la stessa fine: erano pur sempre ebrei, sarebbero cresciuti, avrebbero propagato la loro “razza”. L’idea di razza come connotazione di inferiorità non risparmia neppure i bambini, gli innocenti.

La memoria non basta e non bastano neppure le innumerevoli, per fortuna, testimonianze storiche. Prova ne sia, fra l’altro, il rigurgito fascista e nazionalista che pervade il nostro Paese. Non si difende la propria identità culturale senza sapere che tale identità è un insieme di prestiti da tantissime altre culture. Non esiste una cultura omologata e chiusa in se stessa e, se esistesse, sarebbe destinata ben presto a perire, soffocando se stessa in idee e norme rigide e obsolete. Bisogna perciò partire dai più giovani, lasciarli liberi di esplorare il mondo senza inculcare in loro idee pregiudiziali, rispondere alle loro domande non con teorie ma con i fatti.

Non è raccomandando di rispettare gli altri che noi insegniamo ai più giovani il rispetto. Le prediche sono assolutamente inefficaci. E’ l’esempio che conta: i nostri figli rispetteranno gli altri nelle misura in cui li rispettiamo noi. Rispetteranno l’ambiente perché vedono che noi lo rispettiamo. Leggeranno e si informeranno in proporzione a quanto lo facciamo noi. Combatteranno contro le disuguaglianze e le prepotenze se anche noi lo faremo. Per gli adulti, questa si chiama responsabilità.

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Il 26 agosto 1944 un grande rastrellamento nazifascista ha colpito le colline delle Bregonze e 16 giovani sono stati deportati e costretti al

lavoro coatto.

Mi capita sempre più spesso di riconoscere che senza l’istituzione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, istituito con legge dello Stato nel 2000, molte storie e molte vicende della Seconda Guerra Mondiale sarebbero andate perse per sempre.

Il pericolo che un momento di riflessione e di fare memoria possa diventare rituale e diventare una celebrazione retorica è sempre presente, ma pensiamo alle numerosissime iniziative e ricerche che ogni anno vengono proposte e fatte conoscere in ogni angolo d’Italia, sulla spinta dell’appuntamento del 27 gennaio.

Ultima della serie il rastrellamento delle Bregonze del 26 agosto 1944 che ha significato la deportazione e il lavoro coatto per almeno 16 giovani dei Comuni di Carrè, Zugliano e Lugo di Vicenza.

Qualcosa di questo rastrellamento si sapeva, qualche ricerca era stata fatta, ma per avere la consapevolezza delle dimensioni e della durezza di quel rastrellamento bisognava avere davanti i nomi e i volti delle vittime, dei giovani catturati e deportati.

Otto mesi di lavori forzati hanno segnato questi giovani per sempre, nel fisico e nel morale.

Sono tornati distrutti e non hanno raccontato nulla o quasi o forse non hanno trovato chi stesse ad ascoltarli. Il disastro della guerra era stato così grande, con famiglie che avevano avuto i figli a combattere e a morire in mezzo mondo e chi era tornato vivo non faceva notizia perché alla fin fine era stato fortunato.

Antonio Gugliemi è l’ultimo di loro ancora fra noi e anche lui ha raccontato poco;

fortunatamente, all’età di 90 anni, ben portati, ha deciso che la sua storia e quella dei suoi compagni doveva essere conosciuta.

La ricerca ha voluto comprendere tutti i giovani che quel sabato 26 agosto sono stati catturati e deportati, uno era padre di un bambino di pochi mesi, altri avevano 17 o 18 anni, altri ancora erano soldati che con l’8 settembre avevano deciso che non volevano più saperne di fare la guerra, avevano già sofferto abbastanza.

E’ stato possibile, grazie ad Antonio Guglielmi e ai famigliari dei compagni di sventura ricostruire qualcosa della loro prigionia, poco per la verità, per il motivo che ho detto e anche perché la maggior parte di loro è deceduta, ancora giovani, da molti anni, fra gli anni ‘70 e ’90. Però almeno un quadro di questa dura e disumana vicenda ora è stato disegnato.

Non è l’unico caso di deportazioni dimenticate o rimosse. A fine febbraio 1945, ben 10 Thienesi, quasi tutti della Conca sono stati catturati nelle loro case, deportati nel lager di Bolzano e costretti a lavorare per i Tedeschi. Anche di questo rastrellamento è rimasto nella memoria molto poco. E si potrebbe continuare.

Per chi non ha vissuto la guerra, ormai non c’è più nessun testimone, viene da pensare che la nostra zona, abbia sì patito, scontri, deportazioni, morti ed esecuzioni, ma non nella misura reale; c’è l’idea che siamo stati risparmiati da sorti peggiori che toccarono ad altre zone del Paese. Per molti giovani addirittura la Guerra da noi non è mai esistita!

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Non è così, ricerca dopo ricerca emerge che la nostra terra ha sofferto e ha pagato un tributo di sangue molto grande; è bene saperlo e soprattutto ricordarlo.

Giannico Tessari

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10 FEBBRAIO: DEDICATO AD EGEA

Guardare indietro per guardare avanti non è un paradosso, ma la lezione di vita che la storia vorrebbe insegnare ad ognuno di noi, per trarre l’insegnamento da imitare, per spazzar via l’errore e l’orrore da non ripetere. E le commemorazioni, le date simbolo, gli anniversari mirano ad individuare una pagina del passato che bussi alla porta della nostra conoscenza, della nostra coscienza, della nostra umanità, sollecitando il sapere, la consapevolezza, la riflessione. E’ quanto auspica la data del 10 Febbraio, che dal 2004 coincide con il Giorno del Ricordo, istituzionalizzato con voto quasi unanime del Parlamento, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’ esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

Nella giornata…sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado…

I giovani, sì, non solo quelli attuali, ma anche quelli ormai adulti e maturi che per sessant’anni, fino appunto al fatidico 2004, non hanno trovato cenno nei loro testi scolastici della tragedia delle foibe e dell’esodo, per una congiura del silenzio - come la definì l’ allora presidente Napolitano - che non perdonava agli esuli il fatto di esser fuggiti al 90% in quasi 350.000 dalle loro terre, ormai jugoslave e sottoposte al regime comunista del maresciallo Tito, come se fossero tutti fascisti.

Privati dei diritti fondamentali, perseguitati in quanto italiani, unici tra i connazionali ad aver sperimentato sulla loro pelle non solo il nazifascismo come il resto della nazione, ma anche il comunismo reale, pagarono il prezzo della sciagurata guerra cui Mussolini ci aveva condotto anche con la perdita del suolo natale, un territorio che equivale quasi ad una regione come le Marche.

Pagarono agli errori del fascismo il prezzo in assoluto più alto di tutto il conflitto, proprio loro

accusati di essere fascisti in fuga. Erano in fuga da un altro totalitarismo, frutto dell’ espansionismo

nazional- comunista di Tito, pur avendo compiuto dopo il fatidico 8 settembre 1943 scelte sofferte e

diversificate come tutti gli altri connazionali: non solo repubblichini di Salò per difendere il confine

orientale dalle mire dei partigiani di Tito, ma anche combattenti tra le fila della Resistenza, forze

regolari a fianco degli anglo- americani nel risalire la penisola, internati IMI nei campi di prigionia

germanici per essersi rifiutati di collaborare coi tedeschi…

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Non era certo una fascista in fuga la “bambina con la valigia”, immagine simbolo del Giorno del Ricordo, Egea Haffner, nata a Pola, Italia nel 1941. Nel 1947, con la firma del Trattato di Pace siglato a Parigi il 10 febbraio, che cadeva come una mannaia sulle popolazioni dell’Adriatico orientale, assegnandole alla Jugoslavia, l’ esodo da Pola toccò il picco e circa 30000 su 32000 polesani fuggirono. Egea fu costretta a fuggire già nel 1946, poco dopo che suo padre era stato prelevato dai titini di notte e non era più tornato a casa, probabilmente infoibato come avvenuto ad altre migliaia di italiani già dopo l’ armistizio dell’8 settembre 1943 e dopo il 25 aprile 1945, dunque ad armi ferme! Partendo con la mamma, le fu scattata la famosa fotografia, oggi manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo. Una zia le fece i boccoli e le confezionò un vestitino di seta, le misero in mano un ombrellino e la valigia con su scritto “esule giuliana n. 30001”, un numero allusivo: gli abitanti di Pola in fuga erano 30000, dicevamo, più uno… la piccola Egea. Vive a Rovereto la signora Egea Haffner e ha 76 anni. E quel musetto corrucciato, quel corpicino costretto a portare sulle spalle una tragedia più grande di lei ci ricordano di ricordare. Il 10 febbraio è stato istituito a questo scopo, per Egea e per tutti quei bambini defraudati della loro infanzia, per tutti quegli italiani defraudati delle loro terre, e spesso della vita.

Adriana Ivanov Danieli

esule a un anno da Zara

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Il Passato che non passa. Fascismo, comunismo e questione nazionale  nell’Europa Orientale del Novecento 

 

La  “crisi  dei  migranti”  ha  reso  evidenti  le  contraddizioni  del  processo  d’integrazione  europea,  inceppatosi  fra  derive  sovraniste  e  mancata  costruzione  di  una  dimensione  sovranazionale  europea. Nuovi “muri” e confini sembrano dividere l’Europa e gli altri, o forse gli stessi europei,  alla ricerca di risposte sul proprio presente, che affondano le radici nel passato e nella necessità di  costruire una memoria condivisa della Storia europea. Partendo dalla riflessione sulle esperienze  del confine giuliano e altoatesino, s’intende ragionare, con uno sguardo più complessivo, ai temi  contemporanei  dell’allargamento  a  Est  e  alla  ridefinizione  dello  spazio  europeo  dopo  la  Guerra  Fredda. L’Europa orientale, in particolare, sembra essere ancora “prigioniera” del proprio passato,  dominato  dalla  “questione  nazionale”,  percepita  in  chiave  etnica  e  politicamente  assertiva. 

Fascismo  e  comunismo  trovano,  quindi,  ancora  proseliti  fra  molti  cittadini  dell’Europa  orientale,  nella convinzione di poter difendere più efficacemente la sovranità nazionale, altrimenti percepita  come messa a rischio dalla democrazia e dal mercato, in un mondo sempre più globalizzato. 

         

Breve Bibliografia di base   

Balibar, E., Crisi e Fine dell’Europa? Bollati Boringhieri, Torino, 2016  Chabod , F., Storia dell’Idea d’Europa, Ed. Laterza, Bari , 1961, 1995. 

Giddens, A., Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino,  Bologna, 2000. 

Meyer , M., L’anno che cambiò il mondo. La storia non detta della caduta del Muro di Berlino, il  Saggiatore, 2009. 

 

Ceccotti F., Pizzamei B., Storia del confine orientale italiano 1797‐2007 Cartografia, documento,  immagini, demografia, Irsml Fvg, Trieste 2008; 

De Castro,  D., La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, 2  voll. Lint, Trieste, 1980; 

Di Michele A., L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia  liberale e fascismo, Alessandria 2003. 

Galeazzi M., Roma‐Belgrado, gli anni della guerra fredda, Longo, Ravenna, 1995; 

Karlsen, P., Frontiera Rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941‐1955,  Libreria Editrice Goriziana, 2010. 

Marcantoni M., Postal, G., Sudtirol. Storia di una guerra rimossa (1956‐1967), Roma, 2014. 

V

ARSORI

  A., R

OMERO 

F., Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia  (1917‐1989), Roma 2006. 

Vidali, V., Ritorno alla città senza pace. Il 1948 a Trieste, Vangelista, Milano 1982   

 

 

 

 

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L’arco di tempo, tra il  Congresso di Vienna del 1815 e la Conferenza di Pace di Parigi del  1919, rappresenta la parabola discendente degli Imperi sovranazionali europei. Con l’avvento delle 

“primavere  dei  popoli”  del  1848  vennero  a  disegnarsi  differenti  progetti  nazionali,  spesso  contrapposti  tra  loro  nella  propria  definizione  territoriale,  dando  avvio  alle  diverse  vicende  dei  risorgimenti europei. Sebbene nell’accezione mazziniana, il “risveglio dei popoli” avrebbe dovuto  seguire  un  progetto  condiviso  di  autodeterminazione  dai  grandi  imperi  sovranazionali,  in  particolare  da  quello  asburgico,  all’epoca  indicato  come  la  “prigione  dei  popoli”,  assumendo  un  respiro  europeo  e  federalista,  prevalse  ‐  invece  –  nei  circuiti  irredentistici  europei  la  visione  herderiana  del  “blut  und  boden”  (il  sangue  e  la  terra).  Tale  visione  divenne,  quindi,  elemento  distintivo  e  preponderante  dei  nazionalismi  europei  nella  costruzione  dei  rispettivi  modelli  identitari. La Nazione, perciò, divenne una comunità immaginata di sangue, lingua, cultura e fede,  fisicamente  distribuita  su  di  un  territorio  riconosciuto  come  proprio  da  una  specifica  reinterpretazione della Storia. 

   E’  all’interno  di  quest’ambiente  culturale,  che  tanto  caratterizza  il  corso  dell’Ottocento  e  del  Novecento  (fino  alle  sue  propaggini  nel  XXI  sec,  nella  difficile  dialettica  fra  processo  d’integrazione  europea  e  sovranità  degli  Stati/Nazione),  che  si  dipanano  le  vicende,  prima,  del  Risorgimento Italiano e, poi, di quello Jugoslavo e si viene a sviluppare la controversa “questione  giuliana”.  

Il Risorgimento italiano, però, ha una valenza ben più ampia, rispetto al semplice contesto  nazionale, sia per le implicazioni geopolitiche che ne conseguirono, sia soprattutto per la valenza  simbolica  che  esercitò  sulle  popolazioni  dell’Europa  orientale,  quale  modello  di  riferimento  per  comportamenti emulativi nella definizione dei rispettivi “risorgimenti” (di solito, nelle storiografie  dell’Europa orientale il termine risorgimento è sostituito da quello di rinascita/rinascimento). 

   La Terza guerra del Risorgimento del 1866, portò all’ingresso del Veneto nella compagine  unitaria italiana e, di lì a poco nel 1870, la presa di Roma, futura capitale del Regno d’Italia terminò  il ciclo risorgimentale avviato nel 1848. Tuttavia, la Terza guerra del Risorgimento, rappresentò il  tornante  da  cui  scaturì,  in  un  rapporto  causa‐effetto  (oramai  ampiamente  riconosciuto  dalla  storiografia  contemporanea  europea),  quella  serie  di  eventi  storici  che  condussero  alla  Prima  Guerra Mondiale (e conseguentemente alla Seconda).   Inoltre, sebbene poco raccontata, poiché  pagina meno nobile (per le sconfitte militari subite), rispetto alle due precedenti, la Terza guerra  del  Risorgimento  fu  quella  che  determinò  l’avvio  della  fase  risorgimentale  jugoslava  (e  più  in  generale delle popolazioni dell’Impero alla ricerca d’una propria sovranità: polacchi, cecoslovacchi,  romeni), quale reazione ai nuovi equilibri nazionali all’interno dell’Impero asburgico.  

L’Impero  asburgico,  infatti,  aveva  nella  comunità  italiana,  la  terza  delle  nazionalità  più  ricche nella propria struttura politico‐economica imperiale. Allo stesso tempo, la comunità italiana  rappresentava  un  elemento  di  mediazione  fra  le  parti  austriaca  e  ungherese  dell’Impero,  cui  il  drammatico ridimensionamento per la perdita del Lombardo‐Veneto aveva imposto, dopo lunghi  rinvii, la necessità dell’Ausgleich nel 1867 e la trasformazione dell’Impero nella Duplice Monarchia  austro‐ungarica.  Contemporaneamente,  tali  sconvolgimenti  geopolitici  innescarono  una  serie  di  rivolte nell’Impero ottomano, volte alla costruzione di Stati nazionali sull’esempio di quello italiano  (in Romania, in Bulgaria e in Serbia). La Serbia (assieme a Romania e Bulgaria), con il Congresso di  Berlino nel 1878, ottenne – di fatto – la propria indipendenza, predisponendosi a svolgere un ruolo  di tipo “piemontese” nel processo risorgimentale jugoslavo. 

Pertanto,  il  Risorgimento  italiano  ha  una  valenza  ben  più  ampia,  rispetto  al  semplice  ambito  nazionale,  sia  per  le  implicazioni  geopolitiche  che  seguirono  al  processo  di  unificazione  italiano,  sia  ‐  soprattutto  ‐  per  la  valenza  simbolica  che  questo  esercitò  sulle  popolazioni  dell’Europa orientale, quale modello di riferimento nella costruzione dei rispettivi stati nazionali. 

Anche  all’interno  dell’Impero  asburgico,  infatti,  Polacchi,  Ungheresi,  Romeni,  guardavano  con 

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ammirazione ai successi italiani e tentavano di approfittare delle crescenti difficoltà per la corona  austriaca  nel  preservare  l’integrità  dell’Impero  a  fronte  del  progredire  delle  molte  aspirazioni  nazionali. L’applicazione del principio del divide et impera nei confronti delle differenti popolazioni  dell’Impero da parte degli Asburgo, si riverberava però sugli imperi vicini, russo e ottomano, dove  abitavano molti degli stessi gruppi nazionali presenti sotto la corona asburgica e che si trovavano,  spesso, in condizioni più svantaggiate. Tutto ciò, finiva per ingenerare un circolo vizioso, in cui la  chimera  dell’autodeterminazione  si  irrobustiva  sempre  di  più  di  miti  nazionalisti  che  si  sovrapponevano territorialmente, riproponendo quelle stesse dinamiche che stavano mettendo in  crisi  i  grandi  imperi  sovranazionali.  Se  la  Polonia  sognava  la  ricostruzione  dell’immenso  regno  medievale  che  si  estendeva  dal  Mar  Baltico  al  Mar  Nero,  l’Ungheria  auspicava  la  rinascita  della  Grande Ungheria di Mattia Corvino. La Romania, invece, immaginava uno stato, Romania Mare (La  Grande  Romania)  che  si  estendeva  dalla  Bessarabia  ai  Balcani  lungo  tutto  l’asse  del  Danubio,  scontrandosi  inevitabilmente con  i  sogni  ungheresi  e  bulgari,  laddove  la  Bulgaria,  ad  esempio, si  sarebbe  dovuta  estendere  sui  territori  (dal  Mar  Nero  all’Egeo)  dell’antico  Regno  spazzato  via  dall’invasione  turca  del  XIV  secolo.  Paradossalmente,  ciascun  progetto  statale  nazionale  delle  popolazioni  europee  orientali,  suggeriva  una  dimensione  sovranazionale,  tipica  degli  stati  medievali e di cui i grandi imperi, asburgico, zarista e ottomano erano eredi diretti. Così agendo,  quindi,  veniva  a  ripresentarsi  la  stessa  dinamica  che  stava  dilaniando  le  strutture  imperiali  che  governavano l’Europa orientale fra il XIX e XX sec. Il successo italiano non faceva che accrescere  tali spinte nazionaliste e le ambiguità di fondo dei rispettivi progetti statali, anche perché l’Italia  stessa stava mostrando, oramai, “il lato oscuro” del proprio progetto risorgimentale. 

Sul  finire  del  XIX  sec.,  a  mano  a  mano  che  l’Italia  unita  accresceva  il  proprio  ruolo  internazionale  nel  “Concerto”  europeo  e  partecipava  attivamente  alle  logiche  “imperialiste” 

caratteristiche dell’epoca, la politica estera italiana prendeva sempre più una postura nazionalista,  specie nella regione adriatica. 

L’atteggiamento  italiano,  a  sua  volta,  provocava  come  reazione  da  parte  asburgica  l’esasperazione delle proprie politiche balcaniche, nel tentativo di impedire il progetto nazionalista  italiano della trasformazione dell’Adriatico in un “Mare Nostrum”. 

Tuttavia, l’azione verso Sud nel tentativo di raggiungere le sponde albanesi, approfittando  della fase di decadenza dell’Impero ottomano, portava Vienna in rotta di collisione con Belgrado,  oramai  alla  guida  di  un  progetto  politico  “piemontese”  per  la  costruzione  di  uno  Stato  unitario  slavo‐meridionale.  

L’annessione  austriaca  della  Bosnia  Erzegovina  nel  1908  (intesa  come  ostacolo  definitivo  alle spinte espansioniste serba e italiana nella regione adriatica) fu, quindi,  prodromo delle guerre  balcaniche  del  1912‐13  e  della  Prima  guerra  mondiale  scoppiata  l’anno  successivo.  Le  guerre  balcaniche  furono  interpretate  dai  protagonisti  (Serbia,  Romania  e  Bulgaria),  come  guerre  risorgimentali  sul  modello  italiano,  che  avrebbero  dovuto  condurre  alla  definizione  dei  rispettivi  stati  nazionali  in  forma  compiuta.  Tuttavia,  la  sovrapposizione  territoriale  di  questi  progetti  nazionali  rendeva  pressoché  impossibile  la  loro  completa  realizzazione  e  innescava  reciproche  frustrazioni, foriere di nuovi conflitti, oltreché un nazionalismo sempre più esasperato. 

Allo  stesso  tempo,  il  nazionalismo  liberale  italiano,  anch’esso  sempre  più  aggressivo,  intimoriva  gli  slavo  meridionali,  Sloveni  e  Croati,  spingendoli  verso  l’alleanza  politica  con  i  Serbi,  poi consacrata a Corfù nel 1917, nell’accordo per la costruzione del Regno SHS (dei Serbi, Croati,  Sloveni, di Jugoslavia a partire dal 1929).  

 L’ingresso  dell’Italia  nella  Prima  Guerra  Mondiale  nel  1915,  con  la  prospettiva  di 

concludere  il  Risorgimento  con  l’unione  di  Trento  e  Trieste,  fu  definitivamente  modificata  dalla 

pretesa del nazionalismo liberale italiano, giustificata da esigenze militari, di “occupare” l’Adriatico 

con una linea di continuità costiera che giungesse fino a Valona. Così gli Slavi, che ancora nel 1848 

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erano  considerati  “alleati”  contro  l’”austriaco”  e  le  cui  rivolte  nel  1870  in  Bosnia  e  Serbia  erano  state  sostenute  anche  da  volontari  garibaldini,  divengono  ora  i  nuovi  nemici,  ostacolo  alla  diffusione della “civiltà italica” nell’Adriatico, contrapposta alla barbarie slava.  

Viceversa, il progetto jugoslavo prevede la costruzione di uno Stato unitario da Salonicco a  Klagenfurt,  passando  per  Trieste,  affinché  la  Jugoslavia  possa  efficacemente  difendersi  dalla  politica  di  potenza  italiana  nel  bacino  adriatico  (e  affermare  la  Jugoslavia  stessa  come  potenza  regionale in competizione con la Bulgaria). Entrambi i Risorgimenti sono oramai condizionati dalle  logiche  geopolitiche  del  XX  secolo  e,  nel  caso  italiano,  anche  dalla  comparsa  di  un  fenomeno  di  accresciuto  razzismo  nei  confronti  degli  Slavi,  accentuato  dall’ostilità  liberale  verso  l’esperienza  rivoluzionaria  russa  del  1918  e  dall’instaurazione  del  regime  comunista  in  Russia.  “Slavo‐

comunisti”  diviene  l’epiteto  più  comune  nella  pubblicistica  nazionalista  italiana  per  indicare  le  popolazioni  slave,  a  significare  la  loro  attitudine  selvaggia  e  anarchica,  contraria  all’ordine  costituito, simbolo di civiltà. Tale risentimento fu marcato ulteriormente dalla decisione bolscevica  di pubblicare nel 1917, il testo del Patto di Londra, che il governo italiano, all’insaputa dello stesso  Parlamento, aveva segretamente firmato con la Triplice Intesa nel 1915. Il Patto (o Memorandum)  di Londra prevedeva l’accoglimento delle richieste italiane per l’espansione a Est del confine con  l’inclusione,  sostanzialmente,  di  tutta  la  Venezia  Giulia,  la  Carnia,  l’Istria  (ossia  tutto  il  litorale  austriaco  e  il  suo  entroterra)  e  una  porzione  importante  della  Dalmazia  e  delle  isole  antistanti. 

Prevedeva anche la cessione di Valona e dei territori albanesi limitrofi e, di fatto, un protettorato  italiano  su  buona  parte  dell’Albania  stessa.  Infine,  il  Trentino  e  parte  dell’Alto  Adige  sarebbero  divenuti  anch’essi  italiani.  Fiume,  sebbene  a  maggioranza  italiana,  non  venne  inclusa  nel  Memorandum,  sia  perché  formalmente  sotto  l’amministrazione  ungherese,  sia  perché,  all’epoca  della firma del Patto non era stata presa in considerazione l’ipotesi della disgregazione dell’Impero  asburgico e, quindi, la città istriana avrebbe dovuto garantire un porto alla Duplice monarchia, già  privata di quello di Trieste.  

La pubblicazione degli accordi segreti generò costernazione nell’opinione pubblica europea  e  americana,  già  sconvolte  dalla  tragicità  del  primo  conflitto  mondiale.  Gli  Stati  Uniti,  che  non  avevano  firmato  Il  patto  di  Londra,  dichiararono  subito  di  non  volerlo  riconoscere.  Anzi,  il  Presidente  Wilson,  nel  tentativo  di  dare  ordine  ai  processi  di  autodeterminazione  che  stavano  coinvolgendo  vaste  popolazioni  dell’Europa  orientale,  anche  con  il  sostegno  bolscevico,  lanciò  la  propria proposta dei “XIV punti”, fulcro delle successive trattative di pace, con i quali riconobbe la  legittimità alla nascita dello Stato unitario jugoslavo, della Cecoslovacchia e della Polonia. Tuttavia,  la nascita di questi nuovi stati non rappresentò una fonte di stabilizzazione della geografia politica  europea, al contrario fu foriera di nuovi conflitti. La Polonia, nel tentativo di realizzare il proprio  obiettivo nazionale si ritrovò, fra il 1918 e il 1924, subito coinvolta in una sequenza di conflitti per  il controllo dell’Ucraina orientale, nella guerra polacco‐ucraina e in uno scontro con la Lituania, e  quindi con la Russia bolscevica, che si risolsero in reciproci massacri di popolazione nel tentativo di 

“pulire etnicamente” le zone contese. Allo stesso modo, romeni e ucraini si combattevano per il  controllo della Moldavia e della Bessarabia.  

L’Ungheria,  sconfitta,  era  stata  “punita”  con  il  Trattato  del  Trianon  (1919)  che  l’aveva  ridimensionata  ai  confini  attuali,  generando  però  un  forte  revanchismo  nel  paese.  Da  quel  momento,  la  massima  aspirazione  della  classe  dirigente  magiara  fu  quella  di  riportare  le  popolazioni  ungheresi  rimaste  all’esterno  dei  nuovi  confini,  in  Slovacchia,  Romania,  Jugoslavia  e  Ucraina, in un'unica compagine magiara.  

La  scomparsa  di  quattro  Imperi  (asburgico,  ottomano,  tedesco  e  zarista)  sconvolse  la  geografia dell’Europa, quindi, ma cambiò radicalmente anche gli scenari della politica italiana. 

L’incapacità  della  classe  dirigente  liberale  italiana  di  accettare  il  cambiamento  politico 

imposto dall’ingresso degli Stati Uniti sulla scena europea e la proposta americana della cosiddetta 

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“Linea Wilson” per il confine orientale, che rappresentava comunque un buon compromesso fra  quanto  auspicato  a  Londra  e  la  realtà  della  situazione  scaturita  con  la  fine  della  guerra,  portò  Roma a un isolamento politico internazionale che favorì, esso stesso, l’ascesa del fascismo, quale  momento  di  riscatto  dell’orgoglio  nazionale  ferito.  Il  nazionalismo  italiano,  frustrato  dalla  cosiddetta “vittoria mutilata”, si lanciò nell’occupazione di Fiume nel 1919, guidata da D’Annunzio,  accelerando la crisi del sistema politico italiano. 

Tuttavia,  la  nascita  dello  Stato  jugoslavo  era  oramai  realtà  e,  sebbene  avesse  dato  compimento  all’aspirazione  unitaria  degli  slavo‐meridionali,  allo  stesso  tempo  non  aveva  realizzato l’attesa dell’inclusione di tutti gli Sloveni e Croati all’interno del Regno SHS, essendone  rimasti nuclei consistenti negli stati limitrofi, Italia e Austria. Presto, assorbita dalle necessità del  consolidamento  interno  di  uno  Stato,  altrettanto  composito  quanto  quello  italiano,  Belgrado  abbandonò le proprie velleità espansionistiche verso la Venezia Giulia e la Carinzia. Ciò permise,  quindi, a Italiani e Jugoslavi di giungere a un accordo, con il Trattato di Rapallo del 1920, che cercò  di  ricomporre  i  rapporti  fra  i  due  Paesi.  Il  nuovo  confine  non  comprendeva  Fiume,  che  sarebbe  rimasta  città  libera  fino  al  1924,  quando  con  il  Trattato  di  Roma,  Mussolini  ‐  oramai  capo  del  governo ‐ ottenne dagli Jugoslavi l’inclusione della città e dei suoi dintorni nello Stato italiano.  

Sebbene sembrasse finalmente risolta la “questione del confine orientale”, per il fascismo  ciò rappresentava solo una soluzione temporanea. 

Il revisionismo fascista attirò l’attenzione delle classi dirigenti europee‐orientali fortemente  orientate  dai  rispettivi  nazionalismi  in  una  rivalità  senza  fine.  L’esempio  italiano,  di  nuovo,  rappresentava un modello di riferimento, per le politiche revisioniste ungheresi, romene, bulgare,  polacche  o,  all’interno  di  stati  plurinazionali,  croate  (per  la  Jugoslavia)  o  slovacche  (per  la  Cecoslovacchia), alimentando la nascita di partiti di ispirazione fascista che rivendicavano un uso  assertivo  della  politica  estera,  fino  all’uso  della  forza,  per  il  raggiungimento  dei  propri  obiettivi  nazionali.  Pertanto,  seguendo  il  filo  degli  eventi  internazionali  e  la  progressiva  instabilità  in  Europa, causata dal rafforzamento del fascismo e dall’ascesa del nazismo in Germania, tutti i paesi  europei‐orientali,  ad  eccezione  della  Cecoslovacchia,  scivolarono  definitivamente  verso  regimi  autoritari  di  ispirazione  fascista  a  partire  dagli  anni  Trenta.  La  partizione  della  Cecoslovacchia,  ottenuta con il Trattato di Monaco del 1938, rappresentò l’evento chiave per “rimettere mano ai  confini”.  Con  la  mediazione  di  Germania  e  Italia,  grazie  agli  arbitrati  di  Vienna  del  1939  e  1940,  l’Ungheria  ottenne  la  restituzione  di  una  parte  dei  territori  perduti  nel  1919,  a  scapito  della  Slovacchia (ora indipendente) e della Romania (che sarebbe stata compensata con l’acquisizione  della Bessarabia e della Dobrugia a scapito dell’URSS nel 1941). Anche la Polonia (che l’anno dopo  sarebbe  stata  partita  fra  Germania  e  URSS)  approfittò  del  momento,  occupando  il  distretto  di  Teschen  in  Cecoslovacchia.  La  Bulgaria,  invece,  ottenne,  grazie  alle  pressioni  italiane,  che  la  Romania cedesse parte dei territori meridionali a ridosso del Danubio. L’Italia aveva dato il buon  esempio  e,  in  particolare,  la  “politica  adriatica”  e  l’acquisizione  dell’Albania  nel  1939  avevano  preparato  il  terreno  per  la  successiva  spartizione  dei  Balcani,  riprendendo  le  fila  delle  guerre  balcaniche del 1912‐1913.  

Nel corso degli anni Venti del XX sec., il fascismo italiano rivendicò in maniera sempre più 

aggressiva e decisa gli obiettivi nazionalistici del “Mare nostrum” adriatico, con politiche via via più 

minacciose verso la Jugoslavia, accentuatesi dopo l’inclusione nel 1929 dell’Albania nella sfera di 

influenza italiana. Il fascismo trovò, così, un valido alleato nel movimento ustascia del nazionalista 

croato  Ante  Pavelic,  che  auspicava  lo  smembramento  della  Jugoslavia  e  la  nascita  di  uno  Stato 

indipendente  croato.  L’ambiguo  rapporto  fra  fascismo  e  ustascismo  si  basava  sul  presupposto, 

italiano,  che  in  cambio  del  sostegno  alla  causa  ustascia,  al  momento  della  nascita  della  Croazia 

indipendente,  questa  avrebbe  rinunciato  alla  Dalmazia  a  favore  dell’Italia.  Al  contrario,  quando 

nell’aprile  del  1941,  l’invasione  nazifascista  della  Jugoslavia,  pose  fine  alla  prima  esperienza 

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